Odio implacabile e amori prudenti
p. 10-14
Texte intégral
1Se ci domandassimo quali sono i confini dell’Europa le risposte che potremmo ottenere sarebbero molto diverse. A scuola, da bambini, ci insegnavano che il territorio europeo si estende dagli Urali all’Atlantico, ma non è certo questa la demarcazione di quel che oggi pensiamo come Europa politica e, meno ancora, di quel che pensiamo come idea di Europa.
2Per i greci l’Europa era definita come lo spazio animato da una libertà civica che si stagliava in contrapposizione al dispotismo asiatico. Questo contrasto si è però più tardi appannato dietro la potenza di Roma, che conosceva come poli antinomici solo la romanità e la barbarie. La storia ha poi seguito il suo corso: è venuta la cristianità, c’è stata la nascita degli stati-nazione, poi abbiamo avuto la Rivoluzione francese e, dopo le due guerre mondiali del secolo scorso, è giunta l’epoca in cui ancora siamo. La storia ci aiuta senz’altro a disegnare le varie conformazioni dell’Europa politica, che sono fondamentali per capirne la nervatura essenziale, ma è interessante per noi penetrare anche in strati meno visibili che non facciano apparire solo il puro disegno istituzionale. Vogliamo vedere le passioni che si agitano dentro l’idea di Europa, i suoi movimenti carsici, gli idilli e le vampate d’ira, i lati fulgidi e quelli oscuri.
3Bisogna allora prendere il largo, spingersi oltre la linea del primo orizzonte. Ci può essere d’aiuto, per l’occasione, mettersi al seguito di quel grande navigatore che è stato Joseph Conrad, un europeo di prima della Brexit. Occorre allora sprofondare nel Cuore di tenebra in cui ci conduce quando, in cerca del lato oscuro della nostra civiltà, fa partire il suo racconto da una Londra in cui le rive del Tamigi, proiettate sullo sfondo dell’epoca romana, vengono fatte apparire come non meno selvagge del fiume africano sul quale la storia procede e si snoda. Il racconto segue le tracce del commercio d’avorio, dell’avidità predatrice che si spinge nel centro dell’Africa nera in cerca di ricchezza, ma non solo. Conrad insegue anche la visione di un potere assoluto, magnetico, misterioso incarnato dal personaggio di Kurtz, dove si esprimono tutta la potenza, la ferocia, l’avidità senza limiti che l’uomo bianco, l’europeo tipico, ha nascosto in un doppiopetto, ha rivestito di grisaglia burocratica, ha imbrigliato in una rete di regole che trattiene una belva tuttavia non ancora addomesticata. Il personaggio di Kurtz ci fa bene intravedere il senso demoniaco di quel che Hegel intendeva quando, riprendendo un’immagine delle Lettere di San Pietro, definiva l’Europa come un leone affamato, diabolus tamquam leo rugiens circuit quaerens quem devoret 1.
4Come l’amore e l’odio sono però due facce di uno stesso fenomeno, la voracità dell’Europa non ha solo il volto dell’aggressione, dell’imperialismo, della rapina. È anche al tempo stesso curiosità, mobilità, necessità di capire l’altro. L’Europa non è chiusa nel proprio recinto, e proprio perché non è sazia di sé, esplora, naviga, cerca oltre i limiti del conosciuto.
5Lo storico del mondo mussulmano Edhem Eldem racconta come i signori della Sublime Porta, considerando che lì stava il centro del mondo, non sentissero nessun bisogno di uscire dal loro cerchio privilegiato. Gli ambasciatori potevano, certo, avere missioni fuori dai confini, ma non risiedevano mai stabilmente in stati stranieri. Diversamente, per esempio, da Venezia, che già dal xvi secolo teneva ambasciatori di stanza permanente a Costantinopoli. È l’Europa che si spinge al di là delle proprie frontiere, che manda le proprie caravelle oltre i limiti dello spazio cartografato. La flotta cinese non era meno potente di quella spagnola, ma non ha mai battuto rotte che andassero oltre il mar Giallo o il mar del Giappone.
6Bisogna aggiungere che l’Europa ha bisogno di spingersi fuori da sé perché non può stare su un centro che non ha. È infatti costituita da molti centri, è molteplice, un coro di molte voci, che nei momenti felici in cui non è in guerra con se stessa riesce a far sentire come fossero in consonanza.
7In un suo romanzo, Jean-Christophe, Romain Rolland descrive il protagonista come un tedesco che, ignaro di tutto ciò che sta fuori dai confini del suo paese, giunge a Parigi dove un amico francese lo aiuta a entrare nei caratteri peculiari della sua cultura. I due si plasmano l’uno sull’altro, la forza tedesca si tempera con l’intelligenza francese, ma Germania e Francia da sole formano ancora una dissonanza, e per ottenere l’armonia necessaria per fare una sinfonia, Romain Rolland fa entrare una terza nazione – tre nazioni come le tre Grazie – rappresentata dalla bellezza matura del genio italiano. Bisogna dire che Jean-Christophe è stato scritto prima della Prima guerra mondiale, negli ultime anni della Belle époque, cioè un lungo periodo di ottimismo, di pace e di benefici portati dalla tecnologia, come la luce elettrica, la radio, l’automobile.
8La mia generazione, le diverse generazioni del dopoguerra, sono cresciute invece in un tempo di odio placato, di amori prudenti, vagamente diffidenti.
9Freud spiega che l’odio può essere un modo di proseguire l’amore quando questo si interrompe, quando si rovina. Nell’Europa postbellica ci troviamo piuttosto nella situazione contraria: sulle ceneri lasciate da un odio smisurato ci siamo trovati nella condizione di coltivare un amore fatto di cauti avvicinamenti, cresciuto sul terreno formale di trattati, di accordi, di scambi di promesse guardinghe, messe nero su bianco, come quando nelle università americane di oggi bisogna firmare un contratto per il consenso prima di andare a letto con una ragazza.
10Gli stati in guerra hanno dovuto coltivare l’odio necessario a generare energie belliche, perché l’odio è come l’alcol prima della battaglia: le guerre sono fiumi di sangue e di alcol, perché l’alcol è quell’espediente che a don Abbondio non era venuto in mente per darsi il coraggio che sapeva di non avere.
11Eric Hobsbawn ha osservato come le guerre del xx secolo abbiano sviluppato un potenziale di distruzione, alimentato dalla tecnologia, tale da rendere possibile il totale annientamento dell’avversario, e ha denunciato come questo abbia portato a un completo imbarbarimento rispetto a quel codice cavalleresco in cui Edmund Burke, a suo tempo, riconosceva un tratto tipico dell’Europa, mantenutosi fino alle guerre dell’Ottocento. L’odio in Europa è stato alimentato ininterrottamente dal 1914 al 1945: non poteva sparire magicamente con l’inchiostro dei trattati di pace. L’odio tra le nazioni si è semplicemente spostato tra le fazioni, tra i partiti, tra le classi, tra le razze. In Italia conosciamo bene questa esperienza. Nel biennio rosso seguito alla Prima guerra mondiale, con il mito della vittoria mutilata l’odio per lo straniero si è introiettato nel paese in una sorta di guerra civile sfociata nel ventennio nero. Abbiamo visto chiaramente gli stregoni in grado di manovrare la macchina che trasforma la paura in odio, e che trasforma l’odio in consenso elettorale. Ma sto parlando di storia o del presente? La cacofonia attuale tra europeismo e sovranismo non è forse l’onda lunga di un passato che non è passato, che ci insegue nelle svolte critiche del presente, che pone in forma diversa problemi ancora irrisolti e la cui portata non dobbiamo dimenticare? In Italia si è discusso se dobbiamo chiamare fascismo i fenomeni di intolleranza, di razzismo, di prevaricazione che si stanno presentando sulla scena politica attuale. Credo sia solo un problema di nomi, ma chiamare fascismo la violenza che oggi si manifesta contro gli immigrati, l’intolleranza sociale che sentiamo nella vita quotidiana, la volgarità estrema in cui si esprime ormai il linguaggio della politica, ci aiuta a non dimenticare la storia, a sentire la continuità di fenomeni che riappaiono oggi in forma diversa ma con immutata sostanza e con analoga pericolosità.
12Il quesito che si pone è se l’odio generato non abbia altra possibilità che trasformarsi in altro odio, se possa solo spostarsi nelle proprie rappresentazioni rimanendo inestinguibile, se l’odio – che ha ben chiari i propri obiettivi e non si perde dietro a miraggi come l’amore, o come i cavalieri di Carlo Magno nel castello del mago Atlante – sia pura potenza di distruzione senza altre vie d’uscita che un annichilimento infinito.
13Direi che su questo l’esperienza della psicoanalisi può presentare dei paradigmi interessanti. Prendiamo un fenomeno come l’angoscia. Certamente non è un sentimento piacevole, e chi si sente angosciato non vive bene. L’indicazione clinica di Lacan è di disangosciare il paziente che si trova in crisi. Cosa significa però disangosciare? L’angoscia è un indice del reale, non si può puramente e semplicemente cancellare. Si tratta di una tensione vitale, e non esiste uomo senza angoscia, in qualsiasi forma questa si presenti. Disangosciare significa allora far uscire il paziente dall’effetto paralizzante che il sovraccarico d’angoscia induce, riaprendo la via del desiderio. Non si tratta di azzerare la tensione dell’angoscia, ma di indirizzarla da un turbamento e da un subbuglio che immobilizzano a una riapertura d’orizzonte che rivitalizza il desiderio. L’energia che blocca viene dalla stessa fonte di quella che anima, ma la direzione è evidentemente opposta.
14Cosa possiamo dire allora per l’odio? L’esperienza dell’analisi insegna che è inseparabile dall’amore, ma non riusciamo a pensare che Hitler amasse almeno un po’ gli ebrei, o che Ratko Mladić, nelle operazioni di pulizia etnica in Bosnia, avesse qualche sentimento diverso da disprezzo, ripugnanza, malanimo, livore.
15Ci sono momenti in cui si produce una fissione di quel che Lacan chiama hainamoration, l’intreccio inscindibile di odio e amore. Diciamo fissione come quando si parla di fissione nucleare, un processo che può avvenire spontaneamente in natura, ma che indotto artificialmente libera una quantità di energia la cui potenza abbiamo davanti agli occhi nelle immagini di Hiroshima e Nagasaki.
16L’odio necessario alle guerre di distruzione totale nasce da questo processo di fissione, quando l’avversario non è soltanto un nemico sul quale prevalere ma un’esistenza privata di qualsiasi dignità, spogliata di riconoscimento umano, nuda vita.
17Anche senza bisogno della straordinaria lente d’ingrandimento dello sterminio, riconosciamo però che l’odio per l’intruso, per il diverso, per il mendicante, per l’immigrato, trasformato nell’immaginario politico contemporaneo in rapinatore, stupratore, bersaglio, viene alimentato dagli stessi processi di fissione.
18Non possiamo certo far rientrare nella lampada il genio mostruoso che ne viene tirato fuori, ma dobbiamo riconoscere che anche l’odio è una potenza, e che alla sua energia si può imprimere una direzione. Hegel, parlando del lavoro, dice qualcosa di analogo quando lo definisce come un appetito tenuto a freno, un dileguare trattenuto. Se divoriamo ciò che costituisce l’oggetto del nostro appetito, semplicemente lo distruggiamo. Ma se ci teniamo a freno possiamo invece elaborarlo, trasformarlo, interporre lo schermo di una buona forma tra noi e l’oggetto bramato.
19Gli ideali sociali, le parvenze ben gestite, la misura espressiva nella comunicazione pubblica vanno tutti in questa direzione. L’odio arginato nella sua pura spinta distruttiva viene convertito in un’energia che dà forza agli elementi solenni della vita pubblica, se sono riconosciuti, rispettabili e rispettati, autorevoli. Naturalmente quella che Lacan ha chiamato una società senza vergogna non sembra destinata ad andare in questa direzione, ma è una via che resta possibile se l’Europa non si riduce a essere la mera macchina delle burocrazie e dei mercati, se non esprime il suo programma come cieco calculemus, e se non si infila, per evitare i conflitti di valori, nella strettoia degradante di una rinuncia alla politica.
Notes de bas de page
1 Epistula 1 Petri, 5,8.
Auteur
Psicoanalista Ame della Slp e dell’Amp, esercita a Milano. È direttore della sede di Milano dell’Istituto Freudiano. È autore di numerosi libri, l’ultimo dei quali è: Le parvenze e il corpo (2017)
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