1 Vedi L. Boltanski e L. Thévenot, De la justification. Les économies de la grandeur, Paris, Gallimard, 1991.
2 Vedi B. Karsenti, L’expérience structurale, in “Gradhiva”, n. 2, 2005, pp. 89-107.
3 Sui modi in cui la sociologia in gestazione ha modificato il senso della parola «società», che sul finire del xvii secolo si discosta dalla sua prima accezione (la buona società) e passa a designare una collettività della quale si può parlare anche senza riferirsi in modo diretto agli individui che la compongono, e in un secondo tempo sull’equiparazione implicita tra queste collettività e le popolazioni che si trovavano a condividere il territorio di uno stato nazione, vedi R.A. Nisbet, The Sociological Tradition, New York, Basic Books, 1966 [trad. it. La tradizione sociologica, Firenze, La Nuova Italia, 1977] e P. Wagner, Liberté et discipline. Les deux crises de la modernité, Paris, Métailié, 1996.
4 Sulla genesi di questa posizione fondante e più specificamente sul modo in cui Max Horkheimer la colloca nel cuore stesso della teoria critica vedi R. Wiggershaus, Die Frankfurter Schule, München, Hanser, 1986 [trad. it. P. Amari e E. Grillo, La scuola di Francoforte: storia, sviluppo teorico, significato politico, Torino, Bollati Boringhieri, 1992].
5 In un certo senso il metodo foucaultiano imperniato sull’analisi dei micropoteri e dei loro lineamenti di dettaglio si opponeva proprio a questa prospettiva globalizzante. Quelle analisi di dettaglio, però, resterebbero disperse e prive di pertinenza se non fosse per la possibilità di totalizzazione garantita dal concetto di épistémè.
6 Il carattere critico e sistematico delle teorie del dominio, che sovente pretendono di saperla più lunga degli attori stessi sulle origini del loro scontento, ha spesso indotto gli avversari a liquidarle come una forma di follia, assimilazione che il più delle volte scomoda una patologia la cui descrizione, peraltro, è grossomodo coeva allo sviluppo delle teorie critiche e più in generale delle scienze sociali: la paranoia. Quel paragone, del resto, viene formulato esplicitamente dai due psichiatri ai quali dobbiamo le prime descrizioni in lingua francese di questa entità nosografica: il dottor Sérieux e il dottor Capgras, che paragonano il «paranoico» al «sociologo». Come il paranoico vede complotti dappertutto, il sociologo critico scorge il dominio ovunque, perfino dove gli attori stessi (quelli che accusa di esercitare il dominio, ma anche coloro che lo subiscono) non sembrano notare nulla di insolito. «Da questo punto di vista» scrivono i due medici «non sussiste alcune differenza di fondo tra un litigante ossessionato dall’idea di ottenere giustizia in tribunale per la violazione vera o presunta di un suo diritto, un alchimista alla ricerca della pietra filosofale […] e un sociologo visionario che si adopera giorno e notte per diffondere le sue teorie e spacciare le sue innovazioni. […] Grazie alla sua penetrante chiaroveggenza, [il sociologo] ha il potere di scorgere la verità e i rapporti segreti tra le cose anche dove gli altri non vedono che l’opera del caso e coincidenze fortuite» (P. Sérieux e J. Capgras, Délire de revendication, in P. Bercherie (a cura di), Présentation des classiques de la paranoïa, Paris, Navarin/Seuil, 1982, pp. 100-105).
7 Gli oggetti cosiddetti «naturali», al contrario, si contraddistinguono per questa assenza di riflessività, o più esattamente per la loro indifferenza alle rappresentazioni e alle descrizioni del loro modo di essere, a prescindere dal fatto che a rappresentare o descrivere siano persone comuni oppure specialisti muniti di credenziali scientifiche. Le rappresentazioni e le descrizioni possono bensì influenzare le loro condotte – pensiamo soprattutto al caso degli animali – ma solo in maniera indiretta, nella misura in cui modificano l’agire di altri uomini in relazione a quegli stessi enti, il che può indurre altri a modificare di rimando il proprio comportamento (vedi in proposito I. Hacking, The Social Construction of What?, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1999 [trad. it. S. Levi, La natura della scienza. Riflessioni sul costruzionismo, Milano, McGraw-Hill, 2000]).
8 Non è mia intenzione respingere questa distinzione, che oggi viene spesso trattata con sufficienza come «semplicistica». È giocoforza ammettere che essa individua un momento (qualche tempo fa si sarebbe detto una «rottura epistemologica») che le scienze sociali non possono permettersi di revocare senza rischiare di perdere la bussola. Il che peraltro non significa, come vedremo più avanti, che tale distinzione non abbia qualcosa di irrealizzabile. Quanto alle discussioni sull’origine nietzschiana o neokantiana del binomio individuato da Weber (se ne è discusso fino alla nausea), la lasciamo volentieri agli specialisti di storia della sociologia (per un riassunto ben documentato di quel dibattito si può vedere L. Fleury, Max Weber sur les traces de Nietzsche?, in “Revue française de sociologie”, vol. xlvi, n. 4, 2005, pp. 807-839). L’opinione di chi scrive, purtroppo non suffragata da ricerche specialistiche, è che la distinzione weberiana tra fatti e valori procede probabilmente dal prospettivismo nietzschiano, corretto però con una dose di razionalismo neokantiano per consentire alla sociologia di ambire a porsi come scienza. La soluzione adottata da Weber, a dire il vero piuttosto arzigogolata, si fonda come è noto sulla distinzione tra i «giudizi di valore» e il «rapporto al valore». «Fini» e «valori» non possono venire fondati a partire da una scienza, ma una volta fissato un certo tipo di valore di riferimento diviene possibile condurre dimostrazioni «oggettive» servendosi dei metodi del razionalismo per portare in luce «fatti», di volta in volta all’interno della specifica prospettiva individuata.
9 M. Horkheimer, Traditionnelle und kritische Theorie [1937], in Id., Gesammelte Schriften, vol. iv, Schriften 1936-1941, Frankfurt am Main, Fischer, 1988 [trad. it. G. Backhaus, Teoria tradizionale e teoria critica, in Id., Teoria critica. Scritti 1932-1941 a cura di A. Schmidt, Torino, Einaudi, 1974, pp. 135-186].
10 R. Geuss, The Idea of a Critical Theory. Habermas and the Frankfurt School, Cambridge, Cambridge University Press, 1981 [trad. it. L’idea di una teoria critica. Habermas e la Scuola di Francoforte, Roma, Armando, 1989].
11 L. Boltanski, Rendre la réalité inacceptable. À propos de «La production de l’idéologie dominante», Paris, Demopolis, 2008.
12 Va osservato a questo riguardo che non c’è alcun bisogno di definire con particolare chiarezza i «beni in sé» sui quali poggia l’impresa critica (l’espressione è usata da N. Dodier in Leçons politiques de l’épidémie de sida, Paris, Éditions de l’ehess, 2003, p. 19). Ancora meno indispensabile è tratteggiare con precisione i contorni della società che dovrebbe scaturire dall’acquisto di quei beni. In questo le teorie critiche si distinguono dalle utopie, che prendono le mosse da generiche esigenze morali ed eludono a propria discrezione i vincoli imposti dal principio di realtà. Le teorie critiche, al contrario, sono chiamate a legittimarsi in base al discorso di verità delle scienze sociali e contemporaneamente a far valere orientamenti normativi (è proprio questa posizione instabile a renderle interessanti): può accadere, pertanto, che a loro giudizio la realtà non offra una presa sufficientemente salda per consentire di progettare con precisione la società del futuro così come essa apparirebbe una volta estinti i fenomeni di alienazione che la tengono prigioniera, o anche solo per esplicitare con chiarezza i beni che la critica sottintende. Da questo punto di vista le teorie critiche possono eludere almeno in parte il momento della giustificazione, se non altro per quanto concerne le sue modalità etiche. Su questo aspetto si può leggere lo studio che Bernard Yack ha dedicato alla genesi del concetto di alienazione. Quella che lui chiama «la sinistra kantiana», impaziente di comprendere e spiegare il fallimento della Rivoluzione francese, si è adoperata per identificare quei fenomeni che già al di qua di specifiche condizioni politiche incatenano gli esseri umani a una condizione che non consente loro di accedere a una piena umanità. Così facendo i kantiani di sinistra finiscono per convincersi che lo stato della realtà è talmente dissimile dalle condizioni che risulterebbero invece favorevoli al pieno dispiegamento dell’umanità che non risulta possibile immaginare in anticipo quali potrebbero essere i valori che emergeranno una volta portata a termine la rivoluzione, seppure una volta presa coscienza di questo aspetto divenga legittimo formulare critiche e impegnarsi in vista di una «rivoluzione totale» (vedi B. Yack, The Longing for Total Revolution. Philosophic Sources of Social Discontent from Rousseau to Marx and Nietzsche, Princeton, Princeton University Press, 1986).
13 Il capitolo che Michael Walzer dedica a Herbert Marcuse si conclude con queste parole: «Marcuse aveva scelto liberamente la società che intendeva criticare dall’interno. Ma c’erano troppe cose nel modo di vivere americano che lo facevano rabbrividire. Egli scelse di rimanere, conservando però sempre il proprio atteggiamento di distanza, e la sua opera ci fa capire ancora una volta che la distanza è nemica della penetrazione critica. Nelle battaglie dell’intelletto, come in ogni altra battaglia, in fondo si può vincere soltanto sul campo» (M. Walzer, The Company of Critics. Social Criticism and Political Commitment, New York, Basic Books, 1988 [trad. it. L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, Bologna, il Mulino, 1991, p. 242]).
14 Sulle diverse forme di totalizzazione in uso in sociologia vedi N. Dodier e I. Baszanger, Totalisation et altérité dans l’enquête ethnographique, in “Revue française de sociologie”, vol. xxxviii, n. 1, 1997, pp. 37-66.
15 Tenuto conto dell’ottica per così dire strutturalista adottata in questa sezione, ho rinunciato ad abbinare nomi e cognomi agli schemi descritti. Precisare caso per caso come gli autori dei grandi classici di cui si compone il canone della sociologia hanno di volta in volta realizzato il compromesso tra esteriorità semplice ed esteriorità complessa mi avrebbe costretto a operare semplificazioni inaccettabili e necessariamente inesatte o ingiuste, oppure ad aggiungere caso per caso un’infinità di analisi e dettagli che avrebbero trasformato questo breve panorama in un volume autonomo. Il lettore potrà divertirsi a leggere queste pagine come i bambini giocano agli indovinelli (o come gli adulti si sforzano di decifrare un romanzo a chiave). Per dare un aiuto al lettore elenco di seguito alcuni dei nomi ai quali ho pensato mentre scrivevo: Habermas, Honneth, Durkheim, Dewey, Pareto, Weber e naturalmente una schiera di altri autori che si ispirano a vario titolo al marxismo.