3. Il concetto di teoria critica
p. 69-101
Texte intégral
Ruolo dell’antropologia culturale
1Nel capitolo precedente ho cercato di ricostruire, sia pure in modo sommario, la linea di pensiero dell’autocritica dell’illuminismo da Nietzsche ai francofortesi, lasciando consapevolmente sullo sfondo un momento che vi rientra a pieno titolo, ed è anzi uno dei suoi più importanti: quello dell’irruzione dell’antropologia culturale. Di solito non si sottolinea, o non si sottolinea abbastanza, quale vertiginoso spostamento del punto di vista sia implicito nell’apertura di un campo di ricerche come quello dell’antropologia culturale. Non si tratta soltanto di un allargamento degli orizzonti, della perdita della prospettiva eurocentrica, ma di una ridefinizione dello sguardo dell’Occidente su se stesso. Si tratta, più precisamente, di uno sguardo esterno su di sé ottenuto per differenza e paragone con le altre culture – quindi di una nuova forma dell’identità occidentale moderna. Se un esempio si può fare di cosa significhi, nella conoscenza, distinguere tra identità e identificazione, questo è offerto proprio dall’antropologia culturale. La prospettiva che identifica le altre culture, osservandole e studiandole, si riverbera su se stessa, modificando l’identità del punto di vista da cui essa si diparte. L’Occidente è costretto a fare i conti, così, con la sua propria estraneità: lo sguardo stupefatto con cui osserva le altre culture gli ricade addosso. La possibilità, paventata da Habermas, che la cultura occidentale, guardandosi con occhio straniato – quasi fosse una cultura «primitiva» tra altre –, veda se stessa sbiadire, non può essere evitata, perché rientra nel processo autocritico dell’illuminismo. E d’altronde non è neppure una possibilità che debba preoccupare, perché l’identità si ristruttura e si ridefinisce di continuo. Se l’illuminismo è il pensiero che non tollera dande, nemmeno il pensiero dell’illuminismo su di sé ne tollera. Lo spostamento del punto di vista non può essere bloccato, nel momento in cui raggiunge un paradossale sguardo dall’esterno, soltanto per timore del paradosso. Del resto ciò che qui è davvero in questione – sia detto ancora una volta – è l’universalismo dello sguardo occidentale.
2Il quadro che l’antropologia culturale presenta, e di cui essa stessa è un aspetto, è infatti quello di una frantumazione scettico-relativistica della conoscenza. Dopo le ricerche dell’antropologia culturale, i cui inizi risalgono alla fine dell’Ottocento, nessuno può più ritenere che la conoscenza proceda da un soggetto secondo la linea di uno sviluppo progressivo modellato sullo standard della scienza europea, e che al mondo non vi sia alcun’altra forma di conoscenza possibile. Quella che resta implicita nell’antropologia culturale, come sua filosofia inespressa o non totalmente confessata, è una teoria del movimento scettico-relativistico dei punti di vista. Lo spostamento del punto di vista, per così dire il suo straniamento, è decisivo nella conoscenza, perché attraverso di esso in un certo senso un punto di vista può vedersi dall’esterno. Come apparirebbero a un abitante di terre lontane i nostri usi e costumi? Una domanda del genere, che in sostanza veniva già posta dagli scettici antichi e ripetuta alle origini dell’illuminismo storicamente inteso, da Montaigne o dal Montesquieu delle Lettere persiane, porta in sé il germe dell’autocritica dell’illuminismo. E spinge al tempo stesso verso una teoria della conoscenza scettico-relativistica al cui interno la questione centrale è quella della costruzione di un’identità tramite differenza, cioè della costituzione di un soggetto mediante il ritorno di punti di vista in grado di autosservarsi.
3La stessa diffusione della consapevolezza etnologica in Occidente è indice del fatto che le ricerche dell’antropologia culturale hanno operato in profondità, giungendo a permeare il senso comune. Oggi le persone «illuminate» possono immaginare le cose più stravaganti intorno agli uomini delle altre culture, ma per lo più sono disposte ad ammettere la relatività di queste stesse e la loro pari dignità. Ciò vale finanche per chi non è per nulla disposto a tollerare gli immigrati nel suo paese o territorio. Persino il razzismo ha acquisito un momento d’identità differenziale: il razzista definisce se stesso in virtù della relazione che lo contrappone all’«altro», e non più in base a un astratto odio o furore ideologico. Dalla girandola planetaria dei punti di vista nemmeno lui può uscire. Ciò induce a considerare – sebbene questo possa dare un certo fastidio – il razzismo e la tolleranza come equivalenti funzionali riguardo al problema del controllo e della relativa stabilizzazione dei processi della conoscenza. Sia il razzismo sia la tolleranza definiscono un ordine di credenze come differenza da altre credenze; e ambedue ottengono il ritorno dei punti di vista attraverso una mediazione esterna.
4Il quadro che l’antropologia culturale restituisce – lo stesso che il senso comune occidentale ha imparato a riconoscere – è quello di un mondo popolato da ogni sorta di forme della conoscenza: credenze, miti, tecniche, concezioni magiche. E d’altronde, anche al di fuori dell’antropologia culturale, il campo della conoscenza ci appare formato da una congerie di processi – nel mondo umano e in quello animale, così come in quello dei microrganismi. Percezioni, immagini, operazioni di codificazione e decodificazione, processi mentali insomma (usando il termine «mentale» nel senso ampio in cui lo usa Bateson), sono quanto di più «originario» ci sia al mondo. Solo secondariamente possiamo osservare, dentro questi processi e nel fissarsi degli stessi, il costituirsi di ciò che chiamiamo i soggetti. Ciò taglia alla radice la pretesa di proporre conoscenze positive (scientifiche, morali, giuridiche o d’altro genere) come opinioni generalizzabili al di là dei confini della costituzione di questo o quel soggetto1. Il relativismo oggi è un dato di fatto, qualcosa come un sentimento diffuso nel senso comune, prima ancora che un rovello per i filosofi e un obiettivo polemico per certi pensosi riformatori sociali.
5Naturalmente non è sempre stato così: non sempre il relativismo è stato apertamente presentato dall’antropologia culturale come il risultato obiettivo cui tendono le sue ricerche. Al contrario, è stato fin troppo facile, soprattutto agli inizi della storia della disciplina, gabellare le culture «primitive» come momenti ancora arretrati nel progresso del genere umano2. Il successivo funzionalismo (quello di Malinowski, per esempio) ha tentato di ridurre qualsiasi fenomeno culturale alla soddisfazione di pochi bisogni elementari. Il teorema dell’equivalenza funzionale, secondo cui le manifestazioni della cultura risponderebbero a un’unica struttura di bisogni fisiologici, rilancia fatalmente l’universalismo quando, assolutizzando la natura umana, considera le diversità culturali come espressione di qualcosa che al fondo resta sempre uguale, ovunque e comunque. Anche la valenza euristica di questo teorema, e la sua indubbia carica provocatoria consistente nel mettere a confronto fenomeni lontanissimi (uno spirito che anche io ho evocato in queste pagine, con lo «scandaloso» paragone tra il razzismo e la tolleranza come modi diversi di realizzare analoghe stabilizzazioni dei processi della conoscenza), svaniscono nel nulla se ci si riduce a cercare per ogni possibilità culturale cause generiche e identiche3. Come ha notato Marshall Sahlins, questo naturalismo funzionalistico «intende la cultura come il modo umano dell’adattamento»4, rifiutandone l’aspetto autonomamente simbolico e subordinandolo, piuttosto, a una teleologia utilitaristica, a una razionalità mezzi-scopi dietro cui si scorge l’ombra lunga dell’homo œconomicus occidentale.
Funzione della soggettività
6A mio modo di vedere, la nozione di equivalenza funzionale può essere applicata all’esigenza di relativa stabilizzazione dei processi della conoscenza (per esempio quando si dice che il soggetto e il mito sono funzionali a un analogo ritorno dei punti di vista), ma non alle culture e alle forme di vita in relazione ai bisogni sempre uguali della natura umana. Questo «sempre-uguale» ha da essere di volta in volta reinventato: e proprio per riconoscerlo, per ritrovarlo in quanto sempre-uguale, è necessario che i punti di vista ritornino, che le credenze si fissino. Questa esigenza, che può essere soddisfatta in vari modi, è un’esigenza di autosservazione e di autocontrollo dei processi della conoscenza: solo ritornando e ripetendosi i punti di vista possono, per così dire, osservarsi dall’esterno acquistando identità. Diversamente, tutto fuggirebbe via senza posa; e gli individui dei mondi sia moderni sia tradizionali non avrebbero bisogni di alcun genere, per la semplice ragione che questi non sarebbero neppure riconoscibili e non si saprebbe come soddisfarli. Dinanzi all’esigenza imperativa della conoscenza, le culture e le forme di vita in genere sono gli orizzonti simbolici al cui interno essa viene fronteggiata sempre di nuovo. In una cultura magico-mitica ciò avviene tramite la tradizione; in una cultura che si autoproclama moderna, tramite il costituirsi della soggettività.
7Perciò, se è giusto parlare di un’autonomia del simbolico e delle forme culturali, bisogna anche parlare di un’autonomia della funzione della soggettività, o rispettivamente del mito, nello stabilizzarsi dei processi della conoscenza. Ciò che si presenta come l’orizzonte condiviso da una comunità, con le sue credenze e i suoi valori, i suoi costumi e le sue usanze – in breve la sua cultura –, è qualcosa che può essere studiato e descritto come autonomo, perché gli individui vi sono calati dentro senza possibilità di sottrarvisi: e questo è per loro un dato insopprimibile. Ma al tempo stesso si configura una seconda descrizione, in cui ciò che si presenta come un dato incontrovertibile appare nella sua contingenza, per superare la quale la struttura «soggetto», o rispettivamente quella mitica, sempre di nuovo deve ricostruire ciò che è dato, ovverosia quell’orizzonte condiviso. Se all’improvviso appare un elemento insolito, è possibile assorbirlo e riciclarlo all’interno di una tradizione, come se fosse stato lì da sempre. E così pure un soggetto, posto di fronte a un problema imprevisto, sarà in grado – spostando il punto di vista e dando inizio da qui a una nuova ripetizione – di risolvere problemi analoghi in futuro. Dalla ripetizione nasce altra ripetizione. E l’impressione di obiettivo conformismo imputabile a qualsiasi concezione relativistica (e difatti imputato anche a Wittgenstein) secondo cui le culture e le forme di vita sarebbero un orizzonte intrascendibile per gli individui, di fronte a cui essi potrebbero solo alzare le braccia come dinanzi a qualcosa di sovraordinato, si dissolve appena si conduce una descrizione incentrata sulla nozione di un’autonomia reciproca dei processi della conoscenza e delle forme di vita.
8Il percepire, l’immaginare, il credere e così via, sono infatti processi che ininterrottamente si trovano a ritessere la tela delle culture. Questi processi sono alimentati senza posa dalla comunicazione: ma poiché la comunicazione avviene per lo più su un terreno di valori e significati condivisi – non foss’altro che per la necessità di una lingua comune –, la sua capacità d’introdurre novità sembrerebbe di per sé limitata; mentre proprio nel processo tutto mentale del ricevere un messaggio, inserendolo in un insieme di cognizioni preesistenti e utilizzandolo per comunicazioni e cognizioni ulteriori, si trova la più ampia possibilità di scarto rispetto a ciò che è dato. Lo spostamento del punto di vista, che nelle forme di vita moderne è sempre legato a una particolare costituzione del soggetto, è ciò in cui è possibile rintracciare il germe di ogni grande novità o stravaganza. Si pensi anche soltanto al fenomeno della non-comprensione: alle potenzialità che dischiude, nel senso dell’immaginare e fare ipotesi sul suo reale significato, il non comprendere o addirittura il fraintendere un determinato messaggio. Si può ancora comunicare, pur in assenza di qualsiasi codice comune, semplicemente fantasticando su quello che l’altro avrà voluto dire. Proprio da fenomeni di questo genere emerge, con la possibilità del nuovo, anche la necessità di controllare i processi della conoscenza giungendo a una loro relativa stabilizzazione: emerge, cioè, l’importanza della costituzione del soggetto.
Spostamenti dei punti di vista e abitudine all’abitudine
9La caratteristica di questa costituzione – è arrivato il momento di dirlo – non è affatto quella del puro e semplice ripresentarsi di elementi identici. È connessa al concetto di identità approssimativa, di cui ho parlato nel capitolo precedente, l’impossibilità che si tratti di qualcosa del genere. Certo, in queste pagine a più riprese ho affermato che il soggetto si costituisce attraverso un ritorno di punti di vista, e in generale questo non è sbagliato, perché ritornano anche dei punti di vista come momenti determinati. Ma la stessa idea del ritorno implica che qualcosa si sia mosso nel tempo, che nulla sia rimasto dov’era: perché insomma il ritornare implica un movimento. Ciò che ritorna, o si ripete, sono propriamente gli spostamenti dei punti di vista e non i punti di vista stessi (che, come risultato degli spostamenti, possono ritornare o no). Questo significa che davvero imprescindibile per i processi della conoscenza è l’operazione selettiva che determina, di volta in volta, una differenza (se non altro la differenza primo piano/sfondo, come insegna la teoria della Gestalt), e solo nel ripetersi di questa differenza si forma un’identità. Se tutto restasse perfettamente fermo, non ci sarebbe alcuna conoscenza, così come se tutto fuggisse via e nulla ritornasse. Perciò i processi della conoscenza si trovano ad affrontare, dovendo bilanciarli sempre di nuovo, il problema della loro relativa stabilizzazione e quello del loro relativo movimento. Questo problema assume la forma di un’oscillazione paradossale e viene trattato, più che davvero risolto, nei termini di spostamenti consueti dei punti di vista: ossia attraverso spostamenti per così dire codificati, che realizzino una certa stabilità senza rinunciare al movimento.
10Il rinvio alla nozione di abitudine in questo contesto è inevitabile. Ma è una nozione da non assumere in termini semplici, come se si trattasse di una pura ripetizione di elementi identici. I punti di vista possono infatti ritornare o no; e possono, con uno scarto, osservarsi dall’esterno secondo altri punti di vista, autocriticandosi ed eventualmente autocorreggendosi. Allo stesso modo un’abitudine può interrompersi, uno spostamento consueto del punto di vista essere sospeso, i processi della conoscenza possono prendere un’altra strada – e ciò che un momento prima sembrava affatto consolidato, un momento dopo vacilla. Bisogna perciò considerare l’abitudine, in maniera riflessiva, sempre come abitudine all’abitudine: intendendo con ciò che ci troviamo di fronte a una ripetizione che si realizza mediante spostamenti, passando attraverso differenze, e che in questo suo procedere, anche nel caso non si tratti di uno spostamento consueto, ottiene comunque un effetto d’identità, così da instaurare una serie «abituale» quanto la precedente e altrettanto in grado di realizzare una relativa stabilità.
11Tutto questo per dire che i processi della conoscenza sono insieme chiusi e aperti al mutamento. Presentano gradi diversi di chiusura e apertura a seconda che si basino su spostamenti consueti dei punti di vista o giochino invece la carta dell’inconsueto (che a sua volta, però, instaura subito una consuetudine, per esempio – lo si è visto nel capitolo precedente – inventando di sana pianta una tradizione). Perciò la costituzione del soggetto ha un carattere bivalente, insieme mitico (considerando in questo contesto il termine «mitico» come sinonimo di chiusura) e aperto, critico e autocritico. Ma i due lati di questa costituzione si tengono, sono inseparabili l’uno dall’altro, rinviano l’uno all’altro.
12Se dunque i processi della conoscenza (cioè le percezioni, le immagini, le credenze ecc.) servono a ritessere ogni volta di nuovo il tessuto della cultura, delle usanze e dei costumi, servono anche a produrre degli strappi dentro questa tela attraverso cui nuove possibilità si aprono. Lo stesso fenomeno dell’autocritica dell’illuminismo – osservandolo un po’ dall’esterno, quasi si trattasse di una cultura estranea – può essere visto in questa luce: come messa in questione dei miti e dei riti della tribù occidentale. La libertà di pensiero, la democrazia politica, l’idea di emancipazione, tutto ciò che aveva fatto la fortuna dell’illuminismo con il suo spostamento critico dei punti di vista, viene sottoposto a un vaglio ulteriore e a sua volta criticato. Ciò che sembrava consolidato non lo è più. O meglio: resta consolidato e insieme vacilla – per l’oscillazione caratteristica della cosiddetta tradizione moderna e per via del costituirsi in essa di un soggetto come struttura funzionale ambivalente, deputata al tempo stesso alla stabilità e al mutamento.
13Probabilmente agli albori della modernità, nel momento del suo slancio iniziale, non sarebbe stata nemmeno immaginabile un’espressione come quella di «tradizione moderna», in sostanza un ossimoro; mentre questa espressione appare oggi del tutto pacifica nel suo sforzo di tenere insieme stabilità e mutamento, continuità e rottura. È certo un frutto della tarda modernità, di una modernità ormai stanca, pensare se stessa a sua volta come tradizione. E appare anche come un risultato dell’autocritica dell’illuminismo il fatto che la modernità ammetta l’ossimoro, limitando la sua portata a quella di una tradizione particolare che, per forza di cose, non può che essere una tra tante. Ma se questo accade, se la modernità è se stessa e insieme è fuori di se stessa, ciò dipende soprattutto dall’elemento «soggettività» al suo interno.
14Squisitamente mitico nel moderno è infatti il pensare se stesso in termini di continuità, come accumulo costante e indefinito di novità; contemporaneamente, ciò che esso ha di più soggettivo è la coscienza illuministica come possibilità di autotrascendersi, di guardarsi come dall’esterno e di diventare quindi autocritica. Questa possibilità riguarda sia ciò che si può chiamare, in astratto, il soggetto conoscente, sia gli individui concreti nella loro capacità di scantonare, di prendere vie traverse, di non credere ad alcuno dei miti moderni, coltivando invece, anche in maniera idiosincratica, credenze di altro tipo, per esempio magiche o superstiziose. La coesistenza e la commistione di forme di vita diverse consente di utilizzare credenze arcaiche al fine di spostare in modo inconsueto i punti di vista.
15Paradossalmente, la funzione tipicamente moderna d’introdurre novità, può in certi casi essere svolta da qualcosa che il moderno considera premoderno ma che in realtà, modificandosi e ripetendosi, coesiste con lui. Ancora una volta, tutto questo fa parte della funzione soggetto, che fa di necessità virtù e consente di usare qualsiasi elemento, per quanto stravagante, come punto di partenza di una serie abituale in grado di realizzare una relativa stabilizzazione. Anche la magia, e gli elementi arcaici in genere, possono essere assorbiti e riciclati all’interno della costituzione del soggetto, convivere in uno stesso individuo con credenze e forme di vita moderne, instaurare insomma un’abitudine. La funzione sociale dei valori e dei significati condivisi non va perciò sopravvalutata. Far parte di una comunità linguistica o, a maggior ragione, ispirarsi alle stesse norme e seguire le stesse regole della maggioranza di una popolazione, sono certo condizioni che facilitano la vita sociale di un individuo; ma uno spiccato anticonformismo, una costituzione puramente idiosincratica, non sono neppure condizioni che la impediscono. Essere stranieri, non avere una patria, sono esperienze frequenti nella modernità: eppure, senza concedere nulla al pathos modernista, bisogna dire che anche il non avere una patria e l’essere stranieri possono diventare un’abitudine e affondare le radici in una specie di tradizione. Lo spaesamento dà luogo a un riaggiustamento continuo della funzione soggetto: non cancella l’abitudine ma la sposta e la reinventa ogni volta da capo secondo il principio dell’abitudine all’abitudine.
Su Wittgenstein
16La posizione di Wittgenstein (da inserire a pieno titolo nella linea dell’autocritica dell’illuminismo di cui si è detto sopra) appare improntata a un relativismo assoluto5: i giochi linguistici e le forme di vita sono il grande mare dentro cui il soggetto è dissolto. Il che significa che Wittgenstein non riconosce alcun’autonomia al costituirsi del soggetto con il suo carattere bivalente, mitico e insieme illuministico. La questione del soggetto si perde in una generica intersoggettività tenuta insieme dal linguaggio, regolata in maniera diversa nelle diverse forme di vita, le quali non si sa poi bene come possano fissarsi o, al contrario, modificarsi. Una conseguenza di ciò è che, proprio come il soggetto, nemmeno il mito, per quanto riguarda le culture tradizionali, possa essere indagato nella sua natura autonoma, cioè nella sua funzione cognitiva distinta dall’intersoggettività linguistica6. Rito e mito sono così tutt’uno: ciò che conta per Wittgenstein è l’aspetto cerimoniale, e perciò intersoggettivo e linguistico, del mito, non quello, funzionalmente equivalente al soggetto, per cui certi punti di vista ritornano, determinate credenze si fissano, confermando se stesse ogniqualvolta il rito si ripeta. Ma in questo modo ciascuna manifestazione del rito (o, più in generale, ciascun fenomeno comunicativo) è la semplice riconferma della forma di vita in cui avviene. Non si dà alcuna possibilità di commistione tra forme di vita differenti, perché manca l’elemento che, instaurandosi al loro interno, di volta in volta può fissarle o modificarle.
17A mio parere, il tentativo di Apel e Habermas di sfuggire al relativismo implicito nella teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein con argomenti trascendentali o quasi-trascendentali, è un’impresa disperata: perché l’universalità di qualsiasi trascendentale, che per sua natura ha da essere un presupposto, è spazzata via da quel relativismo che non tollera presupposti. I giochi linguistici, e le forme di vita in cui avvengono, sono per Wittgenstein chiusi in se stessi, incommensurabili tra loro, e non rispondono ad alcun criterio al di fuori di sé. È noto del resto che questo pensiero si propone come una «terapia» della filosofia: agisce come un acido scettico nei confronti di qualsiasi argomento filosofico «forte», di qualsiasi confutazione razionale. La sola via per relativizzare, se così si può dire, un siffatto relativismo, o meglio per temperarlo, sta a mio avviso nel mostrare come le stesse esigenze cognitive producano, giocoforza, un ritorno dei punti di vista: che può realizzarsi o alla maniera illuministica del soggetto o alla maniera mitica tradizionale. Lo scarto dentro le forme di vita, il mutamento che si realizza nel loro ripetersi, è collegato al fatto che la costruzione dell’identità è comunque approssimativa, passa pur sempre attraverso spostamenti e differenze – e ciò che differisce può allontanarsi di più o di meno, può essere più o meno identico a ciò che era nel momento precedente. Il ritorno dei punti di vista, che si realizza sia nelle forme di vita moderne sia in quelle tradizionali, fissa perciò in esse qualcosa che le sottrae alla dispersione del loro puro relativismo, senza tuttavia bloccarle in maniera definitiva come quando, per paura della scepsi, si richiede il soccorso di un apparato trascendentale.
Vedersi vedere
18La costituzione del soggetto – ripetizione attraverso differenze – è dunque un processo empirico che riproduce incessantemente le credenze e le forme di vita ma anche le modifica. Una generica intersoggettività linguistica, incentrata sui valori e sui significati condivisi da una comunità, non rende conto di ciò. Ma non si tratta di riproporre per lo studio dei fenomeni sociali un individualismo metodologico che non tenga conto dell’autonomia delle relazioni tra i soggetti. Si tratta, più semplicemente, di riportare l’analisi agli elementi base di queste relazioni evitando di dissolverli dentro di esse. Non si capisce infatti che cosa sarebbe questa intersoggettività se non si dice niente sulla funzione dei soggetti che vi sarebbero implicati. Perciò collego la formazione del soggetto a un’esigenza di autocontrollo dei processi della conoscenza, al loro bisogno di autosservarsi e guardarsi come dall’esterno. Non esiste alcuna identità se non a partire da un punto di vista che la definisce e la fissa attraverso uno spostamento, così da farla apparire di contro a uno sfondo. Il condividere o no i valori e i significati di una cultura, non è affatto il fattore decisivo. Piuttosto, è proprio dalla mancata condivisione di tutti i valori e significati di una cultura, e anzi dalla commistione tra forme di vita diverse, che sorge la possibilità dell’autosservazione. Perciò il paradosso costitutivo del vedersi vedere è alla base degli spostamenti dei punti di vista e del ripetersi di questi in un’identità approssimativa; mentre il ritorno di punti di vista identici – poiché l’identità non sta lì da sempre, ma è qualcosa che ha da essere costruito – è il risultato, più o meno aleatorio, del ripetersi degli spostamenti.
19Ciò non cancella il relativismo implicito nella teoria dei giochi linguistici e delle forme di vita di Wittgenstein, ma lo tempera di molto, mostrando come le forme di vita diverse – per quanto riguarda gli indispensabili processi della conoscenza che in esse avvengono – si trovino a fronteggiare problemi tra loro analoghi. Inoltre, se vi è la possibilità di una commistione tra le forme di vita moderne e quelle tradizionali o arcaiche, questo dipende dalla costituzione del soggetto che, mediante la ripetizione, è in grado di utilizzare la loro oscillazione alternativamente come sfondo le une per le altre. Le forme di vita, per quanto varie, non sono affatto in linea di principio tra loro incommensurabili: la loro chiusura è contingente, come del resto lo è l’apertura. Le due possibilità dipendono solo dal tipo di ripetizione che in esse s’instaura: se cioè la ripetizione procede per spostamenti dei punti di vista consueti ovvero inconsueti. Nell’uno e nell’altro caso è in gioco l’esigenza cognitiva di vedere i punti di vista tramite un necessario effetto di contrasto, come proiettandoli su uno sfondo: interno, nel caso la forma di vita sia la stessa dell’osservatore; esterno, nel caso lo sfondo sia costituito da una diversa.
20Si prenda per esempio la magia. Essa non è qualcosa che lo sviluppo tecnico e scientifico abbia potuto eliminare del tutto. Ciò non risponde soltanto a motivazioni psicologiche (come nel caso della credenza negli astri per cercare di orientarsi nel futuro e soddisfare così un incoercibile bisogno di sicurezza), ma anche all’esigenza di produrre un effetto di contrasto tale da potere vedere la tecnica sullo sfondo della magia e viceversa. Il razionalismo occidentale alimenta la fiducia in se stesso e rafforza la sua identità distinguendosi da quell’«altro» identificato nella magia. Al tempo stesso, però, la magia, che in una cultura arcaico-tradizionale è concepibile solo all’interno della dimensione totalizzante del rito, nella modernità si separa dal resto della vita sociale, diventa un insieme autonomo di procedure e di credenze. Non per questo è una pura sopravvivenza: perché anzi, autonomizzandosi, raggiunge una specie d’immortalità dovuta al fatto che può proiettare a sua volta se stessa sullo sfondo del suo «altro», e perpetuarsi così come una specifica forma di vita dentro quella moderna. I due aspetti sono complementari e costituiscono, insieme, i poli di un’oscillazione paradossale che in un individuo può diventare vera e propria mescolanza di mondi diversi.
Critica della teoria critica
21Quello che per Horkheimer e Adorno sarebbe mera regressione, è da considerare allora come un necessario gioco di prospettive per rendere visibile ciò che altrimenti non sarebbe visibile: ossia l’«altro», di volta in volta la forma di vita arcaica o quella moderna, la magia o la tecnica. La persistenza della magia è qualcosa di più di una sopravvivenza e qualcosa di diverso da una regressione provocata dalla dialettica dell’illuminismo; è ciò che produce un effetto di contrasto indispensabile allo spostamento dei punti di vista, e ha quindi una funzione cognitiva difficilmente sostituibile. Non c’è dubbio che per il singolo individuo nutrire credenze magiche o superstiziose nella vita moderna in taluni casi è bloccante: ma in quanto termine di confronto può servirgli per muovere i punti di vista senza smarrirsi. Ciò che per certi versi è ossessione o conformismo, visione del mondo asfittica, per altri versi ha la funzione di stimolare i processi della conoscenza in generale. D’altronde – a differenza di quanto si potrebbe sostenere con Wittgenstein – non si può confinare la magia nella dimensione del rito, cioè nella sfera ristretta di un gioco linguistico tutto sommato lontano dalla forma di vita occidentale. Se così fosse, non soltanto sarebbe confermata la tesi relativistica assoluta intorno alla reciproca incommensurabilità delle diverse forme di vita, ma sarebbe anche soppressa nella modernità qualsiasi funzione autonoma della soggettività e della ripetizione. Proprio l’esigenza di ripetizione nella costruzione dell’identità, al contrario, fa sì che forme di vita non moderne, come la magia, non siano mai cancellate del tutto, e siano anzi all’occorrenza riutilizzabili o in quanto tali o come uno sfondo di alterità su cui emerge l’identità del moderno.
22Da quanto ho sostenuto fin qui – in questo capitolo e nel precedente –, deriva la necessità di rilanciare l’autocritica dell’illuminismo ben al di là del suo nucleo originario, con un’intenzione nettamente eterodossa rispetto a quella della vecchia teoria critica. A non essere più sostenibile, rispetto all’impulso iniziale di Horkheimer e Adorno, non è solo il retaggio dialettico della teoria (di cui si è detto nel precedente capitolo), ma la stessa posizione su ciò che significhi fare teoria critica. I maestri francofortesi ritenevano di poter tenere ancorata all’idea di ragione oggettiva un modo di far teoria che spinge invece verso una dimensione scettico-relativistica. È ben vero che, soprattutto in Adorno, la dialettica arriva a un tale grado di torsione paradossale da prefigurare, in un certo senso, il passaggio a un pensiero non più dialettico. Ma è altresì vero che – ancora nell’ultimo Adorno – il rinvio, sia pure in termini negativi, all’idea di conciliazione preclude questo passaggio. Nozioni come quella di punto di vista, spostamento del punto di vista, prospettivismo e simili, non potrebbero mai far parte di una concezione dialettica per sua natura totalizzante. La teoria critica nasce, del resto, all’interno di un programma di rivitalizzazione del marxismo, come risposta a una delle sue ricorrenti crisi in un’ottica interdisciplinare. Con ciò essa porta iscritto, già nell’atto di nascita, il peccato originale dell’universalismo. La circostanza che Horkheimer, dopo il dissolversi della speranza di una rivoluzione in Occidente, sia progressivamente rifluito su posizioni conservatrici, e il fatto che Adorno abbia sempre mantenuto nel suo pensiero un notevole distacco nei confronti di qualsiasi forma d’impegno politico diretto, non modificano la situazione: l’aggravano, semmai, essendo il segno di un rapporto irrisolto con il marxismo.
23Il problema della teoria critica, nel suo progetto iniziale come nei successivi aggiustamenti, è quello di una critica condotta tenendo fermo allo stesso principio dell’oggetto criticato, cioè in nome dell’universalismo illuministico. La critica immanente, strumento dialettico quant’altri mai, si rivela però fortemente limitante quando si tratta di avanzare in una direzione non più dialettica ma scettico-relativistica. L’autocritica dell’illuminismo comincia certo con la critica, riflessiva e immanente, della critica illuministica; ma si trova a essere spinta, per sua logica interna, verso una dimensione più radicale in cui l’immanenza della critica all’oggetto criticato diventa un intralcio. Il passo ulteriore deve allora recidere il legame troppo stretto con i grandi ideali e i valori dell’Occidente (come la ragione, il progresso e simili), che in Horkheimer e Adorno giocano ancora un ruolo, pur nel riconoscimento della situazione d’impasse in cui sono finiti7. È proprio dalla questione sulla natura di quest’impasse che il dibattito intorno alla teoria critica dovrebbe ripartire. L’alternativa potrebbe essere posta così: i valori dell’Occidente si arenano in quanto miti che instaurano un particolare tipo di ripetizione – insieme con la costituzione di un soggetto che si pretende universale –, o la loro crisi dipende dal mancato rinnovamento della loro identità, dalla carenza di un sforzo teorico ricostruttivo, e cioè proprio dall’estremismo di un’autocritica come quella proposta dai maestri francofortesi?
24Si può dunque ritenere, con Habermas, che il principale difetto della teoria critica sia consistito in un’insufficiente elaborazione del suo fondamento normativo, nella deriva scettica, per non dire nichilistica, cui essa si sarebbe abbandonata a causa della sfiducia nella modernità e nelle sue capacità di autocorrezione – e allora si possono costruire, a mo’ di supporto, teorie morali, politiche, giuridiche, per ovviare a questo difetto –, oppure si può procedere in direzione opposta, cercando di sbarazzarsi anche dell’ultima idea di un tal genere di stampelle. Nel primo caso si rielaborerà quel lato della teoria critica che resiste allo scetticismo e punta su un’idea di ragione oggettiva come aspirazione a una realtà conciliata; nel secondo, invece, sarà l’altro lato a essere sviluppato, quello critico-negativo, che va obiettivamente in una direzione scettico-relativistica. Ambedue le possibilità sono contenute in nuce nella vecchia teoria critica. In essa c’è infatti una tensione tra il momento utopico della conciliazione – quello di una realtà umana integra, alla luce della quale soltanto la critica dell’esistente sarebbe possibile – e il rifiuto di esibire questo stesso momento in termini positivi per non tradirlo. Vale qui l’antico divieto teologico «non ti farai alcuna immagine»: in questo caso, s’intende, non della divinità ma della realtà conciliata, della società giusta o migliore, o come altro vogliamo chiamarla. Proprio la radicalità di questo momento teologico-negativo, ossia la proclamata impossibilità di offrire un’immagine della conciliazione senza tradirla, spinge la vecchia teoria critica verso lo scetticismo. La teoria si rifiuta di presentare un’immagine del «meglio» per amore di quel «meglio» che, altrimenti, sarebbe identificato in anticipo e con ciò stesso stritolato (in linea, del resto, non solo con la teologia negativa ma con lo stesso Marx, che rifiutava di disegnare con precisione i contorni della società comunista del futuro). Contro lo strapotere dell’identità, caratteristico del dominio, il riferimento a una buona totalità, a una totalità non più costrittiva, è in Adorno un momento puramente allusivo che non può essere positivamente esibito. Ma arrivando a riflettere dentro di sé l’impasse dell’universalismo illuministico, dalla cui diagnosi partiva il suo progetto iniziale, la teoria finisce con il consegnarsi a quell’impasse: la sconta in se stessa scivolando verso lo scetticismo per estenuazione o impotenza, ma senza davvero affrontarla.
25Qui interviene Habermas. Dal rifiuto opposto dai maestri francofortesi – e segnatamente da Adorno – a un’immagine dell’utopia a tutto tondo, si passa in Habermas (con un percorso certo non rettilineo, attraverso teorie e autori che i suoi maestri avrebbero bollato sbrigativamente con l’etichetta di «positivismo») a un principio di validità intersoggettiva dispiegato in una serie di regole e norme. Così ciò che doveva restare negativo diventa positivo, o meglio affermativo8: è possibile disegnare, sia pure a grandi linee, come il mondo dovrebbe essere. Non si tratta, per Habermas, di predeterminare questo o quel contenuto, ma di delineare un quadro di riferimento – il principio dell’accordo e dell’intesa intersoggettivi – entro cui qualsiasi contenuto dovrà essere collocato. In questo modo egli rilancia l’universalismo in termini formali più che materiali. Quella che nella vecchia teoria critica era l’idea di una conciliazione reale, ispirata da una ragione oggettiva di marca hegelo-marxiana (e che perciò non poteva che rimanere indefinitamente ineffettuale), diventa in Habermas accordo intersoggettivo come principio controfattuale. Ma non v’è dubbio, a mio parere, che in esso riviva l’idea di conciliazione, attenuata e depurata del suo aspetto massimalistico e della sua forma teologico-negativa. Quella che era la negazione dell’immagine dell’utopia si trasforma in una sorta di affermatività procedurale, in un insieme di regole e norme da seguire. Così certo si esce dall’impasse, ma la radicalità della teoria critica va smarrita.
26La via d’uscita che io propongo, invece, parte dal momento teologico-negativo e procede verso una sua risoluzione in termini scettico-relativistici. Il fatto che non sia possibile offrire un’immagine dell’utopia o della conciliazione, o del mondo come dovrebbe essere, dipende dal fatto che, se ciò fosse possibile, esisterebbe un punto di vista totale in grado d’indicare il senso complessivo della storia umana. E questo in fondo viene escluso già dalla filosofia della storia a sfondo pessimistico presente nella Dialettica dell’illuminismo. Il passo ulteriore consiste allora nello sbarazzarsi anche dell’ultimo residuo dialettico: dichiarare apertamente che la storia non ha un senso – perché oltretutto non esiste un’unica storia umana, ma una congerie di storie diverse – e abbandonare la nozione di conciliazione.
27Ciò vuol dire appunto mettere in questione l’universalismo: sia quello che resiste all’interno della vecchia teoria critica, sia quello che Habermas tenta di rilanciare mediante i principi dell’accordo, dell’intesa, e così via. Proprio in quanto quest’ultima forma di universalismo si pone come pietra di paragone controfattuale sulla quale misurare la realtà (per esempio la legittimità dei conflitti e del loro svolgimento), essa è sottilmente apologetica dei valori della forma di vita occidentale. L’impostazione pluralistica, intersoggettiva, linguistica, e il proclamato ripudio del soggetto monologico della tradizione cartesiana, non sono sufficienti a evitare l’esito apologetico. Resta il fatto che i valori occidentali moderni si trovano, in Habermas, in una posizione di evidente vantaggio nel confronto a distanza con i valori, o meglio con gli usi e i costumi, delle forme di vita non occidentali.
Metateoria
28Di contro a tutto ciò, dev’essere fatta valere l’istanza di una teoria che tematizzi costantemente, nel momento stesso in cui la si elabora, la posizione da cui viene elaborata. Questo è un problema di teoria della teoria, o di metateoria, e implica evidentemente un approfondimento dell’autocritica dell’illuminismo. Ne ho accennato nel capitolo precedente: un punto di vista dialettico – finanche quello della dialettica negativa adorniana, per via del suo riferimento alla totalità – non può mai presentare se stesso soltanto come un punto di vista: in breve, non può che essere totalizzante. Il problema principale di una teoria critica sarebbe invece quello di esibire, mentre viene costruita, le proprie premesse e i propri procedimenti costruttivi come punti di vista parziali, delimitando così lo spazio da cui procedono le sue osservazioni e descrizioni. In questo modo l’universalismo verrebbe posto in questione da subito, nel farsi stesso della teoria. Il suo carattere generale o universale è dato infatti dal suo fissarsi: e questo è al tempo stesso qualcosa d’inevitabile e qualcosa che dev’essere tenuto sotto controllo, come adesso cercherò di chiarire.
29Ogni teoria, e in particolare una teoria sociale e filosofica come la teoria critica, è un insieme di osservazioni e di descrizioni. E poiché per osservare e descrivere è necessario effettuare degli spostamenti dei punti di vista (se non altro per ragioni di «messa a fuoco» e per distinguere un primo piano da uno sfondo), si può dire che una teoria stabilisca un insieme di spostamenti determinati dei punti di vista. Ciò significa che la teoria tende a diventare una credenza o addirittura un dogma – e in un certo senso questo passaggio è inevitabile. Nella misura in cui viene a fissarsi, i suoi spostamenti dei punti di vista diventano consueti, perdono la loro carica di novità: la teoria comincia a ripetere se stessa. Il precipitare in abiti mentali delle proposizioni teoriche è un fenomeno cui si assiste spesso con qualche sconcerto. Il carattere d’innovazione, talvolta di provocazione, di una teoria si trasforma a poco a poco in senso comune: si diffonde alla stregua di qualsiasi credenza, semplicemente ripetendosi. Questo naturalmente non inficia la verità o la falsità di una teoria (questione del resto secondaria in questo contesto), ma ne modifica la qualità dell’impatto sociale. La teoria copernicana, per esempio, diventa qualcosa di diverso quando smette di essere una teoria di minoranza, che si oppone alla concezione tolemaica e al potere ecclesiastico, e comincia a diffondersi nella maggioranza della popolazione come una credenza.
Costruzione dell’universale
30Le teorie non possono non fissarsi. Non si può evitare che i loro peculiari spostamenti dei punti di vista si ripetano e si diffondano, replicandosi in guisa di credenze. Una teoria esoterica è condivisa da una comunità, per quanto piccola. Una mente stravagante, isolata dal mondo, non potrà non credere alle sue elucubrazioni, entrando quindi in un circuito entro cui, almeno virtualmente, siano credute anche da altri. Il momento propriamente teorico è quello della novità, dello spostamento inconsueto del punto di vista (esemplificato dalla teoria copernicana al suo irrompere); mentre il momento della credenza è quello di una stabilizzazione. Ma i due momenti si alternano senza posa. Se si analizzano i procedimenti di una teoria, si può vedere che già al suo interno, e in modo immediato, essi prefigurano il movimento caratteristico della credenza, che si avvale di spostamenti consueti e si diffonde ripetendosi. La costruzione dell’universale avviene infatti mediante ripetizione: dapprima, al suo sorgere, c’è almeno uno spostamento peculiare del punto di vista, e comunque una significativa ristrutturazione del campo visivo; successivamente lo spostamento diventa consueto: la teoria si fissa o addirittura si blocca, e tende a ripetere se stessa come un insieme di concetti reificati.
31Io collego la costruzione dell’universale (o del concetto) a questo processo: cioè all’instaurarsi di una teoria come soggetto, al ripetersi dei suoi punti di vista in contesti spesso molto lontani da quello iniziale per soddisfare un’esigenza costante di anticipazione. Così il fatto che la teoria copernicana passi a rappresentare, anche metaforicamente, una quantità di cose diverse dalla semplice opposizione al sistema tolemaico (si pensi soltanto alla «rivoluzione copernicana» di Kant), implica che la teoria, elaborata in termini universali, secondo punti di vista ripetibili e fissati da effettive ripetizioni, allarghi il suo raggio al di là della sua portata iniziale. Ciò è connesso con il suo trasformarsi in credenza. La generalizzazione di una teoria, e il diffondersi in contesti lontani da quello iniziale, è il risultato della costruzione dell’universale al suo interno, che consente di anticipare situazioni, azzardare previsioni, e infine anche di crederci in maniera quasi magica.
32Il bisogno di anticipazione del futuro, e quindi di ripetizione o ripetibilità, che costituisce il soggetto conducendo alla relativa stabilizzazione dei processi della conoscenza in generale, trova nella teoria – peculiare processo della conoscenza, quindi – la sua massima espressione. Se nel soggetto propriamente detto le percezioni, le credenze e così via, variano senza posa, e a ritornare sono gli spostamenti dei punti di vista più che questi o quei punti di vista determinati, una teoria si costituisce invece fin da subito come un insieme di punti di vista relativamente fissi, ripetentisi in modo pressoché identico. Si presenta insomma come un soggetto che ritrova se stesso nell’identità con se stesso piuttosto che nella differenza da sé. La coazione all’identità, a ritrovare ogni volta se stesso, è il segreto di ciò che viene detto l’universale: una coazione che si rafforza con il diffondersi della credenza, ma è già presente nella mossa iniziale della teoria, nello spostamento inconsueto del punto di vista, che anticipa e prefigura, fissandosi, situazioni diverse da quella di partenza. Si tratta di qualcosa d’inevitabile: ineluttabile è infatti sia la costruzione dell’universale sia la tendenza di una teoria a trasformarsi in credenza; ma al tempo stesso è qualcosa da porre sotto controllo se si vuole far sì che la conoscenza non si blocchi.
Teoria e critica
33Di qui la necessità di una teoria critica. Essa esprime anzitutto un bisogno riflessivo interno al far teoria. Mi riferisco qui al suo significato filosofico, parte di un più ampio sforzo metateorico, non al suo significato storico. Ho già ricordato, infatti, che la teoria critica nasce storicamente come un tentativo di rilanciare il marxismo al di là della sua pura e semplice scolastica, e diventa ben presto una teoria filosofica e sociale autonoma, non legata strettamente al marxismo e in grado di far interagire campi diversi d’indagine (sociologia, psicoanalisi, teoria dell’arte ecc.). Ma nella vecchia teoria critica la problematizzazione di cosa significhi fare teoria è insufficiente. La concezione dell’universale oscilla (soprattutto in Adorno) tra la denuncia del cattivo universale, espressione di un principio d’identità stritolante, e l’esaltazione in chiave goethiano-benjaminiana del particolare assunto direttamente come universale. In questa seconda versione, collegata del resto alla prima, sono evidenti la protesta contro lo strapotere dell’identità e il tentativo di usare il particolare, mediante l’indagine micrologica, come grimaldello atto a far saltare l’identità del cattivo universale. Ma a causa della pregiudiziale posizione antinominalistica e antiempiristica, la ripetizione non gioca alcun ruolo nella costruzione dell’universale. Il particolare viene assunto alla stessa maniera dell’universale, anche se con segno rovesciato: esso è semplicemente il non-identico, non ciò da cui, attraverso la ripetizione, l’universale stesso si costruisce in quanto identità.
34L’elemento critico della vecchia teoria critica consisteva nel prendere partito per il particolare (ossia per la natura, per ciò che nell’individuo si sottrae al dominio, e così via), non in termini assoluti ma in polemica contro il principio universale d’identità. La teoria, con la sua critica, sarebbe la verità di fronte alla falsità della teoria non critica, cioè di fronte a quella teoria che non contesta l’identità. Questa visione, che insiste sulla distinzione tra il vero e il falso in maniera antiscettica, stabilisce un legame così stretto tra teoria e critica al punto che la differenza tra le due si dissolve, e la teoria è quindi vera solo nella misura in cui è critica. Ma in questo modo i concetti di teoria e di critica risultano indistinguibili: la teoria si fa totale inglobando in sé, senza residui, il momento della critica. L’elemento per eccellenza critico è identificato una volta per tutte nel particolare inteso come non-identico, e riproposto in questa guisa ovunque vi sia da contestare il dominio dell’universale principio d’identità. Si assiste così al paradosso (peraltro mai esplicitato) di un non-identico che risulta a sua volta identificato, ma che proprio in quanto identificato dovrebbe scardinare l’identità.
35Io sostengo, al contrario, l’importanza di una distinzione rigorosa tra i concetti di teoria e di critica. La teoria è un insieme di osservazioni e di descrizioni, che possono risultare vere o false, ma che sono sempre svolte a partire da punti di vista. Una teoria comincia con uno spostamento significativo che instaura determinati spostamenti ripetibili dei punti di vista, funzionali alla visibilità e alla messa a fuoco degli oggetti da descrivere all’interno della teoria. Con ciò stesso, identificando i suoi oggetti mediante il ripetersi dell’osservazione, la teoria identifica se stessa come un soggetto: diventa cioè qualcosa di abituale e si trasforma in una credenza. A questo punto la teoria vede impallidire la sua forza descrittiva (che era affidata alla capacità di offrire una ristrutturazione significativa del campo visivo), perché a diventare rilevante è il momento della condivisione e della diffusione caratteristico della credenza. La possibilità di nuove osservazioni e descrizioni resta allora affidata a un nuovo spostamento del punto di vista. E nelle teorie di tipo sociale questa esigenza di spostamento diventa addirittura pressante. Ciò dipende dal fatto che le teorie sociali sono sì insiemi di osservazioni e di descrizioni come tutte le altre teorie, ma non soltanto questo: sono anche momenti che toccano le ansie, le speranze e le credenze dei soggetti. È già nel suo diventare una credenza, cioè nel fissarsi degli spostamenti dei punti di vista, che una teoria sociale richiede un di più di spostamento.
36Questo di più fa sì che la teoria diventi critica. Con esso la teoria cerca di controllare e incorporare dentro di sé il suo passaggio in credenza, anticipandolo. In una certa misura il passaggio è inevitabile, e la teoria lo assume come suo vincolo supplementare, come uno spostamento del punto di vista al di là di quello comunque imposto dai problemi della messa a fuoco e della strutturazione del campo visivo. In altre parole: la teoria non risponde soltanto a esigenze di osservazione e di descrizione – cioè a esigenze prettamente teoriche –, ma anche alla questione del suo uso sociale. E ciò è reso possibile dal fatto che la teoria anticipa al suo interno, grazie allo spostamento del punto di vista indotto dalla critica, il collegamento con quegli interessi e quei bisogni che ne favoriscono il diffondersi come credenza. La teoria cerca di controllare così i suoi esiti pratici; cerca di stabilire un rapporto con il senso comune, anche quando (o soprattutto quando) intende contestare il senso comune dominante, come nel caso di Horkheimer e Adorno.
Teoria e osservazione
37Nel saggio Teoria tradizionale e teoria critica, del 1937, Horkheimer parte da un concetto di teoria che è quello dell’epistemologia positivistica. Appoggiandosi su Poincaré, egli concepisce la teoria, tradizionalmente intesa, in termini ipotetico-deduttivi: riguardo ai fatti, cioè, essa dev’essere considerata sempre un’ipotesi, e la sua struttura è costituita da un insieme di proposizioni collegate tra loro «in modo tale che da alcune di esse si possono dedurre le rimanenti»9. Di qui l’importanza delle generalizzazioni ottenute mediante l’uso della simbologia matematica: la teoria può cercare di comprendere così le proprie proposizioni sotto un numero limitato di principi. Questa concezione fa perno sulla distinzione di teoria e osservazione, e il suo standard è dato dalle scienze naturali a cui, nella sostanza, anche le scienze sociali si adeguano: nel mondo devono esserci più fatti osservabili che teorie disponibili, perché le teorie devono servire a mettere ordine nei fatti, non certo a complicarli. Ma proprio questa visione semplicisticamente «economica» del far teoria viene meno in epoca postpositivistica, e con essa anche la distinzione di teoria e osservazione. Dopo autori come Kuhn e Feyerabend, sarebbe molto difficile sostenere ancora che l’impresa scientifica vada sviluppandosi limitando gli enti e le ipotesi, per dirla con Ockham e Newton. Al contrario, ciò a cui si assiste, soprattutto nelle scienze sociali, è il moltiplicarsi delle teorie in una ricerca costante di punti di vista diversi. Non soltanto le osservazioni sono sempre cariche di teoria (come ha sostenuto Popper), ma le teorie stesse devono essere pensate come insiemi di osservazioni, in quanto la distinzione tra le due non tiene più. Teorie regionali, addirittura ad hoc, diffuse in ogni campo del sapere, mettono a seria prova la concezione positivistica della teoria in quanto ipotesi generale che dev’essere costantemente riveduta sulla base dei dati di osservazione. Queste teorie si presentano invece come insiemi di osservazioni ripetibili, e anzi effettivamente ripetute, che instaurano fin da subito degli spostamenti consueti dei punti di vista.
38Comunque sia, nel saggio citato di Horkheimer la concezione tradizionale del far teoria è il terminus ad quem che coinvolge, in maniera polemica, l’intero senso comune scientifico dominante. Ma ciò che in questo saggio la teoria critica sembra condividere con la concezione tradizionale, positivistica, della teoria, più ancora che una distinzione di teoria e osservazione, è la distinzione tra verità e falsità in quanto distinzione metateorica portante. La teoria critica viene presentata come più vera della teoria tradizionale. L’insistenza sulla questione dell’uso sociale della teoria, del suo carattere storico, del suo essere immersa nei conflitti di classe – tutto ciò che insomma si può ricavare da un marxismo non scolastico –, renderebbe vera la teoria critica rispetto a quella tradizionale. Anche qui il contributo specifico apportato dalla teoria critica starebbe quindi nella capacità di uno sguardo totale: la sua superiorità consisterebbe nel fatto di non essere unilaterale come la teoria tradizionale, ma di riuscire ad abbracciare la totalità delle connessioni, sociali e storiche, del far teoria. Tuttavia, a ben vedere, la stessa epistemologia di ascendenza positivistica si fa oggi carico di quei problemi (per esempio delle conseguenze sociali e del carattere storico della scienza) che Horkheimer proponeva nel suo saggio come contributo specifico, al punto che esso, di per sé, non caratterizza più in alcun modo un programma teorico critico.
39La mia proposta per una ridefinizione del concetto di teoria critica non punta sulla distinzione di teoria e osservazione, tanto meno su quella di verità e falsità, ma, come ho detto, su quella di teoria e critica. Proprio perché una teoria è un insieme di osservazioni e di descrizioni che si trasformano in una credenza – sia nel senso della sua diffusione sia in quello del suo instaurarsi come soggetto –, proprio per questo una teoria critica sceglie di anticipare dentro di sé questo passaggio con uno spostamento supplementare del punto di vista. La critica è uno spostamento in più rispetto a quelli indotti comunque dalla ristrutturazione del campo visivo operata dalla teoria. Questo spostamento fa sì che la teoria abbia di mira non soltanto la conoscenza, ma quegli interessi, quei bisogni, quei desideri, che possono orientare in un senso o in un altro la sua ricezione e il suo passaggio in credenza. Sostenere la necessità di un supplemento critico significa sostenere, specialmente per le teorie di tipo sociale, che esse in ogni caso finiscono con l’avere qualche riferimento ai valori, cioè delle conseguenze pratiche, e che quindi è necessaria un’opzione chiara, all’interno della teoria, in favore di certe conseguenze anziché di altre. La teoria è chiamata a schierarsi. Ciò non fa parte dell’elemento di novità che essa introduce, in quanto spostamento inconsueto del punto di vista; fa parte invece del suo consolidarsi, del suo diventare consuetudine o credenza.
Passaggio dalla teoria alla credenza
40Questa concezione dell’elemento critico, che lo distacca da quello propriamente teorico, intende superare la vecchia contrapposizione tra carattere valutativo e avalutativo, o tra ideologia e scienza, che una parte del senso comune intellettuale, tra gli anni sessanta e settanta, ha dato per liquidata in modo sbrigativo piuttosto che superarla davvero. La protesta contro la presunta neutralità della scienza (che ebbe corso, tra parentesi, proprio nel periodo di maggior successo politico delle tesi francofortesi) era una protesta contro la «falsa coscienza» annidantesi nella scienza. Essa intendeva prendere partito per la verità. Ma se si stacca l’elemento critico da quello teorico, l’alternativa vero/falso diventa secondaria. Naturalmente è sempre possibile porre la questione del controllo empirico di una teoria, cioè della sua verità o falsità; ma lo spostamento critico del punto di vista è un’altra cosa: è l’assunzione di un elemento extrateorico nella teoria. Questo elemento può essere considerato di natura morale: concerne il problema delle conseguenze pratiche della teoria, e quindi della responsabilità che essa implica.
41Dire che l’elemento della critica si colloca nella zona di passaggio dalla teoria alla credenza significa dire che la critica può nascere solo nel momento in cui una serie di spostamenti dei punti di vista diventa consueta. La critica è, in modo paradossale, l’elemento instabile dentro la ricerca di stabilità. Mi spiego: per una metateoria di tipo scettico come quella da me sostenuta, ogni osservazione e descrizione hanno rilevanza non in quanto siano vere o false, ma in quanto realizzano uno spostamento del punto di vista e una potenziale ristrutturazione del campo visivo. Quando questa ristrutturazione è avvenuta, quando attraverso la ripetizione e la messa in connessione di diverse osservazioni la teoria ha instaurato una nuova serie di spostamenti dei punti di vista, comincia subito a diventare una credenza, ossia una serie di spostamenti dei punti di vista consueti. Ora, la critica che anticipa questo passaggio, cercando d’indirizzarlo in una direzione anziché in un’altra, destabilizza la pura spontaneità della credenza: è l’elemento instabile dentro un processo che tende alla stabilizzazione; oppure, come ho detto precedentemente, è uno spostamento supplementare del punto di vista. Perciò, quando uso il termine «critica», non lo uso nel senso di un tribunale kantiano che debba decidere quali siano i poteri e i limiti della ragione, o nel senso in cui Popper ha parlato di un «razionalismo critico». Questi significati del termine rimandano alla questione del riferimento empirico delle teorie, cioè in fondo alla questione della loro verità o falsità; mentre io mi pongo il problema del loro uso sociale, del loro diffondersi come credenze. Sotto questo profilo hanno particolare rilievo, com’è ovvio, le teorie sociali. Se infatti per una teoria scientifica (nel senso delle scienze naturali) il suo passaggio in credenza può essere anticipato o no, per una teoria sociale quest’anticipazione è quasi immediata.
42Facciamo un esempio. Non si può negare che la teoria del risentimento in Nietzsche rivesta un carattere sociale oltre che psicologico. L’idea che i deboli, mossi dal risentimento contro i forti, tendano a delegittimarli con la morale, cercando di spacciare la potenza per una colpa, è una specie di drammatizzazione del conflitto sociale che lo colloca in una luce nuova (pur avendo, tra parentesi, più di un punto di contatto con la teoria marxiana dell’ideologia). Soltanto, Nietzsche prende posizione a favore dei forti, difende i forti contro i deboli. Si può dire allora che quella del risentimento sia una teoria critica? La risposta è sì. Generalizzata nella forma di una credenza, essa ha infatti conseguenze inequivoche. Se volesse essere un avvertimento lanciato ai deboli, se volesse metterli in guardia dal pericolo di ricalcare, nelle loro lotte, le medesime posizioni di potere di quelli contro cui combattono, allora le conseguenze di questa teoria avrebbero un segno opposto. Ma Nietzsche inserisce la teoria del risentimento nel contesto della sua polemica contro il cristianesimo e la democrazia, in favore dell’aristocrazia e del paganesimo, e quindi si schiera in modo netto: per lui si tratta di rafforzare la posizione dei forti e d’indebolire quella dei deboli. In questo senso le conseguenze nazionalsocialiste sono iscritte nel suo pensiero come uno degli esiti possibili. Più precisamente: non gli si possono addebitare direttamente queste conseguenze ma le tendenze autoritarie che, insieme con altri fattori, hanno condotto al fascismo e al nazismo. Nietzsche, d’altronde, s’inserisce in una linea – di cui anzi in un certo senso è il capostipite – di critica della cultura o della civiltà su basi conservatrici ed elitarie: è una linea che per molti versi s’intreccia con l’autocritica dell’illuminismo, e che con buona ragione può essere detta critica in quanto non fa mistero delle sue conseguenze sociali.
43Ora, la domanda che si pone è la seguente: a partire da una critica di questo tipo, è possibile passare a una di segno opposto? La risposta, ancora una volta, è sì – purché, naturalmente, si effettui un ulteriore spostamento critico del punto di vista che, contrariamente a quanto avviene in Nietzsche, prenda le parti dei deboli contro i forti. Ricapitolando, dunque: dapprima c’è una ristrutturazione del campo visivo, l’idea che si dia qualcosa come il risentimento e che questo giochi un ruolo nei conflitti sociali (poco importa, del resto, se questa idea sia vera o falsa, giacché produce delle conseguenze); in secondo luogo c’è uno spostamento critico del punto di vista che anticipa la sua diffusione come credenza collocando la teoria dalla parte dei forti; in terzo luogo c’è un possibile uso alternativo della teoria, un secondo spostamento critico, che prende le parti dei deboli per metterli in guardia dal ripetere, quasi coattivamente, gli stessi rapporti di potere instaurati dai forti. È evidente che questo secondo spostamento del punto di vista implica l’attivazione di sentimenti opposti a quelli che muovevano Nietzsche. Bisogna, in questo caso, collegare la trasformazione della teoria in credenza ai bisogni e agli interessi dei deboli per migliorare la loro lotta contro i forti, non viceversa, come faceva Nietzsche. E così pure, questo mutamento di prospettiva implica l’approfondimento dell’autocritica dell’illuminismo in una direzione diversa da quella della teoria del risentimento nella sua formulazione originaria.
44Facciamo un altro esempio: prendiamo la teoria dell’industria culturale in Horkheimer e Adorno. Non v’è dubbio che questa teoria abbia modificato di molto la percezione di certi fenomeni già noti. La generale vacuità indotta dai mezzi di comunicazione di massa (ai loro tempi, la stampa quotidiana) era già stata denunciata da autori come Kierkegaard e Karl Kraus. Ma Horkheimer e Adorno introducono un autentico spostamento del punto di vista e realizzano una ristrutturazione del campo visivo che permette di allargare il raggio entro cui collocare questi fenomeni. Essi collegano anzitutto la questione dei mezzi di comunicazione di massa a quella del tempo libero, inserendo ambedue nella più ampia problematica dell’alienazione e del dominio. I media non sono semplicemente la sfera della frivolezza e della chiacchiera (come in Kierkegaard), ma – diffusi su larga scala con il cinema, la radio e la televisione – un apparato di oppressione degli individui fin nelle più riposte pieghe del loro tempo libero. L’alienazione cui gli esseri umani sono sottoposti nel lavoro, li insegue, fuori dal mondo della produzione, anche nei momenti di svago e di riposo. L’obiettivo di critica sociale che Horkheimer e Adorno si propongono con la teoria dell’industria culturale è evidente: essi considerano i fenomeni descritti da questa teoria un aspetto del totalitarismo che inerisce alla società tardocapitalistica, che col fascismo aveva mostrato il suo volto più brutale ma non unico. Il collegamento provocatorio del fascismo con i fenomeni dell’industria culturale – che celebra i suoi fasti soprattutto nei liberi Stati Uniti d’America – testimonia apertamente dell’intenzione critica. Ma uno spostamento critico del punto di vista, sebbene forse meno evidente, è presente già nella scelta dell’espressione «industria culturale». Come Adorno ricorda in una conferenza10, nei primi abbozzi della Dialettica dell’illuminismo lui e Horkheimer avevano adoperato la formula «cultura di massa». Ben presto sostituirono questa espressione con quella di «industria culturale» per scongiurare l’equivoco, di cui si giovano i suoi propugnatori, che questa cultura provenga direttamente dalle masse e sia la cultura che esse stesse desiderano. Così, con una variazione terminologica, Horkheimer e Adorno realizzavano un vero e proprio straniamento della prospettiva con cui solitamente si era guardato ai prodotti della cultura di massa. Fino a quel momento il discorso intorno alla cosiddetta massificazione era stato appannaggio di una critica della cultura o della civiltà di marca conservatrice: di una critica, cioè, che difendeva un ideale aristocratico di società e di cultura. Ma con l’uso dell’espressione «industria culturale», quella prospettiva conservatrice veniva demistificata mostrando come i fenomeni della presunta cultura di massa – lungi dall’essere il risultato della decadenza della civiltà imputabile all’irruzione delle masse nella storia – fossero in realtà contraffazioni prodotte da un apposito apparato industriale e ideologico.
45Lasciando per il momento da parte il giudizio complessivo sul concetto d’industria culturale, che costituisce comunque uno dei capitoli più importanti della vecchia teoria critica, ciò che mi preme mettere in luce è, per così dire, la struttura logica del modo critico di far teoria. Il punto decisivo nella nozione d’industria culturale non è dato dalla descrizione di fenomeni già noti, ma dalla ridescrizione che Horkheimer e Adorno ne fanno, riuscendo a cogliere così nuovi nessi. Questa ridescrizione non è un momento puramente teorico, non è dettata cioè dalla semplice esigenza di spostare il punto di vista per ottenere una visione più precisa o più ampia degli oggetti in questione; essa è indotta piuttosto da un’intenzione critica, impercettibilmente presente già nella scelta lessicale, che pone i fenomeni osservati sotto una luce diversa dalla precedente. In questo modo Horkheimer e Adorno orientano l’uso della teoria, nel suo eventuale passaggio in credenza, in una direzione che non è quella della protesta contro la società di massa, ma quella, di segno opposto, contro la società del dominio. Ciò che implicitamente hanno di mira è la formazione di un senso comune che si contrapponga all’apparato dell’industria culturale – non alle masse che, ingannate, ne fruiscono.
Posizione rinunciataria
46Quest’affermazione dev’essere tuttavia mitigata dalla considerazione del fatto che una delle tesi più forti e più note della Scuola di Francoforte sostiene l’impossibilità che le masse sfuggano al dominio, a causa della progressiva erosione, realizzata proprio dall’industria culturale, di tutti i margini di libertà degli individui. Dunque – si potrebbe obiettare – l’elemento critico finisce qui col negare se stesso, perché il pessimismo di questa tesi considera impossibile una diffusione della teoria critica, il suo stesso passaggio in credenza. E ciò sembra invalidare l’idea secondo cui il momento specificamente critico di una teoria consisterebbe nell’anticiparne il suo possibile uso sociale. La mia risposta a questa obiezione è che essa è senz’altro valida per la vecchia teoria critica, ma non per la teoria critica tout court. La situazione d’impasse cui la loro posizione conduceva era del resto ben presente a Horkheimer e Adorno, al punto che la stessa espressione «teoria critica» diventa sempre più rara nei loro scritti dagli anni cinquanta in poi; e il pensiero dell’ultimo Adorno può essere addirittura letto come un febbrile interrogarsi sui problemi posti dall’impossibilità di realizzare il progetto teorico critico. L’approdo scopertamente paradossale della dialettica negativa, consiste proprio nella constatazione dell’impasse e nella rinuncia a considerare la liberazione del non-identico dalla stretta dell’identità come un programma, sia pure in senso lato, politico. Non alla diffusione della teoria come credenza, ma ormai solo all’arte d’avanguardia è demandata, secondo l’ultimo Adorno, la funzione di testimoniare l’opposizione contro lo strapotere dell’identità.
47Come ho accennato nel capitolo precedente, questa posizione rinunciataria è una diretta conseguenza dell’impronta totalizzante assunta dalla vecchia teoria critica. Se si punta sull’idea di conciliazione, sebbene rivisitata in termini critico-negativi, sull’idea di ragione oggettiva, su un concetto di dominio derivante da Hegel, Marx e Weber, ed esteso all’intero globo terracqueo, allora difficilmente si può evitare che la teoria, mostrando un panorama desolato, finisca col ritorcersi contro se stessa. L’irrigidimento che la teoria imputa alla realtà colpisce anche lei nella forma di un irrigidimento del suo momento critico. È come se la teoria (finanche la teoria critica, dunque) si fissasse e si bloccasse. In questo caso ciò non dipende da un difetto nello spostamento critico del punto di vista, ma da un’insufficienza nell’assetto dei punti di vista e da una visione disperata del rapporto tra la teoria e il senso comune. Qualsiasi passaggio della teoria in credenza viene visto come una resa del suo spirito critico al mondo stregato di cui essa deve restare la pura denuncia. Così la vecchia teoria critica si blocca perché rifiuta di trasformarsi in una credenza, e non, com’è accaduto di frequente, perché ceda a questo passaggio senza saperlo anticipare e orientare. Essa viene meno a se stessa, diciamo così, per via della stessa nobiltà del suo spirito: perché non riesce a distinguersi dal suo momento critico, perché pensa se stessa come se le sue osservazioni e descrizioni fossero tutt’uno con la critica, e infine tutt’uno con quel mondo stregato che essa postula come vincente proprio mentre lo critica.
48Questa totalizzazione della teoria non era però affatto scontata nella teoria critica ai suoi inizi. Essa fu il risultato sì della sua logica interna, ma non da ultimo anche delle circostanze storiche. Nel saggio già citato su Teoria tradizionale e teoria critica, Horkheimer sembra ancora convinto di poter criticare la scolastica marxista, e in fondo la direzione stalinista del movimento operaio, in maniera spregiudicata e insieme costruttiva. Di lì a poco questa speranza tramonterà. L’orizzonte storico verrà definitivamente a oscurarsi davanti allo sguardo dei teorici critici. La Dialettica dell’illuminismo segna la fine di un periodo: il libro più importante della prima teoria critica è proprio quello che, paradossalmente, chiude con il programma della teoria critica. È probabile che l’esperienza americana, l’esperienza dell’emigrazione, abbia avuto il suo influsso su questo pessimismo. Gli esuli Horkheimer e Adorno, cercando scampo dal nazismo, trovarono negli Stati Uniti una società permeata, in forme diverse, dal medesimo principio di dominio. E negli anni successivi, al rientro in una Germania divisa che era l’emblema stesso della guerra fredda, appariva ormai chiara l’irreversibilità del fallimento del sistema nato dalla rivoluzione d’Ottobre. Così la teoria sociale e filosofica della Scuola di Francoforte fu sempre meno una teoria critica e sempre più, per usare una formula di Hegel, «il proprio tempo appreso col pensiero»: ossia la descrizione, fondamentalmente statica, di come lo spirito del mondo avesse abbandonato ogni velleità di trasformazione rivoluzionaria per identificarsi con l’esistente.
49Ma il rapporto troppo stretto tra la teoria e il suo tempo – oltre a essere limitante per le descrizioni prodotte dalla teoria, perché le totalizza nel senso di un punto di vista storico in quanto punto di vista privilegiato – ne indebolisce l’aspetto critico se viene posto sotto il segno di un’epoca fatalmente chiusa. Per trovare l’autentica peculiarità della critica, bisogna andare perciò al di là di questo rapporto troppo stretto, e quindi al di là della stessa autocomprensione dei teorici critici. Ridotta all’osso, l’operazione da essi compiuta consiste in questo: essi sono intervenuti in una teoria sociale bloccata in credenza, anzi trasformata in una vera e propria fede – il marxismo –, e hanno realizzato uno spostamento critico del punto di vista. In virtù di una concezione critico-negativa dell’utopia (nonostante, dunque, il riferimento all’idea classica di conciliazione, che implica una prospettiva totalizzante), si sono rifiutati di considerare i destini del mondo già avviati lungo quella strada che, dopo l’Ottobre, avrebbe dovuto condurre alla liberazione dell’umanità intera. Così facendo, hanno messo in discussione il trionfale universalismo marxista della rivoluzione mondiale, diventato nel frattempo puro inganno delle masse: ma lo hanno fatto seguendo il principio della critica immanente, cioè a partire da categorie (come quella di dominio) esse stesse universalistiche.
Il nodo del marxismo
50Il passo ulteriore, come ho già detto, consiste nel liberare l’elemento critico-negativo fin dall’ultimo residuo dialettico, e cioè anche dal suo aspetto di critica immanente, per procedere in una direzione scettico-relativistica. D’altronde proprio il motivo teologico-negativo (ossia la proclamata impossibilità di farsi un’immagine dell’utopia senza tradirla), questo vagheggiamento dell’assente, è in sintonia obiettiva con una prospettiva scettica. Esso implica una rottura dell’universalismo, o almeno una sua incrinatura: perché il fatto che si rifiuti qualsiasi immagine della divinità o qualsiasi definizione del «meglio » cui si aspira – ciò che nel pensiero dell’ultimo Adorno gioca un ruolo estremo e scopertamente paradossale –, conduce alla possibilità che in ciascuna forma di vita si determini una diversa visione di questo «meglio». L’utopia diventa una tensione verso l’incerto. Non a caso Habermas, nel suo progetto di ricostruzione della ragione su basi universalistiche e positive, polemizza duramente contro i vecchi maestri che si sarebbero abbandonati a uno «sfrenato scetticismo della ragione», situandoli così ben al di là delle loro intenzioni (che non erano affatto scettiche, come ho detto, ma anzi fin troppo fedeli all’idea di una conciliazione oggettiva).
51L’impasse in cui la vecchia teoria critica si è cacciata va invece imputata alla circostanza che essa non è riuscita a distinguere il momento teorico (descrittivo) da quello propriamente critico, collegato all’inevitabile passaggio della teoria in credenza. Rifiutando con tutte le sue forze questo passaggio, e considerando la sfera del senso comune come stregata da un dominio totalizzante, la teoria finiva con il totalizzare anche se stessa, con l’esaurire dentro di sé ogni ulteriore spostamento critico del punto di vista – e così si bloccava. In nome dell’intransigenza della sua stessa opposizione, ed evitando qualsiasi contatto con il senso comune, con la sfera della diffusione delle credenze, essa si autocondannava a essere una credenza condivisibile, tutt’al più, da un’esigua minoranza quasi esoterica. Il nodo della questione sta proprio nel suo rapporto con il marxismo. In quanto teoria sociale di massa, incarnata in un movimento politico, il marxismo è l’esempio più macroscopico di orientamento di una teoria verso il suo passaggio in credenza. Questo è stato anticipato da Marx e promosso su larga scala dal marxismo come movimento politico-teorico di sistemazione delle credenze (addirittura) in dogmi. A tutto ciò si oppongono Horkheimer e Adorno (come d’altronde altri prima e dopo di loro, giacché il marxismo è stato un grande movimento fatto anche di eresie). La loro teoria critica implica la più netta presa di distanza da una scolastica orientata alla pura propaganda. E tuttavia il marxismo, in quanto organizzazione militante della teoria, resta il grande mostro non esorcizzato. Horkheimer e Adorno ne ereditano alcuni tratti essenziali, e prendono le distanze dal suo trasformarsi in una fede senza approfondire le cause di questa trasformazione.
52Ho già detto che il programma della prima teoria critica è in larga misura un programma di rivitalizzazione del marxismo. Nel marxismo in generale (prescindendo cioè dalle controversie tra le diverse scuole) sussiste un nesso tra la previsione teorica, che si vuole scientifica, sui modi in cui si realizzerà la trasformazione rivoluzionaria della società capitalistica, e l’anticipazione di questa trasformazione come passaggio della teoria in una credenza che dev’essere diffusa. È stretto perciò il rapporto della teoria con i bisogni e gli interessi cui si rivolge. Ma questo viene a incrinarsi progressivamente quando, con il passare del tempo, risulta chiaro che la maggior parte di quelle previsioni su cui si basavano le speranze di una rivoluzione mondiale non si sono realizzate. Per esempio, la concentrazione e la centralizzazione del capitale, descritte da Marx, non hanno portato come conseguenza l’immiserimento crescente della classe operaia occidentale e la divisione della società in un pugno di capitalisti, da una parte, e in un esercito di proletari pronti a fare la rivoluzione, dall’altra. Ma dinanzi al venir meno di quello che a ragione può esser detto uno dei grandi miti del Novecento europeo, Horkheimer e Adorno non analizzano il nesso tra la previsione scientifica e l’anticipazione del passaggio della teoria in credenza: piuttosto riadattano la teoria di Marx alle mutate circostanze, lasciandone sostanzialmente inalterato l’impianto. Teorizzano il tramonto definitivo dell’epoca liberale del capitalismo e la tendenza ormai irreversibile verso una società totalmente amministrata – e così non fanno altro che dilatare oltremisura il concetto marxiano di dominio capitalistico.
53In questo modo – sebbene la critica di Horkheimer e Adorno allo schema di un progresso lineare sia netta – l’universalismo resta impregiudicato. Ciò di cui essi non discutono minimamente è appunto il modo in cui una teoria, che per quanto riguarda le sue descrizioni ha una portata universale, possa scoprire se stessa come una credenza particolare, in grado di esprimere bisogni e interessi determinati. Il marxismo è in un certo senso l’esempio più lampante di una teoria critica. Ma alla luce di quanto ho detto intorno alla distinzione tra il contenuto descrittivo della teoria e la sfera di diffusione della credenza – che è la sfera critica –, proprio il marxismo è anche l’esempio perfetto di come una teoria, inizialmente critica, finisca con il bloccarsi e non esserlo più. Un insieme di descrizioni, e quindi di spostamenti dei punti di vista, si fissa e diventa consueto. Al tempo stesso, lo spostamento critico del punto di vista, quello che dovrebbe orientare la teoria verso l’espressione di bisogni e interessi, diventa a sua volta una sorta di routine. Così la teoria si cementifica nella forma di una credenza, o meglio ancora di una fede: le sue descrizioni perdono di evidenza, i suoi concetti diventano dogmi costretti a rincorrere i mutamenti della realtà.
54È quanto è accaduto al marxismo. Il suo universalismo, figlio legittimo dell’illuminismo, attraverso tutte le controversie tra le diverse scuole, ha mostrato sempre più chiaramente il volto di una credenza particolare. La sua discesa dal cielo della teoria alla terra del senso comune, ha prodotto la più macroscopica ossificazione dello spirito critico che mai si sia vista. Intendiamoci: una teoria sociale è da considerarsi valida non in base alla semplice verità delle sue descrizioni, quanto piuttosto in base al campo di visibilità che riesce ad aprire. Nel caso del marxismo non v’è dubbio che quest’apertura di visibilità sia stata ampia: esso ha lasciato vedere, nel modo più coerente possibile in quel momento storico, la questione operaia come questione sociale centrale dell’Occidente. Nei suoi sforzi ulteriori, ha cercato poi di generalizzarla come questione sociale planetaria, in modo da incarnarsi in un movimento internazionale mondiale. Ma così il marxismo, diventando coscienza di massa, ha scontato al suo interno l’instaurarsi di una soggettività autoripetentesi. Proprio in questo modo si è bloccato. Ciò era evitabile solo con un ulteriore spostamento critico del punto di vista: il che però avrebbe implicato la rottura del suo apparato concettuale.
55La vecchia teoria critica avrebbe dovuto tematizzare apertamente il paradosso proprio della teoria in generale: quello di essere sospinta continuamente verso la dimensione della credenza, senza tuttavia potere accettare questa dimensione se non come riduttiva. In questo contesto, allora, avrebbe incontrato la teoria di Marx. Il suo diventare una credenza diffusa (in senso stretto, il marxismo) è l’indice di questo paradosso. Quanto più il marxismo aspirava a diventare senso comune, tanto più doveva irrigidire il suo spirito critico in vuote formule dogmatiche. Ma la risposta a tutto questo non consiste nel rifiutare il passaggio della teoria in credenza, come Horkheimer e Adorno hanno ritenuto, e quindi nella chiusura sdegnosa della teoria nella sua distanza dall’esistente (cosa del resto impossibile, come dimostra tra l’altro il fatto che il pensiero della Scuola di Francoforte, soprattutto con Marcuse, ha avuto una sua circolazione relativamente di massa all’epoca dei movimenti studenteschi del Sessantotto); consiste invece nello stare nel paradosso, evitando di farsene imprigionare grazie a un incessante spostamento critico del punto di vista.
Notes de bas de page
1 L’unica generalizzabilità ammissibile è di tipo utopico, quella che si configuri come una forma cui approssimarsi all’infinito: il contrario di qualcosa come una «conoscenza positiva».
2 Si vedano le «classiche» posizioni di J.J. Frazer, Il ramo d’oro, Torino, Bollati Boringhieri, 1990 e di L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, Torino, Einaudi, 1981.
3 Cfr. B. Malinowski, Teoria scientifica della cultura, Milano, Feltrinelli, 1981.
4 M. Sahlins, Cultura e utilità (titolo originale: Culture and Practical Reason), Milano, Bompiani, 1982, p. 100.
5 Una buona visione d’assieme della questione del relativismo in Wittgenstein è proposta da D. Marconi, L’eredità di Wittgenstein, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 121-153, cui rinvio anche per l’annessa bibliografia, sebbene a mio parere lo sforzo dell’autore per «salvare» Wittgenstein dal relativismo assoluto non sia convincente.
6 Cfr. L. Wittgenstein, Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, Milano, Adelphi, 1979.
7 Su questo punto l’autore ha successivamente mutato opinione (vedi anche nota 4, cap. 1), assegnando al progresso-utopia adorniano una valenza in parte autonoma rispetto all’universalismo e all’ideale di una ragione oggettiva, e facendolo interagire con il discorso (relativistico moderato) intorno all’ibridazione delle culture e dei tempi storici, così da definire la possibilità di progressi rispetto a situazioni date, anche se non quella di un unico progresso come coronamento della storia universale. Cfr. R. Genovese, Il destino dell’intellettuale, Roma, Manifestolibri, 2013, pp. 77 sgg.
8 Uso il termine nel senso di H. Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura, in Id., Cultura e società, Torino, Einaudi, 1969, pp. 43-85.
9 M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in Id., Teoria critica, vol. 2 cit., pp. 135 sgg. Sulla nozione «classica» di teoria critica, cfr. anche H. Marcuse, Filosofia e teoria critica, in Id., Cultura e società cit., pp. 87-108.
10 T.W. Adorno, Ricapitolazione sull’industria culturale, in Id., Parva aesthetica, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 58-68.
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