2. L’autocritica dell’illuminismo tra dialettica e paradosso
p. 41-68
Texte intégral
Critica dell’ideologia
1L’autocritica dell’illuminismo ha già una storia piuttosto lunga. Da Nietzsche fino alla Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, l’illuminismo – nella sua accezione ampia di critica della tradizione e del mito – non ha mai smesso d’interrogarsi sul significato e sulla portata della sua critica. E il processo di questa autoriflessione ha la forza di un fatto: non è qualcosa, cioè, che si possa fermare a piacere, ma un movimento obiettivo in un certo senso incontrollabile. Sembra vano voler porre dei freni all’autocritica fissando preventivamente i principi che dovrebbero regolarla e i limiti che non dovrebbe varcare1. L’autoriflessione affonda le radici in un bisogno della conoscenza che, almeno nella modernità, è inesauribile: nel bisogno di un continuo spostamento e moltiplicazione dei punti di vista. C’è sempre una scarsità di prospettive disponibili: su ogni questione ci sarebbe da saperne di più, e soprattutto anche in modo diverso. Così l’illuminismo, pensiero che si vuole critico per eccellenza, ritorna incessantemente su di sé alla ricerca di punti di vista non bloccati. Se la critica si arresta, anche l’illuminismo si arresta, tradendo se stesso e autocondannandosi alla chiacchiera. Perciò nell’illuminismo c’è comunque una resistenza a diventare una vera e propria ideologia (nel senso di una visione del mondo, di un insieme di credenze più o meno fisse). L’impulso critico non può essere fermato, anzi nemmeno frenato, pena la fine dell’illuminismo. Che deve mettere in discussione tutto, compreso se stesso. Vale, in proposito, il caratteristico «chi si ferma è perduto». La critica diventa autocritica in un processo ineluttabile – sebbene proprio qui sia in agguato ciò che è avvertito come un nuovo pericolo, opposto a una visione del mondo bloccata: quello dello scetticismo.
2Se, come ho detto, l’autoriflessione dell’illuminismo ha la forza di un fatto, anche la minaccia scettica (più precisamente, scettico-relativistica) è qualcosa di obiettivo, risultato di un impulso critico che non si lascia frenare: dunque è un pericolo che bisogna correre. Tutto ciò è stato compreso nei termini di quella che va sotto il nome di critica dell’ideologia. Dagli illuministi propriamente detti, attraverso Hegel, Feuerbach, Marx, passando poi per Nietzsche e Freud, il pensiero che si voleva critico ha dato vita a una lotta senza quartiere contro i miti e le superstizioni – e più in generale contro quelle forme di vita che non possono esibire alcun’altra legittimazione se non la loro mera esistenza come tradizioni –, dando così sostanza alla propria vocazione universalistica in una critica che è stata applicata a tutte le latitudini e sotto tutti i climi. Non soltanto nel mondo occidentale le forme di vita che non resistono al vaglio critico sono degne di scomparire, ma ovunque. Trascinata quindi dal suo stesso impulso totalizzante, la critica dell’ideologia difficilmente avrebbe potuto evitare di sottoporre a critica la sua stessa critica. E difatti ciò è puntualmente avvenuto. Poiché l’obiettivo della critica dell’ideologia è quello di ricondurre ogni idea, ogni teoria, ogni sapere, agli interessi (di potere, economici, sessuali) che ne costituiscono la radice nascosta, quali sono gli interessi che stanno dietro allo specifico sapere che si chiama critica dell’ideologia? Il gioco dello smascheramento finisce allora col coinvolgere la stessa teoria smascheratrice. Max Weber ha detto (e Karl Mannheim ha ripetuto) che la critica dell’ideologia non è una carrozza di piazza su cui salire e da cui scendere a piacere: se si ammette che dietro tutte le teorie ci sono degli interessi, quali sono gli interessi che stanno dietro a quella che sostiene che dietro tutte le teorie ci siano degli interessi?
3Il senso riflessivo di questa domanda è in buona misura il senso dell’autocritica dell’illuminismo, di cui può essere considerato a ragione una parte. Ciò cui la critica dell’ideologia mette capo – nella sua versione estrema, detta anche teoria dell’ideologia totale – è la dissoluzione scettico-relativistica della nozione di verità: questa non esiste, o meglio ci sono diverse verità a seconda dei diversi interessi e bisogni cui le credenze e le teorie si riferiscono. Alla classica teoria della conoscenza, studio del funzionamento della conoscenza in generale, si sostituisce una sociologia della conoscenza come ricostruzione dei diversi contesti entro cui sorgono le credenze e le teorie. In questo modo tutto viene sottoposto a dubbio – tranne l’agente del dubbio, tranne il soggetto che di volta in volta ogni cosa sottopone a dubbio e che, nell’incrociarsi incessante delle diverse ideologie, resta di volta in volta fuori questione come punto cieco da cui procede la critica: anch’esso pur sempre ideologia, certo, ma in modo opaco e inconsapevole. Nel gioco dello smascheramento, indotto dalla teoria dell’ideologia totale, resta impregiudicato, a ogni mossa successiva, il punto di osservazione da cui si realizza lo smascheramento della prospettiva da smascherare. Esso è sì in linea di principio a sua volta smascherabile, riconducibile a interessi e bisogni che minano la pretesa purezza e oggettività della sua conoscenza: ma lo è solo per così dire in un altro momento, da un altro punto di osservazione, la cui funzione resta a sua volta impregiudicata. Il concetto di punto di osservazione (o punto di vista) non è messo a fuoco; non è oggetto dell’indagine ma suo tacito presupposto. E così la stessa nozione di soggetto resta inindagata. Rimane sullo sfondo, cioè, la natura di quel bisogno che spinge un insieme di punti di vista a ripetersi, a fissarsi appunto come soggetto, come qualcosa di relativamente stabile nel girare incessante dello smascheramento. Il problema infatti non è scoprire dietro ogni ideologia degli interessi (scoperta in fondo ovvia), ma comprendere come, nonostante gli interessi siano sempre smascherabili, si formi tuttavia quella specifica «ideologia» che chiamiamo soggetto, in quanto insieme di punti di vista che ritorna fissandosi in determinate credenze. Difficile insomma non è ammettere che tutto sia criticabile e smascherabile, ma capire come tutto, pur criticato e smascherato, resti ciò nondimeno al suo posto.
4Questo problema, a ben vedere, è il medesimo dello scetticismo. Lo scetticismo ha sempre dubitato di ogni cosa, su ogni cosa ha sospeso il giudizio – ma non ha mai dubitato dell’agente del dubbio. (Il che, d’altro canto, nella storia della filosofia ha dato agio di bloccare il dubbio ininterrotto della scepsi con l’operazione del cogito cartesiano). La critica dell’ideologia, anche nella sua versione estrema, arriva a un esito analogo: non riesce a esplorare la costituzione del soggetto. Una volta scoperto, per esempio, che la religione sia manipolata dai potenti per opprimere gli oppressi, resterebbe ancora da spiegare come mai questi, svelato l’inganno, continuino a nutrire le medesime credenze religiose. Del resto anche Freud si era accorto che comunicare semplicemente al paziente l’origine della sua nevrosi non serve a guarirlo: perché acquisire una nuova conoscenza non è sufficiente di per sé a modificare un abito mentale o un modo di comportarsi. La critica dell’ideologia (di cui la psicoanalisi freudiana può essere considerata un momento) si trova dunque spinta obiettivamente verso l’esame critico del carattere «illuminante» delle sue illuminazioni. E qui incontra la questione dell’instaurarsi della soggettività nelle credenze, della loro tendenza a fissarsi.
Critica del soggetto
5Ora, l’autocritica dell’illuminismo consiste proprio in questo: nella messa in questione della costituzione del soggetto nella conoscenza e nelle forme di vita in generale. L’interrogazione intorno al carattere «illuminante» della critica dell’ideologia e dell’illuminismo porta in sé qualcosa di «più fondamentale»: ma questo non è il soggetto inteso come hypokeimenon, cioè come sostrato o come cogito cartesiano; è invece l’analisi dei mutevoli processi entro cui viene a formarsi un che di stabile: per esempio, nella teoria dell’ideologia, come si formano bisogni e interessi riconoscibili di fronte allo smascheramento di altri bisogni e interessi altrettanto riconoscibili. L’autocritica dell’illuminismo, in altre parole, è in se stessa scettica – o almeno, si sobbarca al rischio dello scetticismo come al suo rischio più proprio. Il «soggetto» di cui sto parlando non ha nulla di speculativo, nulla di strettamente filosofico. Soggetti sono gli individui concreti nella determinatezza dei loro bisogni e interessi, nel ritornare di questi, e quindi nel costituirsi della loro identità; e poi certo anche nel passaggio in forme generali di questa stessa identità, per esempio in quella di un «soggetto conoscente», punto di riferimento di credenze e teorie. L’identità viene vista così non come un semplice presupposto ma come un risultato, come qualcosa di divenuto attraverso un accumulo di presupposti. L’indagine reca in sé un tratto insopprimibilmente empirico.
6Diversamente da ciò che una parte della filosofia contemporanea indurrebbe a pensare, la questione più difficile, infatti, non è quella della differenza ma quella dell’identità. Per uno scettico è del tutto ovvio che i fenomeni siano diversi gli uni dagli altri; e anzi in uno scetticismo coerente vige il divieto assoluto della ripetibilità di qualsiasi argomento, cioè della pretesa di ripresentarlo come identico, perché questo sarebbe già venir meno alla sospensione del giudizio, tradire la scepsi. Poiché gli esseri umani, tuttavia, come sapeva Hume, non possono smettere di giudicare come di respirare, ecco che diventa indispensabile, per le necessità della vita, individuare delle «regolarità», costruire delle identità: altrimenti qualsiasi giudizio sarebbe impossibile. La questione dell’identità tra una cosa e un’altra – e di conseguenza anche quella dell’identità personale come identità tra una percezione e un’altra, tra uno stato mentale e un altro – è risolta già da Hume, alle origini dell’illuminismo storico, mediante una fuoriuscita dall’ambito ristretto della teoria della conoscenza e un richiamo al mondo della vita. La ripetizione, o meglio la ripetizione dell’osservazione, costruisce secondo Hume delle regolarità empiriche. Queste sono il risultato dell’osservazione: non pertengono ai fenomeni in se stessi ma sono prodotte sotto la spinta di un bisogno vitale. Perciò le identità che così si costituiscono, identità di ripetizione, sono identità approssimative: cioè il frutto di processi d’identificazione anziché estrinsecazioni di una cogente struttura logica (A = A). Quello che è considerato identico, al di fuori delle verità matematiche, riposa sull’arbitrario.
Identità e identificazione
7L’identificazione di ciò che non è identico, o l’«equiparazione di ciò che non è uguale»2, è uno dei motivi principali del pensiero di Nietzsche, che a ragione può essere considerato come un grande scettico, al di là del tono oracolare e dell’aura di mistero che circola in molte sue opere. Per lui (che detestava Hegel e aveva invece simpatia per Hume) l’identità e la non-identità non sono affatto strutture intrinseche della realtà ma costrutti artificiali della mente, in cui si esplica il bisogno di sicurezza come bisogno d’identificare e di distinguere. La radice della conoscenza consiste in un’unica volontà di potenza in quanto necessità di controllo sui problemi posti dalla vita: nulla che possa giustificare l’asserzione che due fenomeni sono identici (o distinti) se non un’esigenza vitale. Le categorie della logica non hanno valore in se stesse ma solo come espressioni della volontà di potenza. E anche il soggetto, con la sua identità, è un costrutto artificiale, una finzione logica nata dai processi d’identificazione.
8La distinzione tra identità e identificazione può essere considerata l’atto di nascita dell’autocritica dell’illuminismo. L’identità del soggetto è soltanto un risultato, un effetto dei processi d’identificazione; non è qualcosa di semplice e di sostanziale ma di costruito e di artificiale. In questo modo Nietzsche va al di là dei posteriori critici dell’ideologia (Max Weber, Karl Mannheim, Max Scheler) che pure, almeno in parte, a lui s’ispirano. Non si limita a sostenere, infatti, che dietro ogni ideologia ci sono degli interessi (nel suo caso la volontà di potenza), ma pone in questione radicalmente la costituzione del soggetto che s’instaura non tanto dentro questo o quell’interesse particolare, quanto nella lotta per lo smascheramento tout court. Nel gioco incessante delle apparenze, di apparenze contro altre apparenze, cui lo smascheramento può essere ridotto, non si limita a giocare la sua mossa: piuttosto pone in questione il gioco stesso, colpendo nel soggetto dello smascheramento la pretesa di un’apparenza che di volta in volta tende a fissarsi, a durare – e al tempo stesso mostrando la necessità di questa illusione in connessione con un vitale bisogno di sicurezza. Così Nietzsche va ben al di là dello smontaggio empiristico del soggetto conoscente in un «fascio di percezioni» alla Hume. In primo luogo, la critica nietzschiana non si restringe a questo soggetto, ma si estende al linguaggio e a tutti i processi d’identificazione entro cui s’instaura un «io»; in secondo luogo, non si tratta più d’inserire la critica del soggetto all’interno di un discorso sulla natura umana, in un’antropologia filosofica come analisi di facoltà definite una volta per tutte, perché «l’uomo è l’animale non ancora stabilizzato» e i suoi sviluppi futuri sono imprevedibili; infine il soggetto è considerato come un’illusione di tipo speciale, un’illusione necessaria, che va studiata nella sua costituzione e non semplicemente liquidata.
9Un esempio di ciò è dato dalla teoria del risentimento enunciata nella Genealogia della morale3. Secondo questa, una particolare condizione psicologica e sociale – quella del risentimento, appunto – è alla base della visione del mondo dei deboli e dei diseredati, sia nel cristianesimo delle origini sia nel moderno socialismo. Ora, la teoria del risentimento non riguarda soltanto la soggettività dei risentiti ma anche quella degli oggetti del risentimento, cioè i forti e i potenti, che si sentono minacciati dai più deboli. Ciò che viene a formarsi, in questo modo, è una vera e propria scena del risentimento sulla quale si distribuiscono i ruoli e ciascuno gioca la sua parte, senza possibilità di sfuggirne le conseguenze. L’inevitabilità di questa scena, la sua intrascendibilità, è data dal fatto che, una volta delineata la differenza tra i forti e i deboli (da Nietzsche pensata in termini biologici, alla maniera del darwinismo sociale), le identità che così si stabiliscono tendono a fissarsi e a ripetersi nel conflitto d’interessi che oppone i forti ai deboli e viceversa. Nel gioco dello smascheramento che ne consegue, importante non è tanto svelare la vera natura degli interessi contrapposti, quanto piuttosto rafforzare la propria identità gettando il discredito sulla parte avversa. E il soggetto – questa identità identificata, per così dire, attraverso la ripetizione e la stabilizzazione di una differenza – si costituisce così come un’apparenza tra altre, ma anche come un’illusione da cui non è affatto possibile liberarsi.
Generalizzazione del residuo
10Il cosiddetto prospettivismo nietzschiano è dunque una peculiare forma di relativismo in cui non si dice soltanto che ogni conoscenza dipende da una determinata prospettiva, ma si tematizza anche ciò che, nel mutare delle prospettive, tende a restare fermo: appunto il soggetto che s’instaura dentro ciascuna prospettiva, ripetendola e bloccandola. Non è possibile liberarsi dal soggetto perché non è possibile liberarsi da quell’illusione d’identità che ogni prospettiva produce. È la stessa prospettiva che, identificando qualcosa come oggetto della conoscenza, identifica di rimbalzo anche un soggetto conoscente. E quest’ultimo tende a fissarsi, a durare, in quanto, nella variabilità delle prospettive, è l’elemento comune a tutte, il residuo che non può non esserci in quanto risultato dei processi d’identificazione. È la natura residuale del soggetto, il suo sorgere dal contraccolpo dell’identificazione propria di qualsiasi prospettiva, a far sì che esso si depositi nella forma di quella che può essere considerata come una generalizzazione del residuo. In realtà nulla impedirebbe che ogni prospettiva fosse posta in corrispondenza con un punto di vista soltanto, di volta in volta variabile – e in questo modo non ci sarebbe soggetto per nulla. Ma così ciascun momento della conoscenza sarebbe un caso a sé, irripetibile. Il residuo sarebbe di volta in volta diverso, anche se non sarebbe mai del tutto eliminato (non potrebbe essere eliminata, cioè, la circostanza che un residuo comunque si dia): perché è la stessa forza identificante propria della prospettiva a identificare riflessivamente anche il punto di vista da cui quella si diparte.
11La ripetibilità implica allora la formazione di un’identità approssimativa attraverso la stabilizzazione di una differenza: il che io chiamo appunto generalizzazione del residuo, intendendo con ciò che il contraccolpo caratteristico dell’identificazione viene di volta in volta anticipato, per ciascuna situazione successiva, in maniera analogica. Nel mutare incessante delle prospettive, una tende a ritrovare il suo punto di vista (o un insieme di prospettive il suo corrispondente insieme di punti di vista) come un residuo generalizzato, sempre più o meno identico. Il discorso intorno alla costituzione del soggetto va di pari passo con lo smontaggio della tradizione cartesiana: se il soggetto non è più la mossa d’apertura della filosofia, il fondamento o il sostrato, diventa possibile spiegare come l’illusione di questo presupposto chiamato soggetto nasca da un accumulo di presupposti. Non si tratta di liquidare la questione del soggetto dissolvendola; si tratta di sottrarla all’ipoteca della sua pretesa di fondazione cercando di ricostruirne la genealogia.
Scetticismo di secondo ordine
12L’importanza di Nietzsche per l’autocritica dell’illuminismo sta quindi in una critica del soggetto condotta senza preoccuparsi di fornire l’ennesima teoria della soggettività da collocare accanto alle altre nel museo della storia della filosofia, ma individuando la radice della sua nozione generale astratta nel bisogno di sicurezza e nella volontà di potenza. Così Nietzsche colpisce a fondo, in maniera scettico-relativistica, le pretese di fondazione in campo conoscitivo e morale, facendo a pezzi le idee di verità e di bene (e di valore in genere) ereditate dalla tradizione. Egli radicalizza la critica della tradizione caratteristica dell’illuminismo, mettendo in questione l’agente per eccellenza del dubbio e della critica – il soggetto, appunto –, e mostrando al tempo stesso la necessità della sua costituzione. È a partire dal riconoscimento del suo carattere necessario che si apre lo spazio per uno scetticismo di secondo ordine o alla seconda potenza: uno scetticismo, cioè, in cui l’obiettivo della scepsi non è il mondo ma proprio il soggetto. Ciò significa che, in contrasto con il metodo introspettivo della tradizione cartesiana, si cerca una sorta di luogo ideale extrasoggettivo da cui parlare del soggetto: mediante un radicale spostamento del punto di vista, con il tentativo di guadagnare uno sguardo che eviti la pura autoreferenzialità della coscienza e si collochi virtualmente al di fuori di essa.
13In questo contesto la Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno occupa un posto centrale. Il gesto intellettuale da cui il libro prende origine consiste in un’autocritica dell’illuminismo probabilmente meno radicale di quella di Nietzsche sul piano filosofico, ma certamente più radicale sul piano politico. Horkheimer e Adorno hanno davanti agli occhi la situazione dell’epoca con le sue promesse di emancipazione non mantenute: cioè la delusione della speranza indotta dalla rivoluzione d’Ottobre, il nazismo tedesco e il neocapitalismo americano. Questi fenomeni storici costituiscono lo sfondo del libro, e compaiono come tre esiti della civiltà illuministica – non troppo dissimili tra loro – all’interno di un’indagine critica imperniata sul concetto di dominio, in cui si trovano fuse insieme, o meglio trasfigurate, la concezione del potere di Nietzsche, l’idea di Max Weber (del resto in parte dipendente proprio da Nietzsche) di una «gabbia d’acciaio» burocratica destinata a racchiudere il mondo intero tanto nella forma del capitalismo quanto in quella del socialismo, e infine la nozione hegeliana di signoria (Herrschaft) come appare nella Fenomenologia dello spirito, precisamente nella «figura» del padrone-servo4. La relazione con il servo – questa la posizione che si può desumere da Hegel – è qualcosa che modifica l’essenza stessa dell’essere padrone: è la costituzione della soggettività signorile – il Sé secondo la terminologia della Fenomenologia dello spirito ripresa da Horkheimer e Adorno – la questione che si cela dietro il nesso hegeliano di signoria e servitù.
14Nelle celebri pagine della Dialettica dell’illuminismo dedicate a Odisseo5, il costituirsi del Sé viene visto come un processo duplice di signoria: e sulla natura esterna agli uomini, nella forma di un dominio tecnico totale, e sulla natura interna agli uomini come repressione degli istinti o pulsioni nel senso di Freud. Il rapporto con la natura, mediato dal servo, incatena il signore e tiene incatenato il servo. Odisseo si fa legare all’albero della sua nave per evitare di cedere al canto delle Sirene (metafora, questa, della repressione pulsionale), mentre i marinai, bendati e con le orecchie tappate, sono costretti a remare. Il dominio non lascia scampo: un incantesimo immobilizza i soggetti, tanto gli oppressi quanto gli oppressori, svuotandoli di ogni capacità di esperienza. È nel riconoscimento di questo svuotamento, di questa paralisi, che traspare l’atteggiamento critico-negativo, o se si vuole scettico, nei confronti del soggetto. Certo, Horkheimer e Adorno non aderiscono al prospettivismo di Nietzsche (accusato anzi di positivismo, cioè di accettare il mondo così com’è per via della dissoluzione, presente nel suo pensiero, della ragione in quanto istanza critica); ma la loro indagine intorno alla costituzione del Sé nella Dialettica dell’illuminismo rientra nel medesimo movimento di autocritica dell’illuminismo e procede anch’essa nella direzione di uno scetticismo alla seconda potenza, cioè di uno scetticismo che mette in questione il soggetto. Soltanto, la messa in questione avviene all’interno di uno schema teorico dialettico che molto deve all’idea hegeliana di alienazione rielaborata da Marx: i soggetti umani hanno qualità naturali (o facoltà) che si perdono dentro il processo produttivo, a causa della divisione del lavoro e dello sfruttamento capitalistico. E le merci, che si contrappongono come arcane potenze demoniache agli operai che le producono, configurano un mondo di rapporti sociali reificati nel cui ambito i soggetti sono privati di qualsiasi autonomia.
Alienazione e conciliazione
15Ora, senza voler esaurire qui la discussione intorno al concetto di alienazione, mi limito a osservare che il suo uso ha conseguenze rilevanti per la teoria della soggettività. Se il soggetto viene detto alienato, infatti, ciò significa porre il problema di una sua ricomposizione, di una riconciliazione con se stesso: ossia, nei termini di Horkheimer e Adorno, di una conciliazione del soggetto con la natura interna ed esterna. Proprio in questa visione il retaggio dialettico si fa sentire al massimo grado. Se infatti il concetto di soggetto, alla stregua di tutti gli altri concetti, fosse un puro flatus vocis, se fosse il semplice artificio di una mente teorica che cerca di comprendere sotto un unico principio svariati tratti individuali, non avrebbe alcun senso parlare di una sua, sia pure utopica, disalienazione. Al contrario, per Horkheimer e Adorno è possibile mantenersi ancorati alla conciliazione, cioè all’utopia di rapporti sociali liberati dal dominio, solo in quanto il soggetto è appunto qualcosa di più di un flatus vocis: in quanto è la mediazione concreta di una totalità di momenti naturali e spirituali, particolari e universali. Secondo la loro diagnosi, questa totalità è però una cattiva totalità, perché in essa vige lo strapotere di un’identità universale che stritola ogni elemento particolare (o naturale) espellendolo da sé come alterità. A ciò Horkheimer e Adorno contrappongono una dialettica di particolare e universale, che, diversamente da quella di Hegel, prende le parti del particolare (o del non-identico, secondo la terminologia dell’Adorno di Dialettica negativa) per cercare di sfuggire alla falsa identità universale del dominio. Così il soggetto particolare empirico, l’individuo umano con le sue pulsioni, viene visto come il solo punto di resistenza alla onnipervasività del dominio.
16In questo quadro teorico lo scetticismo nei confronti del soggetto non può che essere molto moderato. Se è vero infatti che nel soggetto, o nel Sé, si esprime l’identità del dominio, che esclude ogni alterità, è anche vero che nella sua natura pulsionale si trova l’alterità capace di spezzare l’identità. Per Horkheimer e Adorno si tratta in un certo senso di reintegrare nei suoi diritti, attraverso il lavoro dello spirito o della cultura, quella natura che proprio dallo spirito, convertitosi in dominio, è stata repressa – sebbene ciò non possa essere presentato nella forma di una conciliazione positiva, disegnata a tutto tondo (che rischierebbe di rilanciare surrettiziamente il principio autoritario d’identità), ma in quella di una conciliazione ineffettuale, di una utopia critico-negativa a cui si può soltanto alludere, così da non bloccare in anticipo lo sviluppo delle possibilità alternative. Questo scetticismo fa dunque valere la sua negazione determinata contro la cattiva totalità del dominio, che permea di sé i soggetti particolari, non certo contro il concetto della soggettività tout court. Il soggetto è anzi ciò che dev’essere disalienato, liberato dal viluppo della cattiva totalità. Fedeli al modo di pensare dialettico, Horkheimer e Adorno rifiutano dunque di accettare la sfida scettica sino in fondo. Essi non si limitano a correggere l’impostazione scettico-relativistica, implicita nella critica dell’ideologia, mediante una teoria della costituzione del soggetto come di quel qualcosa che, nel mutare delle prospettive, relativamente si fissa e resta fermo. No, spaventati dalle conseguenze del divenire totale dell’ideologia (cioè in fondo dalla dissoluzione del concetto di verità), non si rifanno al prospettivismo nietzschiano, ma oppongono, tanto a questo che a quella, una totalità dialettica, una peculiare mediazione di universale e particolare, in definitiva un’idea di ragione oggettiva.
17Nei confronti di questa strategia vorrei far valere anzitutto – anticipando in parte la mia posizione – l’istanza di un concetto di soggettività come termine generico astratto per un insieme di tratti individuali, secondo un nominalismo radicalizzato in senso scettico, nel senso, cioè, di quella identità approssimativa di cui parlavo sopra. In nessun modo il principio logico d’identità può essere considerato incorporato nel reale alla maniera hegeliana, neppure nella forma di un dominio da cui bisognerebbe liberarsi. Ci sono solo identità costruite, e tra queste i soggetti empirici, in modo sempre approssimativo mediante complessi processi d’identificazione. Diverso l’impianto concettuale dialettico di una totalità che si distorce sotto la pressione del dominio diventando falsa, ma che potrebbe essere risanata, diventando vera, attraverso una conciliazione con la natura, cioè con il particolare in precedenza espulso da sé. Esso è imperniato sull’idea di un’universalità reale dei concetti, di un’universalità intessuta nella «cosa stessa» della realtà sociale, che fa del soggetto un momento della totalità alienata in attesa di essere disalienata.
18La Dialettica dell’illuminismo contempla infatti che la strapotente identità del dominio, espellendo da sé ogni alterità, finisca per cedere con ciò stesso a questa, alienandosi appunto, e consegnandosi alla natura bruta pur tenuta a distanza mediante un eccesso di difesa. Lo spirito che ha orrore dell’alterità e la espelle da sé, impedendo la conciliazione, riprecipita, dal cielo della sua presunta autonomia, in uno stadio preculturale, sotto il dominio di una natura violentata che gli restituisce, come in uno specchio, il volto deformato della sua stessa regressione. La tesi centrale della Dialettica dell’illuminismo può essere, com’è noto, riassunta così: il mito è in se stesso già illuminismo; l’illuminismo a sua volta si rovescia in mito. Ciò che sorregge questa tesi è l’idea di una razionalità strumentale, di una ratio autonoma (ossia: che si vuole autonoma, contrapponendosi alla natura per dominarla), comune tanto al mito che all’illuminismo. In ambedue i casi sarebbe all’opera una razionalità che privilegia i mezzi rispetto agli scopi, in grado di determinare soltanto i mezzi relativi agli scopi lasciando questi ultimi nella più completa indeterminatezza, cioè in balia di un arbitrio decisionistico sostanzialmente irrazionale. Un impulso sfrenato all’autoconservazione tiene il soggetto sotto l’incantesimo del dominio. Che si tratti di dominio mitico o illuministico, non fa differenza: sotto la specie della razionalità strumentale, un’autoconservazione selvaggia regge il gioco. E la dialettica dell’illuminismo, concreto fenomeno di rovesciamento dell’illuminismo nel suo contrario, ha le sue radici in questa filosofia pessimistica della storia secondo cui essa non è che il progressivo dispiegamento di un dominio puramente tecnico, nato e cresciuto sotto il segno della razionalità strumentale.
Totalità dialettica
19In questo modo la storia viene totalizzata, compresa sotto un punto di vista onniavvolgente, ridotta a un’unica prospettiva: cosicché – dalle culture primitive agli antichi greci, dai riti magici al sorgere della scienza moderna, fino al fascismo e al neocapitalismo – essa è interamente storia del predominio della razionalità strumentale. La proposta implicita nel libro di Horkheimer e Adorno è dunque quella di integrare la razionalità, sottraendola alla sua unilateralità puramente strumentale, alla stessa maniera in cui il Sé dev’essere integrato con se stesso mediante la fine del dominio sulla natura. I due aspetti sono intimamente connessi e il loro punto di contatto è dato proprio dal concetto di autoconservazione, che diventa l’autentico mistero profano della storia umana. È l’eccesso di difesa nei confronti della natura, caratteristico di un’autoconservazione irrazionale, ciò che sottende sia la costituzione del Sé sia il predominio della razionalità strumentale. La totalizzazione della storia avviene in Horkheimer e Adorno nel segno di un pessimismo dell’autoconservazione, che coinvolge anche l’illuminismo.
20Se questo infatti tradisce le sue promesse di emancipazione, se ricade nell’accecamento mitico, ciò accade perché soggiace alla medesima razionalità strumentale all’opera nel mito; si arrende a quella connessione a sua volta brutalmente naturale propria dell’autoconservazione nel rapporto con la natura dominata. Come dire: la perversa dialettica dell’illuminismo, il suo rovesciarsi in mito, rende palese il fallimento della positiva filosofia della storia hegeliana e della sua istanza di conciliazione. Perciò l’illuminismo (del resto proprio come il Sé) nella visione di Horkheimer e Adorno dev’essere difeso contro se stesso secondo il principio di una critica immanente che ponga a confronto l’oggetto criticato con le sue intenzioni, per vedere se queste sono state realizzate, così da «salvare» l’oggetto criticato nel momento stesso in cui è criticato. Non diversamente Horkheimer e Adorno trattano la soggettività, difendendone strenuamente il principio e rifiutandone piuttosto la costituzione nel Sé. Il nesso tra illuminismo e mito è analogo a quello che lega il Sé al dominio: lo sforzo di liberarsi dal mito riprecipita l’illuminismo nel mito; l’affermazione dell’autonomia del Sé dalla natura lo consegna alla cieca connessione naturale del dominio. La dialettica è il pensiero di questo passaggio, di questo rovesciamento nel contrario, che dà per scontata la totalità – o piuttosto la totalizzazione sotto un unico punto di vista – degli estremi.
21Ora, ciò che nessuna dialettica, anche la più radicale, riesce a spiegare è come potrebbe formarsi questo punto di vista totale. La dialettica è costretta giocoforza a presupporre tacitamente se stessa: perché rifiuta anche soltanto la possibilità di autoconsiderarsi come un punto di vista tra altri, e quindi non può rendere conto dei suoi presupposti. Per conseguenza, sia la soggettività sia l’illuminismo sono dati per scontati e assunti come oggetti della dialettica: la soggettività ha un lato naturale che dev’essere riscattato di contro alla sua costituzione nel Sé; l’illuminismo ha un contenuto universale che è stato tradito dal dominio della razionalità strumentale e deve ancora essere liberato. Ma la prospettiva da cui queste e altre riflessioni, tipiche di un illuminismo autocritico, vengono sviluppate non è a sua volta riflessiva, non individua un punto di vista determinato come «luogo» da cui la critica procede; anzi, in quanto pensiero della «cosa stessa», la dialettica deve cancellare finanche le minime tracce della voce che parla, o del punto di vista che vede.
22Di qui il tono della Dialettica dell’illuminismo, il suo caratteristico stile fatto di aforismi e frammenti che sembrano quasi autocomporsi, e nelle cui pagine non solo ogni differenza tra i due autori deve cadere in nome della superiore oggettività del pensiero, ma in cui anche la posizione dell’individuo – del particolare, per il quale bisogna pur prendere partito, e a cui la stessa forma frammentaria fa riferimento – è in se stessa sempre mediata dall’universalità che media ogni cosa. È ben vero che questa universalità è considerata una cattiva universalità che stritola il particolare e tutto ciò che si presenta come diverso; ma è anche vero che proprio la cattiva universalità rinvia, in negativo, alla buona universalità da realizzare nella conciliazione. Troviamo quindi la totalità all’inizio e alla fine del discorso francofortese: come un presupposto ingiustificato o come un puro desideratum, che salta fuori dal cappello del prestigiatore dialettico.
Antinominalismo dei francofortesi
23L’incapacità di pensare se stessa come un punto di vista determinato fa sì che la dialettica sia inutilizzabile per una teoria radicale della costituzione del soggetto. Non si tratta soltanto di mostrare che il soggetto non è nulla d’immediato ma qualcosa di estremamente carico di presupposti; si tratta anche – mentre si parla degli individui, del Sé e così via – di tematizzare riflessivamente la teoria stessa come un «soggetto» che si autocostituisce nella forma di un insieme di osservazioni e di punti di vista relativamente stabili e ripetentisi. L’autocritica dell’illuminismo risulta inoltre troppo moderata se, in stretta analogia con la posizione assunta intorno al soggetto, si fa dell’illuminismo qualcosa che sarebbe il contrario dialettico del mito e il cui contenuto universale si tratterebbe indiscutibilmente di realizzare. La protesta contro il predominio della razionalità strumentale, che riconvertirebbe l’illuminismo in mito, lascia impregiudicata la pretesa di universalità che gli pertiene prima ancora di trasformarsi in mito. I maestri francofortesi non vanno criticati, come vorrebbe Habermas, per lo sfrenato scetticismo della ragione a cui si lascerebbero andare, ma, al contrario, in quanto questo scetticismo non è abbastanza radicale: Horkheimer e Adorno fanno muro, infatti, contro il rischio della scepsi con tutto il loro armamentario dialettico antipositivistico e antinominalistico.
24Per un pensiero basato sulla pretesa di un punto di vista totale, come il pensiero dialettico, la posizione nominalistica, tipica della tradizione empiristica, appare già un cedimento alla scepsi. Se gli universali sono puri nomi (e tra questi è compreso il concetto di soggetto), viene meno la possibilità stessa di un punto di vista totale. Per un pensiero fedele alla dialettica, l’idea che la conoscenza dipenda da un insieme di punti di vista, che essa possa autoproclamarsi universale, o meglio generale, solo con molta fatica, è già di per sé un’opzione scettica e, addirittura, una resa della ragione di fronte alla brutalità dell’esistente. L’idea stessa del costituirsi di un punto di vista critico appare come un depotenziamento della critica, e quindi un cedimento a quel pensiero che pretende di avere un punto di vista totale, cioè in fondo nessun punto di vista.
25A riprova di ciò c’è la condanna pronunciata da Horkheimer, in sede di giudizio storiografico, contro Montaigne e il carattere conservatore della sua scepsi6: una condanna che non riesce a vederne l’aspetto critico contenuto nel momento relativistico, di spiazzamento dell’universalismo. La forte avversione dei teorici francofortesi al positivismo e al nominalismo non nasce unicamente da ragioni di polemica contingente7, ma dalla netta contrapposizione di principio tra una conoscenza di tipo dialettico e ogni forma, anche temperata, di scetticismo e di relativismo. L’idea che la posizione del soggetto conoscente debba essere esibita nel farsi stesso del processo della conoscenza, questa idea non dialettica che rinvia alla questione della formazione di un insieme di punti di vista costituito in una teoria, è tacciata di astrattezza e di formalismo da quei pensatori che si sentono eredi dell’idealismo oggettivo hegeliano. Certo in Hegel, secondo Adorno, persiste il predominio del principio d’identità, l’identificazione di reale e razionale che proprio la negazione determinata (messa a punto dallo stesso Hegel e usata contro di lui) si sforza di far saltare: e questa negazione è scettica, mette in questione tutto quanto si presenta come positivo – ma scettica non più di tanto, perché comunque i maestri francofortesi si guardano bene da qualsiasi soluzione nominalistica del problema del soggetto conoscente.
26La conseguenza di tutto ciò è che la teoria finisce con l’avere il medesimo sapore universalistico dell’oggetto che intende criticare. L’autocritica dell’illuminismo, in altre parole, ricade sotto i medesimi presupposti universalistici dell’illuminismo. Non è tanto il recupero di un’idea di ragione oggettiva a produrre questo effetto, quanto piuttosto, in relazione con la totalizzazione del punto di vista, la totalizzazione di quello che è l’obiettivo dell’intenzione critica: la razionalità strumentale. Se la volontà di dominio della cultura occidentale – e dell’illuminismo in essa, in quanto sua coscienza più alta – viene presa alla lettera e descritta come una dimensione demoniaca dispiegata, pare allora che non ci sia altra chance per la critica se non di opporre la sua buona totalità a quella demoniaca del dominio. La categoria della razionalità strumentale viene proiettata all’indietro in modo da abbracciare retrospettivamente l’intera storia umana in un disegno onnicomprensivo. Con una mossa più decisa di quella di Max Weber – da cui pure desumono la categoria di razionalità strumentale –, Horkheimer e Adorno attribuiscono questo tipo di razionalità anche al mondo della magia e del mito. E contro la totalizzazione mitico-magica è fatta valere la totalità della critica.
Il Weber dei francofortesi
27Max Weber aveva parlato di razionalizzazione e disincantamento del mondo, della caduta degli antichi dèi e del prevalere della razionalità strumentale, in riferimento allo specifico sviluppo storico dell’Occidente. Nella Dialettica dell’illuminismo questo riferimento viene ripreso e ampliato: il mito, con la sua cieca connessione naturale, è già dominio sulla natura, quindi già razionalità strumentale, già illuminismo. Al tempo stesso l’illuminismo formale e astratto, separato dal suo contenuto di emancipazione e ridotto alla pura razionalità strumentale, è ricondotto polemicamente al mondo primitivo del mito, non diverso da quello che si vorrebbe illuminato. La massima demitizzazione si riconverte in mito. Con questa tesi, Horkheimer e Adorno rovesciano il pensiero di Weber, mutano il segno della sua diagnosi sulla modernità. E tuttavia, proprio per questo, ne accettano le coordinate di fondo. Il processo di razionalizzazione si è effettivamente realizzato, anzi, si è esteso all’intero pianeta grazie alla totalizzazione del dominio; soltanto, il disincantamento non c’è stato, e il mondo è precipitato sotto un nuovo incantesimo. Il pathos tipico del pensiero di Weber, la sobria apologia delle procedure formali e astratte caratteristiche della cultura occidentale e della forma di vita propria del capitalismo protestante, il suo elogio del razionalismo e la distinzione, di marca neokantiana, tra giudizi conoscitivi e giudizi di valore – tutto viene rimacinato e rivoltato contro di lui secondo il principio della critica immanente.
28Se la teoria contenuta nella Dialettica dell’illuminismo ricade sotto l’universalismo che intende denunciare, ciò dipende allora in larga misura dalla relazione che questo libro intrattiene con Weber. L’uso della categoria di razionalità strumentale – come pure la polemica contro di essa, contro il principio di una ragione puramente formale, che si occupa dei mezzi in rapporto agli scopi ma abbandona la determinazione di questi ultimi a un decisionismo irrazionalistico – e, accanto a ciò, il rifiuto di una teoria della conoscenza di tipo positivistico, basata sulla centralità della nozione di punto di vista, con una conseguente totalizzazione in chiave antipositivistica del concetto di dominio: questi i punti fondamentali intorno a cui si annoda la complessa relazione tra la Dialettica dell’illuminismo e Weber. Già in origine, d’altronde, la tematica della razionalizzazione non è affatto priva di problematicità. In un ideale albo d’oro dell’autocritica dell’illuminismo è lecito iscrivere, per molti aspetti, anche il nome di Weber. Si pensi all’idea – cui sopra si è accennato – di una «gabbia d’acciaio» burocratica, conseguenza diretta del processo di razionalizzazione, destinata a racchiudere il mondo tanto nella versione capitalista che in quella socialista; oppure alla stessa intrinseca ambivalenza del processo di razionalizzazione, che libera gli uomini dalla magia, ma li sottomette in ogni momento della vita al dominio astratto e impersonale di procedure puramente formali. In Weber tutto questo – la modernità, l’illuminismo, la cultura occidentale – riveste comunque un valore positivo. In Horkheimer e Adorno, invece, è quanto va messo in questione con la tesi intorno al rovesciamento della demitizzazione in mito. La diagnosi diventa irrimediabilmente pessimistica. E tuttavia è facile riconoscere gli stessi strumenti diagnostici, il medesimo apparato concettuale di Weber.
29Questo apparato è universalistico perché tende a proiettare l’analisi della moderna forma di vita occidentale sulle altre culture e sull’intero mondo. Cos’altro è, per esempio, la sociologia della religione di Weber se non lo studio sistematico dei motivi che hanno fatto la superiorità della spiritualità dell’Occidente, soprattutto nella fase contrassegnata dalla riforma protestante, nei confronti delle altre forme di vita religiosa, la buddistica, la induistica e così via? E che altro ruolo svolge, nelle analisi storiche di Weber, la battaglia di Salamina, che vide il prevalere dei greci sui persiani, se non quello di fungere da volano dello sviluppo del razionalismo occidentale grazie alla vittoria contro l’oscurantismo orientale? Da qualsiasi parte si prenda, dal suo lato sociologico come da quello della filosofia della storia, la teoria weberiana è un’esaltazione sottile – tanto più sottile quanto più problematica – della cultura occidentale. Le ragioni di questa esaltazione vengono meno nella Dialettica dell’illuminismo, secondo cui l’Occidente, all’apice del suo sviluppo, tende a riprecipitare nella barbarie. Ma per il modo in cui la critica viene condotta, cioè per il suo carattere immanente, essa deve utilizzare gli stessi mezzi concettuali di Weber. Per Horkheimer e Adorno non si tratta infatti semplicemente di confutare Weber; si tratta di ritorcere le sue armi contro di lui – ma appunto proprio le sue stesse armi.
30In un certo senso, anziché descrivere il rovesciarsi oggettivo dell’illuminismo in mito – in virtù della loro essenza comune rappresentata dalla razionalità strumentale –, Horkheimer e Adorno realizzano il rovesciamento del pensiero di Weber. Il suo trionfale universalismo viene messo in crisi mostrando che il divorzio tra giudizi conoscitivi e giudizi di valore, tra la razionalità rispetto allo scopo (formale) e la razionalità rispetto al valore (materiale), nasconde quella che si può chiamare la divaricazione tra progresso e sviluppo: cosicché a un incremento della razionalità puramente formale, strumentale, non corrisponde alcun vero avanzamento della razionalità materiale, nessun’autentica emancipazione degli esseri umani. Perciò il dominio (analizzato in Weber in termini positivisticamente neutrali), riletto in chiave hegelo-marxiana, cioè in maniera non più puramente formale, diventa una piovra tentacolare che avvolge i soggetti ormai del tutto alienati. Ma se la totalità sociale viene dichiarata cattiva, perché in essa l’universale stritola il particolare, non per questo l’universalismo è messo fuori causa, anzi è confermato in quanto cattivo, mentre il pensiero allude all’utopia di quella conciliazione entro cui la mediazione del particolare con l’universale sarebbe finalmente felice.
Disincantamento?
31Io ritengo che si debba respingere in modo esplicito questa prospettiva in quanto troppo marcatamente universalistica. Lo stesso apparato concettuale weberiano non dovrebbe essere dato per scontato. Nozioni come quelle di razionalizzazione e disincantamento del mondo, che servirebbero a descrivere fenomeni obiettivi e da tempo sono entrate a far parte del senso comune intellettuale, non sembrano poi così evidenti. Anzitutto che cosa sono e come si costituiscono quelli che sarebbero i beneficiari della razionalizzazione e del disincantamento, cioè i soggetti? Weber parte dalla coscienza di attori sociali isolati, che hanno degli interessi materiali e ideali, una mentalità, una sensibilità religiosa – e questo suo punto di vista diventa in breve esclusivo, codificato nelle categorie quasi antropologiche dell’agire razionale rispetto allo scopo e rispetto al valore. L’enfasi sociologica cade sul primo tipo di razionalità (quella strumentale), mentre l’enfasi morale sul secondo. Ma come si formi quella soggettività che sarebbe in grado di scegliere tra il primo o il secondo orientamento, non è dato sapere. Inoltre – e questo è anche più importante – se razionalizzazione e disincantamento sono appunto il risultato su larga scala della possibilità di distinguere tra i diversi orientamenti dell’agire (come non è concesso al primitivo che nel suo atteggiamento magico continuamente li confonde), che cosa impedisce di considerare tutta la teoria weberiana nient’altro che un’antropologia dell’uomo occidentale?
32In realtà i processi di razionalizzazione e disincantamento hanno interessato una parte limitatissima del pianeta: a ben vedere, neppure l’intero mondo occidentale. Nelle regioni meridionali d’Europa, nei paesi che non hanno conosciuto un forte influsso della riforma protestante, la razionalizzazione e il disincantamento sono ben lungi dall’essersi imposti. La profezia circa la «gabbia d’acciaio» non si è realizzata; e quello che in una previsione ancora più fosca sarebbe dovuto essere il «mondo amministrato» da un dominio totale, alla Orwell o alla Huxley, sembra molto spesso andare alla deriva o avviarsi verso una stabile condizione di semianarchia. In questa situazione, per non smarrire il suo carattere critico, l’autocritica dell’illuminismo deve ripensare molte delle sue categorie divenute nel frattempo obsolete: tra queste, senza dubbio, quelle di razionalizzazione e disincantamento. Ciò che i due termini indicano – la subordinazione della vita sociale, in tutti i suoi aspetti, a procedure astratte e impersonali, la secolarizzazione religiosa, la terra abbandonata dal divino e l’affermarsi di un nuovo politeismo dei valori, di una pluralità di potenze cui prestare ascolto – si riferisce a fenomeni molto parziali, che, generalizzati oltremisura, hanno alimentato sia la preoccupazione di Habermas intorno alla «colonizzazione del mondo della vita» sia le speranze, di segno opposto, intorno a una liberazione indotta dal cosiddetto postmoderno. Nel primo caso si sopravvaluta fortemente il carattere pervasivo e distruttivo di ciò che i termini di razionalizzazione e disincantamento indicano, come rottura dei legami sociali tradizionali, come ostacolo a una comunicazione affrancata dal dominio e così via; nel secondo, invece, si cercano sotto le condizioni della modernità le forze per spiccare un salto al di là della modernità stessa, verso una specie di «trasvalutazione di tutti i valori» per usare l’espressione di Nietzsche8. In ambedue i casi l’analisi di Weber è un presupposto del tutto pacifico: e ciò che in un discorso appare come il problema al quale trovare una soluzione, nell’altro è già la soluzione.
33Ma bisogna domandarsi se nella tematica della razionalizzazione e del disincantamento, anziché l’intenzione di un’analisi realistica, non si esprima piuttosto la volontà dell’Occidente di apparire più forte di quello che è nella sua pretesa di egemonia planetaria, nel suo delirio di onnipotenza. Dietro le categorie di razionalizzazione e disincantamento, e il loro uso su larga scala al fine di ricostruire l’intera storia del mondo, c’è l’idea che l’Occidente riesca ad assorbire o a macinare al suo interno ciò che non è strettamente occidentale, e a opporsi in modo sempre vincente all’alterità esterna. Anche se questo contraddice in parte l’intenzione di Weber, la sua analisi – combinata magari con quella marxiana del dominio mondiale del capitalismo, o con la tesi heideggeriana sulla tecnica – ha contribuito a determinare la fiducia (o l’amarezza, secondo il punto di vista) circa la generalizzabilità della forma di vita occidentale. Ciò che in Weber era ancora ricerca, sia pure universalisticamente impostata, di una differenza specifica che rendeva appunto «occidentale» la forma di vita occidentale, in certe variazioni successive è diventata discorso (o preoccupazione) sulla «esportabilità» di questa stessa forma di vita.
L’Occidente s’impantana
34A questo modo di vedere le cose si può contrapporre l’osservazione relativamente banale che in nessuna parte del globo l’Occidente detiene un’egemonia incontrastata. Dappertutto, anche al suo interno, è dovuto entrare di volta in volta in conflitto e in simbiosi obbligatoria con culture diverse. Sebbene la sua forma di vita abbia sempre messo il naso nelle forme di vita estranee, per distruggerle o recuperarle, queste altre, nel loro insieme, hanno fatto resistenza ovunque. Magari morte, sono riuscite tuttavia, con la loro stessa inerzia, a impantanare l’avversario. Il risultato è che la forma di vita occidentale moderna è ovunque spuria: in Europa e in Asia, nelle Americhe e nelle altre regioni del pianeta spesso in minoranza. Per l’illuminismo, che ne costituisce la massima coscienza universalistica, è una mezza vittoria che equivale a una sconfitta. Ma per l’autocritica dell’illuminismo, che ha avuto il suo peso nella sconfitta come quinta colonna interna e come cattiva coscienza (impedendo, per esempio, una duratura esaltazione colonialistica), si tratta di un successo.
35Ciò non toglie che gli strumenti concettuali dell’autocritica dell’illuminismo debbano essere modificati. Anzitutto è da abbandonare l’idea – di cui ho cercato di mostrare la provenienza weberiana – di un dominio totale esercitato dalla modernità occidentale. Questa idea è soltanto il rovescio dell’universalismo, la sua faccia pessimistica, cui da sempre ha fatto da controcanto l’euforia pseudoliberatoria di chi riteneva esportabile e trapiantabile in qualsiasi terreno la forma di vita occidentale. Ma la razionalità strumentale e la tecnica, nonostante la loro tendenza assolutistica, non sono riuscite a cancellare del tutto le culture «altre», come del resto non ci sono riusciti né i sistemi politici democratici né la «società del benessere». L’Occidente non avanza affatto incontrastato: al contrario, da tempo è in difficoltà crescente a livello mondiale, avviato forse verso un irreversibile declino. Dopo il crollo del cosiddetto socialismo reale, infatti, i guai dell’Occidente capitalistico non sono affatto finiti, anzi sono diventati maggiori. Sotto gli occhi c’è il sostanziale impantanamento della modernità, sia nella sua versione «politica», di emancipazione generale, sia in quella «tecnocratica», connessa al sogno di poter risolvere tutti i problemi degli esseri umani con misure tecnico-scientifiche. Ovunque essa è alle prese con le «sopravvivenze arcaiche» e il ritorno massiccio di ciò che sarebbe dovuto essere scomparso, per esempio con il carattere non solo pubblico ma immediatamente politico delle religioni.
Oscillazione paradossale
36Tutto questo può essere espresso con una rapida formula: presenza dell’arcaico nella modernità, o meglio, compresenza ineliminabile di arcaico e moderno. A partire da ciò dev’essere ripensata l’autocritica dell’illuminismo. L’illuminismo in verità non dà luogo a una dialettica: un rovesciarsi nel suo contrario, ossia nel mito, non c’è. Una tesi del genere implica una co-essenzialità d’illuminismo e mito, una sostanziale identità degli opposti, mediata da un’unica razionalità strumentale, concepibile soltanto all’interno di una totalità di marca hegeliana. Invece l’illuminismo si è trovato fin da sempre a fronteggiare le forze della tradizione e del mito – le culture non occidentali e gli elementi arcaici presenti all’interno della stessa cultura occidentale –, e ha stabilito con esse un compromesso neppure troppo onorevole.
37L’andamento dell’illuminismo appare caratterizzato, piuttosto che da una vera e propria dialettica, da un’oscillazione paradossale, da una specie di fatica di Sisifo incessante, in cui si è costretti a ricominciare ogni volta da capo. La differenza sta nel fatto che nella dialettica qualcosa si trasforma nel suo contrario, grazie a un’identità di fondo con il suo opposto; mentre nel paradosso i due poli coesistono da sempre e si mantengono nell’oscillazione rinviando senza posa l’uno all’altro9. Così l’illuminismo non potrebbe mai rovesciarsi nel suo contrario per la semplice ragione che ha da fare continuamente i conti con il suo contrario, cioè con le forze della tradizione e del mito. Se una dialettica fosse possibile, d’altronde, illuminismo e mito sarebbero già essenzialmente tutt’uno e ogni opposizione tra i due verrebbe meno, come infatti suppongono Horkheimer e Adorno parlando di una razionalità strumentale comune a entrambi, che si esplicherebbe in un unico dominio sulla natura. L’illuminismo, in quanto incantesimo moderno, cancellerebbe allora tutte le forme d’incantesimo premoderne: e l’universalismo della tesi di Weber sul disincantamento proprio della cultura occidentale verrebbe in questo modo confermato, anche se con segno rovesciato.
38Come esempio di ciò si può considerare il nesso istituito nella Dialettica dell’illuminismo tra magia, scambio sacrificale e religione cristiana. Con un interessante cortocircuito concettuale, Horkheimer e Adorno mettono in relazione teoria della magia e critica dell’economia politica stabilendo un paragone tra il do ut des proprio del sacrificio, offerta votiva per ottenere i favori della divinità, e il dominio del valore di scambio nell’economia capitalistica. Il carattere razional-strumentale del capitalismo moderno sarebbe annunciato dalla razionalità strumentale insita nello scambio sacrificale. La religione cristiana – un progresso, nei confronti della magia, a causa del suo rifiuto dei riti sacrificali – con il sacrificio della Croce, secondo la più tipica dialettica dell’illuminismo, riprecipita nondimeno nella magia. Infatti il figlio di Dio (come del resto già Nietzsche aveva notato, denunciando, riguardo al tema del sacrificio, l’obiettivo «paganesimo» del cristianesimo) offre la vita per ottenere la salvezza dell’umanità, e ripropone così la logica dello scambio.
39Nella visione di Horkheimer e Adorno, la dimensione religiosa – in linea con Hegel, oltre che con la maggior parte degli etnologi – va considerata un progresso rispetto alla dimensione magico-mitica, salvo poi ricadere in quest’ultima per via della dialettica dell’illuminismo. Si palesa qui, una volta di più, il peculiare universalismo di questa visione. Si tratta di un universalismo certo autocriticamente avvertito, che non sbandiera il suo principio e lo colloca piuttosto all’interno di un confronto continuo con l’analisi dei fenomeni che dovrebbero incarnarlo ma non lo fanno (nel caso specifico, la religione cristiana). Tuttavia esso non viene meno, nella sostanza, se invece di esaltare se stesso in un presunto progresso dalla magia alla religione, mostra che quel processo si è inceppato. In ambedue i casi si ritiene che la magia sia qualcosa di «più arretrato», qualcosa che dovrebbe essere superato dalla civiltà; soltanto, in un caso si dà questo come già avvenuto, nell’altro si lamenta che questo non sia ancora avvenuto. Resta comunque esclusa l’idea che la magia e il mito possano essere forme culturali autonome e persistenti.
40Ciò che sostengo, invece, quando affermo che l’illuminismo e il mito sono presi in un’oscillazione paradossale, dentro un rinvio reciproco e costante, è l’ineliminabilità del mito (e conseguentemente anche della magia). Questa forma di vita – quella mitica può essere considerata una forma di vita tra altre – s’innesta su un tessuto di credenze tradizionali che esprimono, a ben vedere, un bisogno intrinseco della conoscenza anche in un mondo cosiddetto illuminato. Proprio l’estrema variabilità dei punti di vista, la spinta a cercarne di nuovi (fenomeno caratteristico della modernità che, come accennavo all’inizio di questo capitolo, è anche all’origine dell’autocritica dell’illuminismo e della sua irrefrenabile riflessività) provoca, fenomeno uguale e contrario, il bisogno crescente di una relativa stabilizzazione di quegli stessi punti di vista. È un bisogno così fortemente radicato che addirittura, in mancanza di solide credenze cui appoggiarsi, le tradizioni vengono inventate10. Poco importa che un tessuto di credenze sia davvero dato: eventualmente lo si fabbrica proiettando nel passato punti di vista presenti e fingendo che la loro stabilità sia qualcosa di molto antico. Dinanzi a questa inquietudine costante, solo la proiezione nel passato, e la riproiezione dello stesso passato nel presente, sembra recare requie. Così lo sviluppo di forme di vita moderne produce il rafforzamento e la proliferazione di aspetti mitico-tradizionali e di modi di pensare bloccati. Quanto più cresce l’inquietudine, tanto più la tendenza a sfuggirla. Non è soltanto un fenomeno psicologico, ma anche e soprattutto un bisogno strutturale della conoscenza. Se l’impulso dell’illuminismo a uno spostamento dei punti di vista in chiave antitradizionale – al cui interno rientra anche il processo autocritico dell’illuminismo – fosse del tutto autosufficiente, non ci potrebbe essere alcuna conoscenza: perché ogni pur minima stabilizzazione dei punti di vista verrebbe subito soppressa. Ma se, d’altra parte, ci fosse unicamente la tendenza alla stabilizzazione, alla ripetizione dei punti di vista – com’è caratteristico delle forme di vita mitico-tradizionali –, tutto si bloccherebbe e la conoscenza non procederebbe di un passo.
41La mia tesi è allora che l’illuminismo e il mito siano entrambi necessari nei processi della conoscenza – e ciò proprio nella loro compresenza instabile e oscillante. Il riproporsi all’interno della modernità di forme di vita mitiche, basate su tradizioni presunte o reali, non è una ricaduta nell’arcaico, ma la manifestazione della strutturale impossibilità di liquidarne il nucleo profondo. Ciò può essere detto tanto di quelle forme di vita tradizionali o pseudotradizionali prodotte dalla modernità (non si parla, del resto, di una «tradizione moderna»?), quanto di quelle tradizioni «altre», sia occidentali sia extraoccidentali, che da sempre rappresentano un irriducibile termine di confronto della modernità. In ambedue i casi in gioco è la capacità del moderno di costituire un tessuto di credenze durevoli a fronte della sua tendenza fondamentale, che è quella a un movimento continuo dei punti di vista. Ogni volta che il mito fa la sua comparsa (o ricomparsa) nella modernità, con i suoi punti di vista tipicamente ritornanti, si può star sicuri che siamo dinanzi al problema di una messa sotto controllo dei processi della conoscenza: siamo alle prese con l’esigenza di poter contare su credenze relativamente stabili. Questa esigenza viene soddisfatta in modi diversi: con il ricorso ai valori propriamente moderni (come la libertà, il progresso ecc.) bloccati in maniera acritica; o con la riutilizzazione di elementi arcaici fuori dal loro contesto originario; o ancora mediante il semplice confronto con un’alterità mitica immaginata come immutabile, di fronte alla quale far valere la presunta superiorità dinamica dell’Occidente, che così sarebbe legittimata dal semplice paragone con l’arretratezza altrui.
Creolizzazione
42A questo proposito bisogna considerare che la cultura occidentale ha pensato a lungo se stessa come l’unica capace di mutamento. È un frutto recente dell’autocritica dell’illuminismo, e non dei meno importanti, la consapevolezza etnologica che anche le culture cosiddette primitive, con modalità e tempi propri, sono passibili di cambiamenti. Il fenomeno della creolizzazione11 di una cultura arcaico-tradizionale, che entrando in contatto con il mondo occidentale moderno è costretta a mutare, indica e contrario che società totalmente prive di storia (quelle che Lévi-Strauss chiamava le «società fredde») non sono mai esistite. Certo, le tradizioni riaffermano se stesse inserendo qualsiasi novità nel tessuto dei loro miti e dei loro riti: ma se queste tradizioni non sono puramente inventate, e sono invece il risultato di un lungo processo di sedimentazione, allora non funzionano soltanto come strumenti per stabilizzare i punti di vista, ma anche come polo di attrazione di tutti i possibili nuovi punti di vista.
43Mentre i processi della conoscenza «moderna» giungono a fissarsi mediante uno spostamento, un confronto con l’«altro» come alter ego, e infine (ma solo infine) con il ricorso a un elemento mitico, i processi della conoscenza «primitiva» si stabilizzano a partire direttamente da un elemento mitico-tradizionale, facendo in modo che qualsiasi novità sia in sintonia con esso (si veda il caso degli aztechi con la loro autorappresentazione dell’invasione spagnola)12. Ciò illustra, sia pure in termini astratti, la peculiare complementarità che si stabilisce tra forme di vita moderne, basate sull’innovazione, e forme di vita tradizionali basate sulla consuetudine. Le prime rinviano alle seconde nel momento in cui si radicalizzano rischiando di perdere se stesse nella fuga dei punti di vista e nell’impossibilità di fissare qualsivoglia credenza. Le seconde rinviano alle prime per quello che hanno di più schiettamente tradizionale: ossia per quanto concerne la capacità di assorbire qualsiasi novità, qualsiasi possibile spostamento del punto di vista, nell’alveo di ciò che è da sempre consolidato.
Equifunzionalità di soggetto e mito
44Il rinvio reciproco e costante da un polo all’altro non cancella affatto l’opposizione: il moderno non cessa di scontrarsi con l’arcaico, il nuovo non è il tradizionale, e una tradizione inventata a puro scopo ideologico è diversa da una tradizione a lungo sedimentata. Eppure c’è qualcosa che segna il ritmo stesso del rinvio reciproco: è la ripetizione – che si ritrova sia nelle forme di vita tradizionali, come richiamo e ritorno costante a un ordine originario, sia in quelle che si vogliono moderne. In queste ultime l’elemento «mitico», l’equivalente funzionale di ciò che nelle forme di vita non moderne sono le tradizioni, è proprio ciò che si è soliti chiamare, con orgoglio, il «soggetto». Esso può infatti essere considerato il più autentico mito moderno, sorto dalla necessità di fermare lo slittamento e la fuga dei punti di vista mediante la costituzione di una certezza autoevidente e ritornante. Ci sono dunque forme di vita che attraverso le tradizioni sempre di nuovo ritrovano se stesse; e ce ne sono altre che per così dire delegano il problema del loro ritorno, la relativa stabilità dei processi della conoscenza, alla costituzione di elementi presentati come universali e ottenuti mediante una collezione di tratti individuali – in una parola, ai soggetti. Questa differenza (che può anche essere vista nei termini di un’equivalenza di funzioni) distingue nel modo più netto le forme di vita tradizionali da quelle moderne; ma consente al tempo stesso la possibilità d’ibridazione di ciò che è moderno con ciò che è tradizionale. Il soggetto infatti si costituisce nella ripetizione e opera come un mito, in grado di riferire a sé tutto ciò che è nuovo, in un processo indefinito di autoconvalida. Così l’oscillazione paradossale tra i due poli – il moderno e il tradizionale – procede da un lato come dall’altro, senza arrestarsi mai a metà strada, senza cioè poter raggiungere uno stato di equilibrio che porrebbe fine al rinvio reciproco. L’opposizione tra il moderno e il tradizionale è destinata a durare, quantunque secondo forme di compromesso di volta in volta diverse, perché il principio della modernità e quello della tradizione – la soggettività e il mito – rispondono a esigenze analoghe e manifestano, con la ripetizione, la loro equivalenza funzionale.
45Si ricorderà quanto si è detto sulla natura residuale del soggetto nella conoscenza come risultato dei processi d’identificazione e sulla sua costituzione mediante ripetizione. A ciascun punto di vista, non appena s’instauri una ripetizione, corrispondono una prospettiva identificante e l’identicazione, per contraccolpo, della stessa prospettiva identificante, insieme con il suo corrispondente punto di vista. La generalizzazione del residuo, il passaggio da un punto di vista a un insieme di punti di vista con spostamenti tra loro anticipabili e per così dire codificati, è ciò da cui propriamente deriva quella finzione che chiamiamo soggetto. Ed è proprio a questa finzione che si oppone la finzione, uguale e contraria, del mito: uguale, perché risponde allo stesso bisogno di stabilizzazione dei processi della conoscenza; contraria perché lo fa con mezzi diversi, cioè con i mezzi della tradizione.
46Per conseguenza l’autocritica dell’illuminismo è anzitutto critica di questo soggetto che si pretende universale, e solo secondariamente, nel solco dell’illuminismo classico, critica della tradizione e del mito. Il rischio scettico dev’essere corso sino in fondo, ben al di là della critica dell’ideologia e anche di Nietzsche. Dev’essere sì scetticismo alla seconda potenza, che colpisce riflessivamente l’agente del dubbio, cioè il soggetto stesso: ma deve spingersi fino a diventare teoria del movimento scettico-relativistico dei punti di vista, del loro spostarsi e intersecarsi, come del loro ripetersi e bloccarsi. In questo quadro il concetto di paradosso risulta essenziale: perché consente di leggere lo stesso «bloccarsi» come un movimento peculiare di oscillazione tra opposti, in funzione di una stabilizzazione dei processi della conoscenza e di un ritorno degli stessi punti di vista. Ciò che il mito ottiene con il ricorso alla tradizione, il soggetto illuminato lo ottiene facendosi fondamento di ogni cosa. Questa è naturalmente solo un’apparenza: ma che sia un’apparenza non facilmente cancellabile è testimoniato dal fatto che, nel suo costituirsi come ripetizione di punti di vista, il soggetto fa ricorso alla tradizionale e rocciosa realtà del mito – nella duplice forma, del mito come suo «altro», da cui si distingue autoidentificandosi, e del mito che esso stesso produce inventandosi come tradizione moderna.
Notes de bas de page
1 Chi ne ha sostenuto la necessità, lamentando la mancanza di un «fondamento normativo» nella Dialettica dell’illuminismo e il suo scivolamento verso lo scetticismo, è J. Habermas: cfr. Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 109-134, e il mio commento critico in R. Genovese, Soggetto e mito. Per una rilettura della «Dialettica dell’illuminismo», in «aut aut», 1991, nn. 243-244, pp. 43-55 (ora in Id., Gli attrezzi del filosofo. Difesa del relativismo e altre incursioni, Roma, Manifestolibri, 2008, pp. 83-97).
2 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, vol. III, 2, Milano, Adelphi, 1980, p. 360.
3 F. Nietzsche, Opere, vol. VI, 2, Milano, Adelphi, 1968.
4 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. I, Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 159-64.
5 M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1980, pp. 51-86.
6 M. Horkheimer, Montaigne e la funzione dello scetticismo, in Id., Teoria critica, vol. 2, Torino, Einaudi, 1974, pp. 196-253.
7 Il punto di riferimento obbligato, a questo proposito, è la controversia Adorno-Popper sul metodo delle scienze sociali, in Dialettica e positivismo in sociologia, Torino, Einaudi, 1972, che palesa già nel titolo la tendenza dei teorici francofortesi a usare il termine «positivismo» in un’accezione molto ampia. Per loro, in sostanza, tutte le posizioni non dialettiche sono positivistiche – compresi il neokantismo e Max Weber.
8 È stato il tentativo di G. Vattimo in La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989.
9 È appena il caso di segnalare che questa concezione del paradosso trova in Gregory Bateson il suo punto di riferimento: su ciò rinvio ancora a R. Genovese (a cura di), Figure del paradosso cit.
10 Cfr. E. Hobsbawm e T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987.
11 Si vedano, a questo proposito, i lavori di Marshall Sahlins (in particolare M. Sahlins, Isole di storia, Torino, Einaudi, 1986, e Id., Storie d’altri, Napoli, Guida, 1992).
12 Cfr. T. Todorov, La conquista dell’America, Torino, Einaudi, 1992.
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