1 J. Searle, The Construction of Social Reality, New York, Free Press, 1995 [trad. it. A. Bosco, La costruzione della realtà sociale, Milano, Comunità, 1996].
2 Jacques Revel distingue almeno tre diverse accezioni correnti del termine «istituzione», constatandone la polisemia, soprattutto nelle opere degli storici. La prima accezione definisce l’istituzione come «una realtà giuridico-politica, quella di cui si occupa la “storia istituzionale”». La seconda accezione comprende «qualunque organizzazione tale da funzionare in modo regolare secondo regole esplicite o implicite nel quadro di una società, e tale da rispondere a una certa esigenza collettiva», come per esempio «la famiglia, la scuola, l’ospedale, il sindacato». La terza accezione, infine, intende per istituzione «qualunque forma dell’organizzazione sociale tale da legare tra loro dei valori, delle norme, dei modelli relazionali o di condotta, dei ruoli». (Quest’ultima definizione è tratta dalla prefazione di Georges Balandier all’edizione francese di M. Douglas, How Institutions Think, Syracuse, Syracuse University Press, 1986 [trad. it. P.P. Giglioli e C. Caprioli, Come pensano le istituzioni, Bologna, il Mulino, 1990]). J. Revel, L’institution et le social, in Id., Un parcours critique. Douze exercices d’histoire sociale, Paris, Galaade, 2006, pp. 85-110.
3 J. Searle, What is an institution?, in “Journal of Institutional Economics”, n. 1, 2005, pp. 1-22.
4 E. Goffman, Asylums: essays on the social situation of mental patients and other inmates, Garden City (ny), Dubleday, 1961 [trad. it. F. e F. Basaglia, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino, Einaudi, 1972].
5 Vedi per esempio S. Laugier, Care et perception, in Ead., Le souci des autres. Éthique et politique du Care, Paris, Éditions de L’ehess, 2005, pp. 317-348.
6 Vedi J.-C. Gens, Le partage du sens à l’origine de l’humanité, in P. Guenancia e J.-P. Sylvestre (a cura di), Le sens commun: théories et pratiques, Dijon, Éditions universitaires de Dijon, 2004, pp. 75-89.
7 L’esempio più notevole è probabilmente E. Erikson, Childhood and Society, London, Imago, 1950 [trad. it. L.A. Armando, Infanzia e società, Milano, Fabbri, 2002]. Prendendo le distanze dall’antropologia culturalista, che insiste sull’incorporazione tacita delle strutture sociali nel corso dell’educazione infantile, la psicanalista Piera Aulagnier pone l’accento sull’importanza della scoperta dell’esistenza della menzogna (le bugie che raccontano i genitori e quindi anche quelle che può raccontare il bambino stesso) nello sviluppo di un senso di autonomia nel bambino («poter nascondere all’Altro e agli altri una parte dei propri pensieri») e nella formazione di un’inquietudine originaria legata alla presa di coscienza del fatto che «il discorso può dire il vero ma anche il falso», consapevolezza che «obbliga» il bambino a «farsi carico della necessità del dubbio» (vedi P. Aulagnier, Un interprète en quête de sens, Paris, Payot, 2001, pp. 299-324).
8 Per un esame critico della razionalità economica dal punto di vista della sociologia vedi R. Swedberg, Economics and Sociology, Princeton, Princeton up, 1990 [trad. it. Economia e sociologia. Conversazioni con Becker, Coleman, Akerlof, White, Granovetter, Williamson, Arrow, Hirschman, Olson, Schelling e Smelser, Roma, Donzelli, 1994] e Id., Principles of Economic Sociology, Princeton, Princeton University Press, 2003 [trad. it. S. Ghezzi e G.P. Celia, Sociologia economica, Milano, egea, 2005].
9 Vedi P. Batifoulier (a cura di), Théorie des conventions, Paris, Economica, 2001, e il fondamentale fascicolo monografico della “Revue économique” L’économie des conventions (vol. XL, n. 2, 1989). Il perno del convenzionalismo, almeno nella sua formulazione standard, è l’idea che quando ne va in primo luogo della coordinazione dell’agire il comportamento possa essere al tempo stesso arbitrario e razionale. L’esempio classico è quella della guida a destra o a sinistra. Ammesso che questo sia vero, resta da distinguere tra le condotte che si possono giudicare «arbitrarie» senza pregiudizio della loro efficacia (come la guida a destra o a sinistra) e quelle che invece, per ragioni che tenteremo di chiarire più avanti, sembrano perdere tutta la loro pertinenza quando non si riesce a fornire un fondamento in grado di investirle di una necessità intrinseca e di una forma di autenticità. Quelle condotte verranno allora definite «convenzionali» in senso spregiativo per metterne in risalto il carattere «arbitrario». Lo si vede in particolare nei casi in cui l’instaurazione della convenzione impone di praticare una cesura all’interno di un continuum e di istituire delle soglie o delle frontiere, il cui tracciato esige di venire giustificato (un punto sul quale torneremo più avanti).
10 Vedi per esempio D. Cefaï, Phénoménologie et sciences sociales. Alfred Schutz, naissance d’une anthropologie philosophique, Genève, Droz, 1998 e J. Benoist e B. Karsenti (a cura di), Phénoménologie et sociologie, Paris, puf, 2001.
11 J. Habermas, Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1986 [trad. it. E. Agazzi, Etica del discorso, Roma-Bari, Laterza, 1989].
12 Vedi R. Daval, Moore et la philosophie analytique, Paris, puf, 1997, pp. 28-31, e il fascicolo monografico della “Revue de métaphysique et de morale” dedicato a George E. Moore (n. 3, 2006), in particolare C. Alsaleh, Quand est-il valide de dire je sais? ed É. Domenach, Scepticisme, sens commun et langage ordinaire chez Moore.
13 Vedi L. Boltanski, L’amour et la justice comme compétences cit., pp. 110-124.
14 Vedi L. Thévenot, L’action au pluriel: sociologie des régimes d’engagement, Paris, La Découverte, 2006.
15 Va osservato che il nesso tra l’incertezza radicale e lo stato di natura e quello tra le «fluttuazioni» semantiche e la violenza, se non altro potenziale, è già postulato in Hobbes, in particolare nel capitolo del Leviatano dedicato alla parola. Gli stessi termini vengono nuovamente esaminati in relazione al problema dei contratti (T. Hobbes, Leviathan [1651], trad. it. A. Pacchi, Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 22-33 e 128-143). Quando le scienze sociali hanno fatto propria la problematica hobbesiana, tuttavia, l’accento è caduto di preferenza sul tema dell’invidia e sul motivo del carattere illimitato degli appetiti umani inteso come fonte di violenza – il classico argomento addotto per giustificare la necessità dello Stato. Tutti temi che ricorrono in Durkheim, dove essi svolgono un ruolo importante nella genesi del concetto di istituzione (vedi per esempio Le socialisme: sa définition, ses débuts, la doctrine saint-simonienne [1928], Paris, puf, 1971 [trad. it. E. Roggero, Il socialismo: definizione, origini, la dottrina saint-simoniana, Milano, Franco Angeli, 1982] e Id., De la division du travail social [1893], Paris, puf, 1960 [trad. it. A. Pizzorno, La divisione del lavoro sociale, Milano, Comunità, 1962], in particolare la seconda prefazione del 1902). Va infine osservato che l’insistenza di Durkheim sulla necessità di tenere a freno l’anarchia del desiderio, come è stato spesso rilevato, presenta certe rispondenze con le concezioni freudiane (vedi per esempio R. Nisbet, La tradizione sociologica cit., p. 114). Nel presente studio, che si discosta da queste posizioni classiche, l’accento cade soprattutto sul ruolo semantico delle istituzioni.
16 Sul dilagare del tema della costruzione sociale della realtà nelle scienze sociali vedi I. Hacking, La natura della scienza cit. e M. de Fornel e C. Lemieux, Quel naturalisme pour les sciences sociales?, introduzione al fascicolo monografico della rivista “Enquête” a cura dei due studiosi (Naturalisme versus constructivisme, n. 6, 2007, pp. 9-28) è un’introduzione di notevole efficacia alla problematica del costruttivismo e ai problemi che esso comporta.
17 Analizzando l’uso dei concetti di Realität e Wirklichkeit nell’opera di Nietzsche, Blaise Benoit ha individuato nel pensiero del filosofo una tensione tra una realtà intesa come una sorta di finzione instaurata per introdurre nel mondo qualcosa di stabile e una realtà percepita come un divenire inafferrabile e caotico, seppure accessibile all’esperienza (B. Benoit, La réalité selon Nietzsche, in “Revue philosophique”, vol. CXXXI, n. 4, 2006, pp. 403-420).
18 La distinzione tra la realtà e il mondo (seppure formulata in modo diverso a partire da una prospettiva psicanalitica) sottende anche la grandiosa impresa teorica di Cornelius Castoriadis, che si sforza di porre le basi di un’analisi della «istituzione del mondo per opera della società» (C. Castoriadis, L’institution imaginaire de la société, Paris, Seuil, 1975 [trad. it. F. Ciaramelli, L’istituzione immaginaria della società, Torino, Bollati Boringhieri, 1995]).
19 F. Knight, Risk, Uncertainty and Profit [1921], Chicago, University of Chicago Press, 1985.
20 M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France (1977-1978), Paris, Hautes Études/Gallimard/Seuil, 2004 [trad. it. P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005].
21 Vedi F. Keck, Claude Lévi-Strauss. Une introduction, Paris, La Découverte, 2005, pp. 136-143.
22 F. Nef, L’objet quelconque. Recherches sur l’ontologie de l’objet, Paris, Vrin, 2000.
23 B. Karsenti, Politique de l’esprit. Auguste Comte et la naissance des sciences sociales, Paris, Hermann, 2006.
24 A questo riguardo vedi il corso di Durkheim sul pragmatismo (Pragmatisme et sociologie, Paris, Vrin, 1955 [trad. it. N. Baracani, Pragmatismo e sociologia: corso tenuto alla Sorbona, 1913-1914, Roma, Ianua, 1986]) e le brillanti considerazioni sull’ostilità di Durkheim nei confronti del pragmatismo (che non esclude peraltro certe convergenze) svolte in B. Karsenti, La société en personnes. Études durkheimiennes, Paris, Economica, 2006, pp. 183-212.
25 P. Bourdieu, Esquisse d’une théorie de la pratique, précédé de trois études d’ethnologie kabyle, Genève, Droz, 1972 [trad. it. I. Maffi, Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Milano, Cortina, 2003].
26 Sull’azione come piano vedi L. Thévenot, L’action en plan, in “Sociologie du travail”, vol. xxxvii, n. 3, 1995, pp. 411-434.
27 Prendo a prestito il concetto da T. Schelling, The Strategy of Conflict, New York, Oxford up, 1960 [trad. it. La strategia del conflitto, Milano, Bruno Mondadori, 2008].
28 Nelle analisi del senso pratico sviluppate da Pierre Bourdieu il tema ricorre nella forma di una critica a quella che Bourdieu definisce una indebita ingerenza del «giuridismo» nelle scienze sociali, per esempio quando la «parentela pratica» viene contrapposta alle regole di parentela modellizzate in opere come Le strutture elementari della parentela di Claude Lévi-Strauss (vedi P. Bourdieu, Le sens pratique, Paris, Minuit, 1980 [trad. it. M. Piras, Il senso pratico, Roma, Armando, 2005]).
29 Vedi L. Thévenot, L’action qui convient, in P. Pharo e L. Quéré (a cura di), Les formes de l’action, Paris, Éditions de l’ehess, 1990.
30 J. Goody, The domestication of the savage mind, Cambridge, Cambridge University Press, 1977 [trad. it. L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Angeli, 1990, in particolar modo le pp. 20-25 e 84].
31 Vedi I. Chauviré, Voir le visible: la seconde philosophie de Wittgenstein, Paris, puf, 2003, pp. 71-72. Per un’applicazione sperimentale delle posizioni wittgensteiniane alla sfera dell’antropologia cognitiva vedi E. Rosch, Classification of real-world objects: origins and representation in cognition, in P.N. Johnson-Laird e P.C. Wason (a cura di), Thinking. Readings in Cognitive Science, Cambridge, Cambridge University Press, 1977, pp. 212-223. L’analisi più recente e per quanto ne so più completa dei problemi legati al modo in cui le categorie possono venire utilizzate in modi diversi è in B. Conein, Les sens sociaux. Trois essais de sociologie cognitive, Paris, Economica, 2005.
32 Vedi L. Boltanski, L’amour et la justice comme compétences cit., pp. 137-244.
33 Una delle caratteristiche di un regime di amore in agape consiste nel fatto che i partecipanti cooperano per mantenere il più basso possibile il livello di riflessività. Per esempio accompagnare un dono che si presuppone gratuito con un enunciato del tipo «dono senza badare a spese, visto?» farebbe immediatamente uscire gli attori da un regime di agape per reinscriverli nella logica dello scambio di equivalenti.
34 Vedi in particolare J. Lucy (a cura di), Reflexive Language. Reported Speech and Metapragmatics, Cambridge, Cambridge University Press, 1993.
35 Su questa distinzione vedi F. Nef, L’objet quelconque cit., p. 97.
36 C. Julia, Fixer le sens. La sémantique spontanée des gloses de spécification du sens, Paris, Presses de la Sorbonne nouvelle, 2001, p. 41 sottolinea la somiglianza tra quelle che lei chiama «glosse riflessive» e gli «enunciati modalizzati in cui figura un aggettivo soggettivo portatore di una valutazione nel quadro di un’assiologia del bello, del vero e del buono». Tra gli esempi citati figurano «un grande poeta» (giudizio di valore) e «una vera donna». «Gli aggettivi “grande” e “vero” veicolano un giudizio in merito all’appartenenza del referente alla classe denotata dal sostantivo, e tale appartenenza viene valutata in termini di conformità a un ideale associato a quel nome».
37 Sui primordi dell’antropologia cognitiva vedi E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen [1923], vol. i, Die Sprache, Hamburg, Meiner, 2001 [trad. it. E. Arnaud, Filosofia delle forme simboliche, vol. i, Il linguaggio, Firenze, La Nuova Italia, 1987], soprattutto le pagine su Wilhelm von Humboldt.
38 Vedi L. Thévenot, Jugements ordinaires et jugements de droit, in “Annales esc”, n. 6, 1992, pp. 1279-1299.
39 I. Rosier, La parole comme acte. Sur la grammaire et la sémantique au xiiie siècle, Paris, Vrin, 1994, pp. 14-15.
40 Il nesso che lega tra loro l’instaurazione del riferimento e la determinazione del valore è inerente al senso stesso che le discipline giuridiche assegnano alle operazioni di qualifica. Come scrive Olivier Cayla, «prima di affermare che un oggetto non ha ragion d’essere, per condannarlo, oppure di affermare che esso può o deve essere, per dare libero corso alla sua esistenza, tollerarlo o invocare il suo avvento, bisogna per prima cosa dichiarare che esso è. Dato un fatto che allo stato “naturale” grezzo si presenta per esempio come trasferimento di un bene dalle mani di una persona a quelle di un altra, bisogna innanzitutto precisare se si tratta di una “vendita”, di un “dono” o di un “furto”. Soltanto allora si può procedere ad applicare il relativo regime previsto dal diritto». L’autore, però, procede a dimostrare che quel processo si accompagna a una valorizzazione o svalorizzazione (quella che lui chiama «squalifica»), tale per cui «non è più possibile sostenere che il diritto consente di stabilire che cosa è secondo il registro descrittivo, perché in realtà il diritto impone prescrittivamente che cosa deve essere». Nel prosieguo dell’articolo Olivier Cayla finisce per fare del potere di qualificare la prerogativa principale del sovrano (O. Cayla, La qualification, ou la vérité du droit, in “Droits. Revue française de théorie juridique”, n. 18, 1993, pp. 1-18).
41 Vedi C. Julia, Fixer le sens cit., p. 41.
42 Il contrasto tra questi due modi di far giocare le categorie emerge in modo netto quando si confronta l’utilizzo dei termini che designano gruppi o classi nel corso di scambi verbali tra persone comuni e l’utilizzo che delle categorie socioprofessionali fanno i professionisti stessi (vedi L. Boltanski e L. Thévenot, Finding one’s way in social space: a study based on games cit.).
43 Vedi soprattutto J. Rey-Debove, Le métalangage. Étude linguistique du discours sur le langage, Paris, Armand Colin, 1997. Un altro esempio classico è «il cane ha quattro lettere» invece che «il cane ha quattro zampe». Come osserva anche Catherine Julia (op. cit.), quando vengono attivate delle possibilità metalinguistiche la valutazione, cioè «la conformità di un referente a un ideale di qualsivoglia tipo», passa per una «rappresentazione dell’atto di enunciazione», come accade quando parliamo di «un grande poeta nel vero senso del termine» o di «quella che si dice propriamente una donna». Anche il fatto di mettere tra virgolette un termine costituisce un procedimento metalinguistico (i sociologi si servono spesso di questo stratagemma per segnalare la loro presa di distanza rispetto all’oggetto delle loro ricerche): si tratta di utilizzare una certa parola e al tempo stesso farla oggetto di un giudizio di valore a carattere spregiativo, dal momento che l’autore non vuole dare l’impressione di condividere le connotazioni associate a quel termine.
44 Vedi anche J. Rey-Debove, Lexique de la sémiotique, Paris, puf, 1979, p. 95. Il paradosso consiste nel fatto che questa riflessività rimane tutta interna e non può venire trasferita a un altro «piano». Da un lato si può quindi insistere su questo sganciamento riflessivo, dall’altro si può mettere l’accento sul fatto che si resta sempre e comunque nei limiti del linguaggio di volta in volta in esame, anche nei momenti enunciativi nei quali prevale l’uso del metalinguaggio. «Qualunque lingua, – scrive Jacqueline Authier-Revuz, – è sia lingua oggetto che metalinguaggio di se stessa». Authier-Revuz concede che secondo la celebre sentenza di J. Lacan, Le séminaire, livre iii, Les psychoses, Paris, Seuil, 1981 [trad. it. Ambrogio Ballabio, Piergiorgio Morerio, Carlo Viganò, Il seminario, libro iii, Le psicosi, 1955-1956, Torino, Einaudi, 1985] «non c’è metalinguaggio», almeno nel senso in cui ne parlano i logici, ma ciò non toglie che «esiste un piano metalinguistico», dal momento che «il linguaggio [...] si riproduce all’interno di se stesso» (vedi J. Authier-Revuz, Le fait autonymique: langage, langue, discours. Quelques repères, in Ead., M. Doury e S. Reboul-Touré, Parler des mots. Le fait autonymique en discours, Paris, Presses de la Sorbonne nouvelle, 2003, pp. 67-96).
45 J. Authier-Revuz, Ces mots qui ne vont pas de soi. Boucles réflexives et non-coïncidences du dire, Paris, Larousse, 1995, propone l’esempio seguente: «Fa lavoretti di sartoria per i vicini del circondario, dico “sartoria” ma forse non è il caso, perché come sarta, a essere sinceri, non è granché…» (vol. i, p. 19). Un altro possibile esempio è una frase che io stesso ho udito in occasione di un «battesimo civile», cioè un battesimo laico: «E voi questo lo chiamate un battesimo?»
46 Se da un lato la «competenza metalinguistica» che consente di «produrre frasi accettabili sulla lingua» (J. Rey-Debove cit., p. 21) fa parte della competenza linguistica normale che consente di «costruire frasi accettabili sul mondo», dall’altro – come osserva J. Lucy, Metapragmatics cit., pp. 20-24 – si ha l’impressione che la competenza metalinguistica, pur essendo un operatore di riflessività, sia messa in opera in modo ancora più inconsapevole della competenza linguistica normale.
47 «La retorica si fa carico della tautologia formale per ridurre o accentuare di volta in volta lo scarto tra ciò di cui si parla e la definizione che ne viene data (“gli affari sono affari”, “una donna è una donna”)», J. Rey-Debove, Lexique de la sémiotique cit., p. 146.
48 J. Rey-Debove, La linguistique du signe. Une approche sémiotique du langage, Paris, Armand Colin, 1998, p. 31.
49 Sul ruolo del discorso epidittico nella conferma di ciò che tutti dovrebbero comunque sapere vedi L. Nicolas, La fonction héroïque: parole épidictique et enjeux de qualification, in “Rhetorica. A Journal of the History of Rhetoric”, vol. xxxvii, n. 2, 2009, pp. 115-141.
50 Vedi per esempio L. Ménager e O. Tercieux, Fondements épistémiques du concept d’équilibre en théorie des jeux, in “Revue d’économie industrielle”, nn. 114-115, 2006, pp. 67-84.
51 Si tratta quindi di una performance che ha punti in comune con la promessa, vedi M. Nachi, Éthique de la promesse: l’agir responsable, Paris, puf, 2003.
52 O. Cayla, Les deux figures du juge, in “Le Débat”, n. 74, 1993, pp. 164-174.
53 «Poiché, come abbiamo osservato, l’intenzione non traspare nel testo degli enunciati, non c’è mai modo di verificare che l’interpretazione alla quale l’interlocutore finisce in ultima analisi per approdare coincida con l’intenzione effettivamente nutrita dal locutore. In una simile situazione di incertezza l’intesa non è mai dimostrabile e il malinteso si annida nel cuore stesso degli scambi tra interlocutori. La discussione, già sempre rosa dal dubbio, non sfocia mai in modo spontaneo nella riduzione a unità della varietà interpretativa [...], perché la serietà (ermeneutica) non può nulla contro il margine di gioco che sempre e comunque sussiste tra il senso generale dell’enunciato e la forza specifica che inerisce all’enunciazione, simili a due tessere che non combaciano mai; detto altrimenti, non può nulla contro lo scarto fenomenologico tra la lettera e lo spirito che affligge qualunque proposizione» (O. Cayla, Les deux figures du juge cit.).
54 «Il consueto modo di vedere vede gli oggetti quasi dal di dentro; il vederli sub specie aeternitatis, dal di fuori. Così che per sfondo hanno il mondo intiero. È forse che essa vede l’oggetto con, invece che in, lo spazio e il tempo?» L. Wittgenstein, Notebooks 1914-1916 [trad. it. A.G. Conte, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 , Torino, Einaudi, 1984, p. 185].
55 Tali definizioni sono semantiche nel senso che non tengono conto del variare del contesto, pur facendo capo a specifici ambiti di utilizzo. In certe compilazioni più elaborate, come i dizionari, il testo lessicografico assume un carattere di circolarità che invita il lettore a spostarsi di definizione in definizione. Da un punto di vista semantico, insomma, si può affermare che la definizione sia tautologica nel suo rapporto con altri enunciati dello stesso tipo («uno scapolo è un uomo non sposato»), ma non nel rapporto con il suo referente (vedi Centre d’étude du lexique, La définition, Paris, Larousse, 1990).
56 La frase è desunta da un commento a Frege (C. Ortiz Hill, Rethinking Identity and Metaphysics, New Haven, Yale University Press, p. 146). Come è noto, questo tipo di problemi è al centro dei dibattiti suscitati a suo tempo dall’opera di Bertrand Russell e dal Circolo di Vienna (per una sintesi storica del problema vedi J. Benoist, Représentations sans objets aux origines de la phénoménologie et de la philosophie analytique, Paris, puf, 2001).
57 Anticipata dagli studi pionieristici di John J. Gumperz e di Dell Hymes (di cui vedi in particolare, Directions in Sociolinguistics. The Ethnography of Communication, New York, Blackwell, 1986).
58 G. Agamben, Le lingue e i popoli, in Id., Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1996.
59 M. de Certeau, D. Julia e J. Revel, Une politique de la langue, Paris, Gallimard, 1975.
60 Nella letteratura francese contemporanea i limiti più estremi della lingua sono stati esplorati da Pierre Guyotat, soprattutto in Prostitution (Paris, Gallimard, 1975; riedito nel 2007) e più ancora in Progénitures (Paris, Gallimard, 2000). L’autore si giustifica spiegando che «ciò che è dell’ordine del mistero non può venire espresso in una lingua comune». La parola «mistero» designa secondo l’autore il luogo in cui «il ripugnante sfiora la metafisica, diciamo pure Dio» (P. Guyotat, Explications. Entretiens avec Marianne Alphant, Paris, Léo Scheer, 2000, p. 35).
61 Vedi per esempio F. Eymard-Duvernay, Conventions de qualité et formes de coordination, in L’économie des conventions, in “Revue économique”, vol. xl, n. 2, 1989, pp. 329-359.
62 H. de Soto, The Mistery of Capitsalism, New York - London, Basic Books - Bentham e Lima, El Comercio, 2000 [trad. it. Il mistero del capitale, Milano, Garzanti, 2001].
63 Vedi S. Cerutti, À qui appartiennent les biens qui n’appartiennent à personne? Citoyenneté et droit d’aubaine à l’époque moderne, in “Annales hss”, n. 2, 2007, pp. 355-383. Sempre a proposito dell’Ancien régime si può fare l’esempio delle forme di proprietà che hanno preceduto la proprietà «piena e indivisa» del pensiero liberale, in particolare la «proprietà dissociata»: vedi M. Barbot, Per una storia economica della proprietà dissociata. Efficacia e scomparsa di «un altro modo di possedere» (Milano xvi-xvii secolo), in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, vol. xxxviii, n. 1, 2008, pp. 33-62.
64 Alessandro Stanziani ha mostrato come il mercato dei prodotti agroalimentari sia incessantemente inquadrato da operazioni di qualifica che definiscono le proprietà che certi prodotti devono esibire per poter accedere alla denominazione protetta. Le operazioni di qualifica risultano particolarmente necessarie in presenza di evoluzioni legate a innovazioni tecnologiche. Si è cercato di definire che cosa il burro sia davvero soltanto quando un prodotto di tipo nuovo, la margarina, ha iniziato a fargli concorrenza, e soprattutto quando si è profilato il rischio di vedere il mercato invaso da miscele di burro e margarina spacciate per burro (vedi A. Stanziani, Histoire de la qualité alimentaire, Paris, Seuil, 2005, pp. 173-190).
65 Vedi G. Akerlof, An Economic Theorist’s Book of Tales, Cambridge, Cambridge University Press, 1984.
66 Vedi F. Eymard-Duvernay, Coordination par l’entreprise et qualité des biens, in A. Orléan (a cura di), Analyse économique des conventions, Paris, puf, 1994, pp. 307-334.
67 L. Thévenot, Essai sur les objets usuels: propriétés, fonctions, usages, in Les objets dans l’action, in “Raison pratique”, n. 4, Paris, Éd. de l’ehess, 1993, pp. 85-111.
68 È. Chiapello e A. Desrosières, La quantification de l’économie et la recherche en sciences sociales: paradoxes, contradictions et omissions. Le cas exemplaire de la «Positive accounting theory», in F. Eymard-Duvernay (a cura di), L’économie des conventions. Méthodes et résultats, vol. i, Débats, Paris, La Découverte, 2006, pp. 297-310. In prospettiva storica vedi anche È. Chiapello, Accounting and the birth of the notion of capitalism, in “Critical Perspectives on Accounting”, vol. xviii, 2007, pp. 283-296.
69 L. Boltanski, La condition foetale. Une sociologie de l’engendrement et de l’avortement, Paris, Gallimard, 2004, pp. 171-207 [trad it. L. Cornalba, La condizione fetale. Una sociologia della generazione e dell’aborto, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 146-177].
70 Anche John Searle scorge nell’istituzionalizzazione stessa un processo di creazione di potere. Senza alterare «il potere fisico degli individui», l’istituzione crea le condizioni per il riconoscimento del potere e pone le basi del consenso. Su questi punti l’analisi di Searle si avvicina molto a quella di Pierre Bourdieu. Per un commento a margine vedi J. de Munck, L’institution selon John Searle, in R. Salais, É. Chatel e D. Rivaud-Danset (a cura di), Institutions et conventions. La réflexivité de l’action économique, Paris, Éditions de l’ehess, 1998, pp. 173-225.
71 Si veda il fondamentale studio di O. Lattimore, Inner Asian Frontiers of China, New York, Oxford University Press, 1989 (nuova edizione) e tra i lavori più recenti R.R. Alvarez, The Mexican-u.s. border: the making of an anthropology of borderlands, in “Annual Review of Anthropology”, n. 24, 1995, pp. 447-470 e A. Murphy, Historical justifications for territorial claims, in “Annals of the Association of American Geographers”, vol. lxxx, n. 4, 1990, pp. 531-548.
72 Vedi W. J. Goode, The Celebration of Heroes. Prestige as a Control System, Berkeley, University of California Press, 1978, pp. 67-70.
73 Sui processi cognitivi di reidentificazione degli esseri umani in relazione alla teoria del riconoscimento di Axel Honneth vedi B. Conein, Reconnaissance et identification: qualification et sensibilité sociale, presentato al convegno De l’inclusion: reconnaissance et identification sociale en France et en Allemagne, 23-25 maggio 2007, Parigi, Maison Heinrich Heine.
74 Nell’ormai abbondante letteratura antropologica sul tema della schiavitù ho trovato particolarmente utili J. Bazin, Guerre et servitude à Segou, in C. Meillassoux (a cura di), L’esclavage en Afrique précoloniale, Paris, Maspero, 1975, pp. 135-181, C. Meillassoux, Anthropologie de l’esclavage, Paris, puf, 1986, e A. Testart, L’esclavage comme institution, in “L’Homme”, n. 145, 1998, pp. 31-69.
75 Utilizzo il termine nella doppia accezione attribuitagli da Paolo Napoli: da un lato «pratica di governo», dall’altro «funzione del potere giudiziario». Vedi P. Napoli, Naissance de la police moderne, Paris, La Découverte, 2003. Lo studio ricostruisce il processo di instaurazione della «polizia moderna», legata a «misure di regolamentazione» che potevano andare dalla «prevenzione» alla repressione, tra le ultime fasi dell’Ancien Régime e la Rivoluzione francese.
76 Il tipo di inquietudine che si manifesta nel passaggio al momento formale è al tempo stesso anche una vertigine (nel senso in cui ne parla R. Caillois, Les jeux et les hommes, Paris, Gallimard, 1992 [trad. it. L. Guarino, I giochi e gli uomini: la maschera e la vertigine, Milano, Bompiani, 2000]) e un godimento. La vertigine è il godimento di una riflessività che ci consente di prendere coscienza del mistero dell’istituzione e della sua fragilità: è l’istituzione ad agire oppure siamo solo noi? Siamo noi, ma insieme a noi opera un entità incomprensibile di cui non siamo che i servitori. Eppure vale anche il contrario: siamo noi che non esistiamo, che siamo un nulla, mere creature di quell’essere che ci conferisce la nostra umile statura, che ci trasmette una parte della sua autorità ecc.
77 In Francia esistono per esempio «decreti ministeriali di terminologia» che servono a fissare l’esatta definizione dei termini, presumibilmente per evitare conflitti di interpretazione in sede di processo. Nel 1988, per esempio, il “Journal Officiel”, la gazzetta ufficiale francese, ha pubblicato un decreto relativo alla terminologia sportiva, organizzato per ambiti, perché una stessa parola può ammettere definizioni diverse a seconda del gioco interessato: per esempio il termine «chandelle» non designa lo stesso modo di imprimere un movimento al pallone nel rugby (up and under) e nel calcio (pallonetto). Il decreto distingue in una prospettiva normativa i termini da «utilizzare obbligatoriamente» e i «termini consigliati», e contiene perfino una lista di «espressioni improprie e termini da evitare» (vedi Centre d’étude du lexique, La définition cit., pp. 262-267).
78 Vedi per esempio M. Segalen, Rites et rituels contemporains, Paris, Nathan, 1998 [trad. it. G. Zattoni Nesi, Riti e rituali contemporanei, Bologna, il Mulino, 2002].
79 Vedi in particolare V. Turner, The Ritual Process: Structure and Anti-structure, Chicago, Aldine, 1969 [trad. it. N. Greppi Collu, Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Brescia, Morcelliana, 1972].
80 Resta il fatto che il bisogno di indifferenziazione al quale fa riferimento il rituale non si realizza mai nel caso del teatro, che non per nulla viene spesso contestato per la distanza che si instaura tra spettatori e attori, denunciata come inautenticità (pensiamo alla Lettera sugli spettacoli di Rousseau, secondo il quale uno spettacolo moralmente rispettabile sarebbe una festa che il popolo regala a se stesso). Vedi J. Barish, The Antitheatrical Prejudice, Berkeley, University of California Press, 1985. Molte espressioni del teatro contemporaneo vivono della ricerca (spesso vana) di procedimenti in grado di colmare quello scarto. Si pensi ai vari esperimenti condotti sulla falsariga del teatro della crudeltà di Antonin Artaud, che a sua volta si ispirava al modello del rituale.
81 Victor Turner (Il processo rituale cit., pp. 114-122) descrive proprio in questi termini alcuni rituali africani di intronizzazione di un capo nel corso dei quali il futuro leader è costretto a trascorrere una notte intera – la vigilia della cerimonia – in compagnia di una schiava che tratta come se fosse una moglie, vestito di stracci. Deve restare accovacciato in segno di vergogna e ricevere insulti senza protestare, per manifestare – afferma Turner – la tensione tra la fragilità dell’uomo di carne, che è polvere come tutti gli altri, e la maestà dell’incarico che sta per essergli conferito, trasformandolo in un capo.