Capitolo III. Che cos’è una società?
p. 95-119
Texte intégral
1Il nostro concetto di società risulta molto chiaramente da quanto precede, ma è importante precisare ulteriormente questa nozione fondamentale.
I
2Che cos’è una società? Si è risposto generalmente: un gruppo di individui diversi che si aiutano a vicenda. Da questa definizione, tanto falsa quanto chiara, sono sorte tutte le confusioni stabilitesi molto frequentemente tra le cosiddette società animali, o la maggior parte di esse, e le sole vere società, tra le quali ve ne sono, da un certo punto di vista, un piccolo numero di animali1.
3A questa concezione tutta economica, che fonda il gruppo sociale sull’assistenza reciproca, potrebbe essere sostituita con vantaggio una concezione tutta giuridica che ponesse come associati a un individuo qualsiasi non tanto tutti coloro ai quali egli è utile o che gli sono utili, ma tutti quelli, ed essi soltanto, che vantano su di lui dei diritti stabiliti attraverso la legge, la consuetudine e le convenienze ammesse, o sui quali egli vanta diritti analoghi, con o senza reciprocità. – Ma vedremo che questo punto di vista, quantunque preferibile, restringe eccessivamente il gruppo sociale, così come il precedente lo allargava oltre misura. – Infine, sarebbe anche possibile una nozione del legame sociale tutta politica o tutta religiosa. Condividere una stessa fede oppure collaborare a uno stesso disegno patriottico, comune a tutti gli associati e profondamente distinto dai loro vari bisogni particolari, per la cui soddisfazione essi si aiutano più o meno reciprocamente, poco importa: sarebbe questo il vero rapporto sociale. Ora, è certo che questa unanimità di cuore e di spirito è proprio il carattere distintivo delle società compiute; ma è altrettanto certo che un inizio di legame sociale esiste anche senza di essa, per esempio tra europei appartenenti a nazionalità diverse. Di conseguenza, questa definizione è troppo esclusiva. D’altronde, la conformità di disegni e di credenze di cui si tratta, questa somiglianza mentale che comprende decine e centinaia di milioni di persone contemporaneamente non è nata ex abrupto; in che modo si è prodotta? A poco a poco, gradualmente, per via imitativa. È dunque sempre qui che bisogna arrivare.
4Se il rapporto da socio a socio fosse essenzialmente un aiuto reciproco, bisognerebbe riconoscere non soltanto che le società animali meritano questo nome, ma che esse sono le società per eccellenza. Il pastore e il contadino, il cacciatore e il pescatore, il fornaio e il macellaio, si aiutano senza dubbio reciprocamente, ma molto meno di quanto non facciano i due sessi di termiti. All’interno delle stesse società animali, le più complete non sarebbero le più alte, quelle delle api e delle formiche, dei cavalli o dei castori, ma le più basse, quelle delle sifonofore per esempio, in cui la divisione del lavoro è spinta al punto che gli uni mangiano per gli altri, i quali, a loro volta, digeriscono per i primi. Non sarebbe immaginabile aiuto più grande. Senza alcuna ironia e senza uscire dai confini dell’umanità, ne conseguirebbe che il grado del legame sociale tra gli uomini sarebbe proporzionale al loro grado di utilità reciproca. Il padrone ospita e nutre lo schiavo, il signore difende e protegge il servo, in cambio delle funzioni subalterne svolte dallo schiavo e dal servo a beneficio del padrone o del signore: in questi casi c’è aiuto reciproco, reciprocità imposta con la forza, è vero, ma ciò non conta se il punto di vista economico deve prevalere e se lo si ritiene destinato a imporsi necessariamente sul punto di vista giuridico. Perciò lo spartano e l’ilota, il signore e il servo, come anche il guerriero e il commerciante indù, sarebbero, dal punto di vista sociale, molto più legati di quanto non lo siano tra loro i diversi cittadini liberi di Sparta, o i signori feudali di una stessa contrada, o gli iloti, oppure i servi di uno stesso villaggio, con gli stessi costumi, la stessa lingua e la stessa religione!
5Si è pensato, a torto, che civilizzandosi le società dessero la preferenza alle relazioni economiche rispetto alle relazioni giuridiche. Ciò significa dimenticare che ogni lavoro, ogni servizio, ogni scambio, riposa su un vero e proprio contratto garantito da una legislazione sempre più regolamentata e complicata, e che all’accumularsi delle prescrizioni legali si aggiungono gli usi commerciali o di altro tipo, aventi forza di legge, le procedure multiple di ogni genere, dalle formalità semplificate, ma generalizzate, della cortesia, fino agli usi elettorali e parlamentari2. La società è molto più una determinazione reciproca di impegni o di consensi, di diritti e di doveri, che un’assistenza reciproca. Ecco perché si instaura tra esseri simili o poco differenti tra loro. La produzione economica esige la specializzazione delle attitudini, la quale, spinta al limite, conformemente al desiderio inespresso, ma logicamente inevitabile, degli economisti, farebbe del minatore, del coltivatore, dell’operaio tessile, dell’avvocato, del medico ecc. tante specie umane distinte. Ma, per fortuna, la decisa preponderanza, vanamente negata, dei rapporti giuridici, impedisce a questa differenziazione tra lavoratori di accentuarsi oltre misura, costringendola invece a indebolirsi ogni giorno di più. Il diritto, è vero, in questi casi è soltanto una conseguenza e una delle forme assunte dell’inclinazione umana all’imitazione. Ci si pone forse dal punto di vista utilitario quando si insegnano al contadino i suoi diritti, quando lo si istruisce, a rischio di vedere le popolazioni rurali abbandonare l’aratro e la vanga, e la doppia mammella dell’aratura e del pascolo inaridire? No, ma il culto dell’uguaglianza ha prevalso su questa considerazione. Si sono volute introdurre più avanti, nella società superiore, delle classi che, per tanti aspetti, malgrado un incessante aiuto reciproco, non ne facevano affatto parte; e, per questo, si è capito che bisognava assimilarle per contagio imitativo ai membri dell’alta società, o, per meglio dire, che bisognava comporre il loro essere mentale e sociale con idee, desideri, bisogni, elementi che, presi isolatamente, in una parola, fossero simili a quelli che costituiscono la mente e il carattere dei membri di questa società.
6Se gli esseri più diversi, il pescecane e il pesciolino che gli serve da stuzzicadenti, l’uomo e i suoi animali domestici, possono aiutarsi a vicenda molto bene, se anche gli esseri più differenti possono talvolta collaborare a un’opera comune, come il cacciatore e il cane da caccia oppure i due sessi, spesso così eterogenei, c’è una condizione senza la quale due esseri non potrebbero obbligarsi e riconoscersi reciprocamente dei diritti, cioè che possiedano un fondo di idee e di tradizioni comuni, una lingua o un traduttore comune, tutte affinità strette che si sono formate attraverso l’educazione, che è una delle forme della trasmissione imitativa. Ecco perché i conquistatori dell’America, Spagnoli o Inglesi, non hanno mai riconosciuto dei diritti agli indigeni, né questi a quelli. La differenza razziale ha svolto in questo caso un ruolo molto più limitato della differenza linguistica, consuetudinaria, religiosa, o ha agito soltanto come elemento ausiliario rispetto a queste ultime cause di incompatibilità3. Ecco perché, al contrario, una catena stretta di diritti e di obblighi reciproci teneva uniti tutti i membri dell’albero feudale, dal ramo più alto alla più bassa radice, attraverso una costituzione eminentemente giuridica. Qui, in effetti, dall’imperatore al servo, la propaganda cristiana aveva prodotto, nel xii secolo, la più profonda assimilazione mentale che si fosse mai vista. Ed è essenzialmente in ragione di questa rete di diritti che l’Europa feudale costituiva da un capo all’altro una vera società, la cristianità, non meno stretta di quanto lo era stata la romanità (romanitas) nei più bei giorni dell’Impero romano. Vogliamo la controprova di questo fatto? Eccola: gli emigranti cinesi e indù, nelle Antille, possono anche essere legati ai loro padroni bianchi da relazioni di aiuto reciproco, e persino da contratti sinallagmatici, tuttavia tra loro non si stabilisce mai un legame veramente sociale, in quanto non arrivano mai ad assimilarsi. In questo caso ha luogo un contatto e un’utilizzazione reciproca tra due o tre civiltà diverse, tra due o tre fasci distinti di invenzioni irradianti nella loro sfera specifica per via imitativa, ma non esiste una società nel vero senso della parola.
7La divisione tra le caste indù fu stabilita in virtù di una nozione di società essenzialmente economica. Le caste erano formate da razze diverse che si aiutavano fortemente a vicenda. Perciò, lungi dal caratterizzare uno stadio avanzato di civilizzazione, la tendenza a subordinare la considerazione morale dei diritti alla considerazione utilitaria dei servizi e delle opere perde forza con il miglioramento dell’umanità e man mano che la grande industria progredisce4. A dire il vero, l’uomo civilizzato dell’epoca attuale tende a fare a meno dell’aiuto degli altri. Ricorre sempre meno a un altro uomo profondamente diverso da lui, specializzato professionalmente, e sempre di più alle forze della natura asservita. L’ideale sociale dell’avvenire non è forse la riproduzione su grande scala della città antica, in cui gli schiavi, come si è detto e ripetuto a sazietà, verranno sostituiti dalle macchine e in cui il piccolo gruppo dei cittadini uguali, simili, imitandosi e assimilandosi incessantemente, del resto indipendenti e inutili gli uni agli altri, almeno in tempo di pace, costituirà la totalità degli uomini civilizzati? La solidarietà economica instaura tra i lavoratori un legame vitale piuttosto che sociale; nessuna organizzazione del lavoro sarà mai paragonabile, sotto questo aspetto, all’organismo più imperfetto. La solidarietà giuridica possiede invece un carattere esclusivamente sociale, ma perché? Perché presuppone l’assimilazione imitativa. E anche quando questa assimilazione è presente senza che esistano dei diritti riconosciuti, nondimeno esiste già un principio di società. Luigi xiv non riconosceva ai suoi sudditi alcun diritto nei suoi confronti; i suoi sudditi condividevano la stessa illusione; tuttavia egli si trovava con loro in rapporto sociale, perché erano entrambi il prodotto di una stessa educazione classica e cristiana, perché lo si teneva d’occhio per copiarlo dalla corte e Parigi fino al fondo della Provenza e della Bretagna, e perché lui stesso, a sua insaputa, subiva l’influenza dei suoi cortigiani, come se si trattasse di una specie di imitazione diffusa ricevuta in cambio della sua imitazione irradiante.
8Ci troviamo, lo ripeto, in un rapporto sociale molto più stretto con le persone alle quali assomigliamo maggiormente per identità di mestiere e di educazione, fossero anche nostri rivali, rispetto alle persone di cui abbiamo bisogno. Questo fatto è evidente tra avvocati, giornalisti, magistrati, in tutte le professioni. Così abbiamo una buona ragione per chiamare società, nel linguaggio corrente, un gruppo di persone educate allo stesso modo, forse in disaccordo a proposito delle idee e dei sentimenti, ma che possiedono uno stesso fondo comune, che si guardano e si influenzano a vicenda con piacere. Quanto agli impiegati di una stessa fabbrica, di uno stesso negozio, che si riuniscono per aiutarsi o per collaborare, essi formano una società commerciale, industriale, ma non una società senza attributo, una società pura e semplice5.
9Una cosa è la nazione, una specie di organismo iperorganico, formato da caste, classi o professioni che collaborano tra loro, un’altra la società. Questo è evidente al giorno d’oggi, quando centinaia di milioni di persone sono in procinto di denazionalizzarsi e di socializzarsi sempre di più. Non mi sembra affatto dimostrato che queste uniformità multiple verso cui ci stiamo dirigendo a grandi passi (relative al linguaggio, all’istruzione, all’educazione ecc.) siano la cosa più adatta ad assicurare lo svolgimento degli innumerevoli compiti che gli individui associati e le nazioni si sono suddivisi tra loro. Per il fatto di essere stato alfabetizzato, non è detto che un contadino diventi un aratore più raffinato, e non è detto che un soldato diventi più disciplinato, e nemmeno, chissà? più coraggioso. Ma quando si obbiettano queste spiacevoli eventualità ai partigiani del progresso a tutti i costi, essi rispondono che ciò accade perché non ci si pone dal loro punto di vista, del quale essi stessi non hanno forse coscienza. Quello che vogliono è la socializzazione più intensa possibile, e non, il che è ben diverso, l’organizzazione sociale più forte e più alta possibile. Una vita sociale straripante all’interno di un organismo sociale ridotto, a rigore, sarebbe loro sufficiente. – Resta da sapere in quale misura questo fine sia desiderabile. Teniamo in serbo questa domanda.
10L’instabilità e il malessere delle nostre società moderne debbono sembrare inspiegabili agli occhi degli economisti, e, in generale, di qualsiasi sociologo che fondi la società sull’utilità reciproca. In effetti, l’aiuto reciproco che si danno le diverse classi delle nostre nazioni, e le diverse nazioni tra loro, è manifesto, e aumenta ogni giorno di più con tutta la rapidità umanamente possibile, con il concorso dei costumi e delle leggi. Ma si dimentica che gli individui che fanno parte di queste classi e di queste nazioni tendono a un’assimilazione imitativa molto più ampia e molto più rapida, che incontra, proprio nei costumi e nelle leggi, degli ostacoli irritanti, tanto più irritanti forse quanto più essi appaiono facili da superare.
11Dopo aver approfondito, allargato, aumentato per così tanto tempo la distanza che separa l’uomo dalla donna, la civiltà tende oggi, in Francia, in America, in Inghilterra, in tutti i paesi moderni, a ridurre la differenza intellettuale tra i sessi aprendo al più debole la maggior parte delle carriere dell’altro e facendolo partecipare ai vantaggi di un’educazione o di un’istruzione quasi comuni. La civiltà, in questo, tratta la donna come ha trattato un tempo il contadino, il libero lavoratore agricolo, che aveva reso gradualmente una casta a parte, e che ora reintroduce nel grande gruppo sociale. Ora, in entrambi i casi, dirò: queste trasformazioni vengono forse compiute per un fine di utilità sociale, per permettere al contadino e alla donna di svolgere al meglio le loro funzioni specifiche, la coltura dei campi, l’allattamento e la cura dei figli? Niente affatto, e anche molti pensatori pessimisti, tra cui il sottoscritto, vedono giungere il momento in cui, in seguito a questi cambiamenti, non si troveranno più operai agricoli, né nutrici, e nemmeno delle madri che possano o vogliano allattare dei figli sempre più rari. – Ma si è voluto allargare il cerchio sociale, ed essendo l’assimilazione delle donne agli uomini, dei contadini ai cittadini, una condizione indispensabile di questa socializzazione, è stato necessario assimilarli in questo modo.
12Già nel xviii secolo, all’interno di un cerchio sociale più ristretto, quello della società brillante di allora, la vita di salotto, comune ai due sessi, li aveva resi più simili tra loro a proposito delle idee e dei gusti di quanto non lo fossero stati nel medioevo; e si sa che questo vantaggio sociale era stato acquisito a prezzo della fecondità e anche dell’onestà delle famiglie. Eppure, si era felici così; poiché una necessità superiore spinge il cerchio sociale, qualunque esso sia, ad allargarsi incessantemente.
13Instauro forse un rapporto sociale con gli altri uomini, soltanto perché condividono il mio stesso tipo fisico, gli stessi organi e gli stessi sensi che ho io? Instauro forse un rapporto sociale con un sordomuto non istruito che mi assomiglia nella costituzione corporea e nei tratti somatici? Per niente. Al contrario, gli animali di La Fontaine, la volpe, la cicogna, il gatto, il cane6, malgrado la distanza specifica che li separa, vivono in società, in quanto parlano una stessa lingua. Si mangia, si beve, si digerisce, si cammina, si piange, senza averlo imparato. Tutto ciò è puramente vitale. Ma per parlare bisogna aver sentito parlare; l’esempio dei sordomuti lo prova, giacché sono muti in quanto sordi. Perciò, io comincio a sentirmi in rapporto sociale, ancora molto debole e insufficiente, è vero, con ogni uomo che parla, anche una lingua straniera; ma a condizione che le nostre due lingue mi sembrino possedere un’origine comune. Il legame sociale si rafforza nella misura in cui a questo fatto si vengono ad aggiungere altri tratti comuni, tutti di origine imitativa.
14Ne risulta questa definizione del gruppo sociale: una collezione di esseri che si stanno imitando tra loro o che, anche senza che si stiano imitando attualmente, si assomigliano perché i loro tratti comuni sono antiche copie di uno stesso modello.
II
15Distinguiamo inoltre, rispetto al gruppo sociale, il tipo sociale, che in un certo momento e in un certo luogo si riproduce in modo più o meno completo in ciascun membro del gruppo. Da che cosa è formato questo tipo? Da un certo numero di bisogni e di idee generate da migliaia di invenzioni e di scoperte accumulate nel corso del tempo; di bisogni più o meno concordi, cioè che concorrono in misura maggiore o minore al trionfo di un desiderio dominante, che costituisce l’anima di un’epoca e di una nazione; e da idee, da credenze più o meno concordi, cioè che si collegano logicamente tra loro o almeno che, in generale, non si contraddicono. Questo duplice accordo, sempre incompleto e non privo di note discordanti, che si stabilisce a lungo andare tra cose prodotte e raccolte fortuitamente, è perfettamente paragonabile a quello che chiamiamo l’adattamento degli organi di un corpo vivente. Ma ha il vantaggio di non essere toccato dal mistero inerente questo tipo di armonia, e di significare, in termini molto chiari, rapporti di mezzi a un fine o di conseguenze a un principio, due rapporti che, in definitiva, non ne fanno che uno solo, l’ultimo. Che cosa significa l’incompatibilità, il disaccordo tra due organi, tra due conformazioni fisiche, tra due caratteri presi a prestito a due specie diverse? Non ne sappiamo nulla. Ma quando due idee sono incompatibili, è perché una di esse, come sappiamo, implica la negazione di ciò che viene affermato dall’altra. Parimenti, quando sono compatibili, è perché non implicano o non sembrano implicare in alcun modo questa negazione. Infine, quando sono più o meno concordi, è perché, per un numero maggiore o minore delle sue sfaccettature, una di esse implica l’affermazione di un numero di cose maggiore o minore che sono affermate dall’altra. Affermare e negare: non esiste nulla di meno oscuro, nulla di più chiaro di questi atti mentali ai quali può essere ricondotta tutta la vita della mente; nulla di più comprensibile della loro opposizione. In essa si risolve quella del desiderio e della repulsione, del velle e del nolle. Un tipo sociale dunque, quella che chiamiamo una civiltà particolare, è un vero e proprio sistema, una teoria più o meno coerente, in cui le contraddizioni interne alla lunga si rafforzano oppure esplodono costringendolo a disgregarsi. Se è così, comprendiamo chiaramente perché esistano dei tipi di civiltà forti e puri, e altri misti e deboli; perché, a forza di arricchirsi di nuove invenzioni che suscitano nuovi desideri o di nuove credenze che disturbano la proporzione dei desideri e delle fedi consolidate, i tipi più puri si alterino e finiscano per smembrarsi; perché, altrimenti detto, tutte le invenzioni non siano accumulabili tra loro e molte di esse siano invece sostituibili, quelle cioè che suscitano desideri e credenze implicitamente o esplicitamente contraddittorie in tutta la precisione logica della parola. Non esistono dunque, nelle fluttuazioni ondulanti della storia, nient’altro che addizioni o sottrazioni continue di quantità di fede o di desiderio che, sollevate da scoperte, si sommano oppure si neutralizzano a vicenda, come se fossero delle onde che interferiscono tra loro.
16Questo è il tipo nazionale che, possiamo dire, si ripete in tutti i membri di una nazione. Lo si potrebbe paragonare a un grande sigillo la cui impronta è sempre parziale sulle diverse cere più o meno grandi alle quali viene applicato, e che, senza il confronto tra tutte queste impronte, non potrebbe neanche venire ricostruito per intero.
III
17A dire il vero, quella che ho definito in precedenza, è meno la società così come la si intende comunemente, che la socialità. Una società è sempre, a gradi diversi, un’associazione, e un’associazione sta alla socialità, all’imitatività, per così dire, come l’organizzazione sta alla vitalità oppure come la costituzione molecolare sta all’elasticità dell’etere. Dobbiamo quindi aggiungere nuove analogie a quelle che mi sono già sembrate presentare in così gran numero le tre grandi forme della Ripetizione Universale. Ma forse, per comprendere pienamente la socialità relativa, la sola che venga manifestata a gradi diversi dai fatti sociali, converrebbe immaginare la socialità assoluta e perfetta. Essa consisterebbe in una vita urbana così intensa che la trasmissione a tutti i cervelli della città di una buona idea apparsa da qualche parte in seno a uno di essi avverrebbe istantaneamente. Questa ipotesi è analoga a quella dei fisici, secondo i quali, se l’elasticità dell’etere fosse perfetta, gli impulsi luminosi o di altro tipo si trasmetterebbero senza alcun intervallo di tempo. Da parte loro, i biologi non potrebbero anch’essi immaginare utilmente un’irritabilità assoluta, incarnata in una specie di protoplasma ideale, che servirebbe loro per valutare la vitalità maggiore o minore dei protoplasmi reali?
18Pertanto, se vogliamo che l’analogia sia mantenuta nei tre mondi, bisogna che la vita sia semplicemente l’organizzazione dell’irritabilità del protoplasma, e che la materia sia semplicemente l’organizzazione dell’elasticità dell’etere, così come la società non è altro che l’organizzazione dell’imitatività. Ora, è a malapena utile far notare che la concezione di Thomson, adottata da Wurtz, sull’origine degli atomi e delle molecole, ossia l’ipotesi quantomeno così seducente e così verosimile degli atomi-vortice, risponde perfettamente a una delle esigenze del nostro modo di vedere, come anche la teoria protoplasmica della vita, oggi accettata da tutti. Una massa di bambini allevati in comune, che abbiano ricevuto la stessa educazione all’interno dello stesso ambiente, e non ancora differenziati in classi e in professioni: questa è la materia prima della società. Essa li plasma, e ne forma, attraverso una differenziazione funzionale, inevitabile e forzata, una nazione. Una certa massa di protoplasma, cioè di molecole organizzabili ma non ancora organizzate, tutte uguali, tutte simili le une alle altre in virtù di questo modo oscuro di riproduzione da cui provengono; ecco la materia prima della vita. Essa fa di queste molecole delle cellule, dei tessuti, degli individui, delle specie. Infine una massa di etere omogenea, composta da elementi scossi da vibrazioni tutte simili, che si scambiano rapidamente: ecco, se credo ai nostri chimici speculativi, la materia prima della materia. In questo modo si sono formati tutti i corpuscoli di tutti i corpi, per quanto eterogenei possano essere. Poiché un corpo non è altro che un accordo di vibrazioni differenziate e gerarchizzate, riprodotte separatamente in serie distinte e intrecciate, così come un organismo non è altro che un accordo di infra-generazioni elementari, differenti e armoniose, di linee diverse e intrecciate di elementi istologici, e una nazione non è altro che un accordo di tradizioni, costumi, educazioni, tendenze, idee che si propagano imitativamente per vie differenti, ma si subordinano gerarchicamente, e si aiutano a vicenda in modo fraterno.
19La legge di differenziazione interviene dunque a questo punto. Ma non è inutile far notare che l’omogeneo sul quale essa si esercita nelle tre forme sovrapposte, è soltanto un omogeneo superficiale, sebbene reale, e che il nostro punto di vista sociologico ci condurrebbe, con il prolungamento dell’analogia, ad ammettere nel protoplasma degli elementi che possiedono delle fisionomie molto individuali al di sotto della loro maschera uniforme, e, anche nell’etere, degli atomi individualmente tanto caratterizzati quanto possono esserlo gli allievi della scuola meglio disciplinata. L’eterogeneo e non l’omogeneo sta nel cuore delle cose. Che cosa c’è di più inverosimile, o di più assurdo, della coesistenza di innumerevoli elementi nati co-eternamente simili? Simili non si nasce, lo si diventa. E, d’altronde, la diversità innata degli elementi, non è forse l’unica giustificazione possibile della loro alterità?
20Potremmo spingerci anche più lontano: senza questo eterogeneo iniziale e fondamentale, l’omogeneo che lo ricopre e lo dissimula non sarebbe mai esistito, né sarebbe potuto esistere. Ogni omogeneità, in effetti, è soltanto una somiglianza parziale, e ogni somiglianza è il risultato di un’assimilazione provocata da una ripetizione volontaria oppure forzata di quella che all’inizio è stata un’innovazione individuale. Ma ciò non basta. Quando l’omogeneo di cui parlo, etere, protoplasma, massa popolare resa uguale e livellata, si differenzia per organizzarsi, la forza che lo costringe a uscire da se stesso, non condivide ancora la stessa causa, almeno a giudicare da ciò che accade nelle nostre società? Dopo il proselitismo che assimila un popolo, arriva il dispotismo che lo sfrutta e gli impone una gerarchia; ma l’apostolo e il despota sono entrambi dei refrattari, ai quali pesava il giogo livellatore o aristocratico altrui. Per una dissidenza, per una ribellione individuale che trionfa in questo modo, ce ne sono, è vero, milioni e miliardi che si sono spente sotto la loro ombra; ma esse costituiscono ugualmente il vivaio dei grandi rinnovamenti dell’avvenire. Questo lusso di variazioni, questa esuberanza di fantasie pittoresche e di capricciosi ricami, che la natura dispiega magnificamente al di sotto del suo austero apparato di leggi, di ripetizioni, di ritmi secolari, non può avere che una fonte: l’originalità tumultuosa degli elementi mal domati da questi gioghi, la diversità innata e profonda che, attraverso tutte queste uniformità legislative, riappare zampillante e trasfigurata alla bella superficie delle cose.
21Non daremo seguito alle nostre ultime considerazioni, che ci allontanerebbero dal nostro tema. Ho soltanto voluto mostrare che la ricerca delle leggi, cioè dei fatti simili, sia nella natura sia nella storia, non ci deve far dimenticare i loro moventi [agents] nascosti, individuali e originali. Lasciando dunque da parte questi ultimi, possiamo trarre da ciò che precede un utile insegnamento: l’assimilazione congiunta al livellamento dei membri di una società non è affatto, come si sarebbe portati a pensare, il termine finale di un progresso sociale precedente, ma, al contrario, è il punto di partenza di un progresso sociale nuovo. Ogni nuova forma di civiltà comincia da qui: comunità egualitarie e uniformi dei primi cristiani in cui il vescovo era un fedele come gli altri, e in cui il papa non si distingueva dal vescovo; eserciti franchi in cui la distribuzione del bottino avveniva in parti uguali tra il re e i suoi compagni d’armi, società musulmana ai suoi inizi ecc. I primi califfi che sono succeduti a Maometto si difendevano nei tribunali come semplici maomettani; l’uguaglianza tra tutti i figli del profeta di fronte al Corano non era ancora diventata una semplice finzione come è destinata a diventarlo un giorno, inevitabilmente, l’uguaglianza dei Francesi o degli europei di fronte alla legge. Poi, per gradi, all’interno del mondo arabo si è prodotta una disuguaglianza profonda, condizione di un’organizzazione solida, più o meno come si è formata la gerarchia clericale del cattolicesimo o la piramide feudale del medioevo. Il passato risponde dell’avvenire. L’uguaglianza non è altro che una transizione tra due gerarchie, così come la libertà non è che il passaggio tra due discipline. Ciò non significa che la fiducia e la potenza, il sapere e la sicurezza di ogni cittadino, non tendano a crescere nel corso del tempo.
22Riprendiamo ora, sotto un altro aspetto, l’idea precedente. Le comunità omogenee ed egualitarie, abbiamo detto, precedono le chiese e gli stati per la stessa ragione per la quale i tessuti precedono gli organi; e, inoltre, la ragione per cui i tessuti e le comunità una volta formati si organizzano, si gerarchizzano, non è diversa dalla causa della loro formazione. La crescita del tessuto non ancora differenziato né utilizzato attesta l’ambizione, l’avidità specifica del germe che si è propagato in questo modo, così come la creazione di un club, di un circolo, di una confraternita di uguali, attesta l’ambizione dello spirito intraprendente che l’ha fatto nascere, diffondendo in questo modo la sua idea personale, il suo piano personale. Ora, se la comunità si consolida in corporazione gerarchica, se il tessuto si fa organo, è per espandersi sempre di più e per difendersi contro i nemici reali o presunti. Agire e funzionare, per l’essere vivente o sociale, è una condizione sine qua non di conservazione e di diffusione dell’idea maestra che porta al suo interno e grazie alla quale all’inizio gli è bastato moltiplicarsi in esemplari uniformi per potersi sviluppare per qualche tempo. Ma quello che la cosa sociale prima di tutto vuole, come anche la cosa vitale, è propagarsi, non organizzarsi. L’organizzazione è soltanto un mezzo di cui la propagazione, la ripetizione generativa o imitativa, è il fine.
23Riassumendo, alla domanda che abbiamo posto all’inizio, “che cos’è una società?”, abbiamo risposto: è l’imitazione. Dobbiamo chiederci adesso: “che cos’è l’imitazione?”. Qui il sociologo deve cedere la parola allo psicologo.
IV
241. Il cervello, dice molto correttamente Taine riassumendo su questo punto i fisiologi più eminenti, è un organo ripetitore dei centri sensoriali, esso stesso formato da elementi che si ripetono tra loro. Il fatto è che a vedere tante cellule e fibre simili raggomitolate, sarebbe impossibile farsene un’idea diversa. La prova diretta è fornita, del resto, dalle esperienze e dalle numerose osservazioni che mostrano come l’ablazione di un emisfero cerebrale, e anche l’asportazione di una porzione considerevole di sostanza nell’altro, interessino soltanto l’intensità, senza alterare l’integrità delle funzioni intellettuali. La parte asportata perciò non collaborava con la parte restante; esse non potevano fare altro che copiarsi e rinforzarsi reciprocamente. Il loro rapporto non era affatto di tipo economico, utilitario, ma imitativo e sociale, nel senso in cui io intendo quest’ultimo termine. Qualunque sia la funzione cellulare che produce il pensiero (forse una vibrazione molto complessa?) non possiamo dubitare che essa si riproduca, si moltiplichi all’interno del cervello in ogni istante della nostra vita mentale, e che a ogni percezione diversa corrisponda una funzione cellulare differente. È proprio la continuazione indefinita, inesauribile, di questi irradiamenti aggrovigliati, ricchi di interferenze, a costituire talvolta soltanto la memoria, talaltra l’abitudine, a seconda che la ripetizione moltiplicante di cui si tratta sia rimasta confinata all’interno del sistema nervoso oppure che, straripante, abbia raggiunto il sistema muscolare. La memoria è, se vogliamo, un’abitudine puramente nervosa; l’abitudine, una memoria nervosa e muscolare allo stesso tempo.
25Così, ogni atto percettivo, quando implica un atto mnemonico, cioè sempre, presuppone una specie di abitudine, cioè un’imitazione inconscia di se stessi [de soi-même par soi-même]. Quest’ultima, evidentemente, non ha nulla di sociale. Quando il sistema nervoso è eccitato al punto da mettere in oscillazione un gruppo di muscoli, appare l’abitudine propriamente detta, altra imitazione di se stessi, anch’essa niente affatto sociale. Direi piuttosto presociale o subsociale. Ciò non significa, come si è preteso, che l’idea sia un’azione fallita: l’azione non è altro che il prolungamento di un’idea, un’acquisizione stabile di fede. Il muscolo lavora soltanto per arricchire il nervo e il cervello.
26Ma se l’idea o l’immagine ricordata è stata deposta originariamente nella mente da una conversazione o da una lettura, se l’atto abituale è stato prodotto dalla visione o dalla conoscenza di un’azione analoga compiuta da qualcun altro, questa memoria e questa abitudine sono dei fatti sia sociali che psicologici; ed ecco il tipo di imitazione di cui ho tanto parlato in precedenza7. Quest’ultima è sia una memoria che un’abitudine, non individuale, ma collettiva. Così come un uomo non guarda, non ascolta, non cammina, non sta in piedi, non scrive, non suona il flauto, e soprattutto non inventa e non immagina, se non in virtù di ricordi muscolari multipli e coordinati, parimenti la società non potrebbe vivere, fare un passo in avanti, modificarsi, se non possedesse un tesoro insondabile di routine, di scimmiottatura [singerie] e di gregarietà [moutonnerie], accresciutosi incessantemente nel corso delle generazioni.
272. Qual è la natura profonda di questa suggestione cerebrale da una cellula all’altra, che costituisce la vita mentale? Non ne sappiamo nulla8. Conosciamo meglio l’essenza di questa suggestione da una persona all’altra, che costituisce la vita sociale? No. Ma se guardiamo a quest’ultimo fatto preso in se stesso, nel suo stato superiore di purezza e di intensità, vediamo che sembra collegato a un fenomeno tra i più misteriosi, che i nostri filosofi alienisti attualmente stanno studiando con una curiosità appassionata, senza peraltro riuscire a comprenderlo pienamente: il sonnambulismo9. Che si rileggano i lavori contemporanei su questo tema, in particolare quelli di Richet, Binet e Féré, Beaunis, Bernheim, Delboeuf, e ci si convincerà che, guardando l’uomo sociale come un vero e proprio sonnambulo, non mi sto lasciando andare ad alcun volo pindarico. Credo di conformarmi, al contrario, al metodo scientifico più rigoroso cercando di chiarire il complesso a partire dal semplice, la combinazione a partire dall’elemento, e a spiegare il legame sociale misto e complicato, così come lo osserviamo abitualmente, a partire dal legame sociale più puro e ridotto alla sua espressione più semplice, che, per l’istruzione del sociologo, è realizzato in modo così felice dallo stato sonnambolico. Supponete un uomo che, sottratto per ipotesi a ogni influenza extrasociale, alla visione diretta degli oggetti naturali, alle ossessioni spontanee dei suoi diversi sensi, sia in comunicazione soltanto con i suoi simili, e, prima di tutto, con uno dei suoi simili, per semplificare la questione: non è forse su questo soggetto d’elezione che converrà studiare, attraverso l’esperienza e l’osservazione, i caratteri veramente essenziali del rapporto sociale, liberato così da ogni influenza di tipo naturale e fisico atta a complicarlo? Ma l’ipnotismo e il sonnambulismo non costituiscono proprio la realizzazione di questa ipotesi? Non ci si stupirà dunque nel vedermi passare in rassegna i principali fenomeni caratteristici di questi stati singolari, e nel ritrovarli ingranditi e attenuati allo stesso tempo, dissimulati e trasparenti, nei fenomeni sociali. Forse, con l’aiuto di questo confronto, comprenderemo meglio il fatto considerato anormale, constatando fino a che punto esso sia generale, e comprenderemo meglio il fatto generale vedendo i suoi tratti distintivi in alto rilievo nell’anomalia apparente.
28Lo stato sociale, come lo stato ipnotico, non è altro che una forma del sogno, un sogno su comando e un sogno in azione. Non avere che idee suggerite e crederle spontanee: questa è l’illusione del sonnambulo, e anche dell’uomo sociale. Per riconoscere l’esattezza di questo punto di vista sociologico, non dobbiamo considerare noi stessi; poiché ammettere questa verità in ciò che ci riguarda significherebbe sfuggire all’accecamento che afferma, e, di conseguenza, fornire un argomento contro di essa. Ma bisogna pensare a qualche popolo antico appartenente a una civiltà molto diversa dalla nostra, Egiziani, Spartani, Ebrei… Questi individui non pensavano forse di essere autonomi come lo crediamo noi, pur essendo in tutto e per tutto degli automi senza saperlo, ai quali i loro antenati, i loro capi politici, i loro profeti, avevano dato la carica, quando non se la davano reciprocamente? Ciò che distingue la nostra società contemporanea ed europea da queste società straniere e primitive, è che la magnetizzazione è diventata, per così dire, reciproca, almeno in una certa misura; succede anche che, nel nostro orgoglio egualitario, esageriamo un po’ questa reciprocità, e dimentichiamo che, mutualizzandosi, questa magnetizzazione fonte di ogni fede e di ogni obbedienza si è generalizzata, tanto che ci vantiamo a torto di essere meno creduli e meno docili, meno imitativi in una parola, dei nostri antenati. È un errore, e dovremmo rilevarlo. Ma, se ciò fosse vero, non sarebbe meno chiaro che il rapporto da modello a copia, da padrone a suddito, da apostolo a neofita, prima di diventare reciproco o alternato, così come lo possiamo vedere ordinariamente all’interno del nostro mondo livellato, ha dovuto necessariamente cominciare con l’essere unilaterale e irreversibile. Di qui le caste. Persino nelle società più egualitarie, l’unilateralità e l’irreversibilità di cui si tratta permangono sempre alla base dell’iniziazione sociale, all’interno della famiglia. Poiché il padre è, e sarà sempre, il primo maestro, il primo sacerdote, il primo modello del figlio. Ogni società, anche oggi, comincia da qui.
29È stato dunque necessario, a fortiori all’origine di ogni antica società, un grande dispiegamento di autorità esercitata da alcuni uomini sovranamente imperiosi e affermativi. Forse che, come si dice di solito, essi hanno regnato soprattutto attraverso il terrore e l’impostura? No, questa spiegazione è manifestamente insufficiente. Essi hanno regnato grazie al loro prestigio. Soltanto l’esempio del magnetizzatore ci fa comprendere il senso profondo di questo termine. Il magnetizzatore non ha bisogno di mentire per essere creduto ciecamente dal magnetizzato; non ha bisogno di terrorizzare per essere obbedito passivamente. È prestigioso, e questo dice tutto. Ciò significa, a mio avviso, che esiste nel magnetizzato una certa forza potenziale di credenza e di desiderio immobilizzata in ricordi di ogni tipo, assopiti ma non morti, e che questa forza aspira ad attualizzarsi come l’acqua di uno stagno tende a defluire, e che, in seguito a circostanze singolari, soltanto il magnetizzatore è in grado di aprirgli questo sbocco necessario. Eccetto che per il grado, ogni forma di prestigio è uguale all’altra. Si esercita del prestigio su qualcuno nella misura in cui si risponde al suo bisogno di affermare o di volere qualcosa di attuale. Il magnetizzatore non ha nemmeno bisogno di parlare per essere creduto e per essere obbedito; gli è sufficiente agire, fare un gesto, anche impercettibile. Questo movimento, con il pensiero e il sentimento di cui è segno, viene riprodotto immediatamente. «Io non sono sicuro – dice Maudsley – che il sonnambulo non possa arrivare a leggere inconsciamente nel pensiero attraverso un’imitazione inconscia dell’attitudine e dell’espressione della persona di cui copia istintivamente e con esattezza le contrazioni muscolari»10. Si noti che il magnetizzato imita il magnetizzatore, ma non viceversa. È soltanto nella vita detta della veglia, e tra persone che sembrerebbero non esercitare alcuna azione magnetica l’una sull’altra, che si produce questa imitazione reciproca, questo prestigio reciproco, chiamato simpatia, nel senso di Adam Smith. Se ho posto dunque il prestigio, e non la simpatia, alla base e all’origine della società, è perché, come ho detto in precedenza, l’unilaterale ha dovuto necessariamente precedere il reciproco11. Quantunque ciò possa sorprendere, senza un’epoca autoritaria, non vi sarebbe mai stata un’epoca di relativa fratellanza. Ma ritorniamo al punto. Perché stupirci, in fondo, dell’imitazione unilaterale e passiva del sonnambulo? Un’azione qualsiasi di uno qualunque tra noi ispira a quelli che ne sono testimoni l’idea più o meno spontanea di imitarlo; e, se questi ultimi talvolta resistono a questa tendenza, è perché essa viene in quel momento neutralizzata al loro interno da suggestioni antagoniste, generate da ricordi presenti o da percezioni esterne. Momentaneamente privato, dal sonnambulismo, di questa forza di resistenza, il sonnambulo può essere utile a rivelarci la passività imitativa dell’essere sociale in quanto sociale, cioè in quanto messo in relazione esclusivamente con i suoi simili, e prima di tutto con uno dei suoi simili.
30Se l’essere sociale non fosse anche un essere naturale, sensibile e aperto alle impressioni della natura esterna e delle società diverse dalla sua, non sarebbe affatto passibile di cambiamento. Tali associati rimarrebbero sempre incapaci di variare spontaneamente il tipo di idee e di bisogni tradizionali, anch’essi copiati a loro volta dal passato, instillati in loro dall’educazione dei genitori, dei capi e dei preti. Alcuni popoli conosciuti si sono eccezionalmente avvicinati alle condizioni della mia ipotesi. In generale, i popoli nascenti, così come i bambini piccoli, sono indifferenti, insensibili a tutto ciò che non tocca l’uomo e il tipo di uomo che gli assomiglia, l’uomo della loro razza e della loro tribù12. «Il sonnambulo non vede e non sente – dice Alfred Maury – se non ciò che rientra nelle preoccupazioni del suo sogno». Altrimenti detto, tutta la sua forza di credenza e di desiderio si concentra sul suo unico polo. Non agisce forse, in questo caso, proprio l’effetto dell’obbedienza e dell’imitazione per fascinazione, vera e propria nevrosi, una specie di polarizzazione inconscia dell’amore e della fede?
31Ma quanti grandi uomini, da Ramses ad Alessandro, da Alessandro a Maometto, da Maometto a Napoleone, hanno polarizzato in questo modo l’anima del loro popolo! Quante volte la fissazione prolungata di questo punto luminoso, la gloria o il genio di un uomo, ha fatto cadere in catalessi un intero popolo! Il torpore, come sappiamo, nello stato sonnambolico è soltanto apparente; esso maschera un’estrema sovreccitazione. Di qui le imprese ardite o di destrezza che il sonnambulo compie senza rendersene conto. Qualcosa di simile la si è vista all’inizio del nostro secolo quando, intorpidita e sovreccitata allo stesso tempo, passiva e febbrile, la Francia militare obbediva al gesto del suo fascinatore imperiale e portava a termine grandi imprese. Non c’è niente di più adatto di questo fenomeno atavico a farci immergere nel più lontano passato, a farci comprendere l’azione esercitata sui loro contemporanei da questi grandi personaggi per metà favolosi che tutte le diverse civiltà collocano al loro inizio, e ai quali le loro leggende attribuiscono la rivelazione dei loro mestieri, delle loro conoscenze, delle loro leggi: Oannes a Babilonia, Quetzalcoatl in Messico, le dinastie divine anteriori a Menes in Egitto ecc13. Guardiamo da vicino tutti questi re-dèi, principio comune a tutte le dinastie umane e a tutte le mitologie, essi sono stati degli inventori o degli importatori di invenzioni straniere, in una parola degli iniziatori. Grazie allo stupore profondo e ardente provocato dai loro primi miracoli, ogni loro affermazione, ogni loro ordine, ha costituito un immenso sbocco aperto all’immensità delle aspirazioni impotenti e indeterminate che essi avevano fatto sorgere, ai bisogni di fede privi di un’idea direttrice, ai bisogni di attività privi di mezzi di azione.
32Quando parliamo di obbedienza, con questo termine intendiamo un atto cosciente e deliberato. Ma l’obbedienza primitiva è totalmente diversa. L’operatore ordina al sonnambulo di piangere, ed egli piange; qui a obbedire non è la persona soltanto, ma l’organismo tutto intero. L’obbedienza delle folle a certi tribuni, degli eserciti a certi capitani, è a volte quasi altrettanto strana. E la loro credulità non lo è di meno. «È un curioso spettacolo – dice Charles Richet – vedere un sonnambulo fare gesti di disgusto, di nausea, provare un vero e proprio soffocamento, quando gli si mette sotto il naso un flacone vuoto dicendo che si tratta di ammoniaca, e, al contrario, quando gli si dice che si tratta di acqua chiara, respirare l’ammoniaca senza sembrare per nulla disturbato». Una stranezza analoga è manifestata dai bisogni tanto fittizi quanto energici, dalle credenze tanto assurde quanto profonde, tanto stravaganti che ostinate, dei popoli antichi, anche del più libero e del più raffinato di tutti, e molto tempo dopo che ha concluso la sua fase iniziale di teocrazia autocratica. Non vediamo forse le mostruosità più abominevoli, per esempio l’amore greco, ritenute degne di essere cantate da un Anacreonte e da un Teocrito, oppure dogmatizzate da un Platone, o anche serpenti, gatti, buoi o vacche adorate da popolazioni genuflesse, oppure anche i dogmi più contrari alla testimonianza diretta dei sensi, misteri, metempsicosi, per non parlare di assurdità come l’arte degli auguri, l’astrologia, la stregoneria, credute all’unanimità? Non vediamo, d’altra parte, i sentimenti più naturali (l’amore paterno nei popoli in cui lo zio era più importante del padre, la gelosia amorosa nelle tribù in cui regnava la comunanza delle donne ecc.) respinti con orrore, oppure le bellezze naturali e artistiche più sorprendenti disprezzate e negate, in quanto contrarie al gusto dell’epoca, anche nella nostra epoca moderna (il pittoresco delle Alpi e dei Pirenei dai Romani, i capolavori di Shakespeare, della pittura olandese, nel nostro xvii e xviii secolo)? Non è forse vero, in una parola, che le esperienze e le osservazioni più chiare vengono contestate e le verità più palpabili combattute tutte le volte che si oppongono alle idee tradizionali, figlie antiche del prestigio e della fede?
33I popoli civili si vantano di essere sfuggiti a questo sonno dogmatico. Il loro errore è comprensibile. La magnetizzazione di una persona è tanto più facile e rapida quanto più spesso è stata magnetizzata. Questa osservazione ci spiega perché i popoli si imitino sempre più facilmente e rapidamente, cioè rendendosene conto sempre meno, man mano che si civilizzano e, di conseguenza, che si sono più spesso imitati. In questo fatto l’umanità assomiglia all’individuo. Il bambino, non lo si vorrà negare, è un vero e proprio sonnambulo, nel quale il sogno si complica con l’età fino a quando crede di risvegliarsi a forza di complicazioni. Ma si tratta di un errore. Quando uno scolaro dai dieci ai dodici anni passa dalla famiglia al collegio, inizialmente gli sembra di essersi smagnetizzato, risvegliato dal sonno rispettoso nel quale era vissuto fino a quel momento nell’ammirazione dei suoi genitori. Niente affatto, diventa più ammiratore, più imitatore che mai, sottomesso all’ascendente di qualcuno dei suoi maestri oppure di qualche compagno prestigioso, e questo preteso risveglio non è altro che un cambiamento o una sovrapposizione di sonni. Quando la magnetizzazione-moda che è generalmente il sintomo di una rivoluzione sociale nascente, si sostituisce alla magnetizzazione-consuetudine, si verifica un fenomeno analogo, soltanto su scala più vasta.
34Aggiungiamo, tuttavia, che più le suggestioni dell’esempio attorno all’individuo si moltiplicano e si diversificano, più l’intensità di ciascuna di esse diminuisce, ed egli si determina nella scelta da fare in base a preferenze derivate sia dal proprio carattere, che in virtù delle leggi logiche che esporremo altrove. Così, è vero che il progresso della civiltà finisce col rendere la sottomissione all’imitazione sempre più personale e razionale. Noi, oggi, siamo sottomessi agli esempi provenienti dall’ambiente circostante tanto quanto lo erano i nostri antenati, ma ci adeguiamo meglio a essi, grazie alla scelta più logica e più individuale che ne facciamo, la più adatta ai nostri fini e alla nostra natura particolare. Tutto ciò, del resto, non impedisce alla classe delle influenze extralogiche e prestigiose di essere comunque molto importante, come vedremo.
35Questo è un fenomeno interessante e curioso da studiare, e anche molto influente sull’individuo che passa bruscamente da un ambiente povero di esempi a un ambiente relativamente ricco di suggestioni di ogni tipo. In questo caso, per affascinarci e per assopirci è sufficiente un oggetto tanto brillante, tanto eclatante, quanto può esserlo la gloria o il genio di un uomo. Non soltanto un novizio che faccia il suo ingresso nel cortile di un collegio, ma un Giapponese in viaggio per l’Europa, un contadino arrivato a Parigi, sono investiti da uno stupore paragonabile allo stato catalettico. La loro attenzione, a forza di attaccarsi a tutto ciò che vedono e sentono, soprattutto alle azioni degli esseri umani che li circondano, si stacca bruscamente da tutto ciò che hanno visto e sentito fino ad allora, e anche dagli atti e dai pensieri della loro vita passata. Non è che la loro memoria venga abolita, essa non è mai stata così viva, così pronta a entrare in scena e in movimento alla più piccola parola che evochi in loro la patria lontana, l’esistenza precedente, il focolare, con un’allucinante ricchezza di dettagli. Ma ora essa è completamente paralizzata, priva di ogni spontaneità. In questo stato singolare di attenzione esclusiva e intensa, di immaginazione forte e passiva, questi esseri stupefatti e febbrili subiscono invincibilmente il fascino magico del loro nuovo ambiente; essi credono a tutto ciò che vedono. Resteranno così per molto tempo. Pensare spontaneamente è sempre più faticoso del pensare attraverso gli altri. Così, tutte le volte che un uomo vive in un ambiente animato, in una società intensa e variegata, che gli fornisce spettacoli e concerti, conversazioni e letture sempre nuove, si dispensa per gradi da ogni sforzo intellettuale e, intorpidendosi e sovreccitandosi sempre di più, il suo spirito, lo ripeto, si fa sonnambulo. È questo lo stato mentale caratteristico di molti abitanti delle città. Il movimento e il rumore delle strade, le vetrine dei negozi, l’agitazione sfrenata e impulsiva della loro esistenza, fanno a essi l’effetto dei gesti dell’ipnotizzatore. Ora, che cos’è la vita urbana, se non la vita sociale concentrata e spinta all’estremo?
36Eppure, se essi finiscono, in qualche caso, per divenire a loro volta esemplari, non è forse ancora una volta per imitazione? Supponete un sonnambulo che spinga l’imitazione del suo medium fino a diventare medium lui stesso e a magnetizzare un terzo, il quale a sua volta lo imiterà, e così via. Non è forse questa la vita sociale? Questa cascata di magnetizzazioni successive e concatenate è la regola; la magnetizzazione reciproca, di cui parlavo poco fa, è soltanto l’eccezione. Ordinariamente, un uomo naturalmente dotato di prestigio dà un impulso, subito seguito da migliaia di persone che lo copiano in tutto e per tutto, arrivando a captare il suo stesso prestigio, grazie al quale essi agiscono su milioni di individui inferiori. Ed è soltanto quando questa azione dall’alto in basso si sarà esaurita che, in epoche democratiche, potremo vedere all’opera l’azione inversa, milioni di individui in alcuni momenti, molto rari del resto, affascinare collettivamente i loro antichi medium e comandarli a bacchetta. Se ogni società possiede una gerarchia, è proprio perché ogni società possiede la cascata di cui sto parlando, alla quale, per essere stabile, la sua gerarchia deve corrispondere.
37Del resto, a far nascere il sonnambulismo sociale non è affatto il timore, lo ripeto, è l’ammirazione; non è tanto la forza della vittoria, quanto il fulgore della superiorità sentita e imbarazzante. Succede anche, talvolta, che il vincitore venga magnetizzato dal vinto. Così come un capo selvaggio in una grande città, un parvenu in un salotto aristocratico del secolo scorso, è tutt’occhi e tutt’orecchi, e viene affascinato o intimidito nonostante il suo orgoglio. Ma egli non ha occhi e orecchi se non per tutto ciò che lo stupisce e che già lo appassiona. Perché il carattere dominante dei sonnambuli è un miscuglio singolare di anestesia e di iperestesia dei sensi. Egli copia dunque tutti gli usi di questo mondo nuovo, il suo linguaggio, il suo accento. Come i Germani nel mondo romano; essi dimenticano il tedesco e parlano latino, compongono esametri, si lavano nelle vasche di marmo, si fanno chiamare patrizi. Come è accaduto agli stessi Romani, infatuati proprio di quell’Atene sconfitta dalle loro armi. Come gli Hyksos conquistatori dell’Egitto e soggiogati dalla sua civiltà.
38Ma che bisogno c’è di passare al setaccio la storia? Guardiamoci attorno. Questa specie di paralisi momentanea della mente, della lingua e delle braccia, questa perturbazione profonda di tutto l’essere e questo spossessamento di sé che chiamiamo intimidazione, meriterebbero uno studio a parte. L’intimidito, sotto lo sguardo di qualcuno, sfugge a se stesso, e tende a diventare docile e malleabile da parte degli altri; egli ne è consapevole e vorrebbe resistere, ma riesce soltanto a bloccarsi goffamente, con tanta forza da neutralizzare l’impulso esterno, ma non abbastanza per riconquistare il suo impulso proprio. Mi si accorderà che questo stato singolare, attraverso il quale siamo passati più o meno tutti a una certa età, presenti le maggiori affinità con lo stato del sonnambulo. Ma quando la timidezza è cessata, e ci siamo, come si suol dire, messi a nostro agio, significa forse che ci siamo smagnetizzati? Niente affatto. Mettersi a proprio agio, in società, significa mettersi al tono e alla moda di questo ambiente, parlare il suo gergo, copiare i suoi gesti e infine abbandonarsi senza resistenza a queste molteplici e sottili correnti di influenze ambientali, contro le quali poco prima si navigava invano, e abbandonarsi al punto da perdere ogni coscienza di questo abbandono. La timidezza è una magnetizzazione cosciente, e, di conseguenza, incompleta, paragonabile a quella semi-sonnolenza che precede il sonno profondo, in cui il sonnambulo si muove e parla. È uno stato sociale nascente, che si verifica tutte le volte che si passa da una società a un’altra, o che si entra nella vita sociale pubblica all’uscita dalla famiglia.
39Ecco forse perché le persone dette selvagge, cioè particolarmente ribelli a ogni assimilazione e a dire il vero insocievoli, rimangono timide per tutta la vita, soggetti semi-refrattari al sonnambulismo; viceversa, quelli che non sono mai stati né goffi, né imbarazzati in nulla, quelli che non hanno mai provato, al loro ingresso in un salotto o nel cortile di un collegio, né timidezza propriamente detta, né, all’epoca della loro iniziazione a una scienza o a un’arte qualunque (poiché il turbamento prodotto dall’iniziazione a un nuovo mestiere le cui difficoltà spaventano, i cui procedimenti da copiare fanno violenza alle abitudini consolidate, è perfettamente paragonabile all’intimidazione) uno stupore analogo, non sono forse quelli che, socievoli al massimo grado, copisti eccellenti, cioè sprovvisti di una propria vocazione e di un’idea direttrice, possiedono in modo eminente la facoltà cinese o giapponese di modellarsi molto rapidamente su ciò che gli sta intorno, sonnambuli di prim’ordine, estremamente predisposti ad addormentarsi? – Con il nome di rispetto, l’intimidazione assume socialmente, secondo il parere di tutti, un ruolo immenso, talvolta mal compreso, ma niente affatto esagerato. Il rispetto, non è né il timore, né l’amore soltanto, né unicamente la loro combinazione, quantunque sia un timore amato da colui che lo prova. Il rispetto, prima di tutto, è un’impressione esemplare prodotta da una persona su un’altra, polarizzata psicologicamente. Bisogna senza dubbio distinguere tra il rispetto di cui si ha coscienza e quello che ci si nasconde per mezzo di un ostentato disprezzo. Ma, tenendo conto di questa distinzione, si vedrà che tutti quelli che si imitano li si rispetta, e che tutti quelli che si rispettano li si imita o si tende a imitarli. Non esiste segno più certo del dispiegamento dell’autorità sociale delle deviazioni dalla corrente degli esempi. L’uomo di mondo che riflette il gergo e il linguaggio sboccato dell’operaio, la donna di mondo che nel cantare riproduce l’intonazione dell’attrice, hanno per l’attrice e l’operaio più rispetto e deferenza di quanto non credano. Ora, senza una circolazione generale e continuata del rispetto nelle due forme indicate, quale società vivrebbe un sol giorno?
40Ma non voglio insistere ulteriormente su questo confronto. Comunque sia, spero almeno di aver fatto capire che il fatto sociale essenziale, così come io l’intendo, esige, per essere compreso pienamente, la conoscenza di fatti cerebrali infinitamente delicati, e che la sociologia in apparenza più chiara, anche quella dall’aspetto più superficiale, affonda le sue radici nel campo della psicologia e della fisiologia più oscura e profonda. La società è l’imitazione, e l’imitazione è una specie di sonnambulismo; così si potrebbe riassumere questo capitolo. In ciò che concerne la seconda parte della tesi, prego il lettore di tener conto dell’esagerazione. Devo anche scartare una possibile obbiezione. Mi si dirà forse che subire un ascendente, non vuol dire seguire sempre l’esempio di colui al quale si obbedisce o nel quale si ha fede. Ma credere in qualcuno non significa ugualmente credere in ciò che egli crede o sembra credere? Obbedire a qualcuno, non significa proprio volere ciò che egli vuole o sembra volere? Un’invenzione non si comanda, una scoperta non si suggerisce con la forza della persuasione. Essere creduli e docili, ed esserlo al massimo grado, come il sonnambulo o come l’uomo in quanto essere sociale, significa quindi in primo luogo essere imitativi. Per innovare, per scoprire, per svegliarsi un istante dal proprio sogno familiare o nazionale, l’individuo deve sfuggire momentaneamente alla sua società. Manifestando questa audacia così rara egli è sovrasociale, piuttosto che sociale.
41Ancora una parola soltanto. Abbiamo visto che nei sonnambuli o quasi-sonnambuli, la memoria è molto viva, e altrettanto lo è l’abitudine (memoria muscolare, abbiamo detto più sopra), mentre la credulità e la docilità sono spinte all’eccesso. In altri termini, l’imitazione di sé (la memoria e l’abitudine, in effetti, non sono altra cosa) è forte quanto l’imitazione degli altri. Non c’è un legame tra questi due fatti? «Non si potrà comprendere mai abbastanza chiaramente – dice Maudsley con insistenza – che nel sistema nervoso esiste una tendenza innata all’imitazione». Se questa tendenza è localizzata nelle ultime terminazioni nervose, è lecito congetturare che le relazioni tra una cellula e l’altra all’interno di uno stesso cervello potrebbero manifestare qualche analogia con la relazione singolare tra due cervelli in cui l’uno affascina l’altro, e consistere, come questa, in una particolare polarizzazione della credenza e del desiderio contenuti all’interno di ciascuno dei suoi elementi. Così forse si potrebbero spiegare alcuni fatti strani, per esempio, nel sogno, la disposizione spontanea delle immagini che si combinano tra loro secondo una certa logica caratteristica, evidentemente sotto il comando di una di esse che si impone e dà il tono, cioè senza dubbio in virtù dell’elemento nervoso dominante nel quale essa risiedeva, e da cui proviene14.
Notes de bas de page
1 Mi arrabbierei se si dovesse vedere, in queste righe, una critica implicita all’opera di Espinas sulle Società animali [cit.]. La confusione segnalata è riscattata da troppe intuizioni giuste e profonde per meritare di essere rilevata.
2 Sarebbe un errore pensare che il regno della cerimonia, del governo cerimoniale, come dice Spencer, stia declinando. A fianco delle antiche formalità [procédures] che decadono, chiamate cerimonie, vi sono le cerimonie in vigore, chiamate procedure [procédures], che aumentano e si moltiplicano.
3 Nei secoli xvi e xvii, in cui la popolazione armata e la popolazione civile erano profondamente diverse, i militari in campagna credevano fosse loro permesso di tutto nei confronti di civili, amici o nemici, in fatto di stupri, saccheggi, massacri ecc., conformemente al diritto delle genti del tempo; ma tra di loro, si risparmiavano maggiormente.
4 Nella sua importante opera sulla Cinematica [F. Reuleaux, Cinématique. Principes fondamentaux d’une théorie générale des machines (ed. orig. 1875), trad. fr. di A. Debize, Paris, Savy, 1877; trad. it. di G. Colombo, Cinematica teorica. Princìpi fondamentali di una teoria generale delle macchine. Parte prima, Milano, Hoepli, 1876], il tedesco Reuleaux, direttore dell’Accademia industriale di Berlino, osserva che i progressi industriali rendono ogni giorno più evidente ciò che vi è di superficiale e di erroneo nell’importanza attribuita dagli economisti alla divisione del lavoro, mentre invece è la coordinazione del lavoro, ottenuta attraverso di essa, che dovrebbe essere lodata. Lo stesso dicasi per la «divisione del lavoro organico» che, senza l’ammirevole armonia organica, non costituirebbe affatto un progresso vitale. Egli afferma che «Il principio della macchino-fattura, in particolare, si trova, almeno in parte, in contraddizione con il principio della divisione del lavoro… Nelle fabbriche moderne più evolute, si ha generalmente l’abitudine di far scambiare gli operai addetti ai diversi macchinari, in modo da spezzare la monotonia del lavoro». Così è il lavoro della macchina a specializzarsi sempre di più, mentre accade l’inverso per il lavoro dell’operaio, che, senza di esso, diventa, dice Reuleaux, più macchinale man mano che la macchina lavora meglio.
5 In qualsiasi città, gli avvocati, al pari dei medici, si contendono la clientela; ma, mentre la professione dei primi li obbliga a lavorare abitualmente insieme, a vedersi tutti i giorni al palazzo di giustizia, l’ardore della lotta, l’asprezza dei risentimenti interessati, sono temperati dai rapporti di fratellanza che si sviluppano inevitabilmente grazie a questa contiguità lavorativa. Tra medici, al contrario, nulla attenua la rivalità, l’asprezza della concorrenza; questo perché abitualmente essi lavorano isolati. È stato spesso osservato che il parossismo dell’odio professionale, dell’animosità fra colleghi, è privilegio del corpo medico, e aggiungo di tutte le corporazioni, come quelle dei farmacisti, dei notai e della maggior parte dei commercianti, in cui il lavoro isola i rivali.
6 Nella Évolution mentale chez les animaux di Romanes [ed. orig. 1883; trad. fr. di H.C. de Varigny, Paris, Reinwald, 1884], si trova un capitolo molto interessante dedicato all’influenza dell’imitazione sulla formazione e sullo sviluppo degli istinti. Questa influenza è molto più ampia e diffusa di quanto non si supponga. Non soltanto gli individui della stessa specie, parenti o no, si imitano (molti uccelli cantanti hanno bisogno che le loro madri o i loro compagni insegnino loro a cantare), ma anche individui di specie diverse si prendono a prestito tra loro delle particolarità utili o insignificanti. In questi casi si manifesta il bisogno profondo di imitare per imitare, vera origine delle nostre arti. Si è visto un merlo riprodurre a tal punto il canto di un gallo che gli stessi polli si confondevano. Darwin ha creduto di osservare alcune api che avevano preso a prestito da un calabrone l’idea ingegnosa di suggere certi fiori perforandoli lateralmente. Esistono degli uccelli, degli insetti, degli animali qualsiasi di genio, e il genio, anche nel mondo animale, può contare su qualche successo. – Soltanto che, in mancanza di linguaggio, questi germi sociali falliscono. – Non è soltanto l’uomo a poter aspirare alla vita sociale come alla condizione sine qua non dello sviluppo del suo essere mentale, ma anche ogni animale, in quanto essere spirituale a gradi diversi. Perché? Perché la funzione cerebrale, la mente, si distingue dalle altre funzioni per il fatto di non essere un semplice adattamento a un fine preciso attraverso un mezzo preciso, ma un adattamento a fini molteplici e indeterminati che debbono essere precisati più o meno casualmente dallo stesso mezzo che serve a perseguirli e che è immenso, cioè l’imitazione del mondo esterno. Questo mondo esterno infinito, questo esterno dipinto, rappresentato, imitato per mezzo della sensazione e dell’intelligenza, è in primo luogo la natura universale che esercita sul cervello, e anche sul sistema muscolare dell’animale, una suggestione continua e irresistibile; ma, più avanti, è soprattutto l’ambiente sociale.
7 Correggendo le bozze della seconda edizione, leggo, nella “Revue de métaphysique” [“Supplément” à la “Revue de métaphysique et de morale”, a. iii (mars 1895), p. 8], una breve recensione di un articolo di Baldwin, apparso in “Mind” (1894-1895) con questo titolo: Imitation: A Chapter in the Natural History of Consciousness [“Mind (1894), n. 3, pp. 25-55]. «Baldwin, dice l’autore della recensione, vuole generalizzare e precisare le teorie di Tarde. L’imitazione biologica, o subcorticale di primo grado, è una reazione nervosa circolare, cioè che riproduce il suo stimolo. L’imitazione psicologica, o corticale, è abitudine (essa trova, come tale, la sua espressione nel principio di identità) e adattamento (essa si esprime attraverso il principio di ragion sufficiente). Essa è infine sociologica, plastica, subcorticale di secondo grado».
8 All’epoca in cui le considerazioni che precedono e che seguono sono state stampate per la prima volta (nel novembre 1884), nella “Revue philosophique”, si cominciava appena a parlare di suggestione ipnotica, e mi è stata rimproverata come un paradosso insostenibile l’idea di suggestione sociale universale che, successivamente, è stata appoggiata così fortemente da Bernheim e da altri. Attualmente, non c’è nulla di più volgarizzato di questa concezione.
9 Questa espressione fuori moda mostra che nel momento in cui ho pubblicato per la prima volta questo passaggio, il termine ipnotismo non aveva ancora sostituito del tutto la parola sonnambulismo.
10 Pathologie de l’esprit, p. 73 [H. Maudsley, La pathologie de l’esprit (ed. orig. 1879), trad. fr. di U. Germont, Paris, Baillière, 1883].
11 Su questo punto forse dovrei correggermi. È proprio la simpatia a costituire l’origine della socievolezza e l’anima, evidente o nascosta, di tutti i tipi di imitazione, sia dell’imitazione invidiosa e calcolata, che dell’imitazione di un nemico. È anche vero che la stessa simpatia comincia con l’essere unilaterale prima che reciproca.
12 L’origine di tutte le rivoluzioni sociali, è dunque la scienza, la ricerca extrasociale, che ci apre le finestre del falansterio sociale in cui viviamo, e lo illumina delle luci dell’universo. Di fronte a questa luce, quanti fantasmi si dissolvono! Ma anche quanti cadaveri fino ad allora perfettamente conservati vanno in polvere!
13 Nei suoi profondi Études sur les moeurs religieuses et sociales de l’Extrême-Orient [ed. orig. 1882; trad. fr. di R. Kérallain, Paris, Thorin, 1885], sir Alfred Lyall (che sembra aver colto sul fatto, in certe parti dell’India, il fenomeno della formazione delle tribù e dei clan) attribuisce un’influenza preponderante, nelle società primitive, all’azione individuale degli uomini memorabili: «Per servirci, dice, dei termini di Carlyle, il giogo ingarbugliato della società primitiva ha numerose radici, ma l’eroe è la radice girevole che alimenta in gran parte tutto il resto. In Europa, in cui i segna-frontiere delle nazionalità sono fissi e gli edifici della civiltà fortemente trincerati, si inclina spesso a considerare leggendario il ruolo enorme che le razze primitive attribuiscono al loro antenato eroico nella fondazione della loro razza e delle loro istituzioni. E tuttavia sarebbe forse difficile esagerare l’impressione che hanno dovuto produrre, sul mondo primitivo, imprese audaci ricompensate dal successo, quando l’impulso comunicato da un grande uomo attraverso il libero gioco delle forze non veniva ostacolato da barriere artificiali… In quei tempi, sapere se un gruppo formatosi alla superficie della società si sarebbe sviluppato in un clan o in una tribù, oppure se si sarebbe estinto prematuramente, sembrava dipendere molto dalla forza e dall’energia del suo fondatore». Non ho nulla da aggiungere a queste righe, se non che, in epoca moderna, la diminuzione del prestigio dei grandi uomini è più che compensata dal potenziamento dei loro mezzi di azione, e che, originariamente così predominante, esso non ha ancora cessato di esserlo… Ma, ancora una volta, tutti i grandi uomini hanno dovuto la loro forza alle grandi idee di cui sono stati gli esecutori ancor più che gli inventori, e che sono state inventate il più delle volte da una serie di piccoli uomini sconosciuti.
14 Questa concezione si accorda con l’idea maestra sviluppata da Paulhan nel suo libro, così profondamente pensato, sull’attività mentale (Alcan, 1889) [F. Paulhan, L’activité mentale et les éléments de l’esprit, Paris, Alcan, 1889].
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