1. L’impasse dell’illuminismo
p. 21-40
Texte intégral
Una società mondiale?
1La società contemporanea è davvero quella società mondiale di cui si dice, unificata dalle grandi possibilità di comunicazione messe a disposizione dalla tecnica e dai mass media? Di certo negli ultimi anni, con Internet, è divenuto possibile ricevere informazioni e farsi un’idea «in tempo reale» intorno a qualsiasi argomento: ma ciò non significa che la comunicazione planetaria sia riuscita a risolvere in sé tutta la solitudine presente nel mondo. Anzi, la comunicazione stessa, non solo quella che si avvale di Internet ma nella sua accezione più ampia, è da considerare come la posta in gioco di un gigantesco conflitto, anche soltanto potenziale, tra chi vi ha accesso e chi ne è escluso. Se i sollevamenti del 2011 nei paesi arabi hanno preso inizio con lo scambio di messaggi tramite Facebook e i telefoni cellulari, ciò non significa che gli esiti di quelle rivolte, con le loro complicazioni politico-istituzionali, abbiano potuto giovarsi più di tanto dell’esistenza di una rete globale; l’elemento locale, con la sua vischiosità, ha finito con il prevalere. Né si può dimenticare, d’altronde, che l’uso dei computer e degli apparecchi telefonici multioperazionali di ultima generazione è riservato ancora a pochi. La questione dell’accesso a questi mezzi lascia intravedere un conflitto sociale ad ampio raggio, le cui conseguenze anche politiche sono imprevedibili. Comunque è più probabile che chi oggi ne è escluso sia schierato, con il suo forzoso silenzio, dalla parte dello status quo che con qualsiasi forma di cambiamento.
2L’immensa solitudine diffusa sulla terra riuscirà mai a essere inclusa nella comunicazione planetaria? Quanti dei miei lettori, europei, colti, informati, saprebbero rispondere a botta calda alla domanda su che cosa sia accaduto di recente, per esempio, nello Yemen, o nei rapporti tra l’Arabia Saudita e il Bahrein? Il rumore della comunicazione, con la sua stessa velocità, cancella senza posa ciò che altrettanto senza requie offre al giudizio, o meglio all’emozione. E al suo esterno c’è poi ancora l’informe massa dei diseredati, dei fuggiaschi, dei migranti, degli esclusi, di quelli che vivono un’esistenza anonima per finire sterminati dalle guerre, dalla fame, dalle malattie, o trovando la morte nel varcare una linea di confine. Dinanzi a loro, si ha un bel parlare di società mondiale: per questi uomini e queste donne esiste il villaggio, forse, ma un’unica società mondiale di sicuro no.
3Anche perché le forme di vita tradizionali – e le stesse culture altre da sempre presenti in quella moderna – non hanno reagito alla pressione della prevalente cultura occidentale, e della sua invadenza tecnologica, semplicemente ritirandosi e chiudendosi in se stesse, ma dando luogo a forme d’ibridazione, a veri e propri mostri culturali entro cui il moderno e l’arcaico risultano ormai indiscernibili. Quando non sono state semplicemente soffocate e distrutte (il caso più noto è quello degli indiani d’America), le forme di vita premoderne hanno fatto di necessità virtù: lungi dal restare come statici elementi residuali, le «culture sopravviventi», come le avrebbe chiamate Pasolini, hanno spesso messo in atto una distruttività analoga a quella cui erano state sottoposte. Non si tratta solo di violenza (cioè di qualcosa presente, in guise diverse, in tutte le società umane), ma di una violenza implosiva, frutto – si direbbe – di una masochistica identificazione con l’aggressore. Le forme di vita premoderne hanno reagito all’attacco contro l’identità tradizionale trasformandola in qualcosa d’altro. Il risultato è un’identità che per mantenersi ha negato se stessa, sempre in bilico tra l’arcaico e il moderno.
4Questa ironica e amara dialettica di negazione e conservazione era già al centro di un importante film di Marco Ferreri, Come sono buoni i bianchi. Nel bailamme delle lingue, nella mescolanza insensata di usi e costumi eterogenei – in parte mutuati dall’Occidente, in parte autoctoni ma svuotati del loro significato originario e rivissuti dagli stessi indigeni come in una trance – l’Africa palesava il suo volto insieme confuso e feroce. L’omologazione, ossia l’integrazione dentro la cultura occidentale di ciò che è «altro», non è del tutto riuscita; ma l’alterità non è nemmeno liquidata, perché risorge, in forme mostruose, dove meno te l’aspetti. Al polo opposto, Otar Iosseliani, in Un incendio visto da lontano, mostrava dell’Africa il volto magico conferitole dall’immaginazione occidentale moderna. Qui non è impossibile che uno stregone attraversi un fiume a cavallo di un coccodrillo o che riattacchi la testa sul collo di un uomo decapitato. Il mondo primitivo è l’eden che l’Occidente ha dapprima fantasticato e in un secondo momento studiato cercando di oggettivarlo: i risultati degli studi etnografici ricompaiono nel film nuovamente filtrati da quella immaginazione. Nel finale, quando ormai l’incendio ha distrutto il villaggio nella foresta dando via libera alla speculazione, alla tribù non resta che andare in città a vendere i suoi feticci ai turisti. L’Occidente ha dunque ridotto il suo «altro»: la lontananza è stata assimilata, resa disponibile al punto da poterla vendere e comprare1.
5I due film, insieme, sono un efficace compendio non solo di cosa ne è dell’Africa ma di cosa ne è dell’«altro» in generale, molto più di qualsiasi trattato di filosofia. L’Africa è infatti un continente in cui profondi sono i segni della devastazione indotta dal colonialismo e dal neocolonialismo, ma in cui, al tempo stesso, tenace è la riluttanza delle forme di vita tradizionali a scomparire. L’Africa non è l’America, il continente nel quale intere civiltà sono state eliminate e altre sono state ridotte nelle riserve: è al contrario quell’universo in cui a lungo è durata la resistenza (anche se per lo più solo passiva) da parte delle forme di vita tradizionali con un’infinita capacità di risposta ibridante, o per meglio dire creolizzante, che imbozzola ciò che viene imposto dall’esterno con il marchio della modernità e lo fa coesistere con l’arcaico.
6Questa situazione, che assume in Africa una valenza addirittura paradigmatica, si riscontra con maggiore o minore approssimazione presso tutte le forme di vita tradizionali che non siano semplicemente scomparse. Io contesto la tesi che vede l’onnipresenza della comunicazione planetaria e il caleidoscopio delle sue molteplici differenze come un destino senza residui; ma al tempo stesso anche l’altra tesi, per così dire speculare, che vede qualsiasi differenza ormai assorbita nella indistinzione di un dominio generalizzato. Ambedue le prospettive hanno il loro presupposto nella medesima idea di una società mondiale come processo del tutto dispiegato: ma se la prima legge questo processo in termini tutto sommato positivi, in quanto liberazione di differenze, la seconda lo legge invece con segno rovesciato come realizzazione di un’omologazione indiscriminata. La prima può essere messa in connessione con il cosiddetto pensiero postmoderno; la seconda con quella critica conservatrice della civiltà che ha conosciuto anche molte varianti di sinistra (in Italia, Pasolini).
7Al viaggiatore che si rechi in Africa, o magari soltanto in Calabria, appare evidente come le culture locali vivano per lo più una seconda vita dopo quella morte che l’Occidente illuminato aveva stabilito per loro. Queste culture sono state costrette a entrare in una simbiosi con la forma di vita moderna; non hanno potuto restare «fredde» per dirla con Lévi-Strauss, cioè fuori dal tempo, e tuttavia sono entrate nel clima rovente della storia a modo loro2. Non sono né rimaste quelle che erano, sopravvivendo a se stesse, né sono passate sotto l’arco di trionfo della civiltà e del progresso (come gli illuminati filantropi dei secoli scorsi avevano desiderato e previsto). Hanno dovuto adattarsi, hanno dovuto affrontare il problema che nessuna cultura è mai davvero pronta ad affrontare – il rapporto con un invasore immensamente potente –, ma non per questo sono dileguate: piuttosto hanno fatto buon viso a cattivo gioco, modificandosi e restando comunque, seppure ai margini, escluse o autoescluse. Così l’Africa non respinge ma nemmeno accoglie il viaggiatore occidentale: tutt’al più gli fa il verso – secondo l’esperienza riferita da Alberto Moravia, il quale, essendosi preso le pulci durante uno dei suoi viaggi africani, si agita e si gratta mentre uno stuolo di ragazzini attorno a lui si agita e si gratta imitandolo; e quando lui sbotta: «Andate via, lasciatemi stare», loro lì a ripetere: «Andate via, lasciatemi stare», né offesi né intimiditi3. L’Africa sembra tentare di riprendersi con l’ironia ciò che le è stato tolto con l’arroganza.
La ragazza di Calabria
8E del resto non c’è anche nell’episodio seguente qualcosa come un’ironia obiettiva? Una ragazza povera di Calabria (forse per sfuggire al nulla che la circonda, forse per gioco) mette un’inserzione matrimoniale su un giornale di annunci economici della Toscana. Un uomo ancor giovane (per curiosità etnologica o per disperazione), dopo gli opportuni contatti epistolari e telefonici, vola a Reggio per incontrarla. Quando sbarca dall’aereo trova che la ragazza è venuta a prenderlo con l’automobile, sì, ma anche con la madre. Inizialmente attribuisce questo atteggiamento alla diffidenza del primo incontro. Poi comprende: la madre, debitamente vestita di nero, sarà presente a tutti i colloqui con la ragazza durante il suo breve soggiorno calabrese. A sorprenderlo, però, non è neppure questo: è sapere, piuttosto, che la ragazza ventiquattrenne non può andare a spasso in città se non eccezionalmente con qualche amica, e comunque mai di sera; che non può guidare l’automobile se non accompagnata (anche quando ha prestato servizio come supplente in un asilo nido, la madre restava fuori ad aspettarla); e poi ancora: che non può viaggiare in treno da sola, non può accettare nessun invito da qualcuno con cui non sia ufficialmente fidanzata (non dico a cena, ma nemmeno a vedere i bronzi di Riace), eccetera eccetera.
9L’episodio è occorso all’uomo ancor giovane di cui sopra nel 1990, in una città, Reggio Calabria, in cui il traffico mostrava un volto congestionato degno di Città del Messico o San Paolo del Brasile (megalopoli già allora famose per il loro inquinamento); e la ragazza, esperta nella guida, era molto informata circa le diverse marche e i diversi modelli di automobili: così da confermare la nota tesi secondo cui lo sviluppo tecnico-economico non coincide affatto con il progresso civile. Il più oppressivo potere patriarcale – di cui quella madre con il suo vestito nero era la guardiana – può benissimo coesistere con l’idea di libertà di movimento evocata dalla possibilità di guidare un’automobile. E quando, a un certo punto della storia, la ragazza, la mamma e l’uomo ancor giovane restarono imbottigliati in un iperbolico ingorgo urbano, a me è venuto da pensare che lì finivano imbottigliati un po’ tutti – l’illuminismo, le forme di vita moderne e quelle tradizionali, il Terzo mondo di casa nostra e le speranze in quello che fu il Terzo mondo tout court –, presi nell’immensa ironia obiettiva di una strana coesistenza di universi differenti.
Progresso e sviluppo
10L’impasse dura da decenni, a pensarci bene, anzi, da molto più di un secolo. (O forse bisogna considerarlo una specie d’incantesimo, in cui ognuno perde la sua identità e nessuno è più nessuno). Tutto ebbe inizio con l’illuminismo, con la sua idea di emancipazione universale, nata con le migliori intenzioni ma trasformatasi ben presto nel sostegno ideologico a una volontà di dominio mondiale. È questo cattivo universalismo – cristiano-borghese, lo si potrebbe definire – ad annebbiare il progetto illuministico di emancipazione: perché il progresso civile non risultò in fin dei conti esportabile, mentre il dominio, connesso allo sviluppo, sì. L’autonomia e la dignità della persona, la liberazione dai miti oppressivi e dalle servitù tradizionali, si palesarono meno generalizzabili della tecnica e dell’economia, e diventarono appannaggio di una piccola minoranza di abitanti del pianeta. Da quel momento (databile all’incirca dalla caduta di Napoleone e dalla fine delle sue campagne «rivoluzionarie») il progresso divenne sempre più qualcosa di riservato all’Occidente, una forma di vita parziale, mentre il messaggio illuministico planetario restava affidato allo sviluppo. Non a caso, infatti, si parla di «sottosviluppo», a indicare uno stato di arretratezza e di carenza di mezzi soprattutto tecnico-economici, non certo di «sottoprogresso».
11Ora, questa emancipazione spezzata, in se stessa paradossale, universalistica e particolare, fu costretta giocoforza a venire a patti e a ibridarsi con le forme di vita tradizionali, proprio in virtù della sua natura anfibia, insieme onnipervasiva e parziale. (Forse sta qui, nel paradosso nato dall’impossibilità di un universalismo davvero integrale, la radice dell’incantesimo cui si accennava prima: le identità vacillano o addirittura si smarriscono: perché né quella «tradizionale» né quella «moderna» riescono a tener fermo e a durare, e così reciprocamente si bloccano). D’ora in avanti, in tutti quei luoghi della terra in cui l’Occidente per portare avanti la sua opera civilizzatrice non si trova semplicemente a cancellare le culture locali, viene a compromesso con esse, per quanto oscurantistiche possano essere. Perciò l’illuminismo, o la modernità, non è un progetto incompiuto come ha sostenuto Habermas – il che implicherebbe la possibilità di riprendere il progetto per completarlo –, nient’affatto4. La diagnosi habermasiana (che ricorda un po’ la vecchia idea marxista di una borghesia che avrebbe lasciato cadere nella polvere le bandiere rivoluzionarie che toccherebbe al proletariato di risollevare) trascura la circostanza che fin quasi da subito il progetto illuministico di emancipazione si è spezzato; e anzi, a rigore, questo non può essere detto neppure un progetto interrotto, perché si tratta piuttosto di un paradosso continuo, all’interno del quale si chiacchiera del progresso e si afferma in realtà lo sviluppo.
Marxismo e universalismo
12D’altronde, il fatto che l’illuminismo si riduca a una forma di vita tra altre, in contrasto con la sua ispirazione universalistica e finendo così in un paradosso, è provato a posteriori dallo stesso marxismo – se di quest’ultimo si fa un’analisi serena, né liquidatoria né esaltatrice. Il tentativo del marxismo fu quello d’intervenire nel paradosso dell’illuminismo, dentro il problema della sua emancipazione spezzata, per risolverlo, ma facendosene in effetti imprigionare. (Forse l’errore era già nella volontà di risolvere il paradosso, il che sarebbe come volere sciogliere un incantesimo; mentre ora sappiamo che i paradossi non si risolvono mai davvero: si può solo cercare di neutralizzarli, evitandone lo sguardo di Medusa)5. Il marxismo mostrò infatti la parzialità dell’universalismo illuministico, denunciandolo come borghese (parziale, quindi, anche all’interno della stessa forma di vita occidentale); ma non seppe fare di meglio che rilanciare quell’universalismo su più vasta scala, mediante una semplificazione essenziale, cioè con l’individuazione di una contraddizione economica principale: quella tra il capitale e il lavoro salariato estesa al mondo intero. Poiché questa semplificazione si lasciava anche leggere come contraddizione tra l’ulteriore sviluppo delle forze produttive, considerate sostanzialmente neutrali, e la permanenza di rapporti di produzione capitalistici, basati sull’appropriazione particolaristica da parte del capitale dei prodotti della forza lavoro umana in generale, la ricetta marxista per l’emancipazione di tutti i popoli della terra fu: sviluppo tecnico-produttivo più rivoluzione socialista come liberazione da quei rapporti di produzione limitanti e deformanti. Così l’universalismo illuministico riceveva nuova linfa: perché se è vero che lo sviluppo veniva per la prima volta considerato – se non altro – come sottoposto a una contraddizione, è anche vero che in questo modo la forma di vita occidentale (capitalistica) continuava a essere presentata come una forma di vita universale. La questione del progresso dell’umanità intera era ancora subordinata al momento dello sviluppo. La proposta di liberazione marxista si lasciava sintetizzare così: affermazione dei rapporti capitalistici di produzione ovunque e costituzione di una classe operaia internazionale in grado di rovesciarli. Un certo grado di sviluppo delle forze produttive diventava condizione di possibilità, premessa indispensabile dell’affermazione generalizzata dei rapporti capitalistici, e dunque anche della liberazione da essi.
13All’interno del marxismo stesso, com’è noto, questo schema teorico si trovò a essere posto ben presto in discussione con l’emergere della questione coloniale e nazionale, come pure con la controversia intorno allo sviluppo a tre stadi (feudalesimo, capitalismo, socialismo, più l’inserimento – sempre problematico, per non dire enigmatico – del cosiddetto modo di produzione asiatico), sulla possibilità di saltare o meno uno di questi stadi, e così via. Del resto bisogna riconoscere che per la prima volta, con la teoria marxista, l’universalismo era proclamato a partire dalla sua parzialità: ovverosia non in modo diretto, come credo ideologico della borghesia che afferma la sua volontà di dominio sul mondo quale quintessenza del progresso, ma in modo indiretto, facendo leva sul carattere parziale del proletariato, sulla sua particolare posizione all’interno del processo produttivo, che sola gli assegnerebbe un ruolo di «classe generale», ossia una missione rivoluzionaria di salvezza per l’umanità intera. Ciò nonostante, la ripresa dell’universalismo illuministico è fuor di dubbio. Il motivo centrale del marxismo, quello del superamento di una contraddizione nello sviluppo, indica il tentativo di rivitalizzare il progetto illuministico di emancipazione all’interno della sua stessa logica. Non viene infatti posta in questione la pretesa di una forma di vita, autoproclamatasi illuminata, di presentarsi come faro di civiltà per tutte le altre; e anche l’espansione della forza economica capitalistica propria dell’Occidente è considerata, almeno fino a un certo punto, come portatrice di progresso in generale. Le coppie oppositive di progresso e sviluppo, universalismo e particolarismo, non sono viste come intrinsecamente paradossali, legate da un rapporto di oscillazione continua e di reciproca implicazione (per cui, dall’interno della forma di vita occidentale, sostenere il progresso universale significa sostenere lo sviluppo in senso particolaristico, e viceversa); sono viste come positive contraddizioni «da liberare», affrancando l’universalismo dal suo particolarismo borghese.
14La visione planetaria del marxismo, nonostante le successive correzioni di tiro, resta indelebilmente fissata nella memoria da quelle pagine del Manifesto di Marx ed Engels in cui viene descritto il processo di sviluppo capitalistico. Il capitalismo è la forza che distrugge tutti i vincoli della tradizione, sradica le popolazioni, modifica la natura, e ogni cosa sottomette alla sua legge. L’idea di una società mondiale, unificata dalla tecnica e dalla comunicazione, trova probabilmente qui il suo atto di nascita: in questa immagine del capitalismo come immane potenza distruttiva e insieme apportatrice di progresso. Ma questa è appunto solo un’immagine, o meglio solo una delle immagini possibili. Accanto a questa, come sua alternativa gestaltica (nel senso di quelle figure ambigue rese note dalla psicologia della Gestalt, nelle quali si possono vedere, per esempio, alternativamente il disegno di un vaso o due profili appaiati), si delinea l’immagine di una forma di vita, quella occidentale, che con tutta la sua forza ha messo sì il becco, imperialisticamente, nelle faccende del mondo intero, ma in nessuna parte del globo è riuscita a chiudere i conti con le forme di vita tradizionali. Così nazionalismi e tribalismi diversi proliferano ovunque; mentre neppure il processo di secolarizzazione può dirsi compiuto, come dimostra la rinascita dei settarismi e degli integralismi religiosi a Est e a Ovest. In nessun luogo della terra in cui si sia realizzato il confronto tra la cultura moderna e le culture tradizionali, si può dire che la prima abbia avuto davvero partita vinta – nemmeno nello stesso Occidente. Con l’esclusione di quelle zone in cui la cultura occidentale ha puramente e semplicemente distrutto le culture locali, come si è detto, ovunque queste ultime si sono riaggiustate, hanno rialzato la testa e, alla fine, hanno fatto pari e patta con l’Occidente. Da nessuna parte si può dire che ci sia un’incontrastata egemonia della cultura occidentale (soprattutto se per egemonia, secondo la terminologia gramsciana, s’intende qualcosa di maggior diffusione e capillarità del semplice dominio); anzi, sempre di più, è lecito parlare della sua tendenza al «tramonto». Non si tratta quindi di sottoporre a critica questo o quell’aspetto specifico della cultura occidentale: è il suo stesso universalismo a dover essere radicalmente ripensato.
Incantesimo
15Se ora, dal cielo di questi massimi problemi ritorniamo sulla terra, al piccolo caso della ragazza di Calabria del 1990, vediamo che qui quei problemi si riflettono e si scompongono come in un prisma. (E ora forse lo stesso paradosso dell’illuminismo può essere osservato senza lasciarsene incantare). C’è anzitutto la questione delle culture locali, che non restano affatto ferme in una passiva attesa della fine, ma reagiscono ed entrano in simbiosi con la cultura occidentale: così la ragazza ha la patente, per quanto questa scelta «moderna» sia limitata dal fatto di potere guidare l’automobile solo se accompagnata dalla madre. Ci sono inoltre i rapporti all’interno della stessa cultura calabrese: rapporti familiari tradizionali, di subordinazione all’autorità paterna, che si rovesciano in una specie di nuovo matriarcato, ossia nello strano «femminismo» delle due donne che se ne vanno in giro in automobile a prendere contatto con quello che sarebbe un potenziale partito per la figlia. E c’è poi il gesto di «liberazione», che consiste nel cercare marito fuori dal proprio mondo con un’inserzione matrimoniale. Ma tutti questi fenomeni, lungi dal comporre un quadro dinamico, s’inseriscono in quella situazione generale di stallo – raffigurata dall’imbottigliamento nel traffico di una città piena di automobili – che vanifica nella sostanza sia la cultura locale tradizionale sia quella moderna.
16L’incantesimo, la sensazione d’impasse, la neutralizzazione reciproca delle istanze contrapposte, l’offuscamento delle rispettive identità – di quella moderna come di quella tradizionale –, sono il risultato di un paradosso il cui significato bisognerà a poco a poco cercare di chiarire. Le identità culturali, a meno che non vengano distrutte, non smarriscono mai completamente se stesse: piuttosto si ristrutturano. Così quella che dal punto di vista degli individui può essere avvertita come una perdita secca, una pura dissoluzione dell’identità, dal punto di vista di una cultura può essere considerata, invece, una strategia per far fronte, mediante un’ibridazione creolizzante, a una minaccia di distruzione. Ciò sia detto ovviamente per le culture subordinate, sottoposte a un attacco dall’esterno. Ma nel contempo anche una cultura dominante (nel nostro caso la cultura occidentale di stampo illuministico), nell’entrare in un paradosso, sebbene questo sia immobilizzante, ci guadagna: perché ottiene in premio una sorta di eternità. Una forma di vita, infatti – con tutti i suoi usi e costumi particolari, e con tutta l’impalpabile autoconsistenza che chiamiamo, un po’ approssimativamente, identità culturale –, può cominciare ad autorappresentarsi come eterna quando riesce a ricondurre la relazione con l’«altro» al suo gioco paradossale. L’illuminismo ha potuto ritenersi indispensabile, eterno, solo nella misura in cui il suo progetto non si è realizzato ed è venuto a patti con le forme di vita tradizionali. In questo modo c’è sempre ancora bisogno dell’illuminismo, perché la partita non può dirsi vinta. Se invece le forze dell’oscurantismo fossero state sconfitte, già da un pezzo l’illuminismo trionfante avrebbe chiuso bottega. Dunque l’illuminismo deve fallire di continuo almeno un po’ – perché la sua battaglia sia destinata a durare.
17La forma di vita occidentale, grazie al paradosso dell’illuminismo, è riuscita a sublimare la propria particolarità, cioè il suo essere una forma di vita tra altre, proiettandola in una universalità senza tempo e senza luogo. Ovunque c’è ancora da realizzare l’emancipazione, e ancora bisogna insistere nell’affermare i principi della civiltà e del progresso. L’illuminismo si presenta come un compito infinito. Ma si presenta così soltanto per la cultura occidentale; per le altre è tutt’al più un destino in cui incappano. Le formazioni di compromesso che in questo modo si realizzano palesano il paradosso di un universalismo che tenta di rilanciare sempre di nuovo se stesso, affondando di continuo nel particolare; mentre l’ibridazione riduce spesso le forme di vita non occidentali, o premoderne, a enclaves di tipo implosivo con un altissimo grado di distruttività interna.
Solitudine, ibridazione, illuminismo
18Qui allora la domanda intorno alla solitudine che una siffatta ibridazione produce, si propone con forza. Fino a che punto essa è recuperabile dentro l’universo di una comunicazione che si vuole planetaria? Se la ragazza di Calabria è un ibrido, un mostro culturale prodotto dal necessario compromesso della modernizzazione con il passato, essa può prendervi parte solo marginalmente. Il suo difficile mondo, la sofferenza provocata dalla commistione e dallo scontro in lei stessa di forme di vita diverse, l’autentica catastrofe culturale di cui è partecipe, tutto ciò è destinato a restare sottotraccia. Non sembra esserci una presa di parola forte per chi non appartiene più alla tradizione ma nemmeno ancora alla modernità. L’identità tradizionale non svanisce nel nulla, e non smette di pesare sul capo degli individui con quelli che, dal punto di vista moderno, sono i suoi relitti. Una modernità monca – e che non può non essere tale per via del paradosso dell’illuminismo – non realizza l’emancipazione ma costringe l’identità tradizionale al compromesso.
19Si pensi alla mafia. Non v’è dubbio che originariamente questa sia il prodotto di una cultura tradizionale di tipo non occidentale moderno. La sua organizzazione per clan, a base familistico-patriarcale, sullo sfondo di una comunità sostanzialmente agricola, ne fa un fenomeno in stridente contrasto con la modernità. Eppure è un fatto che il suo sviluppo coincide con quello di tecniche criminali molto sofisticate. La mafia è l’esempio lampante di un’identità tradizionale in grado di ristrutturarsi così da stabilire una proficua simbiosi con la modernità. La progressiva crescita della violenza, l’imbarbarimento, sono il frutto avvelenato del reciproco fronteggiarsi, e anche del venire a patti, tra forme di vita diverse ma altrettanto chiuse in se stesse al punto da potere solo implodere. Quanto più un’identità tradizionale riesce a mutuare le tecniche moderne, tanto più diventa aggressiva anzitutto contro se stessa.
20Un eccesso di ottimismo circa le virtù dell’ibridazione culturale è quindi fuori luogo. Tenendo dietro al proprio entusiasmo, si sorvola sulla circostanza che ibridazione vuol dire mescolanza ma anche identità e irrigidimento delle rispettive identità. Il termine «ibridazione» indica sia un’opportunità (il meticciato generale) sia il mero giustapporsi di culture in contrasto tra loro: e una prospettiva non sta senza l’altra. È un concetto in se stesso paradossale, non meno di quello dell’universalismo illuministico di cui in un certo senso è il rovescio. Ed esso è tutt’uno con la crisi dell’Occidente: segnala un aumento della complessità che non si riesce a ridurre e a governare.
21Non è sempre stato così. Alla fine della seconda guerra mondiale, per esempio, dopo la catastrofe interna del fascismo e del nazismo, l’Occidente riuscì a rilanciare la sua missione trovando un nemico nel comunismo e nei paesi del cosiddetto campo socialista. La cosa interessante (e davvero paradossale) è che il «nemico», l’«altro», s’ispirava agli stessi valori, partecipava della stessa inquietudine rivoluzionaria e palingenetica propria dell’Occidente. L’«altro» era un altro interno, una specie di fratello separato o figlio bastardo. Così l’universalismo (in concreto, la tendenza a imporre il proprio modo di vivere a tutti i popoli della terra) poteva alimentarsi del confronto continuo con gli insuccessi del fratello separato, che per suo conto perseguiva obiettivi di sviluppo molto simili. (Il paese in cui la visione del mondo occidentale, in versione marxista, si è forse meglio amalgamata con le strutture tradizionali, in un compromesso misterioso ma tuttora vitale e dal futuro imprevedibile, è la Cina). Il messaggio pubblicitario dell’Occidente suonava: scegliete direttamente il nostro modello e non fidatevi della tortuosa variante comunista. In questo modo l’Occidente poteva controllare indefinitamente il paradosso dell’illuminismo, osservandosi come dall’esterno grazie al confronto con un Oriente comunista, e scoprendosi ogni volta migliore. La sua natura di forma di vita particolare veniva sublimata di continuo nell’universalismo del «mondo libero» rispetto a un universalismo uguale e contrario, quello posto oltre la «cortina di ferro». Ma – ripeto – ciò era possibile in virtù del fatto che i sistemi contrapposti erano sostanzialmente della stessa pasta, lontani eppure vicini nelle loro pretese e aspirazioni.
22Dal momento in cui questo gioco della lontananza e della vicinanza, della diversità e della somiglianza, è terminato, la buona coscienza illuministica è senza pace, e neppure s’intravede una possibilità di ripresa. Ovunque, privo del termine di paragone costituito dal sistema sovietico, quindi senza più scampo, l’Occidente riconosce ormai il proprio volto e la particolare traccia del suo paradosso costitutivo: essere una forma di vita tra altre e insieme tendere, nel bene o nel male, a qualcosa di universale.
L’Africa nella storia?
23Ancora l’Africa, per esempio. Non v’è dubbio che qui il colonialismo occidentale abbia impresso la ferita più profonda. Quella che all’epoca del film di Pasolini Appunti per una Orestiade africana, sembrava ancora una chance di riscatto, connessa alle speranze aperte dalla decolonizzazione, con il tempo si è ripiegata in se stessa quando non rovesciata nel suo contrario. Non ci si può dire soddisfatti quando si constata che gli africani, lasciati da soli (ma poi, proprio lasciati o non piuttosto ancora eterodiretti, in maniera più sottile, con la scusa degli aiuti e con gli interventi più o meno umanitari?), non sono capaci d’interrompere la spirale delle dittature e delle guerre civili e darsi sistemi politici stabilmente democratici. Se l’illuminato Occidente guarda ai problemi politici dell’Africa, può riconoscere ovunque i segni della propria devastazione. Perché non si capisce in che modo un mondo tribale come quello africano possa essere stato suddiviso in Stati nazionali di tipo europeo, con i rispettivi ordinamenti giuridici, se non mediante la violenza del colonialismo. Sarebbe sufficiente riflettere sul fatto che i confini territoriali degli Stati africani sono stati disegnati dagli occidentali – pure divisioni arbitrarie – per rendersi conto che una democrazia autoctona difficilmente potrà sorgere in quei paesi. L’Africa è stata consegnata alla non-morte, a una vita da zombi, dal suo retaggio coloniale. Non è né ingenuamente primitiva né astutamente moderna, ma ferocemente primitiva e moderna. Trascinata di peso nella storia (nella storia occidentale, s’intende), ha cominciato a rifarle il verso con rivoluzioni immaginarie, colpi di Stato, e una violenza costante e fredda. Un illuminismo politico veramente illuminato avrebbe dovuto cercare di ridurre la violenza tribale, a partire però dal rispetto delle tradizioni, senza tentare di distruggerle attizzando gli odi tra i clan e le tribù a scopi di dominio.
24Nonostante il disastro, non bisogna credere però che l’Africa non esista più. Essa vive: vive la vita dei non-morti, ma vive anche una vita di resistenza più o meno passiva in grado di smascherare l’Occidente e metterlo in scacco. Il mondo non è interamente omologato, come a un certo punto parve a Pasolini, forse anche in conseguenza della delusione africana. Ciò che è diverso si dà, sia pure sempre nella combinazione di aspetti eterogenei, mai allo stato puro. E del resto, se la cultura occidentale moderna avesse chiuso la partita con l’arcaico, con le forme di vita fondate sulla tradizione, se insomma avesse prosciugato tutta l’alterità fuori di sé, se fosse riuscita a fare questo, al mondo non ci sarebbe che lei, e nemmeno si potrebbe parlare di una sua crisi. Invece è tipico della modernità di essere, in un certo senso, perennemente in crisi e di non riuscire mai a salvare la sua buona coscienza illuministica. L’emancipazione dell’umanità si è realizzata soltanto in zone ristrette del pianeta (e neppure qui in forme incontrovertibili); l’alterità esterna è improsciugabile, e si ripresenta in forme diverse, ombra ineliminabile, non appena si ritiene di averla esaurita o almeno incanalata.
Tra razzismo e omologazione
25Così gli zombi risalgono i continenti. Li si vede dappertutto, adesso, gli eredi dei diseredati, degli schiavizzati, dei torturati. Ma non sono più gli stessi. Sono un ibrido: il risultato dell’aggressione occidentale e della lunga risposta che hanno dovuto dare a essa. Certo, da nessuna parte esiste più una cultura non contaminata. Eppure i protagonisti dell’attuale grande migrazione non sono semplicemente degli espropriati. Un’espropriazione culturale totale è impossibile, perché coinciderebbe con l’eliminazione fisica degli esseri umani. D’altra parte anche un’integrazione completa è impossibile: perché i paesi occidentali sono costituiti su basi nazionali, ci sono dei limiti alla loro capacità d’inclusione (anche senza considerare l’attuale congiuntura economica), e quindi le loro stesse potenzialità di omologazione culturale sono limitate. Finché si trattava – come in Italia, nel passaggio da paese agricolo a paese industriale (punto di riferimento fondamentale dell’analisi di Pasolini) – di omologare una sottocultura nazionale interna, quella del sottoproletariato romano, ciò era ancora possibile: i fannulloni e gli straccioni erano spediti a lavorare in fabbrica, li si bombardava con il messaggio consumistico, e il gioco era fatto. (Del resto nemmeno così si può dire che un’omologazione completa sia stata raggiunta, se si pensa all’impasto di modernità e tradizione caratteristico delle regioni dell’Italia meridionale, e non solo di queste). Ma gli africani e il loro vasto continente non sono omologabili senza residui. Lo stesso sorgere, o risorgere, del razzismo nei paesi europei ne è una spia.
26Per quanto possa apparire strano, infatti, il razzismo è un fenomeno complementare e per nulla opposto a quello dell’omologazione. In un certo senso il primo comincia dove termina il secondo, e viceversa. Con questo voglio dire che la società dell’illuminismo porta in sé sia la tendenza all’inclusione, e quindi all’omologazione, sia quella all’esclusione, cioè in fin dei conti al razzismo – e che le due tendenze non si escludono, anzi si richiamano vicendevolmente. L’universalismo illuministico (inclusione, omologazione), nato e cresciuto dentro una particolare forma di vita, rinvia necessariamente alla tendenza a chiudersi, a proteggersi, a «difendere» se stessa (esclusione, razzismo); mentre a sua volta la spinta espansiva di questa, in quanto non riesce a restare una semplice forma di vita tra altre, rinvia necessariamente all’universalismo illuministico. È un paradosso, e proprio per questo non se ne esce. Il risultato di ciò è il compromesso di cui parlavo prima tra forze moderne, innovative, e forze della tradizione, conservatrici: ossia la loro sostanziale neutralizzazione reciproca non solo all’esterno, nel rapporto con le altre culture e con i paesi terzi, ma anche all’interno del mondo cosiddetto illuminato. La modernità non riesce a realizzare fino in fondo se stessa perché già lì, nella specificità della sua forma di vita, incontra il suo limite.
27Perciò il riemergere del razzismo, soprattutto nei paesi europei da cui sembrava quasi scomparso, è in negativo la spia del fatto che l’«altro » non può essere del tutto assorbito. La risposta dell’Occidente non riesce a essere quella dell’indefinita inclusione e omologazione. L’incessante flusso migratorio ingrossa dunque un esercito esposto ai colpi del razzismo. Non mi riferisco tanto al razzismo «classico» con una forte base ideologica (come nel caso dell’antisemitismo), quanto piuttosto a un nuovo razzismo spontaneo, immediato, addirittura discreto nella sua elementare xenofobia. Esso è la pura espressione di una forma di vita che si chiude e «difende» se stessa, con eccesso di zelo, dinanzi all’invasione migratoria che comunque non può bloccare senza tradire le sue pretese illuministiche. È caratteristico, del resto, che l’attacco razzista provochi dall’altra parte, come già si è potuto constatare nella vicenda degli ebrei, un’identificazione con l’aggressore che spinge verso l’assimilazione, l’integrazione, l’omologazione culturale. I due fenomeni si tengono e si implicano reciprocamente.
Tradizione contro tradizione
28Ciò che resta fuori, nonostante ci sia un nesso tra la risposta al razzismo e l’omologazione, fa parte della vischiosità delle tradizioni culturali, di tutte le tradizioni: fattore, questo, che va esaminato a parte. Per quanto infatti l’illuminismo sia preso in un paradosso, e sia costretto a venire a patti con le forze tradizionali sia all’interno della sua forma di vita sia all’esterno, ciò sarebbe impensabile senza la resistenza autonoma, spesso passiva, di quelle stesse forze. In un certo senso è un mistero – e il tentativo di dissolverlo ci porterebbe molto lontano – il persistere delle tradizioni e di ciò che ha lunga durata: al punto che anche la modernità, per dare un minimo di consistenza al suo evanescente principio, quello dell’innovazione continua (nelle arti, per esempio, la coazione all’originalità), ha dovuto costituirsi ossimoricamente in una tradizione – la tradizione moderna. Si direbbe quasi che la modernità non ce la faccia a sopportare la sua propria inquietudine: e così, per trovare sollievo da se stessa, viene a patti con le forze della tradizione, diventando essa stessa una tradizione. Il nuovo, allora, il colpo di caleidoscopio che bisogna pur dare per tenere fede all’identità moderna decade a gesto manieristico, a vuota ripetizione di sé. Ciò è visibilissimo nell’arte, nella letteratura, e lo è anche nelle questioni più propriamente sociali.
29Questa, in sostanza, una delle facce dell’impasse: se l’Africa arriva in Europa, portandovi una parte della sua alterità, la buona coscienza illuministica, messa in difficoltà, si scandalizza. A questo punto il contrasto non è più tra modernità e arcaismo; diventa – tradizione contro tradizione. Niente di più. Non si tratta di affermare una qualche universalità, ma di difendere la tradizione moderna, gli usi e i costumi di una forma di vita, contro l’«invasione» di una tradizione estranea, cioè contro gli usi e i costumi di un’altra forma di vita. L’Occidente sperimenta allora (come già l’Africa, ma certo molto più in piccolo, nelle proporzioni di una puntura di zanzara di contro a una carica di elefanti) che cosa sia l’intrusione nel proprio territorio di una cultura diversa. La buona coscienza illuministica entra in subbuglio al cospetto di qualcosa di ripugnante: al cospetto, per esempio, di una pratica barbarica come quella della escissione femminile diffusa in larghe zone dell’Africa e arrivata, tramite il flusso migratorio, perfino nella civilissima Europa. Ma di fronte a usanze del genere di cosa si può scandalizzare la buona coscienza illuministica se non di se stessa, cioè del suo non riuscire a mettere insieme, altrimenti che in un paradosso, aspirazione universale e carattere particolare della propria forma di vita? Secoli d’influenza occidentale, nel corso della dominazione coloniale e anche durante la decolonizzazione, non hanno realizzato in quei paesi l’emancipazione femminile (che è lungi dall’essere compiuta, del resto, nello stesso Occidente). E adesso, al tempo delle migrazioni, al tempo del «colonialismo a domicilio», l’illuminismo non ce la fa più a riaffermare a cuor leggero il suo messaggio. Perciò si avvita su se stesso, stretto tra la nuova consapevolezza relativistica, che spinge al rispetto verso tutte le culture, e la ripugnanza nei confronti del costume barbarico.
Illuminismo relativo e non-contemporaneità
30Dall’impasse non si esce. Un illuminismo ridotto proprio al lumicino non va al di là della difesa della propria forma di vita, impedendo l’escissione in Occidente (per le cui leggi l’integrità fisica della persona è sacra), e concedendo magari a denti stretti nell’hic sunt leones, cioè a quelle popolazioni nella loro terra, un qualche diritto a praticare le loro usanze. In questo modo, tuttavia, l’illuminismo non salva la buona coscienza: perché restringe se stesso all’Occidente e rinuncia alla lotta contro la barbarie. Per il relativismo culturale, infatti, la modernità è una tradizione allo stesso titolo di altre, e l’illuminismo ne è soltanto il custode. Ma proprio da qui, da questo relativismo per così dire obiettivo, viene l’impulso a una riflessione ulteriore. L’illuminismo può rendersi conto che fin dall’inizio è preso in un paradosso: perché ovunque, anche al suo interno, è venuto a patti con l’idea di tradizione; perché ha di mira sempre l’universale ma finisce con il difendere il particolare.
31La consapevolezza relativistica, basata sul rispetto delle differenze culturali, condanna insomma anche l’illuminismo a essere relativo: la qual cosa è un duro colpo alla sua originaria baldanza. Ma se l’illuminismo volesse saltare, come se niente fosse, al di là di questo relativismo riflessivo, se provasse a rilanciare l’universalismo alla vecchia maniera, allora sì sarebbe davvero spacciato: tradirebbe il suo impulso critico e si ridurrebbe senza residui alla pura ideologia dell’Occidente. Al contrario, nella situazione odierna forse per la prima volta, esso ha la possibilità di fare i conti con se stesso se evita la faciloneria che, specialmente dopo il crollo del sistema sovietico, ha plaudito alle virtù dell’Occidente come se si trattasse del migliore dei mondi possibili. Perciò una questione drammatica come quella dell’escissione femminile – priva di una soluzione definitiva all’interno di un pensiero relativisticamente avvertito, rispettoso delle differenze ma diviso, in questo caso, tra il rispetto e l’orrore – può funzionare da reagente chimico, o da importante acido scettico, per indurre l’illuminismo a una riflessione ulteriore.
32Il punto di partenza sta nell’approfondimento dell’idea di non-contemporaneità, enunciata per la prima volta da Ernst Bloch. Essa esprime la complessità di una storia che ha in sé una congerie di tempi storici diversi, e perciò non procede in modo rettilineo: una storia, quella occidentale, in cui l’automobile e il computer possono coesistere con il controllo patriarcale sulla verginità delle figlie tipico della cultura contadina. Al di là delle potenzialità rivoluzionarie che Bloch affidava alla non-contemporaneità – come irratio sempre presente nella razionalità borghese, ma anche come chance da cogliere, strappandola alle forze reazionarie, con la speranza in una finalità della storia che la liberasse dalla dispersione, riattualizzandone il carattere universale –, al di là di ciò (che appare datato), l’idea di non-contemporaneità merita comunque di essere ripresa6. Quanto più la storia universale, infatti, si frammenta in una molteplicità di storie particolari, tanto più la non-contemporaneità è sperimentata nella forma di un’irredimibile eterogeneità dei tempi storici. Con questo voglio dire che non solo un disegno provvidenziale è escluso dalla storia (il che era già chiaro a Bloch), ma che è esclusa anche la possibilità di ricondurla a una qualsiasi unità «rivoluzionaria», a qualsiasi redenzione utopica univoca (se per utopia s’intende una conciliazione finale degli opposti). La storia, con il suo carattere teleologico per non dire teologico, decade irrimediabilmente: e le storie particolari si lacerano in se stesse senza una speranza di pacificazione ultima.
33In questa situazione una riflessione dell’illuminismo su se stesso (e un pronostico sul suo futuro, ammesso che ne abbia uno) può consistere soltanto in una sua radicale autocritica. Una filosofia della storia basata sull’idea di non-contemporaneità contribuisce a quest’autocritica mostrando anzitutto che la tendenza dell’illuminismo a venire a patti con il suo contrario (con la tradizione se non proprio con l’oscurantismo) è essenziale alla forma di vita cui l’illuminismo appartiene. Fin dal tempo dei suoi trionfi, per calcolo di dominio o logica di sviluppo, l’Occidente ha stabilito fruttuosi compromessi con le forze tradizionali di quei paesi che ha colonizzato. E non solo: anche al suo interno la lotta tra la conservazione e il progresso si è cacciata, sempre di nuovo, in una neutralizzazione reciproca. Una filosofia della storia basata sull’idea di non-contemporaneità esclude la possibilità di una storia universale, e mette fuori gioco sia la tesi intorno a un dominio planetario assoluto della forma di vita occidentale, sia quell’altra, a essa collegata, riguardo alla sparizione di tutte le forme di vita diverse. Al contrario, non-contemporaneità significa: non c’è alcuna chance per l’Occidente di chiudere definitivamente la partita con il suo «altro» (sebbene questo «altro» non sia mai determinabile a priori e viva un’umbratile esistenza proteiforme), per la semplice ragione che le forme di vita non occidentali, benché le si trascini, riluttano a entrare sotto il principio di una storia unidimensionale.
34L’autocritica dell’illuminismo si presenta allora come la critica di quella coscienza critica che ha il suo terreno di coltura nella forma di vita occidentale. Il carattere metacritico, ossia di critica di qualcosa che già di per sé si presenta come critico, è il tratto precipuo della riflessione ulteriore dell’illuminismo. Questa nasce dalla considerazione che esso non ha riflettuto adeguatamente sul nesso che lo lega alla sua forma di vita particolare, cioè sull’intrinseca paradossalità del suo universalismo.
Notes de bas de page
1 Il film di Ferreri è del 1988, quello di Iosseliani del 1989. Vent’anni sono trascorsi dal film di Pasolini del 1969, Appunti per una Orestiade africana, e la percezione dell’Africa è profondamente mutata. Dove Pasolini, nell’ottica terzomondista tipica di quegli anni, vedeva, sia pure contraddittoriamente, un potenziale di liberazione, ora regna il caos. Questa mutata percezione dell’Africa da parte della cultura occidentale implica un mutamento nell’autopercezione dell’Occidente stesso: una differenza nell’osservatore e del modo in cui si autosserva.
2 L’idea di un’Africa senza storia risale per lo meno a G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 262.
3 L’episodio in A. Moravia, A quale tribù appartieni?, Milano, Bompiani, 1981, p. 188.
4 Queste righe sono state scritte originariamente nel 1994. Da allora l’autore (in Convivenze difficili. L’Occidente tra declino e utopia, Milano, Feltrinelli, 2005, e nel Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere, Napoli, Cronopio, 2009) – lavorando sulla distinzione tra le nozioni di cultura, olistica e particolaristica, e società, universalistica e individualistica – ha corretto il tiro, riconoscendo a prospettive come l’eguaglianza di genere, la democrazia, il socialismo democratico, uno statuto capace di rompere con l’imperatività delle culture proponendo un progetto di società mondiale. In questo modo la sua distanza dal pensiero di Habermas è diminuita. Resta, tuttavia, l’idea dell’illuminismo come una paradossale fatica di Sisifo: cfr. infra, p. 63.
5 Cfr. R. Genovese (a cura di), Figure del paradosso, Napoli, Liguori, 1992.
6 Cfr. E. Bloch, Eredità del nostro tempo, Milano, il Saggiatore, 1992, pp. 82 sgg.
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