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L’adesione all’Europa: crisi o rilancio?

p. 17-24


Texte intégral

1Sono sempre stata a favore dell’allargamento a Est della Nato e dell’Unione Europea, come ho avuto modo di scrivere in numerosi interventi degli ultimi trent’anni. Negli anni Novanta, con la fine dell’Urss e il distacco dei paesi dell’Est dal Patto di Varsavia, scioltosi nel 1999, il moto verso l’allargamento delle due strutture multinazionali “occidentali” a Est si presentava come un’opzione non solo percorribile, ma anche auspicabile. Ora che l’Unione Europea dà segno di crisi per la crescita del movimento sovranista in vari paesi, e che proprio dai paesi dell’Est pare venire una presa di distanza dagli orientamenti comunitari, a partire dal rifiuto di accettare l’ipotesi della redistribuzione dei migranti, incontro continuamente l’osservazione che l’allargamento a Est è stato un errore colossale e che “quei paesi”, che hanno goduto dei soldi dell’Unione Europea, ora pretenderebbero di farsi la propria politica: all’interno, con accentuazioni autoritarie inaccettabili per le norme europee, all’esterno, con critiche al dirigismo europeo. Ma che “razza” di paesi sono, mi si chiede?

2Specialmente quando queste obiezioni vengono sollevate da conoscenti non appartenenti all’ambito accademico, non mi è facile rispondere in modo argomentato, perché esiste una vulgata composta di elementi contraddittori. Essa unisce alla critica verso il supposto antieuropeismo dei paesi dell’Est, la stima per Putin, visto come figura forte, incarnazione di un esecutivo che non deve rendere conto delle proprie azioni a corpi intermedi come in tanti paesi europei, Italia compresa, e che sembra colui che potrebbe difendere le ragioni di un continente minacciato da una possibile e imprecisata terza guerra mondiale, asimmetrica e quindi pericolosa. Inutile far notare che in un’Europa sovranista a guida russa, gli egoismi altrui, oggi rimproverati, farebbero il paio con i nostri, riducendo gli spazi di cooperazione e indebolendo ulteriormente l’Europa nei confronti delle potenze extra-europee, dagli Stati Uniti alla Cina. Sensazioni, emozioni, desideri, paure, insofferenze, paura del futuro, formano un groviglio emotivo difficile da dipanare anche a livello di una discussione da salotto.

3Questo è inquietante, perché è la cartina di tornasole di uno stato d’animo vissuto da ampi strati dell’opinione pubblica. Ma siccome il bersaglio sono i paesi dell’Est, quasi questi fossero ancora un blocco unico e indifferenziato, torniamo alla questione dell’allargamento dell’Unione Europea.

4Non è forse che accusando i paesi dell’Est di defezione nei confronti dell’Unione Europea si voglia coprire il desiderio di attuarla a propria volta? L’Unione Europea è stata compromessa dall’allargamento, oppure ora fa comodo farlo credere, per precostituirsi una via di fuga? E che dire della ripetuta critica all’Occidente, che avrebbe tradito la Russia arrivando con la Nato ai suoi confini, ponendola in una situazione insostenibile? Non voglio parlare del picco di questo argomentare, che ha portato a vedere l’annessione della Crimea come un trionfo dell’idea secessionista, così cara a tanti movimenti separatisti, e la crisi dell’Ucraina, privata dell’opzione di adesione indolore all’Unione Europea, come una giusta vittoria della Russia, che non potrebbe tollerare – si dice – un allineamento occidentale della giovane Repubblica indipendente.

5Vorrei quindi ripercorrere alcuni punti sull’allargamento, per illustrare che non è stato un processo avventato, improvviso e improvvido come molti dicono ora.

6La questione dell’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale (oltre che a Cipro, a Malta e inizialmente alla Turchia), postasi alla fine della Guerra fredda, era un obiettivo storico dell’Unione Europea. Rappresentava un’occasione: si auspicava che l’estensione dell’Unione, almeno in una prima fase, a oltre cento milioni di nuovi cittadini potesse favorire gli scambi e le attività economiche e dare nuovo slancio allo sviluppo e all’integrazione dell’economia europea nel suo complesso, accrescendo il peso e l’influenza dell’Unione sulla scena internazionale.

7Alcuni paesi dell’Europa centro-orientale entrarono per primi a far parte dello schieramento politico ed economico che si raccoglie sotto la sigla UE: Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania nel 2004, a cui si aggiunsero Cipro e Malta; altri, come Bulgaria e Romania, dovettero aspettare fino al 2007, mentre la Croazia attese il 2013. Dei ventotto paesi attuali, considerando ancora la Gran Bretagna, non fanno parte dell’area euro nove paesi, di cui sei dell’Est, e cioè Bulgaria, Romania, Croazia, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria. Per ciò che concerne lo spazio Schengen, non ne fanno parte Bulgaria, Romania, Croazia: l’accesso all’euro e all’area Schengen non dipende da una decisione politica, ma dall’adeguatezza a una serie di parametri. Restano ancora in attesa i paesi dei Balcani occidentali: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Turchia.

8Del resto fin dall’inizio il processo di acquis comunitario, necessario per la preadesione e l’adesione, non era di poco conto perché prevedeva un allineamento agli standard europei, operazione complessa e costosa. Non per nulla, essa veniva adeguatamente supportata dall’UE con piani generali, ma anche specifici.

9In questa direzione andava anche l’adesione alla Nato, per molti versi più semplice, ma ugualmente laboriosa e costosa: attraverso verifiche e valutazioni che dovevano dar conto del livello di democrazia del regime interno del paese candidato, della portata strategica di ogni scelta, delle sue possibili ripercussioni sull’equilibrio del continente e sul sempre più complesso processo d’integrazione europea in corso. Ma per molti paesi dell’Est l’entrata nella Nato era vista anche come il primo passo per un ritorno a quella casa europea di cui avevano fatto parte fino alla Seconda guerra mondiale, e insieme come una sorta di compensazione tardiva di quella che fu vista come la defezione americana, al termine della Seconda guerra mondiale, di fronte al dilagare dell’imperialismo sovietico. Dal 1999 entrarono Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia; dal 2004 Bulgaria, Romania, Repubblica Slovacca, Slovenia, Estonia, Lettonia e Lituania; dal 2009 Albania e Croazia; dal 2017 il Montenegro.

10Le strade della Nato e della UE, come si vede, si incrociano, ma non si sovrappongono. Tornando all’allargamento della Nato fra il 1999 e il 2004, va detto che non era ingiustificato, perché i paesi che lo richiedevano erano quelli che erano stati parte integrante del sistema europeo di stati, ed era giusto reincorporarli in quel complesso di valori, esperienze e istituzioni che anche loro avevano contribuito a costruire.

11Inizialmente, e oggi lo si dimentica, si sviluppò con esiti assai fruttuosi un “dialogo speciale” fra la Nato e la Federazione russa, per avvicinarla e per familiarizzarla con la struttura atlantica e i suoi meccanismi, volto a evitare il ricrearsi di blocchi e cortine. Ma la Russia ha sempre stentato ad abbandonare la vocazione a un ruolo espansionistico di natura politica, ideologica, imperiale. Dopo le convergenze post-Undici Settembre, la sintonia con gli Stati Uniti e con la Nato si è incrinata, anche perché l’incapacità europea a dotarsi di una convinta politica estera e di difesa comune, e la ripresa di tentazioni isolazioniste da parte di Usa e Gran Bretagna, con il riproporsi in varia guisa e in vari contesti della “minaccia islamista”, hanno lasciato a Putin un maggiore spazio per ripresentare la Russia non tanto come potenza regionale, ma mondiale.

12D’altra parte, oggi il rilancio unitario dell’Europa, una sua accresciuta sicurezza, un suo più forte ruolo internazionale, sono divenuti ancor più importanti proprio per il moltiplicarsi dei fattori di crisi. Ma vi è una crisi interna all’Europa la cui prima avvisaglia non è stata l’oscillazione di consenso alle politiche europee dei paesi dell’Est, avvenuta davanti all’“emergenza migranti” nel secondo decennio del secolo, bensì la bocciatura della Costituzione europea con i referendum francese e olandese tra maggio e giugno 2005.

13Ripensando agli sforzi compiuti da quei paesi per entrare nelle strutture euroatlantiche, ai loro contributi anche a livello di redazione della Costituzione europea, alla loro partecipazione alle missioni internazionali nel corso degli anni, non è certo l’allargamento a Est che ha indebolito l’Europa. La crisi parte dai suoi stati fondatori, basti pensare al caso dell’Italia, dove si deve sentire ripetere da ogni governo: «andiamo in Europa a parlar chiaro», come se non fossimo già in Europa, prima, come e forse più degli altri.

14Inoltre non si può parlare di paesi dell’Est come si faceva ai tempi della Guerra fredda quasi che essi non avessero una fisionomia distinta, lingue, culture, storie, posizioni geopolitiche diverse: non possiamo qui fare una panoramica che vada dal mar Nero al Baltico.

15Mi soffermo anzitutto sull’Ungheria, un paese che fa parlare di sé perché il suo presidente è in buoni rapporti con alcune nostre forze politiche, il che dà agio di riprendere sue dichiarazioni in modo elogiativo o polemico, senza che però si conosca il contesto.

16Qual è, attualmente, il problema dell’Ungheria nei confronti dell’Unione Europea? Si tratta di un paese di dieci milioni di abitanti, che teme di essere “invaso”, come lo fu a suo tempo dai turchi; che ha ritrovato la propria sovranità dopo la fine del comunismo e che è andato rielaborando una propria identità. È un paese né slavo, né germanico, né latino, cui resta il ricordo di un’identità magiara specifica, che è tutto ciò che le fu lasciato dopo il crollo dell’Impero austro-ungarico e la punitiva pace di Versailles che ne fece un piccolo paese periferico, destinato alla parte del vaso di coccio fra Germania e Russia, inviso alle sue ex minoranze d’epoca imperiale, costituitesi in nuovi stati nazionali.

17Il periodo interbellico caratterizzato da governi autoritari, la disastrosa vicenda della Seconda guerra mondiale, l’entrata nel blocco sovietico, il tragico fallimento della rivoluzione del 1956, il perdurare di un regime di chiusura, per cui dal paese pochi entravano o uscivano, non hanno favorito lo sviluppo di una mentalità incline all’accoglienza e al dialogo con l’altro. Oggi, il confronto con un altro piccolo paese quale il Belgio, aperto all’emigrazione straniera, eppure ormai centro operativo di pericolosi nuclei terroristici e la visione – ci sarebbe da discutere su quanto sia mediatica – di un’Unione Europea che in virtù dei trattati, sia pur liberamente sottoscritti, “abbandona” Italia e Grecia a far fronte alla pressione migratoria nell’area del Sudest dell’Europa, hanno alimentato il timore di poter subire un’“invasione” da terra, attraverso la via dei Balcani, senza alcuna garanzia che questi migranti, vuoi economici vuoi politici, una volta accolti in Ungheria potranno mai imboccare la strada per la Francia, la Germania, l’Austria o, perché no, la Scandinavia. Ma nonostante il sovranismo, con tratti fortemente autoritari, della attuale leadership, il sentimento popolare è filoeuropeo, e i sondaggi lo confermano.

18Così è anche nei paesi baltici, che hanno un basso numero d’abitanti: Estonia, 1 340 000; Lettonia, 1 986 000; Lituania, 2 850 000.

19I paesi baltici – come ricorda il mio collega Alessandro Vitale – hanno avuto una storia comune nel Novecento e oggi li unisce l’aver aderito con entusiasmo (soprattutto in Lituania) sia alla Nato – che vedono come l’autentica e sola vera garanzia di sicurezza regionale –, sia alla UE (il consenso all’allargamento superava il 90 per cento), percepita come l’unica forma possibile di “ritorno all’Europa”, dopo il lungo e distruttivo isolamento dal resto del mondo del periodo bipolare. A differenza di alcuni paesi UE, tuttavia, prevale un rapporto culturale e politico privilegiato con gli Stati Uniti (soprattutto in Lituania): spezzoni delle attuali classi politiche e intellettuali baltiche si sono formate negli Usa e i tre paesi hanno una diaspora americana molto consistente, che risale al xix secolo. Gli abitanti dei paesi baltici e le loro dirigenze non riescono pertanto nemmeno a comprendere l’antiamericanismo che spesso serpeggia in alcuni paesi UE e a tratti anche a Bruxelles. Così come, specularmente, non comprendono il filoputinismo, diffuso in numerosi paesi UE, con i suoi evidenti tratti di restaurazione politica e di neoimperialismo nei confronti del near abroad. Le ragioni di alcune rigidità nei confronti dell’Europa di Bruxelles (come nel caso delle quote migranti), tuttavia, hanno radici molto materiali in paure che si sono sedimentate nel periodo dell’occupazione sovietica (1940-1941 e 1944-1991).

20Non si tratta di nazionalismo esasperato, ma di strenua difesa di un’identità faticosamente riguadagnata, la cui perdita, per qualsivoglia motivo, ingenera autentico terrore. È la paura che ha lasciato nel profondo della psiche di diverse generazioni, come dimostrano innumerevoli ricerche psicologiche condotte in loco sulla “sindrome post-totalitaria”, la “diluizione etnica” (o “erosione etnica”) causata dal ciclo infernale deportazioni di massa → eliminazione fisica di estoni, lettoni e lituani → reinsediamento progettato a tavolino da Stalin di altre popolazioni (“allogene”) in quei paesi. Questo meccanismo ha portato in Lettonia al passaggio dall’80 per cento di lettoni abitanti nel paese nel 1945, al 57 nel 1970; scesi in seguito al 54 per cento, e dal 94 per cento di estoni abitanti in Estonia nel 1945, al 68 nel 1970, scesi alla fine del periodo sovietico al 65 per cento. Un cambiamento demografico, questo, di proporzioni bibliche, che per estoni e lettoni continua a influenzare le paure, i rapporti con altri popoli e con i vicini e le decisioni di politica interna (per esempio, le drammatiche leggi sulla cittadinanza) ed estera. Se questa diluizione non si è prodotta in Lituania, dove il 79,6 per cento rimane lituana – sia per la dura guerriglia condotta nel 1944-1953 contro gli invasori, che in seguito hanno avuto paura a insediarvisi, sia perché l’élite locale del partito era riuscita a esercitare una certa influenza sulle politiche migratorie del Cremlino staliniano, sia per la struttura familiare e per la natalità più elevata rispetto agli altri due paesi baltici –, non di meno anche in Lituania la paura della dominazione esterna, dell’insicurezza individuale, ereditata dal totalitarismo, e della perdita di identità nazionale, alla quale non possono supplire né le politiche di Bruxelles né la moneta unica, è molto accentuata.

21La “sindrome traumatica post-totalitaria”, rilevata soprattutto dagli psicanalisti nelle sedute anche con componenti delle nuove generazioni, ossessionati da visioni di morte, ha investito ogni famiglia in Lituania, che ha perso un terzo della popolazione sotto la prima fase del dominio sovietico, e continua a comportare una posizione di vertice nella statistica sui suicidi maschili in Europa. A questo non pongono rimedio le politiche UE, spesso lontane e poco attente alla storia dei paesi baltici, ancora poco nota o volutamente ignorata, e ai problemi reali della popolazione, percepite come calate dall’alto di una struttura gerarchico-piramidale, considerata ormai obsoleta e bisognosa di una profonda riforma. Con il paradosso che alle frequenti resistenze a quelle politiche corrisponde un europeismo culturale che non ha pari in altri paesi membri.

22In conclusione vorrei soffermarmi su alcuni aspetti del processo di integrazione europea: il problema dell’Ucraina, l’esclusione dall’area Schengen di Bulgaria e Romania e le recenti tensioni fra la Polonia e l’Unione Europea.

23La questione dell’Ucraina è interessante per capire il senso e la portata del progetto d’allargamento europeo. Senz’altro l’Ucraina appartiene allo spazio ex sovietico e quindi si è trovata a giocare a lungo il ruolo di stato cuscinetto fra spazio “europeo” ed ex sovietico. E tuttavia appariva chiaro agli osservatori, fin dal 1991, anno della sua indipendenza dall’Urss, che lasciare un paese di tale peso in un limbo geostrategico rischiava di diventare fonte di perenne incertezza nei rapporti fra Russia ed Europa. L’Ucraina scontava peraltro il fatto di non essere mai stata presente nella mappa culturale e politica europea perché, a differenza della Polonia, di cui aveva lungamente fatto parte, e della Russia ovviamente, era stata nel tempo tutt’altro che una “nazione storica” identificata da un territorio, una lingua distinta e letterariamente attestata, da una propria classe dirigente. Nazione contadina, parte inserita nell’Austria-Ungheria, parte nell’impero zarista, poi divisa fra gli stati successori di questi imperi, ricomposta dopo la Seconda guerra mondiale, ma nei confini dell’Urss, che le assegnò nel 1954 anche la Crimea, rimaneva un paese sconosciuto ai più, se non per vaghe reminiscenze di cosacchi, atamani, ribelli e così via, sulla scorta di Puškin e Gogol’. Per dire quanto si sia lavorato per un avvicinamento dell’Ucraina all’Europa – e alla Nato, pur con tutte le cautele richieste dai delicati rapporti con la Russia – ricordo solo le parole, risalenti al 2002, del suo ex presidente Kuchma (1994-2005): «The Eu membership is a longterm goal with Ucraine aiming to fulfil the relevant criteria for lodging an application by 2011». Quanto tempo è passato, quante dichiarazioni di parte europea sull’appoggio a questi piani di avvicinamento, quanti progetti che sono costati alle casse della UE! Questa dell’Ucraina è a mio avviso la cartina di tornasole degli attuali rapporti fra Ovest ed Est, intesi nel senso più stretto del termine, e analoghi problemi potrebbero porsi in futuro riguardo a Moldavia e Georgia. Per questo è importante rifare il punto dell’attuale situazione, prima che lo scenario internazionale si complichi ulteriormente.

24Ma tornando in campo UE, vediamo che Bulgaria e Romania, pur rispettando le condizioni necessarie per l’accesso allo spazio di Schengen già dal 2011, si scontrano in sede di Consiglio dell’Unione Europea (che vota all’unanimità) con il veto di alcuni stati, come Paesi Bassi, Francia, Germania e Finlandia, che non le ritengono in grado di controllare efficacemente le frontiere esterne dell’Unione, chiamando in causa le scarse riforme in materia di giustizia, l’esistenza di una criminalità organizzata, la vasta corruzione. Si tratta di fattori importanti, certo, ma che non rientrano nei parametri tecnici previsti dal processo di Schengen. Poiché nel primo semestre del 2019 la Presidenza del Consiglio della UE sarà tenuta proprio dalla Romania, la situazione dovrebbe sbloccarsi, ma non è certo, anche se, a questo punto, il diniego finisce per assumere un indebito valore politico-morale.

25Più grave, invece, è il problema posto dalla Polonia, che ha avviato una serie di mutamenti di carattere costituzionale che vanno in senso antidemocratico, specialmente laddove si tratta di rivedere l’indipendenza della magistratura rispetto all’esecutivo, violando uno dei principi cardine dell’ordinamento europeo e aprendo così la strada a un procedimento di infrazione da parte della Commissione europea. Qui non si tratta di dirigismo europeo, ma di porre limiti a un sovranismo che potrebbe portare la Polonia a disallinearsi rispetto al resto dei paesi comunitari. Un problema, questo, che costituisce una sfida per l’impianto generale. Va comunque sottolineato che presso tutti i popoli dell’Est, nonostante il sovranismo di alcune loro dirigenze, i sondaggi indicano che l’europeismo è forte e ormai radicato: questo è, a mio avviso, il dato fondamentale su cui operare per una ripresa dell’Unione Europea, che deve, dal canto suo, recuperare lo slancio degli esordi, le ragioni del suo costituirsi, il coraggio di costruire un’ipotesi di futuro che non si limiti alla sfera materiale, ma che affermi il valore di uno spazio culturale unico al mondo per varietà, ricchezza, ma anche coscienza civile e politica.

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