4. Impegno scettico e nuova teoria critica
p. 103-149
Texte intégral
Scetticismo dichiarato e non dichiarato
1Quanto detto fin qui può essere condensato in uno slogan: bisogna essere scettici e relativisti, e al tempo stesso non farsi paralizzare dallo scetticismo e dal relativismo. Ciò rinvia all’idea di una nuova teoria critica (o meglio, di un nuovo modo critico di far teoria) in cui il momento centrale non sia dato da questa o quella formulazione, da questa o quella tesi assolutamente immobile, ma di volta in volta da una prospettiva mutevole, in grado di realizzare aperture di visibilità e produrre descrizioni coerenti. Così la teoria prepara se stessa a diffondersi come credenza – e di conseguenza a bloccarsi e a ripetersi come un insieme di punti di vista consueti –, ma anche a mettere in gioco sempre di nuovo le proprie acquisizioni con spostamenti ulteriori dei punti di vista.
2Certo, se si nega la possibilità di giungere a una verità, come nel caso dello scetticismo, o se si pensa che la verità dipenda dalla prospettiva in cui ci si colloca, come nel caso del relativismo, allora – si potrebbe domandare – che senso ha costruire teorie? Questa domanda sobria e sensata pesa sul pensiero scettico-relativistico come un macigno. Ma se si sostiene che dipende dalle teorie stabilire cosa possa esser detto vero o falso, se gli stessi concetti astratti di verità e falsità dipendono dai contesti in cui sono inseriti, allora questa domanda, sebbene sobria e sensata, può essere messa fuori causa. Scetticismo e relativismo vanno intesi, in maniera metateorica, come descrizioni di quel movimento dei punti di vista di cui qualsiasi teoria, anzi qualsiasi processo della conoscenza, si compone. In questo senso, nessuna teoria è in se stessa davvero scettica o relativistica per la semplice ragione che qualsiasi punto di vista, nel momento in cui s’instaura, si presenta come esclusivo – ma il movimento che conduce al di là di essa, verso ulteriori spostamenti dei punti di vista, questo sì può essere descritto come scettico-relativistico.
3È una dimensione che passa per lo più sotto silenzio. In cuor suo qualsiasi teorico sa bene che la teoria cui si affida non è affatto l’ultima, che altre ne sono state elaborate in passato e altre lo saranno in futuro sul medesimo argomento; ma appunto perché ci crede, e poiché ogni teoria è in fondo un orientamento e un dispositivo per il passaggio alla credenza, di tutto questo tace, guardandosi bene dall’inserire la provvisorietà delle teorie nel lavoro teorico stesso. E se anche, come in gran parte della filosofia odierna, un certo scetticismo si diffonde, ciò avviene comunque senza dare nell’occhio, rinunciando tacitamente a qualsiasi teoria. È il caso di quello che in Italia, qualche decennio fa, è andato sotto il nome di «pensiero debole», variante nostrana del cosiddetto postmoderno. Questo pensiero, sostanzialmente scettico-relativistico (non da ultimo per la sua ascendenza nietzschiana), rinuncia a tutto quanto di solido e di organizzato vi sia nelle descrizioni della teoria, e opta per interpretazioni della realtà di un genere più fluido. In questo modo tutto ciò che si fissa nei processi della conoscenza – cioè il costituirsi di qualcosa come la soggettività in essi, nel passaggio dalla teoria alla credenza – è lasciato cadere, senza ulteriore indagine, come residuo metafisico. Il conflitto tra teorie diverse, il collidere di opposti principi della soggettività, l’articolarsi del nesso vero/falso: tutto questo scompare a favore di un pensiero che può essere detto debole solo in quanto è una forma di scetticismo non dichiarato.
4Al contrario, la posizione scettico-relativistica che io sostengo, per quanto moderata, è tuttavia affermata apertamente. Alla sua base c’è l’idea che i processi della conoscenza in generale siano passibili di una doppia descrizione: da un punto di vista interno al movimento dei punti di vista del processo cognitivo in questione (sia esso una percezione, una credenza o una teoria) e da un punto di vista esterno. Solo da questo secondo punto di vista, riflessivo e metateorico, il movimento complessivo della conoscenza si lascia descrivere in termini scettico-relativistici. Ciò significa che, nell’ambito della propria cerchia di punti di vista, una teoria, dopo aver realizzato uno spostamento del punto di vista, fissa sempre una qualche certezza, ossia passa in una credenza. Questa certezza può essere poi osservata da un’altra prospettiva, così da non apparire più tale ma solo un momento transitorio dentro un movimento più ampio.
Su Benda
5La consapevolezza della possibilità di questa doppia descrizione dovrebbe riflettersi nella coscienza dell’intellettuale a sua volta in due modi. Da un lato è evidente che qualsiasi teoria, qualsiasi credenza, qualsiasi presa di posizione, sottoposte a uno sguardo esterno, risultino parziali; dall’altro, poiché all’interno delle rispettive cerchie qualsiasi teoria, ciascuna credenza, ogni presa di posizione sono, pur nella loro provvisorietà, necessarie, hanno come tali un valore incancellabile. Non c’è né da «mediare» la propria posizione in vista di una verità più alta e completa, né da gonfiarla oltremisura come se già si trattasse di quella verità più alta e completa. Si tratta, piuttosto, di costruire le proprie teorie e nutrire le proprie credenze di volta in volta a partire dai punti di vista prescelti, come se nel contesto dato fossero le uniche proponibili – e, ciò nonostante, tenendo d’occhio la transitorietà di quelle stesse teorie e credenze. L’intellettuale deve contare su di esse e insieme non contarci affatto. Potrà così prendere parte, nei diversi contesti, al movimento dei punti di vista restandone nel contempo un po’ fuori, come si addice alla sua funzione critica.
6Tutto ciò implica una nuova libertà nel fare teoria e nel prendere posizione: non uno scetticismo paralizzante, dunque, ma uno scetticismo come principio attivo del moltiplicarsi delle teorie. In contrasto con la tradizione, scetticismo qui non vuol dire affatto ammutolimento dello spirito teorico; vuol dire soltanto suo affrancamento dall’antica subordinazione all’idea di una verità ultima. Fino a quando l’intellettuale se ne riteneva il custode nella lotta contro il falso, due sole possibilità «politiche» gli si aprivano: o difendere i valori tradizionali del chierico come assoluti (la libertà, la cultura e così via), alla maniera di Benda, o tradirli per mettersi al diretto servizio di una causa considerata giusta1. Ma se nel primo caso l’intellettuale cadeva facilmente nell’inefficacia pratica, nel secondo, invece, la sua posizione rischiava di stemperare la difesa della verità con l’adesione a un’ideologia, cioè a un insieme di credenze orientate all’azione in modo immediato. A repentaglio, tra questa Scilla e Cariddi, era o l’autonomia dell’intellettuale o la possibilità di una sua reale incidenza politica. Eppure, a ben vedere, l’una posizione e l’altra, cioè sia quella del difensore dei valori sia quella del chierico militante, hanno qualcosa in comune.
7Questo qualcosa è quanto di difficile, di problematico, di contraddittorio, è compreso sotto il termine «universalismo». Sia come custode dei valori sia come militante, ciò che il chierico originariamente si prefigge è rendere pubblica testimonianza in favore della verità. A essere in gioco sono due versioni dell’idea di verità, ambedue universalisticamente impostate. L’idea di verità si complica e si differenzia al suo interno quando non la si consideri espressione di valori eterni e validi in modo immediato, ma la si riferisca all’affermazione d’interessi particolari dilatabili fino all’universale (e questo anche se lo si fa al fine di liberare la verità dall’intreccio con quegli interessi). Se si prendono in considerazione nozioni come quelle di classe o nazione, cioè proprio quei particolarismi cui Benda rimprovera i chierici di essersi consegnati con il loro tradimento, si vede che anch’essi, non diversamente dai valori intellettuali tradizionali, portano in sé una notevole pretesa di universalità. La caratteristica dei particolarismi, rappresentati rispettivamente dalle idee di nazione e di classe, è infatti di proporre se stessi come momenti universali. L’idea di nazione, classico baluardo della destra, non è per nulla un’idea che sia presentata come particolaristica; anzi, per i suoi propugnatori essa è il grande principio della pacificazione finale di tutti i conflitti, anche quando in suo nome ci si prefigge la sopraffazione di altri popoli, come nel caso del colonialismo e dell’imperialismo. Allo stesso modo, sul versante opposto, l’interesse di classe per un marxista non è affatto particolaristico, almeno quando si parla dell’interesse della classe operaia: perché in esso sarebbe racchiuso il potenziale di liberazione dell’umanità intera.
Il pentimento dei chierici
8Quella che è venuta meno oggi, però, è la fiducia nella possibilità di universalizzare i grandi particolarismi, anche presentando teorie più o meno circoscritte come verità universali e articoli di fede. Ciò che Benda chiamava il tradimento dei chierici, l’abbandono dei valori umanistici tradizionali dell’intellettuale, ha definitivamente smarrito il suo pathos: e questo sia che si tratti di ciò che nel capitolo precedente ho cercato di descrivere come passaggio dalla teoria alla credenza in termini critici, sia che si tratti della semplice acritica adesione a un’ideologia precostituita. Il chierico, già traditore per ansia di testimonianza e di militanza, è apparso deluso e frustrato: pentito di avere consumato il tradimento, di essersi impegnato – senza però che questo pentimento abbia significato un ritorno ai valori tradizionali in quanto assoluti. Percorrere il cammino a ritroso sarebbe stato impossibile: perché nel frattempo erano diventati problematici i presupposti universalistici dell’idea di verità, sia quelli che per Benda erano assoluti e autoevidenti sia quelli che a lungo hanno consentito di presentare momenti particolari come universali. L’universalismo si è rotto in tutte le sue forme, compresa quella che consisteva nella capacità di sublimare i particolarismi. Di qui la delusione, il senso di frustrazione e d’impotenza impadronitosi degli intellettuali: ciò che costituisce, per così dire, la tonalità emotiva del loro pentimento.
9Il tipico cinismo, più che scetticismo, che ne deriva è tacitamente autoassolutorio: un atteggiamento in perfetta sintonia con il pentimento. Sospendere il giudizio, smettere di militare o passare a sostenere l’opinione contraria a quella sostenuta fino al giorno innanzi: queste le maniere in cui si è esplicato il malinconico pentimento dei chierici. Scetticismo è qui prendere atto che, nel mutare dei punti di vista, il vero appare inattingibile, ricavandone quindi la sconsolata rinuncia a qualsiasi giudizio radicale; oppure vuol dire cambiare punto di vista per sputare su quello precedente come se fosse falso. In questo modo lo scetticismo diventa una sorta di girandola insensata intorno alle nozioni di vero e falso, che diventano sempre più evanescenti fantasmi.
10La coppia di universalismo e particolarismo non è più articolabile come un tempo. L’universale appare frantumato, tutt’al più un aggregato di elementi particolari; mentre il particolare non chiede di emanciparsi dal dominio del cattivo universale (come suggerivano i maestri francofortesi) per dare vita a un universale non stritolante: cerca di affermarsi direttamente in quanto particolare. Anche l’esaltazione talora proterva delle differenze rientra nel medesimo quadro. Ciò che nella dialettica hegeliana era il falso in quanto momento unilaterale, separato dalla totalità – a sua volta considerata il vero –, si presenta come il vero senza più mediazione. Vero e falso si confondono, trascorrono senza posa l’uno nell’altro, proprio come il particolare nell’universale e l’universale nel particolare. Quella che agli albori della Scuola di Francoforte poteva ancora essere letta come una dialettica, assume oggi la forma di un paradossale oscillare in cui sta la radice dello scetticismo.
11Il dubbio intorno ai concetti di verità e universalità induce ad abbandonare lo sforzo di orientamento delle credenze, cioè il lavoro critico nei confronti del senso comune, come se non ci fosse più il coraggio di scommettere su nulla. Si tratta di una paralisi indotta dal pentimento – cui naturalmente va aggiunto l’opportunismo, eterno portato della rassegnazione. Se l’Unione Sovietica ha fatto bancarotta, se la rivoluzione culturale cinese degli anni sessanta ci appare retrospettivamente un incubo stalinista, se in Cambogia c’è stato Pol Pot, allora tutto è permesso – qualsiasi forma di compromissione, qualsiasi azzeramento dell’identità morale e politica –, perché ciò che bisogna credere è giusto il contrario di ciò che avevamo creduto: così pensa il chierico che un tempo si disse impegnato. Lo scetticismo dei pentiti in fondo si è ridotto a questo. Ma questo scetticismo elementare, fondato sul senso di colpa, sembra dimenticare la banale circostanza che le teorie e le credenze, come le prese di posizione, hanno un significato solo nel contesto in cui si collocano; e se con il senno del poi appaiono sbagliate, ciò non ci esime affatto dal costruire ancora teorie, dal nutrire ancora credenze, dal prendere ancora posizione.
12Quello che al di là della rottura dell’universalismo vorrei allora prospettare come alternativa è uno scetticismo militante e attivo, un impegno scettico, dunque, che sia il contrario dello scoramento. A partire da una consapevolezza metateorica scettico-relativistica, cioè dalla consapevolezza che ogni teoria, ogni credenza, ogni presa di posizione, hanno un significato di volta in volta contestuale e quindi un valore limitato, ma che proprio in questo, d’altronde, esse trovano la loro funzione come momenti insostituibili del più generale movimento dei punti di vista in cui consiste la conoscenza, – a partire da qui, è possibile reimpostare la questione dell’impegno degli intellettuali al di là della supremazia dell’idea di verità. L’universalismo non si rompe secondo linee di frattura univoche e nette, che consentano di distinguere tra universale e particolare, così da poter puntare, in maniera tardodialettica, sul singolo individuo quale punto di resistenza al dominio totalizzante; si rompe invece secondo linee frastagliate e ambigue, che cancellano virtualmente la stessa distinzione tra universale e particolare. Questo implica che universalismo e particolarismo debbano essere messi sullo stesso piano. Così anche la tesi di Sartre riguardo alla contraddizione che sussisterebbe tra il particolarismo della posizione sociale dell’intellettuale, legato alla classe dominante, e l’universalità della sua funzione, rivolta all’umanità intera, non è più sostenibile2. Non si tratta infatti di tematizzare le categorie dell’universale e del particolare, e le forme del loro possibile raccordo, ma di assistere invece, con occhio disincantato, al loro disgregarsi sotto lo sguardo di un impegno scettico.
La posizione di Sartre
13Sartre non avrebbe mai accettato, per via della sua formazione fenomenologica, una concezione del soggetto che non ne facesse la fonte da cui scaturiscono certezze autoevidenti. E il punto di contatto tra la fenomenologia e lo scetticismo classico (mi riferisco qui a quello scetticismo che anche per Cartesio, in un certo senso l’inventore del metodo fenomenologico, è l’indispensabile rovello da cui prendere le mosse per giungere al cogito) è dato dal fatto che il medesimo soggetto, da cui le certezze provengono, le può sospendere scetticamente a suo piacimento. Ciò che la coscienza costituente della fenomenologia ha in comune con la coscienza dissolvente dello scetticismo classico, è insomma il suo non essere sottoposta a nient’altro se non a se stessa. In Sartre anche nella concezione dell’intellettuale, benché modificata da consistenti apporti marxistici, si riflette questa visione della coscienza. La verità che può essere fatta e disfatta, che la coscienza assume come contenuto ineludibile del suo impegno e come risultato di una «situazione» in cui resta impigliata, ma che un attimo dopo essa stessa può rovesciare per riprendersi la sua libertà, riscoprendosi ogni volta come «coscienza infelice», in bilico tra il particolare e l’universale, quella verità sempre revocabile e mai definitiva, è erede del metodo fenomenologico e del suo obiettivo convergere con lo scetticismo. I frequenti capovolgimenti di giudizio di Sartre – il suo essersi schierato con Stalin e poi contro Stalin, a favore della rivoluzione cubana per diventarne poco dopo un critico, dalla parte del Vietnam contro l’aggressione americana, ma anche a favore dei profughi del boat people quando la guerra era conclusa, e così in mille situazioni diverse, e certo ogni volta con ottimi argomenti – denotano un impegno per nulla dogmatico, anzi in un certo senso un impegno scettico ante litteram. Ciò che la coscienza nella sua libertà esprime, è il fluttuare dell’idea di verità tra l’universale cui aspira e il particolare in cui è presa. Le contorsioni di questa verità mobile, tutt’uno con l’inquietudine dell’impegno, sono in fondo le contorsioni stesse dell’universalismo occidentale. In essa infatti si ritrovano sia la tensione verso una verità unica e certa, coestensiva al mondo, sia il rovesciarsi di questa tensione, il suo rompersi e aprirsi in direzione di una pluralità di punti di vista particolari.
14Ma uno scetticismo ulteriore, di secondo grado (come quello proposto nel secondo capitolo di questo libro) che non si lasci incantare dalla pura autoreferenzialità della coscienza, tratta quest’ultima come qualcosa di nient’affatto originario, qualcosa che dentro la più ampia costituzione della soggettività è per definizione in ritardo. Se infatti è dalla ripetizione degli spostamenti dei punti di vista che si formano i soggetti, la coscienza, in quanto coscienza di una ripetizione, arriva solo post festum. Capita perciò alla coscienza intellettuale impegnata di prendere posizione su fatti già accaduti, su ripetizioni già in atto, su soggetti già costituiti. Di qui, si direbbe, la sua inquietudine strutturale. Sartre, pur senza sospettare il contenuto scettico del suo infinito rincorrere l’attualità, era a suo modo consapevole della inanità dei suoi sforzi quando affermava, all’incirca: «L’intellettuale è uno che quando qualcun altro fa qualcosa ci scrive un libro sopra».
15Per esempio, prima c’è la ribellione anticoloniale in Algeria, poi viene la giustificazione della violenza da parte dell’intellettuale impegnato, che contribuisce a sostenerne la causa mediante uno sforzo di universalizzazione. Sartre ha cercato di mostrare che stare dalla parte della rivoluzione algerina significava accettarne la violenza (compresi gli attentati terroristici), perché questa era lo strumento attraverso cui l’uomo colonizzato veniva riappropriandosi della sua essenza umana. In questo modo egli inseriva in un contesto più ampio la questione della violenza nelle lotte di liberazione – nell’ambito di ciò che può essere detto l’universalmente umano –, e denunciava come ipocrita e borghese la posizione di coloro che erano disposti a difendere il principio astratto del diritto dei popoli all’autodeterminazione ma non la violenza e la lotta armata rivoluzionaria. In un certo senso, proprio alla maniera di Benda, questi intellettuali erano fautori dei valori eterni del chierico. Alla loro «falsa» universalità, Sartre opponeva un’idea di universalità che riuscisse a diventare «vera» a partire dal particolare. E in questo quadro, dunque, anche la violenza trovava la sua legittimazione come momento di rottura della «falsa» universalità.
16Ma poiché per Sartre il conflitto era tra il vero e il falso, e l’intellettuale partecipava della «falsità» o «verità» a seconda che scegliesse di porre il suo sapere al servizio della classe borghese o della liberazione dell’umanità intera, proprio per questo il suo impegno si esercitava in una sorta di autocritica ininterrotta. La dimensione scettica restava nascosta a se stessa sotto l’ipertrofia di una coscienza inquieta, cioè sotto il dubbio costante intorno alle scelte di volta in volta compiute. L’impegno di Sartre era di fatto scettico; il modo di teorizzarlo però non lo era; anzi si presentava, lo ripeto, come una ricerca dell’universalità «vera» di contro a quella «falsa». La nozione di «coscienza infelice», alla base dell’impegno sartriano, definiva, per opposizione, le condizioni in virtù delle quali la coscienza intellettuale avrebbe potuto cessare di essere separata, immersa nel particolare e perciò infelice. Queste condizioni consistevano nella possibilità di una revoca della frattura tra il particolare e l’universale: in definitiva, nel raggiungimento di una conciliazione tra la funzione particolare dell’intellettuale, frutto della società divisa in classi, e la destinazione universale del suo sapere.
17Ora, uno scetticismo conseguente sta soprattutto in questo: nell’impossibilità di pensare una qualche conciliazione come dispiegamento di una «vera» universalità. Ogni teoria, ogni credenza, ogni presa di posizione sono soltanto mosse transitorie nel gioco dei punti di vista. Perciò un impegno scettico – che consiste nel prendere posizione e anche nell’orientare il passaggio della teoria in credenza, ossia nell’intervenire con mezzi teorici dentro il senso comune – non può in alcun caso lamentare la sua mancanza di definitività, il suo carattere contingente (e, nella contingenza, tuttavia necessario, perché assolve la decisiva funzione di spostare i punti di vista); così facendo, infatti, si candiderebbe in partenza all’autocritica ininterrotta, in fondo al pentimento, e mostrerebbe inoltre di non avere alcuna consapevolezza dei limiti e del significato del suo impegno. Non pare dunque del tutto casuale che tra i primi pentiti, alla fine degli anni settanta, ci siano stati proprio i sartriani o comunque intellettuali molto vicini a Sartre. Ma non vale certo pentirsi dell’appoggio dato alla causa del Vietnam solo perché quel paese successivamente ha dato pessima prova di sé, mostrandosi oppressivo e guerrafondaio. Quella presa di posizione era valida in se stessa, a prescindere dall’ideologia attraverso cui all’epoca si pretendeva di giustificarla. Fa parte di un impegno dogmatico e ideologico, ispirantesi chissà a quale ortodossia, l’idea di regolare le diverse prese di posizione su un codice di principi immutabili. Un impegno scettico, invece, si riferisce a situazioni determinate, a contesti non generalizzabili, a eventi irripetibili entro cui le diverse soggettività instaurano le loro ripetizioni come un ritorno di punti di vista – ed entro cui, soltanto, la presa di posizione dell’impegno può di volta in volta scattare.
18È una conseguenza di quell’autocritica dell’illuminismo di cui ho parlato nei capitoli precedenti, o meglio è una sua prosecuzione, il fatto che l’impegno si presenti come scettico, senza alcuna pretesa di universalità e pronto a mutare. L’impegno scettico, infatti, ha come punto di riferimento soltanto le soggettività che negli spostamenti successivi dei punti di vista man mano vengono costituendosi. Non bisogna dimenticare che anche l’ambito della teoria, cioè della conoscenza apparentemente più astratta in cui lo spostamento del punto di vista è più radicale, subisce al suo interno un certo ritorno dei punti di vista: ovverosia non può non fissarsi, passare nella sfera della credenza, e costituirsi, per esempio, nei termini di quel soggetto conoscente tipico della tradizione filosofica. L’impegno, la presa di posizione da parte di una coscienza intellettuale, servono allora a sostenere e a rafforzare determinate credenze rispetto ad altre, determinate forme di costituzione della soggettività, con i loro interessi contrapposti ad altri interessi: e questo modo d’intenderlo si colloca giocoforza al di là della classica distinzione tra il particolare e l’universale.
19Nell’illuminismo storico l’impegno politico e sociale degli intellettuali (o dei philosophes, com’erano detti all’epoca) era un aspetto della loro vocazione cosmopolitica, della missione del dotto rivolta all’umanità intera. Ogni loro presa di posizione era già in sé espressione dell’universalismo occidentale. I valori dell’Occidente, proiettati su larga scala, intendevano realizzare il trascendimento dei particolarismi. La concezione sartriana si colloca dentro questa scia: e in quanto riconosce una scissione tra l’intellettuale come depositario di conoscenze tendenzialmente universali e l’utilizzazione sociale particolaristica delle stesse, punta soltanto a una forma di universalismo più autentico. Rispetto alla missione del chierico illuminista, immediatamente e felicemente coincidente con l’universalismo occidentale, l’impegno sartriano viene complicandosi, partecipando, come ho già ricordato, della figura hegeliana della «coscienza infelice». Ma proprio in questo modo resta all’interno della coppia di particolarismo e universalismo, praticando uno scetticismo identificabile, tutt’al più, con la pura autoreferenzialità della coscienza.
La posizione di Foucault
20Per trovare una concezione dell’intellettuale in linea con l’illuminismo autocritico – e quindi al di là del puro e semplice universalismo illuministico –, bisogna rifarsi invece alla teoria di Michel Foucault dell’intellettuale «specifico»3. Secondo Foucault il compito dell’intellettuale militante non consiste né nel difendere i presunti valori assoluti, alla maniera di Benda, né nel propugnare un’idea di universalità più autentica alla maniera di Sartre: piuttosto nell’intervenire in campi specifici del sapere, dentro determinate relazioni di potere, cercando di spostare le forze in campo mediante delle prese di posizione, e per modificare, con il lavoro della teoria, il punto di vista con cui guardare fenomeni solo apparentemente scontati e neutrali. Un esempio di ciò, forse il più limpido, è dato dal lavoro di Foucault sulle prigioni. Impegnato negli anni settanta nei gruppi d’intervento sulla condizione carceraria, Foucault si dedica di pari passo allo studio della «genealogia» della prigione. Il suo Sorvegliare e punire è un esempio di ricerca genealogica e insieme di teoria critica (nel senso in cui ne ho parlato nel capitolo precedente). Questo libro propone infatti una concezione che, nel presentare un fenomeno vecchio sotto una luce nuova, non si accontenta, come il più delle volte accade, di scivolare verso qualcosa di relativamente fisso e immobile – cioè, in modo più o meno impercettibile, verso una credenza –, ma promuove essa stessa questo passaggio nel tentativo di orientare il senso comune verso una critica dell’istituzione carceraria. L’obiettivo che Foucault si prefigge non è di raggiungere una verità definitiva, ma di produrre «effetti di verità» in contrasto con quelli diffusi intorno alle prigioni. L’espressione «effetto di verità» allude alla consapevolezza, in sostanza scettica, che la verità non sia qualcosa che si possa raggiungere, magari attraverso la progressiva adeguazione dell’intelletto alla cosa: perché essa è il teatro di una lotta entro cui alcune tendenze possono affermarsi solo nel dissidio con altre. Non è il campo della conciliazione, insomma; è il campo del conflitto anche sanguinoso. D’accordo con Nietzsche, Foucault ritiene che non vi siano fatti oggettivi ai quali sforzarsi di adeguare le interpretazioni e i discorsi, ma solo discorsi e interpretazioni che costruiscono i loro fatti corrispondenti.
21Questo prospettivismo radicale – del resto proprio come in Nietzsche e diversamente dall’ermeneutica di marca heideggeriana – non cancella affatto la questione del soggetto. Non si tratta infatti di lasciar dileguare quest’ultimo nel gioco dissolvente delle interpretazioni, o di liquidarlo come uno dei capisaldi della metafisica occidentale; si tratta di studiarne la nascita all’interno delle relazioni di potere, all’interno delle tecniche disciplinari, dentro i discorsi delle cosiddette scienze umane. Foucault stabilisce così un vero e proprio cortocircuito tra il sapere e il potere: in lui, più che essere irraggiungibile o inesistente, la verità ha i mille volti che le relazioni di potere le conferiscono. Nelle sue ricerche storico-genealogiche (da quelle sulla follia a quelle sulla clinica, fino all’indagine sulle tecniche disciplinari, sull’istituzione carceraria, appunto, e infine sulla sessualità) Foucault prende in esame alcuni dei modi in cui viene a costituirsi ciò che l’Occidente ha chiamato «soggetto». Il celebre slogan sulla «morte dell’uomo» (lanciato in Le parole e le cose e per il quale egli si è in seguito, almeno in parte, autocriticato), lungi dall’essere l’annuncio di chissà quale catastrofe, nomina il problema della fine dell’umanismo in quanto discorso solo apparentemente neutrale intorno all’uomo in generale.
22Che il soggetto non sia l’uomo, semmai l’uomo più la sua costituzione, per esprimermi in modo sintetico sebbene a tutta prima un po’ oscuro, o l’uomo nel suo essere bloccato nei diversi contesti in cui è collocato, questo è quanto abbiamo appreso da Foucault. Senza entrare qui in una discussione dettagliata del suo pensiero, mi limito a segnalare che il suo contributo a ciò che chiamo impegno scettico è decisivo. Sbloccare i contesti, tracciare linee di fuga, «muovere verso qualcosa di radicalmente “altro”»4: in ciò si riassume il senso del suo lavoro, la ragione per cui non possiamo smettere di ritornare a lui. Foucault ha mostrato nel modo più limpido che cosa significhi fare teoria critica. Lo ha mostrato semplicemente facendola (cioè non metateorizzando, come sto facendo io in questo libro). Ha messo fuori causa la pretesa di qualsiasi teoria di presentarsi come «vera», rifiutando quindi anche la classica distinzione tra ideologia e scienza, e riprendendo con forza la critica nietzschiana della verità. Ha orientato così il pensiero verso qualcosa di oltreumano (il radicalmente «altro», appunto), prendendo congedo dall’universalismo in una maniera così brusca da lasciare stupefatti. I suoi testi, le sue descrizioni, le sue indagini «locali», contengono un alto potenziale di straniamento nei confronti dell’oggetto e di spaesamento nei confronti del lettore. Ciò dipende in effetti dalla capacità – rimproveratagli da Habermas come un torto – di guardare le cose della cultura occidentale con l’occhio di un etnologo che osservi i riti di una lontana tribù: la tribù occidentale, con le sue usanze e i suoi costumi, con i suoi sacrifici e la sua violenza.
23Pure, le indagini di Foucault sono essenzialmente indagini storiche (del resto una volta ebbe a dirlo: «Io non faccio altro che storia»5), e il suo lavoro ha qualcosa della teoria spontanea elaborata «sul campo». Per la fretta di sbarazzarsi dell’universalismo si direbbe che rinunci anche a qualsivoglia generalizzazione. Così la questione della costituzione del soggetto finisce con il restare confinata in una prospettiva storica. Foucault indaga nei diversi contesti le varie figure al cui interno, di volta in volta, la soggettività si è costituita: il folle, l’ammalato, il delinquente – insomma tutte quelle figure che le cosiddette scienze umane e le tecniche disciplinari hanno ritagliato e «isolato» (nel senso in cui si isola in laboratorio un virus o un batterio) dentro il logos occidentale. Quando, sul finire della sua vita, Foucault ha ripercorso il proprio itinerario – autocollocandosi nella linea che va da Nietzsche a Weber, fino alla Scuola di Francoforte6 –, ha anche criticato, e con ragione, l’atteggiamento dei francofortesi che basavano le loro formulazioni teoriche su indagini storiche di seconda mano, come se, sospettosi su tutto il resto, di queste ritenessero invece di potersi ciecamente fidare. Al contrario, il lavoro di Foucault mostra che la storiografia è il teatro di una lotta ininterrotta per fare apparire i fenomeni in una maniera piuttosto che in un’altra, o certi fenomeni anziché altri. Mai, per esempio, sarebbe stato possibile individuare nel folle la controfigura del sapere occidentale se nella Storia della follia Foucault non avesse osato seguire, scavandola appunto storicamente, la linea di confine secondo cui la ragione nell’età moderna viene separandosi dalla sragione.
24E tuttavia un discorso più ampio intorno alla costituzione del soggetto in Foucault non c’è. Non può esserci, a mio parere, perché questo discorso non può collocarsi all’interno di un orizzonte essenzialmente storico, bensì dentro una teoria della conoscenza di tipo scettico. Soltanto se si concepisce la conoscenza come un movimento ininterrotto di punti di vista, teso a stabilire una distinzione primo piano/sfondo ma anche a capovolgerla di continuo, soltanto così, dalla necessità della ripetizione, si vedrà apparire qualcosa come un soggetto. L’instaurarsi della ripetizione è ciò che permette il mutamento e insieme la stabilità. In virtù della ripetizione, infatti, anche il più radicale spostamento del punto di vista può essere riassorbito e diventare immediatamente il punto di partenza di un nuovo abito cognitivo. Questa la funzione che il principio della ripetizione assolve: tutto può mutare perché tutto può essere ripreso nelle coordinate della conoscenza. Tutto cioè può essere inserito dentro una serie ripetibile oppure darle inizio. Non c’è nulla – nessun contenuto percettivo, nessuna costellazione concettuale, nessuna costruzione teorica – che compaia una volta soltanto nella conoscenza. Il che significa semplicemente che l’esigenza della memoria e quella dell’anticipazione sono insopprimibili. E proprio per soddisfare queste esigenze si formano le soggettività concrete e anche il cosiddetto soggetto conoscente in quanto sapere astratto accumulato.
Trascendentalizzazione
25Ora, la costruzione d’identità tramite ripetizione – di un’identità quindi sempre relativa e approssimativa – implica il ritorno della possibilità di distinguere ogni volta un primo piano da uno sfondo, così da permettere l’osservazione mediante un effetto di contrasto. La strutturazione dell’intero campo della conoscenza, nella forma di un campo visivo, è già di per sé una facilitazione cognitiva: ma ancora di più lo è la stabilizzazione di strutture, di vere e proprie credenze, in quanto facilitazione «addizionale» indotta da un processo di trascendentalizzazione, cioè dall’instaurarsi nella conoscenza di apparenti condizioni preliminari della stessa. In altre parole, un determinato assetto cognitivo, una determinata relazione tra il primo piano e lo sfondo, si ripetono ben al di là del necessario bisogno di strutturazione del campo della conoscenza – e questo solo per via del carattere «addizionale» della facilitazione che producono. A ripetersi non è soltanto la distinzione primo piano / sfondo, che potrebbe presentarsi anche in guise diverse, ma ogni volta una determinata configurazione primo piano / sfondo. Così la ripetizione si propone nella sua forma più crassa e diretta – proprio quella dell’abitudine, non quella dell’abitudine all’abitudine (di cui ho detto nel capitolo precedente), che nella sua forma riflessiva e aperta consentirebbe qualsiasi innovazione. Ciò significa che nell’ambito delle facilitazioni possibili la via più banalmente ripetitiva, e perciò più facile, tende a prevalere sulle altre. In questo modo viene a stabilirsi un a priori nella conoscenza, ossia una maniera bloccata di vedere le cose.
26Qui vanno ricollocate, allora, molte delle questioni poste da Foucault. Se la follia, per esempio, è diventata lo sfondo nero su cui il razionalismo occidentale ha potuto proiettare la sua alterità – quell’«altro» che gli è costitutivamente interno, che non appartiene a chissà quali forme di vita esotiche ma rientra nella costruzione della sua stessa identità –, ciò dipende dal fatto che, per potersi autosservare e distinguere, il razionalismo occidentale ha bisogno dell’effetto di contrasto che la linea di demarcazione tra ragione e sragione consente di stabilire. È ai fini della visibilità di ciò che non è follia, che questa resta bloccata come sfondo immobile. Nulla impedirebbe, in astratto, che la situazione si presentasse rovesciata, che fosse la ragione a fare da sfondo alla sragione (inversione dei termini che appare sul serio messa in atto, d’altronde, nella vigorosa denuncia di Emanuele Severino contro la «follia dell’Occidente»). Ma ciò non accade (o, se accade, accade solo nella testa di un pensatore solitario), perché il senso comune, le credenze diffuse e condivise, cementano la loro autoconsistenza mediante qualcosa di contingente e addirittura di accidentale, in virtù di un assetto cognitivo che si è imposto come abituale, e tuttavia potrebbe anche configurarsi in modo diverso.
27Neanche con il ricorso alle relazioni di potere evocate da Foucault si può dare una spiegazione esauriente di tutto questo. Certo, i rapporti di forza, i saperi per nulla neutrali (primo fra tutti il sapere psichiatrico) concorrono a mantenere l’«altro» nella sua alterità – e quindi, nel caso specifico, a fare della follia lo sfondo oscuro su cui può stagliarsi il profilo luminoso della ragione. Ma la ripetizione, la facilitazione cognitiva inerente alla distinzione primo piano / sfondo in generale, e rafforzata dal ritorno in particolare di una determinata configurazione primo piano / sfondo, tutto questo si afferma come qualcosa di non meno decisivo delle relazioni di potere. La costituzione del soggetto emerge come questione centrale relativamente autonoma. Se la ripetizione è l’aspetto principale dell’organizzazione della conoscenza, ciò deriva dal fatto che il movimento dei punti di vista, in cui pure la conoscenza consiste, richiede una certa dose di autocontrollo. Naturalmente ciò non significa che nessuna novità possa accadere nella conoscenza; significa soltanto che la conoscenza cerca di porre sotto controllo la scepsi, la fuga sfrenata dei punti di vista verso novità sempre ulteriori. Già la strutturazione del campo della teoria nella forma di un campo visivo sarebbe, tuttavia, un elemento d’ordine sufficiente. La distinzione primo piano / sfondo, che come distinzione ritornante permette di mettere a fuoco gli oggetti – dunque di vederli –, è già di per sé questa strutturazione. Ciò che la ripetizione aggiunge, in quanto ripetizione di un determinato assetto primo piano / sfondo, è allora un di più; è il ritornare per vie consuete, ossia la facilitazione indotta dall’abitudine, dalla possibilità di ricondurre l’ignoto al noto. Questa ripetizione è connessa al costituirsi di un soggetto. Non che ogni soggetto sia condannato per ciò stesso senz’appello alla ripetizione: ma certo la possibilità della ripetizione, intesa come abitudine e ritorno dell’uguale – nell’ambito della costruzione, comunque sempre approssimativa, di un’identità –, questa possibilità viene alla luce con il soggetto. È con esso, infatti, che nasce quel di più di facilitazione cognitiva, quell’eccesso di autocontrollo nel movimento dei punti di vista, quella coazione ad anticipare e a prevedere (così come a ritenere e a ricordare), che trova nella ripetizione come mera abitudine, nel suo «niente di nuovo sotto il sole», la chimera di una facile sicurezza.
28In questo contesto s’inserisce l’impegno scettico, e anche la particolare forma d’impegno critico che Foucault ha teorizzato mediante la nozione d’intellettuale specifico. Il suo compito è di tenere anzitutto aperto il gioco dei punti di vista di contro a una forte tendenza alla sua chiusura. Quello che chiamiamo soggetto diventa così il campo di una lotta tra gli opposti principi della conoscenza: l’uno in quanto momento dell’organizzazione intesa come chiusura e ripetizione; l’altro in quanto momento scettico, virtualmente anarchico, mai pago di alcuna abitudine e votato piuttosto alla ricerca di nuovi punti di vista. È chiaro che questi principi sono complementari non meno che opposti, ed è chiaro che l’uno non sussisterebbe senza l’altro; ma è altrettanto chiaro che, priva di un intervento critico-scettico, l’intera conoscenza ristagnerebbe. L’impegno deve perciò orientare le credenze, cercare d’impedire la loro fossilizzazione – e deve al tempo stesso elaborare teorie in grado di spostare i punti di vista. L’espressione «teoria critica» si riferisce a questo duplice compito. Non c’è da preoccuparsi del fatto che la conoscenza non sia sufficientemente solida e strutturata, perché anzi soffre spesso di un eccesso di autocontrollo e, a causa dell’abitudine, sopporta un di più di facilitazione che la blocca; bisogna preoccuparsi, invece, d’inoculare in essa senza posa il virus scettico.
Micropoteri
29Le soggettività concrete (cioè gli individui, che di volta in volta possono essere in sintonia o in contrasto con l’astratto soggetto conoscente, così come con la mentalità predominante in una determinata forma di vita) si trovano dinanzi a un’alternativa: o imboccare la strada della più vieta ripetizione o dislocarsi altrove, cercando di strutturarsi diversamente. La teoria del potere di Foucault si occupa appunto di questo: del modo in cui i soggetti diventano il campo di una lotta. Dal superamento dell’umanismo tradizionale, ma evitando al tempo stesso la liquidazione della questione del soggetto, proviene l’attenzione di Foucault per l’intreccio di sapere e potere. Quando Foucault parla dei «micropoteri», si riferisce in sostanza alle tecniche di soggettivazione, ossia alla maniera in cui gli individui sono stati resi soggetti (anche proprio nel senso di assoggettati), e di come ciò avvenga in virtù di un gioco strategico complesso, all’interno del quale essi fanno esperienza sia della loro autonomia sia della loro eteronomia. Quello che ho chiamato l’astratto soggetto conoscente – seguendo la tradizione filosofica, ma soprattutto in riferimento alle esigenze di stabilizzazione immanenti ai processi cognitivi – è in larga misura ciò che Foucault, studiandolo nei termini di un «a priori storico», vede come la tonalità particolare dei discorsi e dei saperi nelle diverse epoche: coincide con ciò che lui chiama «episteme» e, successivamente, «ordine del discorso»7. Esso delimita lo spazio eteronomo entro cui gli individui si collocano: ma definisce in negativo anche la loro autonomia, l’ambito della loro libertà. I micropoteri, in quanto contesti determinati di sapere e potere che diventano tecniche disciplinari, fissano infatti i soggetti alla loro ripetizione. La revoca di questa, tuttavia, la rottura dei contesti bloccati entro cui si collocano i micropoteri, sono fenomeni che rientrano allo stesso titolo nella loro cerchia, e a loro volta sono affermazioni di potere.
30L’autoreferenzialità, caratteristica della concezione del potere di Foucault, può essere posta in sintonia con una teoria del movimento dei punti di vista come quella qui abbozzata. Anche gli spostamenti dei punti di vista – questo va da sé – sono presi in un nesso autoreferenziale, nel senso che ciascuno spostamento rinvia a quelli precedenti e successivi. Ma ognuno di questi può essere visto come un’affermazione di potere (o di contropotere), una mossa all’interno della cerchia dei micropoteri; e viceversa, ogni nuova affermazione, ogni incrinatura, sia pure impercettibile, nella rete autoreferenziale dei micropoteri – per via del miscuglio di sapere e potere in cui essi consistono – implica un movimento del punto di vista. Dunque le relazioni di potere e i processi della conoscenza, pur distinti, risultano intrecciati. Il soggetto e i fenomeni riflessivi della coscienza (compresi quelli della coscienza intellettuale in quanto «impegnata») compaiono nella cerchia dei micropoteri – precisamente là dove s’instaura una ripetizione come capacità di autosservazione e autocontrollo di questi stessi fenomeni. La teoria foucaultiana del potere, per non restare una descrizione di fenomeni puramente storici, deve quindi essere integrata con una teoria della costituzione del soggetto dentro il movimento dei punti di vista; mentre la teoria dei punti di vista, se non vuol essere condannata all’ineffettualità di una pura e semplice teoria della conoscenza, dev’essere posta a sua volta in connessione con la teoria del potere.
31L’interesse della teoria foucaultiana è dato soprattutto dal fatto che essa conduce a obiettiva disgregazione la teoria weberiana del potere o dominio. L’idea dei micropoteri va ben al di là della concezione di un dominio totalizzante, onnivoro, statale e burocratico, da Weber passato in eredità alla teoria critica francofortese. Questa concezione monolitica si disgrega lasciando sul campo una pluralità di micropoteri. Dalla scuola al carcere, dalla famiglia all’ospedale psichiatrico, il potere è ovunque e in nessun luogo. Anzi, il «potere» non è qualcosa di cui si possa dire che sia qua o là, che si possa prendere o occupare e nemmeno lasciare: perché il termine indica una relazione all’interno di un contesto entro cui ci si trova collocati comunque, per quanto ciascuno in una posizione diversa, cioè con un più o un meno di potere. La tesi sulla razionalizzazione e burocratizzazione crescenti (fenomeni nei quali si esprimerebbe per Weber l’essenza del mondo moderno), più che confutata, viene a dissolversi nell’analisi delle mille relazioni del potere-sapere. Foucault tematizza la costituzione del soggetto (sebbene non ancora come l’instaurarsi di una ripetizione all’interno di un movimento dei punti di vista, ma, in maniera riduttiva, come pura costruzione storica) e analizza le tecniche messe a punto per il controllo dei soggetti in quanto individui autonomi ed eteronomi insieme. Quella che in Weber era l’immagine della «gabbia d’acciaio» – e in Adorno del «mondo amministrato», orrore estremo di un dominio astratto e razionalizzato che ricoprirebbe l’intera terra –, nell’analisi di Foucault è il rapporto concreto dell’allievo di un collegio con il superiore, di un soldato con il caporale, del carcerato con il carceriere, di un operaio con il capofficina: relazioni, queste, in cui il momento della subordinazione gerarchica è tutt’uno con il momento dell’adesione quasi spontanea a una disciplina.
32Così, diversamente dalla concezione totalizzante adorniana, al potere-sapere è sempre possibile opporre un potere-sapere di segno contrario. Il compito dell’intellettuale specifico foucaultiano è appunto quello di cercare di produrre rotture nella rete dei micropoteri attraverso l’immissione di nuovi saperi. Ciò che in Adorno restava testimonianza, cioè rifiuto dell’impegno esplicito, è per Foucault invece possibilità concreta di rottura. Si pensi al vasto campo che va sotto il nome di «scienze umane». Non v’è dubbio che con la psichiatria, la psicoanalisi e così via, si alimenti di continuo un senso comune che fa della credenza nel sé individuale, nella sua dipendenza da strutture profonde, la figura concreta del soggetto assoggettato della nostra epoca. Per Foucault si tratta di produrre discorsi, e quindi effetti di verità, che modifichino il discorso corrente sull’uomo contemporaneo. Questo vuol dire «muovere verso qualcosa di radicalmente “altro”»: il progetto magniloquente e un po’ confuso del superuomo nietzschiano è ripreso dall’intellettuale specifico foucaultiano come critica dell’uomo così com’è, cioè di come il potere-sapere dominante nelle scienze umane vuole che sia.
33Al tempo stesso viene meno l’idea (marxista non meno che weberiana) che il potere abbia il suo centro nell’apparato statale. Un cuore del potere non si dà, come non si dà un cuore della conoscenza. Perché il soggetto non è la sorgente da cui essa scaturisce: piuttosto esso stesso è risultato e funzione di una congerie di processi privi di centro. E come non ci sono né un centro del potere né un centro della conoscenza, così non c’è neppure un centro della comunicazione: ovverosia, con buona pace di Habermas, nessuna finalità a essa intrinseca verso l’intesa e l’accordo tra i soggetti.
Potere e comunicazione
34Quello della comunicazione è un nodo intricato ma teoricamente decisivo. Habermas, sulla scorta di Parsons e Luhmann, considera il potere, alla stregua del denaro, come un mezzo di comunicazione; e al tempo stesso – in maniera dichiaratamente duplice – tende a svincolare il suo concetto di agire comunicativo dalla onnipervasività dei media del denaro e del potere. Giunge così a prospettare una «comunicazione libera dal dominio». E sebbene questa sia solo un’ipotesi controfattuale o una pura idea regolativa, riveste tuttavia un ruolo fondamentale nel suo pensiero, che così si lascia alle spalle l’analisi empirica optando per una prospettiva quasi trascendentale. La teoria non è concepita anzitutto come una descrizione dei fenomeni e in seguito, eventualmente, come una proposta normativa: è direttamente quest’ultima cosa, puro wishful thinking su come le cose del mondo dovrebbero andare. Invece, attraverso Foucault, è possibile mettere in chiaro che la comunicazione non può essere svincolata dalle relazioni di potere: non resta sospesa nell’atmosfera rarefatta delle regole e dei principi, perché in un certo senso il potere è la posta in gioco di ogni comunicazione. Che si tratti di un dialogo genitore-figlio, della trasmissione di un comando o di una dichiarazione d’amore, di una conversazione politica o di un talk-show televisivo, di un articolo di giornale o addirittura di un’opera d’arte, è sempre possibile trovare, mediante l’individuazione del punto di vista appropriato, l’aspetto di potere di una comunicazione8.
35Un’affermazione così netta richiede qualche delucidazione. Innanzi tutto bisogna chiarire che cosa s’intende per potere: essenzialmente, un insieme di relazioni e di procedure entro cui viene a restringersi il campo di selezione degli individui. E questa restrizione avviene sia al livello delle azioni sia al livello cognitivo, nel senso della formazione di credenze relativamente stabili. Perché vi sia potere, non è sufficiente che qualcuno si adegui a un ordine semplicemente eseguendolo, ma anche che lo faccia, in una certa misura, autocontrollandosi, cioè credendo di doverlo eseguire. Secondo questa definizione, quindi, se qualcuno fosse legato mani e piedi da un altro, questa non potrebbe essere detta una relazione di potere: perché il potere è un gioco che implica sempre la possibilità del «non-gioco»9 dell’altro. E parimenti, un dominio assoluto, sul tipo di quello realizzato nei campi di concentramento nazisti (il cui spettro, tra parentesi, ha avuto un grande peso sul pensiero adorniano), non potrebbe essere considerato una relazione di potere: perché mirare a restringere il campo di selezione e di azione dell’altro, cioè orientare le sue scelte, significa volere ottenere da lui qualcosa come un consenso, per quanto questo non sia mai del tutto spontaneo ma sempre manipolato. Nemmeno le tecniche disciplinari di Foucault – che pure, in quanto investono i corpi, sono le forme di potere più dirette che si conoscano – escludono la possibilità che ci si sottragga a esse mediante il loro contrario, cioè con l’indisciplina.
36Dunque quest’accezione del termine «potere» mal si concilia con il significato tipicamente francofortese di «dominio», secondo cui, in senso restrittivo e insieme totalizzante, qualsiasi potere sugli esseri umani avrebbe come sostrato un più generale dominio sulla natura interna ed esterna all’uomo, e qualsiasi forma di potere sarebbe riconducibile alla forma dominio. Il termine «potere» rinvia piuttosto a una costellazione concettuale che è quella del potere come mezzo di comunicazione. In questo contesto, perciò, la distinzione terminologica tra «dominio» o «signoria» (Herrschaft), da un lato, e dall’altro «potere», «potenza», o meglio ancora «influenza» (Macht), risulta molto utile se si tiene presente che è la capacità d’influire sugli altri l’aspetto comune a tutte le forme di potere. La concezione di Parsons e Luhmann (pur con le notevoli differenze tra questi due autori, di cui non posso occuparmi qui), che vede nel potere un mezzo di comunicazione, concentra l’attenzione sul fatto che il potere si esercita in una relazione e comunque attraverso dei mezzi simbolici (un’esortazione scritta o orale, uno sguardo imperioso, delle parole particolarmente persuasive, o un messaggio pubblicitario più o meno subliminale, e così via); mentre invece la teoria del dominio non tiene in alcun conto l’aspetto della comunicazione, e procede in modo quasi monomaniacale a scoprire ovunque la medesima essenza autoritaria e repressiva propria della razionalità strumentale. Finisce così col valere, per la teoria francofortese del dominio, un’obiezione analoga a quella che si può muovere alla nozione di tecnica in Heidegger (del resto assai vicina a quella di razionalità strumentale derivata da Weber): di essere una categoria a maglie troppo larghe, buona a troppi usi: a criticare la piega presa dal pensiero occidentale fin dalle origini, la «perdita di senso» e il nichilismo del mondo moderno, la distruzione della natura e delle forme di vita tradizionali in virtù di una modernizzazione onniavvolgente – e chissà che altro ancora.
37Al contrario, la nozione di una pluralità di centri e di tecniche del potere – la teoria foucaultiana dei micropoteri, dalle più concrete e corporee tecniche disciplinari alle più astratte e formali procedure giuridiche – ha il vantaggio di non totalizzarne il campo d’intervento. A ogni potere, in linea di principio, è possibile opporne uno di segno contrario: si può, cioè, resistere e sfuggire alle maglie di uno specifico potere, pur restando all’interno della sua logica autoreferenziale in generale. Questo accade perché il potere, in quanto mezzo di comunicazione, è una struttura simbolica generalizzata10 cui nelle diverse situazioni è possibile conferire una molteplicità di significati tra loro contrastanti. È propria del simbolo, infatti, una costitutiva ambiguità, il suo prestarsi ai più svariati significati e alle più svariate interpretazioni. Così il potere assume in modo proteiforme connotazioni diverse a seconda dei contesti: può essere una volta un controllo di polizia, un’altra l’intervento di un direttore scolastico, un’altra ancora l’ispezione di un carceriere e così via. Ma può essere anche la «risposta» a tutto questo – sfuggire a un posto di blocco, fischiare il direttore, organizzare una rivolta carceraria – in quanto affermazione di un contropotere. E può essere inoltre, come dicevo, qualcosa cui per lo più non si attribuisce alcuno speciale contenuto di potere, sebbene questo appaia invece immediatamente non appena si scelga una certa ottica di descrizione – nel caso, per esempio, di una proposta erotica.
38Vediamo d’illustrare questo esempio. Non si tratta qui dell’episodio scontato del capufficio che insidia la segretaria, o di altri consimili, in cui l’eros e la funzione di autorità banalmente si sostengono a vicenda; si tratta di far emergere la specificità del rapporto di potere dentro qualsiasi corteggiamento o dichiarazione amorosa. Il potere penetra nella costruzione del sé11 che riceve la proposta, restringendone il campo di selezione sia nel senso dell’azione sia in quello cognitivo. Il soggetto è indotto infatti a scegliere proprio l’oggetto erotico proposto tra gli infiniti altri possibili; e, anche senza sceglierlo, dovrà comunque tenere conto di questa esclusione e delle eventuali conseguenze. Se poi l’obiettivo cui mira il proponente è di passare dalla struttura simbolica del potere a quella dell’amore, la scelta erotica dovrà stabilizzarsi come una credenza durevole nel partner ed essere riconosciuta in quanto tale. La capacità d’influenza consiste allora nel condizionare la costruzione del sé del ricevente inducendolo a modificare il suo sguardo su di sé: proprio in questo, d’altronde, consiste la seduzione. Ma il ricevente, in quanto partner dell’interazione, giocherà a sua volta delle mosse all’interno della relazione: potrà accettare o rifiutare la proposta, oppure né accettarla né rifiutarla, bensì rovesciarla e cercare di sovvertirne la logica trasformando il mezzo di comunicazione «potere» nella posta di un gioco più complicato. Potrà per esempio cercare a sua volta di modificare lo sguardo dell’altro su di sé: e potrà farlo sia nel senso di una semplice inversione della direzione del gioco, operando una specie di controseduzione, sia nel senso di un mutamento del tipo di relazione, tentando di spiazzare il partner, passando magari dalla sfera dell’eros a quella della semplice amicizia. Quello che non potrà, tuttavia, è sottrarsi a questa relazione complessa e alle possibilità che essa implica: perché è preso nel gioco, e anche uscirne è una mossa prevista dal gioco stesso.
39Dall’esempio si ricava insomma che il potere non è affatto qualcosa che abbia a che fare solo con la sfera politica: anzi, in quanto mezzo di comunicazione, può operare dentro qualsiasi comunicazione, anche in combinazione con altri media (si veda il caso del passaggio dal potere all’amore). Al tempo stesso, proprio perché è una struttura simbolica, il potere diventa la posta in gioco, qualcosa cui conferire un significato anziché un altro, e di cui impossessarsi per orientare la comunicazione in un modo piuttosto che in un altro. La presa di parola da parte di minoranze oppresse (o, nel caso delle donne, di una maggioranza oppressa) assume sempre questo carattere di lotta intorno al potere, intorno alla capacità d’influenza. Le situazioni comunicative sono situazioni aperte, addirittura rovesciabili, non in quanto riescano ad affrancarsi dal potere, ma proprio in quanto in esse c’è il potere come posta in gioco. Se ne fossero libere, invece, non ci sarebbe più la possibilità – sia detto contro Habermas – di esprimere i conflitti nella comunicazione. Essi cadrebbero allora fuori dalla comunicazione simbolicamente organizzata, nella sfera della nuda violenza.
40Tutto ciò avviene naturalmente nell’ambito della cultura occidentale: si riferisce alla capacità di una certa forma della comunicazione, almeno secondo la sua autorappresentazione apologetica, di ridurre la violenza e d’includere nella propria rete sempre nuovi soggetti e argomenti. Ma per una teoria critica, che nasce e si sviluppa in questa cultura come metacoscienza della sua coscienza illuministica, metterne in questione l’autorappresentazione è il compito principale. Il nesso di potere e comunicazione limita la presunta capacità d’inclusione della comunicazione occidentale, non diversamente da quello più tipicamente foucaultiano di potere e sapere. Anche qui, ciò che dalla teoria sociologica viene considerato come un semplice mezzo di comunicazione – ossia la verità12 – appare piuttosto, attraverso il nesso di potere e sapere, l’oggetto di una contesa, di una lotta incessante per la produzione di foucaultiani «effetti di verità» (o, nel mio linguaggio, di teorie e credenze che spostino i punti di vista e ne consolidino di nuovi). Fa parte della cultura occidentale, d’altronde, l’idea che vi siano punti di vista e spostamenti dei punti di vista, teorie, credenze e soggetti che si costituiscono dentro di esse; una comunicazione fornita di strutture simboliche distinguibili e, al tempo stesso, combinabili tra loro; qualcosa come un sé che si forma nelle diverse situazioni comunicative in quanto capacità di «risposta» a queste stesse situazioni; e infine anche una teoria critica con la sua pretesa di orientare le credenze e mettere in movimento il senso comune.
41Della cultura occidentale la teoria critica è la coscienza estrema: non più in forma universalistica ma come critica di una forma di vita al cui interno il potere e la verità sono oggetti di una lotta che trova nella comunicazione il suo terreno specifico. Vedere perciò la comunicazione come qualcosa che si estende in modo progressivo e pacifico fino a ricoprire l’intero pianeta, e senza escludere nulla, è del tutto fuorviante: perché al contrario proprio quella dell’esclusione sembra la legge non scritta che regola ogni inclusione nella comunicazione. E ciò non tanto perché per ogni argomento o soggetto che entra nella cerchia della comunicazione un altro non vi entra affatto, o è tenuto accortamente fuori (aspetto, questo, comunque da non trascurare), quanto piuttosto per il fatto che la comunicazione costruisce il sé del ricevente – e lo costruisce in maniera selettiva, espungendo cioè degli elementi e accogliendone altri.
Attribuzione e autoattribuzione
42Il sé del ricevente, sotto il profilo della comunicazione, è qualcosa di analogo a ciò che è il soggetto nella conoscenza. Anche nei processi comunicativi, come in quelli della conoscenza, si fissa e si consolida nella ripetizione un’istanza capace di metterla a frutto. Ciò che altrimenti sarebbe un’iterazione meramente casuale (che il mondo continui ad andare in un certo modo anziché in un altro), riceve il crisma della necessità quando un soggetto, o un sé, se ne fa carico. Un individuo può avere certe caratteristiche psicologiche e non delle altre, può rivestire un determinato ruolo sociale e non un altro – sono tutti aspetti che vengono costruiti in maniera imprevedibile nella comunicazione, ma che il sé fisserà facendoli propri. E questa costruzione è selettiva. La comunicazione seleziona non soltanto gli oggetti e i temi, ma le stesse caratteristiche del ricevente. Il messaggio di una comunicazione, infatti, non dice qualsiasi cosa a chiunque. La sua ricezione dipende dalla relazione che viene a instaurarsi tra l’emittente e il ricevente, dall’interpretazione di quest’ultimo, dal tipo di attribuzione che il ricevente compie nei confronti dell’emittente – e insomma da una serie di variabili che rendono, per usare la terminologia di Luhmann, la comunicazione altamente «improbabile». Per ridurre questa improbabilità, è preferibile che il sé del ricevente sia opportunamente modellato. E ciò è possibile cercando d’imprimere una determinata impronta nella sua ripetizione.
43Ripetere il messaggio, conquistarsi un posto sicuro nella memoria del ricevente: ecco la regola aurea per un emittente che voglia, tramite influenza, orientare stabilmente l’attribuzione del ricevente nei suoi confronti. L’attribuzione è il momento decisivo: la relazione comunicativa dipende dall’intenzione che il ricevente attribuisce all’emittente, dalla fiducia che è disposto ad accordargli, e così via. La domanda che fa scattare nel ricevente l’attribuzione nei confronti dell’emittente, in maniera astratta e sintetica, suona così: se l’ha detto, perché l’ha detto? E soprattutto: in che modo ciò che ha detto mi riguarda o, per meglio dire, riguarda la relazione che ho con lui? Da domande di questo genere partono le attribuzioni più scontate (quelle d’intenzione, di causalità e simili), cui bisogna aggiungere anche le meno scontate, silenziose o addirittura inesprimibili, come per esempio quelle dell’infante nei confronti del sorriso di chi si prende cura di lui. Proprio da questa dimensione inizialmente passiva nasce l’autoattribuzione del sé come effetto di rimbalzo delle attribuzioni effettuate, e quindi come risultato di una relazione immaginaria con l’altro (anche nel senso psicoanalitico di una proiezione sull’altro). È da questo effetto retroattivo della ripetizione delle attribuzioni che si forma un’autoattribuzione relativamente stabile, cioè un sé con un’identità psichica e sociale, sulle cui ulteriori attribuzioni nei suoi confronti l’emittente potrà contare.
44Cerchiamo di chiarire tutto questo con qualche esempio. Se sono timido, e se riconosco me stesso come un timido, questa è la conseguenza di una serie di attribuzioni sugli altri, che, ripetendosi, hanno formato il punto di vista degli altri su di me, o per meglio dire quello che io vivo come il loro punto di vista su di me (il mio apparire dipendente, insicuro, incapace ecc.); e questo punto di vista, fissandosi, ha determinato l’autoattribuzione di una qualità stabile: io sono allora davvero dipendente, insicuro, incapace, e perciò timido. Ora, l’autoattribuzione del sé corrisponde, sul piano della comunicazione, a ciò che è l’autosservazione sul piano cognitivo. Ambedue fissano una coscienza di sé, una credenza su di sé, che può essere modificata ma solo con un certo sforzo. Per descrivere tutto ciò, risulta utile la distinzione tra costituzione del sé (in connessione con la più ampia costituzione del soggetto, ma con un riferimento specifico alla comunicazione) e costruzione del sé. Con la prima espressione si allude a un processo sostanzialmente spontaneo e autonomo; con la seconda, ci si riferisce invece all’eteronomia di questo processo, alla possibilità che il sé sia guidato nella sua costituzione, cioè «costruito», secondo una determinata strategia di potere. I due momenti sono strettamente intrecciati: si tratta infatti di giocare in modo eteronomo qualcosa di autonomo, sicché venga a formarsi un sé docile, che sappia vivere in se stesso come una spinta autonoma ciò che si vuole indurlo a fare.
45Prendiamo il caso della comunicazione televisiva. Non v’è dubbio che il sé del telespettatore si costituisca nella passività di un processo spontaneo, nell’imprevedibile aleatorietà di un guardare che è anche, in un certo senso, un sognare ciò che si guarda: compiendo così delle attribuzioni sull’emittente che si rovesciano in autoattribuzione. Questo passaggio dall’attribuzione all’autoattribuzione può essere osservato nel fenomeno del divismo televisivo come fenomeno prodotto dalla semplice ripetizione. In virtù di questa, il telespettatore può arrivare a proiettare il proprio sé, narcisisticamente, sul suo beniamino, che gli diventa familiare con le sue apparizioni regolari, confermando l’identità del telespettatore nella sua attesa periodica. Così ciò che era aleatorio, e quindi improbabile a causa della passività spontanea del processo di ricezione, diventa invece probabile grazie alla ripetizione seriale propria delle trasmissioni televisive. Lo stesso carattere d’immagine, tipico delle apparizioni in video, favorisce il processo di fissazione della ripetizione in cui il sé consiste. L’elemento visivo, con la sua vivacità, si presta infatti più di ogni altro al rimbalzare delle attribuzioni in autoattribuzione: perché nel riconoscere il proprio beniamino, e nel riconoscersi in lui, lo spettatore riconosce immediatamente se stesso. La televisione trasforma ciò che è pubblico, condiviso da molti, in qualcosa di familiare e di privato: e in questo modo propone dei modelli d’identificazione del sé molto forti.
Autonomia ed eteronomia del sé
46Ora, questa costruzione è selettiva nel senso che interviene nella spontanea costituzione del sé facendo pendere il piatto della bilancia da una parte piuttosto che dall’altra, ossia privilegiando certi aspetti rispetto ad altri. Ciò avviene orientando la ripetizione – che in ogni caso è l’elemento dentro cui il sé si costituisce – verso una sua forma preordinata: nell’esempio, quella della serialità televisiva alla quale il sé è indotto a uniformarsi. L’immagine dell’altro, attraverso cui in generale si precisa l’identità come distinzione di sé dagli altri, è preconfezionata: sicché a determinate attribuzioni nei confronti dell’emittente corrisponde una determinata autoattribuzione del sé. Ciò che è spontaneo e autonomo si fa allora eteronomo attraverso l’immagine televisiva, che entra nel processo di costituzione del sé anticipandolo e prestrutturandolo; mentre nel contempo ciò che è eteronomo pervade la sfera autonoma del sé del ricevente. Quella che per la fenomenologia husserliana, e la sua libera coscienza «originariamente costituente», era la prefigurazione di un orizzonte di attesa da confermare o da smentire si propone al telespettatore, invece, come un’esperienza cui aderire senza possibilità di conferma o di smentita: perché in quell’orizzonte, già da sempre riempito, sta iscritta la costruzione anticipante del suo stesso sé.
47Siamo rinviati così a un concetto di comunicazione come qualcosa di tutt’altro che separato dal potere. Proprio la possibilità estrema, rivelata dalla comunicazione televisiva, di un sé del ricevente modellato dall’emittente, conferma la tesi circa il nesso inestricabile di comunicazione e potere. Ma questo nesso non è affatto totalizzante. Anche nel caso della comunicazione televisiva, nel caso della costruzione del sé del ricevente da parte dell’emittente, è possibile ipotizzare una «risposta» che consiste nell’uscita del sé dalla passività propria del ricevente – e che può andare dal gesto di spegnere l’apparecchio fino al tentativo di mettere su una televisione alternativa. La comunicazione (compresa quella televisiva) delimita il campo di un conflitto di micropoteri. Se un tempo, agli albori della civiltà moderna, nei collegi e nelle scuole si tentava di realizzare, mediante tecniche d’intervento sui corpi, l’utopia disciplinare d’individui autonomi e al tempo stesso perfettamente controllati, oggi le tecniche audiovisive tentano di realizzare a distanza un’utopia analoga. Ma la costruzione di un sé docile, vuoi con la disciplina vuoi con la serialità televisiva, implica comunque la possibilità del non-gioco, della rottura della ripetizione, della ribellione. I micropoteri sono tali in quanto nessuno di essi esaurisce del tutto il campo del potere. E al micropotere televisivo può essere sempre opposto, in linea di principio, un altro micropotere.
48Del resto la passività non è la stessa cosa dell’inerzia. Dire che il sé si costituisce in una dimensione ricettiva, passiva, operando attribuzioni che rimbalzano in un’autoattribuzione relativamente stabile, non significa dire che il sé sia in balia degli eventi: piuttosto che esso ha dei «vissuti», e che questi sono manipolabili. Ma proprio perché manipolabili, questi vissuti sono suoi, appartengono a lui, e sono effettivamente manipolati nella misura in cui il sé è costruito attraverso una selezione e un dosaggio di elementi: quegli stessi, comunque, rintracciabili già nella sua costituzione autonoma. L’esigenza funzionale d’identità e di relativa stabilità che nella comunicazione sovrintende alla costituzione del sé – effetto retroattivo di una serie di attribuzioni ripetute e vissute come «identiche» – è qualcosa di spontaneo e autonomo. Ma la via che questa ripetizione prende, la qualità delle attribuzioni ripetute che si rovesciano in autoattribuzione – tutto questo può essere predeterminato, teleguidato dall’esterno. Io posso attribuire a qualcuno le più mirabolanti e taumaturgiche virtù, e in conseguenza di ciò acquistare forza e fiducia in me stesso. Se ciò avviene dentro un processo comunicativo in cui, pur restando in una posizione passiva, mi rifletto in un’immagine dell’altro da me stesso prodotta, questo rientra nella costituzione autonoma del sé (potrebbe essere il caso della «sopravvalutazione» dell’oggetto amoroso, considerata da Freud come un aspetto essenziale dell’amore). Se invece l’attribuzione all’altro di mirabolanti e taumaturgiche virtù, avviene in un ambito ritualizzato (se l’altro, per esempio, è lo stregone di una tribù), allora si può dire che il sé è eterodiretto nella sua costituzione, o addirittura che non esiste più, identificandosi in tutto e per tutto con la ripetizione rituale e con una comunicazione preordinata. Con i mezzi di comunicazione di massa, in particolare con la televisione, il sé del ricevente è per l’appunto eterodiretto attraverso una siffatta ripetizione di tipo rituale. In seno alla comunicazione moderna, si ripropongono così le caratteristiche di una cultura tribale.
49Ciò tuttavia non deve indurre a ritenere che si sia realizzata la profezia del «villaggio globale» alla McLuhan, ossia che quella tendenza a una rete integrale della comunicazione si sia dispiegata per intero. Questa visione apparteneva all’utopia tecnologica degli anni sessanta e settanta – cui corrispondeva del resto, con segno uguale e contrario, l’utopia antitecnologica dei contestatori di quegli anni. Viceversa, bisogna vedere la sfera della comunicazione dell’Occidente, e quindi della sua tecnica, come qualcosa che funziona tramite inclusione ed esclusione al tempo stesso. È come se la comunicazione perdesse continuamente da un lato ciò che guadagna dall’altro. Se il mezzo televisivo presenta le caratteristiche di un nuovo tribalismo, ciò non fa parte di chissà quale destino connesso al dominio planetario della tecnica: piuttosto è l’indice del fatto che esso impone al sé modelli d’identificazione e di comportamento mediante una ripetizione la cui forma è rintracciabile anche nelle culture tribali. Includendo e anzi costruendo un certo modello del sé, con ciò stesso, la comunicazione ne esclude altri che nella cerchia della comunicazione non compariranno mai né come riceventi né tanto meno come emittenti13. Dunque il sé di una tribù non occidentale, il sé africano per esempio (ammesso e nient’affatto concesso che sia corretto, qui, parlare di qualcosa come un sé), è escluso dalla comunicazione perché non può essere costruito al suo interno in quanto risponde a una logica culturale diversa; oppure, se viene incluso, può esserlo soltanto creolizzandosi, talvolta diventando una poltiglia indistinta. Così la grande comunità tenuta insieme dalla comunicazione, la sua città planetaria, si rivela sempre un po’ ristretta, limitata, non troppo diversamente dalle piccole e chiuse comunità locali.
Rottura della ripetizione
50Se tutto questo avviene, è in virtù della ripetizione. È indefinitamente ripetendosi, pur con le inevitabili variazioni, che una cultura riafferma di continuo se stessa. Se è lecito assimilare l’operare dei mezzi di comunicazione di massa ai riti di una cultura tribale, ciò non dipende dalla ripetizione dei singoli contenuti proposti, quanto piuttosto dalla ripetizione del sé del ricevente che quel tipo di comunicazione prevede e programma. Lo spettatore di un telegiornale è un individuo mediamente bene informato, educato, civile, proprio come il telegiornale lo ipotizza e lo fabbrica. Il celebre slogan di McLuhan «il medium è il messaggio» dovrebbe essere trasformato in il medium è il sé, intendendo con ciò che il sé del ricevente viene costruito nella ripetizione. Così la liberazione, o meglio l’affermarsi di un potere diverso da quello imposto dalla comunicazione dominante, è la rottura della ripetizione.
51Si può stabilire, a questo proposito, una stretta analogia con quanto dicevo riguardo alla facilitazione indotta dall’abitudine e sul carattere «addizionale» della stessa, che fa sì che questa si fissi ben oltre la sua funzione e resista anche là dove sarebbe possibile dare inizio a una nuova serie mediante l’instaurazione di una nuova abitudine. Come la facilitazione «addizionale» sul piano propriamente cognitivo, così il sé, nell’ambito della comunicazione, è il prodotto della ripetizione, che potrebbe svolgersi altrimenti, tuttavia, assumere un altro assetto se solo si riuscisse a orientarla in maniera diversa da quella corrente; mentre tende a replicare se stessa, a essere piatta ripetizione, per via di quella facilitazione cui il sempre-uguale dà luogo. Proprio qui si vede l’utilità della distinzione tra costituzione e costruzione del sé, attraverso cui si cerca di pensare la possibilità di una rottura della ripetizione che non significhi la soppressione (peraltro impossibile) di qualsiasi ripetizione. Necessaria è infatti la costituzione del sé in un gioco di attribuzioni ripetute che precipitano in autoattribuzione; per nulla necessaria ma contingente è la forma che la ripetizione assume, cioè lo specifico orientamento selettivo messo in campo dalla comunicazione.
52Grazie a questa distinzione, si può ipotizzare un mutamento del sé che non sia catastrofico ma del tutto accettabile. Diversamente dalla teoria di Horkheimer e Adorno, il sé di cui qui si discorre non è legato a doppio filo al dominio: non è, imprescindibilmente, l’agente del dominio dentro la soggettività. Se si modifica la maniera della costruzione del sé all’interno della comunicazione, dunque, ciò non significa farne saltare tout court la costituzione, intaccarne il principio di dominio che sarebbe poi tutt’uno con quello d’identità. Al contrario, un cambiamento del sé – cioè dell’istanza deputata a ricevere i messaggi, a interpretarli e a fornire la base per ulteriori comunicazioni – implica il suo dislocarsi nel campo della comunicazione e il cambiamento del suo contesto. La comunicazione non rimane la stessa quando al suo interno mutano le modalità di ripetizione e d’identità: e tuttavia procede comunque, non impazzisce affatto – così come nessuna palingenesi si verificherebbe, né chissà quale crollo dell’identità, se l’individuazione si sciogliesse, se l’Odisseo della Dialettica dell’illuminismo prestasse ascolto al canto delle Sirene facendo irrompere dentro di sé la natura. Questa prospettiva implicherebbe una ristrutturazione del sé, una sua diversa posizione come ricevente (di quel magico canto, appunto), ma non il suo collasso con la fine del dominio in generale.
Personalità autoritaria versus narcisistica
53Una visione del genere è in sintonia con lo spostamento d’accento da una teoria del potere come dominio a una teoria del potere come capacità d’influenza anche nella sfera d’indagine psicologica sulla personalità. La vecchia teoria critica era incentrata su un concetto come quello di «personalità autoritaria»14, da considerare oggi in buona parte obsoleto. In breve, a un Io (in senso psicoanalitico) sempre più debole corrisponderebbe un Super-io sempre più sadico e aggressivo, che reprime le pulsioni. La personalità autoritaria è allora quella tipica dei regimi dispotici, con la loro aperta violenza sopraffattrice; ma è anche quella più discreta dell’individuo consumista dell’era del capitalismo postliberale. Non c’è scampo al totalitarismo secondo la vecchia teoria critica – e il suo approccio totalizzante intendeva essere proprio la descrizione di un’impasse totale. Ma la personalità autoritaria tramonta (o si trasforma in qualcos’altro) soprattutto a causa del grande sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, che i maestri francofortesi avevano visto, certamente, e di cui tuttavia non avevano previsto la ricaduta sulla struttura della personalità.
54La personalità autoritaria, chiusa, monologica, fondamentalmente ossessiva, cede il passo a una personalità narcisistica imperniata su di un sé relazionale, collocato preferibilmente nella posizione passiva del ricevente. La ripetizione dell’identità è stata rotta anzitutto dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, con il mutamento di prospettiva dall’Io al sé15. Il potere circolante nella comunicazione non si limita a reprimere le pulsioni, ma (come Foucault ha notato) le sollecita e le «produce» di continuo: si pensi alla pubblicità, ai video porno, ai cosmetici per rendere desiderabili i corpi, alla chirurgia estetica e così via. Nel bailamme comunicativo, l’estetizzazione e l’erotizzazione della vita quotidiana possono anche essere considerate, alla maniera di Marcuse, forme dei «falsi bisogni»: ma poiché labile, in questo campo, è il discrimine tra il vero e il falso, ciò che conta al riguardo è piuttosto la peculiare costruzione del sé qui implicata.
55Questa costruzione è molto più solida di ciò che si potrebbe a tutta prima pensare. La ripetizione instaurata dalla personalità narcisistica – caratterizzata da continue proiezioni e dall’assenza di saldi oggetti interni – è una ripetizione tutt’altro che evanescente, anzi perfettamente stabile e ritualizzata. Nel passaggio dalla personalità autoritaria alla personalità narcisistica, non è l’intensità del sempre-uguale a mutare, ma soltanto la forma della sua organizzazione. Dall’Io costruito sul dominio interno del Super-io, e votato perciò al dominio sulla natura in quanto forza autoriflessiva dello spirito (il Sé della Dialettica dell’illuminismo), l’accento si sposta su un sé fluido, proteiforme, pronto a cedere a qualsiasi canto delle Sirene, cioè a identificarsi con qualsiasi modello gli sia proposto. La mancanza di centro, compensata dall’estrema rigidità della ripetizione, rinvia a una costituzione passiva del sé nel cui ambito la questione psicologica principale può essere espressa con una sola parola – frammentazione: cercare di amalgamare i disparati brandelli delle mille identificazioni narcisistiche solo mediante la potente centrifuga, per così dire, di una ripetizione molto veloce. La serialità televisiva, con le apparizioni dei beniamini che diventano quotidiane, ne è un esempio paradigmatico. Il simulacro di unità, di costanza dell’esperire che l’effetto centrifugante produce nel telespettatore, distingue nella maniera più netta la ripetizione propria della personalità narcisistica da quella della personalità autoritaria. Se la personalità autoritaria era tutta costruita intorno a un ossessivo bisogno di ordine e di riscontri esterni (lo stesso che troverà la massima espressione nel fascismo ed era già in nuce nella versione liberale come ricerca affannosa di riconoscimenti nella vita professionale), nella prevalente personalità narcisistica vige invece il principio autarchico dell’autoconvalida e della non smentita: ognuno può sentirsi un grande, e lo è almeno fino allo smacco che ne abbassa l’autostima e lo sprofonda nella depressione. Chi d’altra parte s’identifica con vuoti beniamini narcisistici, riempiti soltanto dal loro ripetitivo apparire, è anche lui un grande, senza bisogno di conferme ulteriori. Il movimento centripeto che sosteneva l’Io indebolito nel suo rapporto col Super-io, legandolo a un centro interiore, si trasforma in un movimento che, sotto l’effetto centrifugante, trattiene il sé e gli impedisce di perdersi grazie al vertiginoso girare delle identificazioni autoconvalidantisi16.
Micropoteri contro micropoteri
56Un’identità mobile non rende più facile, semmai più difficile, una strategia di resistenza. Non si tratta infatti di opporsi allo strapotere di un’identità monolitica, nella società e dentro i singoli soggetti, attraverso una protesta individuale, come nel programma della vecchia teoria critica: per la semplice ragione che quella identità monolitica non c’è più e forse non c’è mai stata. Bisognerebbe piuttosto cercare di piegare le forme dell’identità mobile a un’intenzione diversa da quella che si esprime nella loro mera ripetizione. Il che significa rinunciare ad aspirare a un mondo completamente libero dal potere (inteso come dominio): rinunciare cioè a quell’idea che in termini filosofici va sotto il nome di conciliazione. La testimonianza del teorico critico, che egli affidava in eredità ai posteri come utopia di un mondo senza dominio, si rivela a posteriori uno sforzo grandioso ma inadeguato all’entità di ciò contro cui intendeva resistere. Di fronte a un potere pervasivo e diffuso, di fronte a un’identità senza centro, non vale il gesto di un eroismo intellettuale che, nel momento in cui si oppone, ingigantisce così tanto il nemico da renderlo invincibile. Il campo che i maestri francofortesi assegnavano al Moloch del dominio andrebbe visto come ricoperto da una fitta rete di micropoteri. Al suo interno si dovrebbe ingaggiare allora – e starebbe forse qui la scommessa – una lotta di micropoteri contro micropoteri. Una lotta senza speranza in una redenzione finale, che ha valore in se stessa e per i risultati che può conseguire di volta in volta.
57Dal punto di vista della teoria, dunque, che è essenzialmente descrittivo, la nozione francofortese di un dominio monolitico passa in quella foucaultiana di una rete diffusa di micropoteri. Sotto il profilo della critica, invece, che è il punto di vista di uno scarto rispetto a qualsiasi descrizione realizzata, l’utopia che faceva da sfondo al programma di resistenza intellettuale della vecchia teoria critica – quella della fine del dominio, appunto – si trasforma nell’affermazione di certi micropoteri rispetto ad altri, e indirettamente nel disegno di un diverso assetto del potere in generale. La nuova teoria critica si rifiuta di presentarsi come custode dell’idea di conciliazione (sia pure nell’estrema forma negativa adorniana) e prende partito all’interno della lotta dei micropoteri. Così, rispetto al «massimalismo» della vecchia teoria critica, la sua posizione è «riformista»: nel senso che non punta a sopprimere il potere tout court, ma solo ad appoggiare la lotta di alcuni poteri contro altri.
Una volta e mai più
58Che cosa significa questo? Cosa significa, come ho scritto sopra, «piegare le forme dell’identità mobile a un’intenzione diversa da quella che si esprime nella loro mera ripetizione»? Ritorniamo all’esempio del telespettatore il cui sé è costruito in una passività ricettiva dalle apparizioni regolari delle sue star. Non v’è dubbio che in questo contesto si può parlare di un’identità del sé diversa a seconda dei diversi modelli d’identificazione proposti: c’è un sé che segue i talk-show, un sé dei telefilm e così via. L’unità del sé del ricevente è data non dalla somma bensì dalla differenza tra queste identificazioni parziali: dall’attesa, per esempio, che permette di passare da una trasmissione all’altra a orari regolari; o al contrario dall’infischiarsene di ogni attesa, saltando senza capo né coda da un programma all’altro. Il denominatore comune tra queste possibilità è comunque la ripetizione cui tutte sottostanno. Posso cambiare canale, passare da uno all’altro, oppure posso disciplinatamente seguire una trasmissione – e basta, non ci sono altre possibilità: sono queste che si ripetono nella chiusura dei possibili propria della serialità televisiva.
59Allora, come si potrebbe spezzare la ripetizione in una struttura rigidamente chiusa come quella proposta dal mezzo televisivo? La risposta sta nel principio sintetizzabile nello slogan una volta e mai più. Con questo voglio dire che un programmista televisivo ideale (e per così dire alternativo) dovrebbe proporsi anzitutto di rompere la serialità televisiva attenendosi alla regola che qualsiasi presentatore, conduttore, personaggio in genere, non possa apparire sullo schermo più di una volta soltanto. Così si potrebbe piegare l’identità mobile del sé, con la sua tendenza alle mille identificazioni, a un’intenzione diversa da quella della pura serialità, a un’intenzione non conformistica ma critica. Con il principio dell’apparizione unica dei personaggi televisivi si provocherebbe un notevole scombussolamento nella costruzione corrente del sé del telespettatore. Sarebbe qualcosa di molto più radicale della presunta «interattività», miraggio tecnico di un’uscita del ricevente dalla passività: perché avverrebbe proprio all’interno di questa stessa posizione passiva. Interrompendo la costanza dell’identificazione indotta dal divismo televisivo, si condurrebbe il sé a fare i conti con la sua passività, costringendolo, attraverso il vertiginoso moltiplicarsi delle attribuzioni, a un’autoattribuzione mutevole, cioè a un’identità più mobile di quella solitamente imposta dalla comunicazione televisiva.
60Tuttavia la ripetizione presto si riproporrebbe. Il sé, facendo di necessità virtù, e rovesciando in autonomia ciò che gli proviene dall’esterno in modo eteronomo, si abituerebbe alla mutata situazione: cioè ancora alla ripetizione, pur nella mancanza di punti di riferimento fissi, trovando anzi, proprio in questa mancanza, l’elemento da ripetere. Un’identificazione ognora cangiante terrebbe allora il sé del telespettatore fermo alla posizione passiva del ricevente: mentre la questione del passaggio dalla «passività» all’«attività», ossia alla posizione dell’emittente, resterebbe (e non potrebbe che restare) sullo sfondo. La proposta qui avanzata, con lo slogan una volta e mai più, rientra nel discorso su un possibile uso critico dei mezzi di comunicazione di massa (in particolare della televisione), ma non lo esaurisce affatto. Essa ha il valore di un esempio volto a mostrare che qualsiasi intervento in questo ambito (da parte di un programmista ideale, di un emittente ideale e finanche di un intelletto divino) deve porsi il problema di una selezione diversa del sé del ricevente, di una rottura della sua costruzione abituale – insomma dell’affermazione di un micropotere alternativo. Ed è un invito a misurarsi con l’autentica sostanza del problema, quella della passività ricettiva e dei diversi modi di trattarla, evitando di coltivare l’illusione o l’inganno di una partecipazione attiva del pubblico televisivo alle trasmissioni che gli sono propinate.
Chiusura dei possibili
61Il discorso intorno all’intervento critico nella comunicazione, e insieme intorno all’onnipresente ripetizione nella sfera della costituzione del sé, riconduce al tema che nella vecchia teoria critica va sotto il titolo dell’industria culturale17. Nella prospettiva di Horkheimer e Adorno, l’apparato industriale e ideologico della cosiddetta cultura di massa è qualcosa che ottunde la comunicazione e instaura la ripetizione come dominio del sempre-uguale. Ogni credenza, ogni diffusione di un senso comune spontaneo, sono distorte in partenza dalla preformazione cui sono sottoposte dall’industria culturale. Rovesciando questa prospettiva, Habermas, per parte sua, parla di un «mondo della vita» come zona franca, per quanto minacciata dai processi di «colonizzazione», e ipotizza una comunicazione libera dal potere. Nella prospettiva che qui mi sforzo di delineare, invece, un certo tasso di ripetizione (nei processi cognitivi come credenza, nella comunicazione come prestazione del sé, se non altro per la memorizzazione delle comunicazioni passate e l’anticipazione di quelle future) è del tutto normale e scontato. Ciò implica che l’industria culturale possa essere descritta come un insieme di micropoteri teso a fissare le forme autonome e spontanee della ripetizione in forme eteronome. Il controllo sul processo lavorativo, così come sul tempo libero, avviene mediante la comunicazione. A differenza di quel che ritiene Habermas, la cui teoria a mio avviso è ancora dipendente dall’idea di conciliazione, non ci si può liberare dai rapporti di potere di cui la comunicazione è intessuta. In questo senso non si dà nessuna zona franca. Ma rispetto alla totale preformazione indotta dall’industria culturale, secondo la visione di Horkheimer e Adorno, la mia prospettiva tende a salvare la sfera della costituzione della soggettività come una sfera almeno parzialmente autonoma e spontanea18.
62Che ci sia qualcosa come un soggetto conoscente in generale, o delle soggettività particolari che nutrono delle credenze, o un sé che si stabilisca come perno dell’interazione e della comunicazione, che tutto questo ci sia, dipende anzitutto dagli spontanei processi della conoscenza e della comunicazione. È in essi che inevitabilmente una ripetizione s’instaura per esigenze funzionali: ma è anche in essi che una teoria critica scopre come questa ripetizione sia più rigida, più monotona, più restrittiva di quello che le presunte esigenze funzionali richiederebbero. La chiusura dei possibili che qualsiasi ripetizione – o che addirittura qualsiasi operazione elementare di distinzione tra un primo piano e uno sfondo – comporta, viene per così dire enfatizzata e dilatata oltremisura, diventando chiusura «addizionale». Questo è il risultato dell’azione del potere, che è perciò sempre micropotere penetrando fin nelle più riposte pieghe della costituzione della soggettività, fin nei singoli soggetti, così spingendo all’apice la chiusura dei possibili propria della ripetizione. Il grado «addizionale» di questa chiusura, che una teoria critica può misurare, è sempre aleatorio, incerto, discutibile. Si può dire: «Questo non è affatto “addizionale” ma è solo il minimo indispensabile». La teoria critica può intervenire, però, e controbattere: «Qui ci sono delle possibilità non viste, chiuse sullo sfondo»; e può farlo in quanto si colloca dalla parte di un micropotere emergente, almeno idealmente, che punta a un diverso assetto della ripetizione, quindi a una diversa chiusura dei possibili – anch’essa, del resto, con il suo bravo tasso di addizionalità che inevitabilmente si ripropone.
Antropologia filosofica?
63Da questa circolarità non si esce. Non si esce dalla necessità della ripetizione e del suo fissarsi al di là di ciò che sarebbe strettamente necessario. Ma benché tutto questo sembri antropologicamente determinato, non può essere indagato con gli strumenti dell’antropologia filosofica, non può essere ricondotto, cioè, a una generica natura umana: non rientra, infatti, in una presunta essenza umana più di quanto non sia il risultato di un semplice accidente. Con questo voglio dire che il caso gioca un ruolo preponderante in questo contesto. Ma al tempo stesso, poiché la sfera della costituzione della soggettività è la sfera di una convergenza, nella ripetizione, di autonomia ed eteronomia, il caso si trasforma in necessità. Se la ripetizione prende una strada anziché un’altra, questo non è per niente qualcosa di necessario ed essenziale. Ma nel momento in cui quella ripetizione s’instaura, con la sua precisa forma, allora non è già più qualcosa di puramente casuale o accidentale, e comincia a mostrare le stimmate della necessità. Perciò le formulazioni dell’antropologia filosofica (per esempio quelle di Arnold Gehlen) sono descrizioni di una chiusura dei possibili che potrebbe essere chiusa sempre altrimenti. In altre parole, ciò cui esse si riferiscono è la circostanza che una chiusura dei possibili deve comunque darsi, assumendo la forma di una struttura antropologica necessaria: ma che la struttura sia questa o quella, ciò viene fissato arbitrariamente dall’antropologia filosofica. La cosa interessante è che ciascuna struttura funziona proprio come se non potesse essere altrimenti. E invece potrebbe esserlo benissimo! Inevitabile è che qualcosa si fissi come una struttura, non che la struttura sia questa e non un’altra. Se l’uomo è l’animale «non ancora stabilizzato», come sosteneva Nietzsche, la sua tendenza potrebbe essere a stabilizzarsi mediante lo sgravio, l’esonero (Entlastung), la riduzione della fatica, secondo l’antropologia di Gehlen; ma potrebbe anche volgersi in direzione contraria, verso il lasciarsi andare, verso una programmatica stabilizzazione della non stabilizzazione, verso un aumento, paradossale e centrifugo, della complessità circostante, anziché verso una sua riduzione. Una volta che la soggettività si è costituita, tuttavia, una volta che la ripetizione ha preso una certa strada, si determina una chiusura dei possibili (per esempio proprio quella cui allude il termine Entlastung), e le altre chiusure restano escluse, la strada alternativa della ripetizione è sbarrata, addirittura invisibile. Perciò l’antropologia riproduce nelle sue descrizioni a livello filosofico, come un gatto che si morde la coda, quello che accade già nella soggettività costituita, cioè nell’oggetto descritto: vale a dire l’esclusione delle altre possibilità, cui tuttavia allude come a ciò che sta sullo sfondo. Ma vi allude inconsapevolmente: ed è per questo che, nelle pagine precedenti, la nozione di abitudine all’abitudine, questa nozione quasi antropologica, con la sua struttura riflessiva e aperta, è più una critica interna dell’antropologia filosofica che un suo recupero.
64Questa critica è utile anche per una discussione intorno al concetto d’industria culturale. A ben vedere, infatti, in Horkheimer e Adorno esso poggia su un’antropologia filosofica implicita, profondamente pessimistica per via della teoria dell’alienazione su cui è incentrata. L’uomo è stato spossessato di tutte le sue qualità umane, l’alienazione regna sovrana. Ciò è il risultato della progressiva estensione del dominio, di cui l’industria culturale è l’apparato ideologico. Ma così i teorici francofortesi devono tacitamente presupporre, se non una natura umana, almeno un’immagine dell’uomo che si sarebbe deteriorata. L’immagine è appunto quella cui rimanda – ma solo come a un posto vuoto, e cioè in negativo – l’utopia della conciliazione, della fine di ogni conflitto. Collocata su questo sfondo, allora, la nozione d’industria culturale sarebbe la descrizione di un vero e proprio smarrimento antropologico. Quella comunicazione entro cui avrebbe potuto risplendere (quasi come l’aura dell’opera d’arte in quanto «apparizione irripetibile di una lontananza», secondo la nota formulazione di Walter Benjamin) l’astro del «meglio», di ciò che potrebbe essere e non è, proprio quella comunicazione viene ridotta dall’industria culturale a semplice contraffazione della «lontananza» e del «meglio» possibile. È con la paccottiglia ripetitiva e indefinitamente riproducibile, con la preponderanza dell’elemento tecnico su quello auratico, del prefabbricato sull’esperibile, che l’industria culturale espropria gli esseri umani della loro umanità. Tutti gli aspetti della «riproducibilità tecnica», anche quelli connessi alla diffusione di massa mediante strumenti come il film o il disco, sono denunciati dai teorici francofortesi come momenti di deterioramento dell’esperienza. L’alienazione è totale. Ci sarebbe, per salvarsi, la possibilità di un rovesciamento della razionalità strumentale: ma essa resta indeterminata, e il dominio si perpetua come alienazione generalizzata.
65A questa visione sostanzialmente bloccata, una nuova teoria critica sostituisce una visione dinamica della costituzione della soggettività. Al suo interno un certo tasso di ripetizione è scontato: fa parte del costituirsi spontaneo della soggettività nei processi della conoscenza e della comunicazione. E a questo tasso di ripetizione, per così dire di base, devono essere ricondotte le prestazioni dei mezzi di comunicazione di massa in quanto strumenti della «riproducibilità tecnica». Essi non fanno altro che corroborare la costituzione della soggettività sotto due profili: sotto il profilo del rafforzamento delle credenze mediante la loro diffusione come opinioni nel senso comune, e sotto quello della costruzione del sé del ricevente in quanto perno della comunicazione, grazie alle funzioni del ricordare e dell’anticipare. Fin qui la tecnica è solo uno strumento di quella ripetizione aperta, di quell’abitudine all’abitudine, in cui consiste qualsiasi forma di soggettività costituita. Ma appena questa costituzione avviene, fin dal suo abissale inizio, per così dire, qualcosa di più tenace s’insedia nella sua ripetizione.
Caso necessario
66Questo qualcosa non si riesce a nominarlo in un altro modo se non dicendo che si tratta di un caso che si fa necessario. Con questo ammetto di trovarmi dinanzi a un che d’irrazionale, di fondamentalmente inspiegabile, per il quale non si riesce a indicare una ragione funzionale intrinseca, ma di cui si può soltanto dire che accade. Non si può dire perché le lunghe abitudini prevalgano sulle «brevi abitudini» consigliate da Nietzsche, perché la ripetizione si fissi in forme stereotipate più di quanto sia utile al mantenimento della soggettività, e spesso, anzi, fino a diventare controproducente. Si può solo asserire che questo accade tanto da apparire necessario. E accade anche nella comunicazione, per via dei mezzi di comunicazione di massa, che in se stessi sarebbero semplicemente degli strumenti utili a sollecitare e ad accrescere la memoria e la diffusione del sapere, e sono invece quasi sempre strumenti di manipolazione e di potere che mirano alla ripetizione «addizionale», cioè alla conservazione dello status quo. Certamente essi possono essere piegati a sostenere interessi alternativi, e sarebbe anzi questo il compito di un loro possibile uso critico (raccomandato del resto anche da Adorno in un’intervista, guarda caso proprio televisiva, a Umberto Eco); ma per la loro stessa struttura instaurano facilmente rapporti di tipo autoritario: docili alle esigenze dei forti, difficili da usare per i deboli. Ciò accade in quanto la costruzione del sé del ricevente che realizzano, e in un certo senso presuppongono, incrementa – e poggia su – una ripetizione fondata sull’esclusione, nemica di ogni cambiamento nell’ordine del mondo.
67Per descrivere questo insieme di fenomeni avrebbe ancora senso usare concetti come quelli di dominio e alienazione, logorati a tal punto da spiegare tutto e niente? Può essere considerato ancora valido un apparato teorico d’impianto freudo-marxista al cui interno la repressione delle pulsioni è in rapporto con l’espropriazione della forza-lavoro umana da parte del capitale, con il massiccio prevalere del valore di scambio sul valore d’uso e quindi con la mercificazione universale? Non appare ormai vaga e generica questa impostazione teorica che ipotizza chissà quale invisibile macropotere unico al di sopra dell’articolarsi concreto e visibile del conflitto dei micropoteri? E allora, piuttosto che fornire spiegazioni generiche, non è preferibile ammettere che l’elemento irrazionale che si esplica in una chiusura costantemente «addizionale» dei possibili nella costituzione della soggettività, è qualcosa d’inspiegabile?
68La lotta tra i micropoteri verte sul modo di gestire questo elemento «addizionale». La posta in gioco sembra consistere nel come disporre di quel di più di ripetizione che la soggettività, costituendosi, porta con sé come conseguenza accidentale e insieme necessaria. L’affermazione di un nuovo micropotere, per quanto parziale, modifica l’intera rete dei micropoteri. È l’affermazione di una forma diversa di costituzione della soggettività – ed è soprattutto un diverso modo di disporre della ripetizione «addizionale», un diverso modo di bloccare le abitudini, delineando così un diverso assetto complessivo della società. Perciò l’obiettivo del potere in generale è di produrre ripetizione nell’interesse di qualcuno, cioè di qualche forma di soggettività costituita. Per questo esso non può che diffondersi tramite la comunicazione, non può che essere potere comunicativo.
Impegno nella comunicazione
69In questo quadro, dunque, il compito dell’intellettuale impegnato non può che esplicarsi essenzialmente attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Nonostante sia corretto affermare che la comunicazione è un circolo autoreferenziale dentro cui le critiche sono continuamente riassorbite, ciò nonostante, o forse proprio per questo, l’impegno consiste nell’intervenire nel circolo confidando che qualcosa, nel sé del ricevente attuale, non sia riducibile alla costruzione in cui esso si forma, e cercando di far leva su questo qualcosa. In questo senso ogni impegno muove da un ricevente attuale verso uno potenziale, puramente ipotetico: un ricevente che non c’è ma potrebbe esserci, che si tratta di far emergere e di cominciare a costruire19. Si delinea così un nuovo micropotere, oppure ci si può appoggiare a un micropotere esistente al fine di rafforzarlo. Facendo leva sulla costituzione del sé (che, come ho detto, è altra cosa dalla sua costruzione), si cerca di orientare la sua ripetizione non tanto verso la fine di ogni ripetizione, quanto piuttosto verso una diversa organizzazione di questa, contando sul fatto che le sue forme possono essere interrotte e ricostruite altrimenti.
70Ciò significa spostare il punto di vista consueto. L’intellettuale impegnato, sforzandosi di far muovere i punti di vista, partecipa alla lotta dei micropoteri. E poiché la teoria critica implica un doppio spostamento – uno in quanto teoria che produce nuove osservazioni e descrizioni, e l’altro in quanto critica che rinvia a nuovi interessi, bisogni, desideri –, il teorico critico è l’intellettuale impegnato per eccellenza. Questo sia detto contro l’isolazionismo della vecchia teoria critica, ma anche contro un impegno che si limita a firmare appelli. Se i maestri francofortesi ritenevano infatti di potere esaurire la loro protesta nella pura testimonianza del loro lavoro teorico, non meno riduttivo sarebbe l’atteggiamento di coloro che volessero cimentarsi in continue ed estemporanee prese di posizione. Più appropriato, come si è visto, è l’atteggiamento dell’intellettuale specifico foucaultiano, la cui nozione ha sì una punta antisartriana (contro l’ideale universalistico dell’impegno), ma ha anche una portata più ampia. L’intellettuale può dirsi specifico in quanto cerca di spostare il punto di vista predominante dentro contesti determinati. Egli non si limita a un intervento generico sulle credenze, mira direttamente ai luoghi di produzione del potere-sapere, cioè ai luoghi della formazione «specialistica» del sapere moderno. Per esprimermi in modo sintetico, l’intellettuale specifico, come l’intendo, non mostra soltanto che le credenze sono bloccate e potrebbero essere altrimenti, ma che le teorie in se stesse finiscono con l’essere bloccanti – e che per questo c’è sempre bisogno di un di più di teoria, di muovere ancora i punti di vista e realizzare nuove descrizioni.
Senso comune
71Certo, l’intellettuale specifico, cioè specificamente impegnato, sa bene che qualsiasi rottura della ripetizione è destinata a riprodurla su un altro piano, così come qualsiasi presa di posizione rientra all’interno del medesimo e insopprimibile bailamme comunicativo. Ma questo non è sufficiente a scoraggiarlo. Perché il suo impegno sta nel fatto che, a partire dagli specialismi del sapere moderno, egli afferma il bisogno di un’uscita da questi stessi, di un’apertura alla più ampia vita sociale, formata da una congerie d’interessi contrapposti, nessuno dei quali può essere presentato come risolutivo. Dentro questa congerie egli dunque si schiera, senza alcuna pretesa di poterne prospettare una composizione finale. Un tipo d’impegno che potrà anche esprimersi con i tradizionali strumenti del manifesto, dell’appello e della presa di posizione pubblica su questo o quell’argomento di attualità; la sua funzione più propria, però, consiste nell’orientare il passaggio dalle teorie alle credenze: nell’intervenire nella zona in cui gli specialismi del sapere moderno sconfinano nel senso comune.
72L’ambito del senso comune (della pubblica opinione, del «mondo della vita», della vita quotidiana, o come altro vogliamo chiamarlo) è da sempre l’ambito dell’intervento illuministico. Perciò un impegno che si collochi nel solco dell’autocritica dell’illuminismo dovrebbe porsi anzitutto il problema di ridefinire il suo tradizionale campo d’intervento. Nell’illuminismo storico la nozione di senso comune venne spesso usata per contestare in chiave empiristica i dogmi scolastici e la verità delle proposizioni puramente speculative. Di fronte alle elucubrazioni dei filosofi, il sano buon senso sembrava vederci più chiaro. Ma intorno alla sanità di questo buon senso – messa in dubbio prima dalla filosofia classica tedesca, poi dalla stessa autocritica dell’illuminismo – successivamente si è accesa la discussione. Adorno arriverà a parlare del «sano buon senso ammalato della sua salute», per denunciare con questo il conformismo dei giudizi basati su un senso comune ormai corrotto dall’industria culturale e dal generale deperimento dell’esperienza. Toccherà in seguito a Habermas riabilitare nella teoria dell’agire comunicativo la nozione di senso comune, sia pure indirettamente, attraverso la complessa mediazione della sociologia dei «valori condivisi» (Parsons) e dei concetti, tra loro vicini, di «mondo della vita» e «forma di vita» (Husserl e Wittgenstein), saltando tuttavia a piè pari la feroce polemica di Adorno.
73Non si può non riconoscere, infatti, il carattere marcatamente affermativo di un’idea di sfera pubblica basata sulla semplice condivisione dei valori20. Se si riduce l’intervento illuministico a un richiamo a ciò che i partner della comunicazione hanno in comune in quanto partecipanti a una medesima forma di vita, l’esito conformistico è pressoché inevitabile. La sempiterna tautologia di un principio dell’accordo, che ripete se stesso autoconfermandosi, potrebbe anche coincidere con l’identità accecante di un dominio da cui non c’è scampo, e che ripropone sempre di nuovo il rito del consenso come adesione spontanea degli accecati all’ordine loro imposto. Osservata dall’esterno, con uno spostamento appena leggero del punto di vista, la sfera dei valori condivisi appare così davvero la semplice forma di vita della tribù occidentale: una tribù diversa dalle altre per i suoi usi e costumi, ma uguale a tutte le altre nel considerare questi usi e costumi come esclusivi. E d’altronde: non si può nemmeno sottovalutare la circostanza che il tessuto tradizionale del senso comune sia lacerato e irrimediabilmente deteriorato dall’azione del potere diffuso tramite la comunicazione: cosicché la «colonizzazione» del mondo della vita, paventata da Habermas, potrebbe essersi già compiuta – sebbene non tanto nella forma di un dominio univoco e generalizzato, quanto in quella di un conflitto incessante tra micropoteri particolari.
74In questa situazione anche la pacifica e ottimistica osmosi rilevata da Gramsci tra filosofie colte e senso comune popolare, non può che cadere. L’idea di Gramsci che le classi popolari (come del resto gli altri gruppi sociali) abbiano un loro senso comune, un loro buon senso, che è anche il risultato di una sedimentazione della filosofia e della scienza dei colti, impallidisce dinanzi alla rigida specializzazione della produzione del potere-sapere e alla sua massiccia diffusione nella comunicazione sociale. Il conflitto dei micropoteri distrugge non tanto le tradizioni popolari (costrette comunque a resistere e a trasformarsi), quanto piuttosto il rapporto pacifico, seppure ci sia mai stato, tra queste e le elaborazioni filosofiche e scientifiche. La produzione di potere-sapere, sempre più specializzata, si traduce in una lotta di micropoteri sempre più anarchica. Le teorie, filosofiche o scientifiche che siano, passano rapidamente in credenze, consumano in breve tempo la loro carica di novità, e tendono a formare una propria sfera del senso comune separata dalle tradizioni esterne di qualsiasi tipo. Il potere-sapere s’instaura esso stesso come tradizione, come ripetizione di procedure autonome. Perciò, all’intellettuale umanistico universalizzante (quello che sarebbe dovuto diventare «organico» secondo la visione di Gramsci), si sostituisce l’intellettuale specifico, in grado di attraversare gli specialismi del potere-sapere e le tecniche delle comunicazioni di massa.
75Ecco delinearsi, allora, come campo d’intervento dell’impegno intellettuale dei nostri tempi, quello di un senso comune possibile, la sfera di una condivisione dei valori affatto potenziale, di un accordo che non c’è ma potrebbe esserci. Lo spostamento di un punto di vista, l’affermarsi di un micropotere, una presa di posizione non conformistica – sono il profilarsi di un diverso possibile accordo, proposte rivolte a qualcuno anche quando non c’è e rimane un interlocutore puramente ideale. Non l’impegno deve inserirsi nell’ambito di un senso comune preesistente: piuttosto un determinato senso comune viene prospettato dall’impegno e dovrebbe aderirvi. Si tratta in questo caso di un senso comune circoscritto, che rifiuta ogni ecumenismo. La sfera di condivisione dei valori implicata qui non è universale; non comprende l’umanità intera e neppure, in linea di principio, tutti i partecipanti a una forma di vita, ma si compone d’ipotesi e proposte d’accordo rivolte a certuni e non a certaltri.
76Se l’intellettuale «pentito» rovescia semplicemente il punto di vista per sottomettersi al senso comune corrente, bloccando così le proprie credenze allo stesso modo in cui in precedenza erano al servizio di un’ideologia, l’intellettuale impegnato, al contrario, sposta il punto di vista: non si attiene al senso comune attuale, ma si disloca verso uno possibile. Ciò è comprovato, indirettamente, dal fatto che per qualsiasi punto di vista, per qualsiasi credenza, per qualsiasi presa di posizione, è possibile ottenere il consenso di qualcun altro. Nessuna stravaganza lo sarà mai troppo da non riuscire a trovare un altro stravagante che sia d’accordo. Se qualcuno avvista un disco volante, qualcun altro confermerà l’avvistamento: le vie del senso comune sono infinite. La più solitaria delle prese di posizione prefigura un senso comune che potrebbe formarsi al di là di ogni aspettativa. Ciò non significa, naturalmente, che l’impegno intellettuale debba sostenere chissà quali bizzarrie o difendere, magari per puro spirito di contraddizione, qualsiasi causa anche la più sballata; significa soltanto che esso non deve lasciarsi intimidire dal senso comune attuale, non deve rassegnarsi dinanzi alla sua terroristica solidità. Di sensi comuni, infatti, ce ne sono molti, e molti altri sono possibili. È in riferimento a queste possibilità sempre emergenti, mettendo in campo una molteplicità di punti di vista, attraverso la continua rivedibilità dei suoi giudizi, che l’impegno si definisce come scettico.
Notes de bas de page
1 Cfr. J. Benda, Il tradimento dei chierici, Torino, Einaudi, 1976.
2 Cfr. J.-P. Sartre, In difesa degli intellettuali, in Id., L’universale singolare, Milano, il Saggiatore, 1980, pp. 27-75.
3 M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977.
4 Parole dello stesso Foucault riportate in D. Trombadori, Colloqui con Foucault, Salerno, 10/17 Cooperativa Editrice, 1981, p. 6.
5 Ivi, p. 69.
6 Cfr. M. Foucault, Il problema del presente. Una lezione su «Che cos’è l’illuminismo?» di Kant, in «aut aut», 1985, n. 205, pp. 11-19.
7 L’indagine sull’a priori storico, cioè intorno alle condizioni di possibilità dei discorsi, conosce un’interessante linea di evoluzione in Foucault dalla nozione di «episteme» (Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967; L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971) alla lezione su L’ordine del discorso (Torino, Einaudi, 1972), fino alla successiva formulazione del concetto di potere-sapere. La mia impressione è che, con lo spostamento di accento dal piano propriamente storico a quello dell’analitica del potere, l’indagine di Foucault veda crescere il tasso di alea presente in quelle condizioni di possibilità, sottoposte alla mutevole lotta dei micropoteri, e quindi non più descrivibili come un a priori di volta in volta unico nelle diverse epoche.
8 Sottolineo che si tratta di una possibilità dipendente dall’osservatore. Il che, in altre parole, permette eventualmente di non vedere il potere, che così può sempre assicurarsi un certo grado d’invisibilizzazione. Ho precisato tutto questo nel successivo Trattato dei vincoli cit., introducendo il concetto di attribuzione di potere.
9 Ho sentito personalmente Foucault esprimere questo concetto durante uno dei suoi seminari al Collège de France nel 1979.
10 Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Milano, il Saggiatore, 1979; Id., Sistemi sociali, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 277 sgg.; N. Luhmann e R. De Giorgi, Teoria della società, Milano, Angeli, 1993, pp. 65-168. Per l’origine del concetto di «mezzo di comunicazione», cfr. T. Parsons, Teoria sociologica e società moderna, Milano, Etas Libri, 1979, pp. 207-236. È appena il caso di segnalare che m’ispiro molto liberamente alla teoria del potere di Luhmann, proponendone in queste pagine una contaminazione con la concezione foucaultiana del tutto estranea al suo autore.
11 Devo mettere in guardia dalla possibile confusione di questa nozione del sé (con la minuscola) con quella del Sé hegeliano di cui è questione nella Dialettica dell’illuminismo (e di cui si parla nel secondo capitolo). Il sé della comunicazione è l’ego del ricevente identificato e per così dire «raddoppiato» da un’autoattribuzione (cfr. infra); il Sé nella Dialettica dell’illuminismo è lo spirito, in forma soggettiva, come dominatore della natura. Il primo è un concetto di posizione all’interno di una logica nominalistica e prospettivistica; il secondo è un concetto totalizzante di tipo dialettico
12 Secondo Luhmann anche la verità (come il potere, l’amore, il denaro) è un mezzo di comunicazione. Io accetto questa prospettiva teorica, ma vorrei integrarla con la tesi che intorno ai mezzi di comunicazione – e in particolare intorno alla verità e al potere – si accende il conflitto per determinare il significato della loro struttura simbolica (cosa è vero e cosa non lo è, chi ha il potere e chi non lo ha). In questo senso il mezzo di comunicazione diventa la posta in gioco della comunicazione stessa.
13 Quest’analisi appare oggi troppo schiacciata sull’esempio della televisione, il cui modello comunicativo è dato da un emittente centralizzato che si rivolge a una pletora di riceventi dispersi nello spazio e spesso anche nel tempo (nel caso delle trasmissioni in differita). Il computer e Internet hanno reso possibile un tipo di comunicazione a distanza incentrato su una relazione da emittente singolo a ricevente singolo, e viceversa, che configura una relazione analoga a quella «faccia a faccia» basata sulla presenza fisica degli interlocutori. Ciò implica una dilatazione, se non altro potenziale, dell’inclusione comunicativa. Un mutamento da non sopravvalutare ma neanche da sottovalutare.
14 Cfr. T.W. Adorno (e altri), La personalità autoritaria, Milano, Comunità, 1973; e i saggi di M. Horkheimer (tra cui quello su Lo Stato autoritario) contenuti in Id., La società di transizione, Torino, Einaudi, 1979.
15 È un mutamento di prospettiva che si riflette anche nella teoria psicoanalitica (cfr. per es. H. Kohut, Narcisismo e analisi del Sé, Torino, Boringhieri, 1976; Id., La guarigione del Sé, Torino, Boringhieri, 1980).
16 Di sicuro il narcisismo è implicato nella stessa personalità autoritaria: Adorno, sulla scorta del Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io, mette in luce il tornaconto, narcisistico appunto, che le masse fasciste traggono dall’investimento pulsionale sul capo (cfr. La teoria freudiana e la struttura della propaganda fascista, in T.W. Adorno, Contro l’antisemitismo, Roma, Manifestolibri, 1994). Va perciò sottolineata la differenza tra un narcisismo traslato su un unico capo, tipico della personalità autoritaria, e un narcisismo come quello dell’odierno individualismo di massa, caratterizzato dalle mille identificazioni con beniamini per così dire pluralisti.
17 Vedi supra, pp. 94 sgg.
18 Parzialmente autonoma e spontanea, ma pur sempre nella comunicazione. Si nota in questo passaggio un’elaborazione ancora insufficiente del rapporto tra la costituzione del sé e la comunicazione nelle sue differenti «versioni» a seconda che in essa prevalga questo o quel medium simbolicamente generalizzato, sia pure in combinazione con altri. Non tutte le comunicazioni sono sottoposte al potere; tutte però possono sottoporvisi indipendentemente dalla loro caratterizzazione specifica: il potere è il mezzo ibridante per eccellenza. Su questo punto rinvio al mio Trattato dei vincoli cit., pp. 250 sgg.
19 Si palesa qui, nei confronti di un engagement come quello sartriano basato sulla perenne inquietudine di una coscienza sempre in ritardo rispetto agli oggetti dell’impegno, uno scarto significativo introdotto dalla distinzione tra la costituzione e la costruzione del sé. In breve, l’impegno interviene pur sempre per modificare i soggetti costituiti (come in Sartre), ma cerca di prefigurare, dentro ripetizioni già in atto, forme differenti della ripetizione possibile, orientando la costruzione del sé del ricevente in maniera diversa da quella corrente. Si rivolge, in altre parole, a un pubblico inesistente ma da costruire. Il che implica una consapevolezza critica circa l’uso dei mass media, la cui funzione naturaliter conservatrice era sottovalutata da Sartre. Cfr. anche Il destino dell’intellettuale cit., pp. 46 sgg.
20 Quello del «condividere» sembra essere l’interesse esclusivo non solo di Habermas e di un certo pensiero liberale progressista, ma anche di posizioni molto radicali che cercano altri spazi di condivisione dei valori, altri «luoghi comuni» (cfr. P. Virno, Mondanità. L’idea di «mondo» tra esperienza sensibile e sfera pubblica, Roma, Manifestolibri, 1994). Non si considera che, prima del «condividere», c’è il «non condividere» come spostamento del punto di vista, uscita dalle credenze comuni in quanto prefigurazione di un senso comune soltanto possibile.
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