Capitolo II. Le somiglianze sociali e l’imitazione
p. 77-94
Texte intégral
1Nel capitolo precedente abbiamo enunciato, senza svilupparla, la tesi secondo la quale ogni somiglianza sociale è generata dall’imitazione. – Ma questa formula non potrebbe essere accettata alla leggera, ed è importante comprenderla a fondo, così da riconoscere la sua verità, pari a quella delle altre due formule analoghe, relative alle somiglianze biologiche e fisiche. A un primo sguardo gettato sulle società, sembrerebbe che le eccezioni e le obbiezioni abbondino.
I
2Innanzitutto, tra due specie viventi appartenenti a tipi diversi troviamo spesso molti tratti simili, sia anatomici, che fisiologici, che non possono essere spiegati, così sembra, per mezzo della ripetizione ereditaria, poiché, in molti casi, il progenitore comune al quale è permesso ricollegarle entrambe era o doveva essere sprovvisto di quei caratteri. La conformazione esterna in base alla quale la balena assomiglia ai pesci, non le viene certamente dall’ipotetico antenato comune ai pesci e ai mammiferi, e a partire dal quale queste due classi animali si sarebbero sviluppate. A maggior ragione, se l’ape ricorda l’uccello per la funzione del volo, non è sicuramente perché l’uccello e l’ape abbiano ereditato l’ala o l’elitra dal loro antico antenato, senza dubbio strisciante e non volante. La stessa osservazione è applicabile agli istinti simili manifestati da parecchi animali appartenenti a specie molto distanti, come hanno osservato Darwin e Romanes; per esempio, all’istinto che fa simulare la morte per sfuggire un pericolo, istinto comune sia alla volpe sia agli insetti, ai ragni, ai serpenti e agli uccelli. In questi casi, la somiglianza osservata si spiega soltanto in base all’identità dell’ambiente fisico nel quale questi esseri diversi hanno cercato di trarre vantaggio per soddisfare dei bisogni fondamentali, essenziali a ogni forma vivente, e identici in ciascuno di essi. Ora, l’identità dell’ambiente fisico, che cos’è, se non la propagazione uniforme delle stesse ondulazioni luminose, termiche o sonore attraverso l’aria o l’acqua, formate da atomi che vibrano in continuazione, e sempre nello stesso modo? Quanto all’identità delle funzioni e delle proprietà fondamentali di ogni cellula, di ogni protoplasma (la nutrizione, per esempio, e l’irritabilità), non bisogna forse chiederne la ragione alla costituzione molecolare degli elementi chimici della vita, sempre gli stessi, cioè, per ipotesi, ai loro ritmi interni fatti di movimenti indefinitamente ripetuti piuttosto che alle particolarità specifiche, trasmesse per generazione, scissipara o di altro tipo, a partire dal primo nucleo di protoplasma, ammettendo che all’inizio non se ne sia formato spontaneamente che uno solo? Di conseguenza, le analogie di cui sto parlando hanno la loro origine nella Ripetizione, è vero, ma nella sua forma fisica, ondulatoria, e non in quella vitale, ereditaria.
3Tra due popoli giunti separatamente, per vie indipendenti, a una civiltà originale, esistono sempre delle somiglianze generali sotto il profilo linguistico, mitologico, politico, industriale, artistico, letterario, in cui l’imitazione dell’uno da parte dell’altro non ha avuto alcun ruolo. «All’epoca in cui Cook visitava i Neozelandesi – dice Quatrefages – questi ultimi manifestavano delle strane somiglianze con gli Highlanders di Rob Roy e di Mac Yvov»1. Questa somiglianza tra l’organizzazione sociale dei Maori e gli antichi clan scozzesi non è certamente dovuta ad alcun fondo comune di tradizioni, e i linguisti non potranno divertirsi a far derivare le loro lingue da una stessa lingua madre. All’arrivo in Messico di Cortez, gli Aztechi possedevano, come molti popoli del vecchio continente, un re, una nobiltà, una classe agricola e una classe industriale; la loro agricoltura, con le sue isole galleggianti e la sua irrigazione perfezionata, ricordava la Cina; la loro architettura, la loro pittura, la loro scrittura geroglifica, ricordava l’Egitto; il loro calendario, malgrado la sua stranezza, attestava conoscenze astronomiche simili alle nostre nella stessa epoca; la loro religione, benché sanguinaria, non cessava per questo di assomigliare alla nostra per qualcuno dei suoi sacramenti, il battesimo e la confessione in particolare. Le coincidenze fin nei più piccoli dettagli sono talvolta così stupefacenti che vi si sono trovate delle ragioni di credere 2 a un’importazione diretta delle istituzioni e delle arti del vecchio mondo da parte di alcuni naufraghi. Ma al di sotto di queste analogie e di un’infinità di altre dello stesso tipo, non è forse più verosimile scorgere, da una parte l’unità fondamentale della natura umana, l’identità dei suoi bisogni organici la cui soddisfazione costituisce il fine di ogni evoluzione sociale, e l’identità dei suoi sensi, della sua conformazione cerebrale; dall’altra l’uniformità della natura esterna che, offrendo a bisogni quasi simili più o meno le stesse risorse, e a occhi quasi simili più o meno gli stessi spettacoli, deve inevitabilmente generare a tutte le latitudini delle industrie, delle arti, delle percezioni, dei miti, delle teorie molto simili? Queste somiglianze, come quelle di cui si è parlato più sopra, rientrerebbero dunque, è vero, nel principio generale secondo cui ogni somiglianza è nata da una ripetizione; ma, benché sociali, esse sarebbero generate da ripetizioni di tipo biologico e fisico, da trasmissioni ereditarie di funzioni e di organi che costituiscono le razze umane, e da trasmissioni vibratorie di temperature, di colori, di suoni, di elettricità, di affinità chimiche, che costituiscono i climi abitati e i terreni coltivati dall’uomo.
4Ecco l’obbiezione o l’eccezione in tutta la sua forza. Malgrado la sua apparente gravità, ne consegue semplicemente che si potrebbe stabilire in sociologia una distinzione ricalcata su quella delle analogie e delle omologie, usuale in anatomia comparata. Ora, le conformità del primo tipo di cui abbiamo parlato qui sopra – per esempio la comparazione dell’elitra dell’insetto con l’ala dell’uccello – al naturalista sembrerebbero soltanto superficiali e insignificanti, per quanto sorprendenti possano essere, egli non si degnerebbe di prenderle sul serio, quasi le negherebbe, mentre attribuirebbe il più alto valore a somiglianze molto più profonde e precise dal suo punto di vista, esistenti tra l’ala dell’uccello, la zampa del rettile e la pinna del pesce3. Se questo modo di giudicare gli è consentito, non vedo perché si dovrebbe rifiutare al sociologo il diritto di trattare le analogie funzionali tra le diverse lingue, religioni, governi e civiltà, con lo stesso disprezzo, e le loro omologie anatomiche con lo stesso rispetto. Già adesso i linguisti e i mitologi si conformano a questo spirito. La parola teotl, nella lingua azteca, può anche significare dio, come la parola théos in greco, ma nessun linguista vedrà mai in questo fatto qualcosa di diverso da un incontro4 e, di conseguenza, non ammetterà che teotl e théos siano la stessa parola, ma proverà invece che bishop è la stessa parola di episcopos. Questo perché un elemento linguistico non potrebbe venire separato, in un certo momento della sua evoluzione, da tutte le sue trasformazioni precedenti, né considerato a parte rispetto agli altri elementi che riflette e che lo riflettono; da ciò consegue che una somiglianza constatata tra una delle sue fasi isolate e una delle fasi di un altro vocabolo attinto da un’altra famiglia linguistica e separato ugualmente da tutto ciò che fa la sua vitalità e la sua realtà, costituisca un rapporto fittizio tra due astrazioni, e non un vero legame tra due esseri reali. Questa considerazione può essere generalizzata5.
5Ma questa risposta, che in fondo consiste nel negare le somiglianze più imbarazzanti, non potrebbe essere sufficiente. Considero vere e serie, al contrario, molte somiglianze che si sono prodotte spontaneamente tra civiltà che non hanno avuto tra loro alcun tipo di comunicazione, né certa, né probabile; e ammetto, in generale, che una volta lanciato sulla via delle invenzioni e delle scoperte, il genio umano si trova ostacolato da un insieme di condizioni interne o esterne, come un fiume dai suoi argini, tra limiti stretti di sviluppo, da cui risulta, in bacini anche lontani, una certa somiglianza approssimativa del suo corso, e anche, in certi casi – eppure meno spesso di quanto non si supponga – il parallelismo tra idee geniali6, sia molto semplici, sia talvolta assai complesse, apparse indipendentemente le une dalle altre, ed equivalenti se non identiche7. Ma, in primo luogo, dato che l’uomo è stato costretto a seguire questa successione di idee dall’uniformità dei suoi bisogni organici, si tratta in questo caso di somiglianze di tipo biologico e non sociale, e allora a essere applicabile è la mia seconda formula, e non la terza. Parimenti, quando le condizioni tutte uguali dei fenomeni luminosi o sonori percepiti in vista dei loro fini specifici costringono gli animali dei diversi branchi ad avere occhi e orecchie non molto diversi tra loro, la loro somiglianza a questo proposito è fisica, non vitale, e, come tale, dipende dall’ondulazione, conformemente alla nostra prima formula.
6Inoltre, come e perché il genio umano ha percorso il cammino in questione, se non in virtù delle cause iniziali che l’hanno strappato al suo primitivo torpore, e che, risvegliandolo, hanno fatto uscire uno alla volta dal loro sonno anche i bisogni virtuali e profondi dell’anima umana? E queste cause, quali sono, se non alcune invenzioni e alcune scoperte primordiali, capitali, che, avendo cominciato a diffondersi per imitazione, hanno messo i loro imitatori nella condizione di scoprire e di inventare? In origine, un antropoide ha immaginato (congetturerò più avanti come) i rudimenti di un linguaggio informe e di una religione grossolana: questo passo difficile, che faceva varcare all’uomo fino ad allora bestiale la soglia del mondo sociale, è dovuto essere un fatto unico, senza il quale questo mondo, con tutte le sue ulteriori ricchezze, sarebbe rimasto sepolto nel limbo dei possibili irrealizzati. Senza questa scintilla l’incendio del progresso non si sarebbe mai propagato nella foresta primitiva piena di fiere; ed è proprio la sua propagazione per imitazione a costituire la vera causa, la condizione sine qua non. Questo atto immaginativo originale ha prodotto non soltanto gli atti imitativi derivati direttamente da esso, ma anche tutti gli ulteriori atti immaginativi che ha suggerito, che a loro volta ne hanno suggeriti di nuovi, e così via indefinitamente.
7Così, tutto si riconduce a essa, ogni somiglianza sociale deriva da questa prima imitazione di cui è stata l’oggetto; e credo di poterla paragonare a quell’evento non meno eccezionale che, molte migliaia di secoli prima, si era verificato sulla terra quando, per la prima volta, si è formata una piccola massa di protoplasma, non si sa come, e ha cominciato a moltiplicarsi per generazione scissipara. Da questa prima ripetizione ereditaria derivano tutte le somiglianze che oggi possiamo osservare tra gli esseri viventi. Non servirebbe a nulla, d’altronde, congetturare, molto gratuitamente, che i primi focolai di creazione protoplasmica, come anche di creazione linguistica e mitologica, siano stati non unici, ma molteplici: in effetti, nell’ipotesi di questa molteplicità, non si potrebbe negare che in seguito a una concorrenza e a una lotta più o meno lunghe, il migliore, il più fecondo tra i differenti abbozzi nati in questo modo spontaneamente, da solo ha dovuto trionfare e sterminare o assorbire tutti i suoi rivali.
8Non bisogna perdere di vista, da una parte, che il bisogno di inventare e di scoprire si sviluppa, come ogni altro, soddisfacendosi; dall’altra, che ogni invenzione si riduce all’incontro fortunato, all’interno di un cervello intelligente, di una corrente imitativa, sia con un’altra corrente imitativa che la rinforza, sia con un’intensa percezione esterna che fa risaltare sotto una luce imprevista un’idea ricevuta, oppure con il vivo sentimento di un bisogno naturale che trova in un procedimento comune delle risorse insperate. Ma se noi scomponiamo le percezioni e i sentimenti di cui si tratta, vedremo che essi si risolvono quasi interamente, e in modo sempre più completo con l’avanzare della civiltà, in elementi psicologici che si sono formati sotto l’influsso dell’esempio. Ogni fenomeno naturale viene visto attraverso i prismi e gli occhiali colorati della lingua materna, della religione nazionale, di una preoccupazione dominante, di una teoria scientifica regnante, di cui l’osservazione, anche la più libera e la più fredda, non potrebbe fare a meno senza annientarsi; e ogni bisogno organico viene provato in una forma caratteristica, convalidata dall’esempio circostante, attraverso la quale l’ambiente sociale, mentre precisa tale bisogno, lo attualizza, e, a dire il vero, se ne impadronisce. Si sono trasformati in prodotti nazionali, per così dire, perfino il bisogno di alimentarsi, divenuto bisogno di mangiare del pane scuro o del pane bianco e certe carni qui, del riso e certi legumi là; perfino lo stesso bisogno sessuale, divenuto il bisogno di sposarsi qui o là, secondo determinati riti sacramentali. Ciò è vero a maggior ragione a proposito del bisogno naturale di distrazione, divenuto bisogno dei giochi del circo, dei combattimenti di tori, delle tragedie classiche, dei romanzi naturalisti, degli scacchi, del picchetto, del fischietto. Di conseguenza, quando è venuta per la prima volta l’idea, nel secolo scorso, di utilizzare la macchina a vapore, già in uso nelle fabbriche, per soddisfare il bisogno di viaggiare per mare, bisogno nato da tutte le invenzioni navali precedenti e dalla loro diffusione, dobbiamo vedere in quest’idea di genio l’incrocio di un’imitazione con altre, e lo stesso per quanto riguarda l’idea, venuta più tardi, di adattare l’elica alla nave a vapore, entrambe già note da molto tempo. E quando la constatazione delle valvole dei vasi sanguigni, incontrandosi nella mente di Harvey con il ricordo delle sue antiche conoscenze anatomiche, gli fecero scoprire la circolazione sanguigna, questa scoperta non era altro, insomma, che l’incontro di certi insegnamenti tradizionali con altri (ossia con i metodi e le pratiche che, seguite docilmente per molto tempo da Harvey discepolo, da sole gli avevano un giorno permesso di fare la sua constatazione magistrale), tutto come, o quasi, il confronto tra due teoremi già conosciuti ne fa intuire a un geometra un terzo originale.
9Tutte le invenzioni e tutte le scoperte sono dunque dei composti che hanno come elementi di base delle imitazioni precedenti, salvo alcuni apporti esterni infecondi in se stessi, e questi composti, imitati a loro volta, sono destinati a diventare gli elementi di base di nuovi composti più complessi; ne consegue che esiste un albero genealogico di queste iniziative riuscite, una serie non soltanto rigorosa, ma irreversibile, della loro apparizione, che ricorda l’incastro dei germi [emboîtement des germes] immaginato da antichi filosofi. Ogni invenzione che nasce è un possibile realizzato tra mille, tra diversi possibili, cioè tra i necessari condizionali, che l’invenzione-madre da cui deriva portava nel grembo; e, apparendo, essa rende impossibile d’ora in avanti la maggior parte di questi possibili, e contemporaneamente rende possibile una folla di altre invenzioni che prima non lo erano. Queste nasceranno o no, a seconda della direzione e dell’entità del raggio della sua imitazione attraverso popoli già rischiarati da determinati lumi. È vero che, tra quelle che nasceranno, soltanto le più utili, se vogliamo, sopravviveranno, ma intendete con questa espressione quelle che risponderanno meglio ai problemi del tempo; poiché ogni invenzione, come ogni scoperta, costituisce la risposta a un problema. Ma, oltre a questi problemi8, sempre indeterminati come i bisogni di cui sono la vaga traduzione, che possono comportare le più diverse soluzioni, la questione sta nel sapere come, perché, e da chi, essi siano stati posti, proprio in un certo momento e non in un altro, e poi perché una certa soluzione sia stata adottata di preferenza in un certo luogo, e un’altra altrove9. Ciò dipende dalle iniziative individuali, dipende dalla natura degli inventori e degli scienziati precedenti, risalendo fino ai primi, forse i più grandi, che, dalla vetta della storia, hanno fatto precipitare su di noi la valanga del progresso.
10Fatichiamo a immaginare la quantità di genio e di possibilità singolari che hanno richiesto anche le idee più semplici. Si può credere, a prima vista, che, tra tutte le iniziative, quella che consiste nell’addomesticare gli animali inoffensivi diffusi sul territorio al fine di sfruttarli, invece di cacciarli semplicemente, sia stata la più naturale e la più feconda; e siamo portati a considerarla inevitabile. Tuttavia, sappiamo che il cavallo, dopo aver fatto parte molto anticamente della fauna americana, era scomparso dall’America al momento della scoperta di questo continente, e siamo soliti spiegare la sua sparizione ammettendo, dice Bourdeau «che i cacciatori dovettero ucciderlo (per cibarsene) in molti luoghi (poiché il fatto si è verificato anche nel vecchio mondo), prima che i pastori pensassero di addomesticarlo»10. L’idea di addomesticarlo era dunque lontana dall’essere obbligata. È stato necessario un accidente individuale perché il cavallo diventasse domestico da qualche parte, da cui, per imitazione, il suo addomesticamento si è diffuso. Ma ciò che è vero per questo quadrupede lo è senza dubbio per tutti gli animali domestici e per tutte le piante coltivate. – Ora, ci si immagini che cosa poteva essere l’umanità senza queste invenzioni-madri!
11In generale, se non vogliamo che le somiglianze sociali tra popoli divisi da ostacoli più o meno invalicabili (ma che hanno anche potuto non esserlo in passato) si spieghino sulla base di un modello primitivo di cui ogni ricordo è andato perduto, non resta, il più delle volte, che spiegarli attraverso l’esaurimento, in ciascuno di essi, di tutte le invenzioni possibili a proposito di un soggetto dato e l’eliminazione di tutte le idee inutili o meno utili. Ma quest’ultima ipotesi è contraddetta dalla relativa sterilità di immaginazione che caratterizza i popoli nascenti. Conviene dunque far riferimento preferibilmente alla prima e non rinunciarvi in nessun caso senza una ragione manifesta. È proprio sicuro, per esempio, che l’idea di costruire abitazioni lacustri, comune agli antichi abitanti della Svizzera e della Nuova Guinea, sia venuta loro senza alcuna suggestione imitativa? Stessa questione relativamente all’idea di tagliare delle selci o di levigarle, di cucire con delle lische di pesce e dei tendini, di sfregare due pezzi di legno per produrre il fuoco. Prima di negare la possibilità della diffusione di queste idee attraverso un’imitazione lenta e graduale che avrebbe finito per ricoprire quasi tutto il globo terrestre, bisogna ricordarsi innanzitutto l’immensa durata dei tempi preistorici, e pensare anche che abbiamo la prova di relazioni intrattenute a grandi distanze non soltanto tra i popoli dell’età del bronzo, che talvolta dovevano far arrivare lo stagno da molto lontano, ma anche tra i popoli della pietra levigata e forse della pietra scheggiata. Le grandi invasioni conquistatrici che hanno imperversato in ogni tempo hanno dovuto facilitare e universalizzare frequentemente, anche in epoca preistorica, o piuttosto, soprattutto in epoca preistorica (poiché le grandi conquiste sono tanto più facili quanto più i popoli da conquistare sono divisi e primitivi) la diffusione delle idee civilizzatrici. L’irruzione dei Mongoli nel xiii secolo è un buon esempio di questi diluvi periodici; e sappiamo che essa ha avuto l’effetto di abbattere, in pieno medioevo, le barriere tra i popoli più chiusi, mettendo la Cina e l’Indostan in comunicazione tra loro e con l’Europa11.
12Ma è vero che, anche in assenza di questi fatti violenti, lo scambio universale degli esempi a lungo andare sarebbe avvenuto ugualmente. A questo proposito, facciamo un’osservazione generale. La maggioranza degli storici è portata ad ammettere l’influsso di una civiltà su un’altra soltanto quando giungono a constatare tra di esse l’esistenza di rapporti commerciali o di lotte militari. Sembra loro, implicitamente, che ogni azione di una nazione su un’altra nazione lontana, per esempio, dell’Egitto sulla Mesopotamia o della Cina sull’Impero romano, presupponga un trasporto di truppe, un invio di vasi o una spedizione di carovane, dall’una all’altra. Essi non ammettono, per esempio, che il corso della civiltà babilonese e il corso della civiltà egizia abbiano comunicato tra loro prima della conquista della Mesopotamia da parte dell’Egitto, verso il xvi secolo a.C. Oppure, all’inverso, ma sempre in ragione dello stesso punto di vista, non appena, attraverso la constatazione della somiglianza tra le opere d’arte, i monumenti, le tombe, i cocci funerari, gli appare dimostrata l’azione di una civiltà su un’altra, ne concludono subito che hanno dovuto esserci tra loro delle guerre o delle transazioni regolari.
13Questa opinione preconcetta, se facciamo riferimento ai rapporti che ho stabilito precedentemente tra le tre forme della Ripetizione universale, sembra ricordare il pregiudizio degli antichi fisici, i quali, ovunque constatavano un’azione fisica – come l’illuminazione o il surriscaldamento, esercitata da un corpo su un altro distante da esso – e vi vedevano la prova di un trasporto di materia. Lo stesso Newton non credeva forse che la propagazione della luce solare fosse prodotta da un’emissione di particelle proiettate dal sole nello spazio infinito? Il mio punto di vista su questo argomento è così lontano dal punto di vista ordinario quanto può esserlo la teoria dell’ondulazione, in ottica, da quella dell’emissione. Non nego, certo, l’azione sociale esercitata o piuttosto provocata dai movimenti degli eserciti o dei vasi commerciali, ma contesto che essa possa essere l’unico modo, o anche quello principale, con cui si realizza il contagio irradiante delle civiltà. A partire dalle loro frontiere, in cui esse si incontrano indipendentemente da ogni scontro bellicoso e da ogni baratto commerciale, gli uomini che le rappresentano possiedono un’inclinazione naturale a copiarsi; e, senza aver bisogno di spostarsi nel senso della propagazione dei loro esempi, esse agiscono continuamente le une sulle altre, a distanze indefinite, come molecole di acqua marina che, senza spostarsi nel senso delle loro onde, le inviano molto lontano davanti a sé. Molto tempo prima, dunque, che un’armata faraonica vincesse a Babilonia, un buon numero di riti o di segreti industriali erano transitati di mano in mano, in qualche modo, dall’Egitto a Babilonia.
14Ecco che cosa bisogna porre all’inizio della storia. E osserviamo fino a che punto questa azione sia continua, potente e irresistibile. Essa giungerà infallibilmente fino ai limiti della terra, se le si darà il tempo necessario. Ora, è nell’ordine delle centinaia di migliaia di anni che bisogna valutare il passato umano. Dunque, abbiamo ogni ragione di credere che, fin dall’epoca in fondo così vicina che chiamiamo antichità, essa si sia estesa all’universo intero.
15E, perché questo avvenga, non è necessario che la cosa propagata sia utile, ragionevole o bella. Ecco qui un esempio. In che modo, se non per imitazione, questa grottesca usanza che consiste nel far circolare i mariti percossi dalle loro mogli montando un asino, seduti al contrario, ha potuto diffondersi nel medioevo, in cui la si incontra in tanti luoghi diversi? È evidente che un’idea così stramba non ha potuto nascere spontaneamente nello stesso momento in cervelli diversi. Ciò non impedisce a Baudrillart, trascinato dal pregiudizio corrente, di essere persuaso che le feste popolari si siano fatte da sé, senza l’intervento di nessuna iniziativa individuale cosciente e deliberata: «Ciò che ha consentito l’istituirsi, dice, delle feste della Tarasque a Tarascon, della Graouilli a Metz, del Lupo verde a Jumièges, della Gargouille a Rouen, e tante altre, non è stato, secondo ogni verosimiglianza, alcun decreto deliberato in consiglio (lo concedo), alcuna volontà premeditata (qui è l’errore); ciò che le ha rese periodiche, è stato un assenso unanime e spontaneo…». Ci si immagini diverse migliaia di persone contemporaneamente concepire e realizzare spontaneamente tali stravaganze!
16Riassumendo, tutto ciò che nei fenomeni sociali è propriamente sociale, e non vitale o fisico, sia nelle loro somiglianze che nelle loro differenze, è generato dall’imitazione. Così, non a torto viene generalmente attribuito l’epiteto di naturale, in ogni ordine di fatti sociali, alle somiglianze spontanee, non suggerite, che si producono all’interno di società diverse. Si ha il diritto, quando si vogliono esaminare le società sotto questo aspetto spontaneamente simile, di chiamare questa caratteristica delle loro leggi, dei loro culti, dei loro governi, delle loro usanze, dei loro delitti, il diritto naturale, la religione naturale, la politica naturale, l’industria naturale, l’arte naturale (non dico naturalista), il delitto naturale… Ora, queste somiglianze certamente contano qualcosa. Ma il guaio è che a volerle precisare ulteriormente si perde il proprio tempo, e, attraverso questo carattere incorreggibilmente vago e arbitrario, esse finiscono per ripugnare a uno spirito positivo, abituato alla precisione scientifica.
17Mi si potrà far osservare che se l’imitazione è una cosa sociale, ciò che non è sociale, ciò che è naturale al massimo grado, è la pigrizia istintiva da cui nasce l’inclinazione a imitare per evitarsi la fatica di inventare. Ma questa stessa inclinazione, se precede necessariamente il primo fatto sociale, l’atto attraverso il quale si soddisfa, è molto variabile per intensità e direzione a seconda della natura delle abitudini imitative già consolidate. – Mi si potrà anche dire: questa tendenza è soltanto una delle forme assunte da un bisogno che voi ritenete innato e profondo, e da cui fate conseguire (lo si vedrà più avanti) tutte le leggi della logica sociale, cioè il bisogno di un massimo di fede forte e solida. Se queste leggi esistono, così come la loro origine non può avere nulla di sociale, le somiglianze da esse prodotte all’interno delle istituzioni e delle idee dei popoli hanno un’origine non sociale, ma naturale. Per esempio, l’interpretazione delle malattie per mezzo di una possessione diabolica, attraverso l’ingresso di spiriti cattivi nel corpo del malato, si è presentata sia ai selvaggi americani che ai selvaggi africani o asiatici, coincidenza già assai singolare; poi, una volta adottata questa interpretazione, se ne è fatta conseguire logicamente, nel vecchio come nel nuovo mondo, l’idea della guarigione attraverso l’esorcismo. – Ma rispondo che se un certo orientamento logico dell’uomo presociale è innegabile, il bisogno di coordinazione logica, accresciuto e precisato dalle influenze dell’ambiente sociale, è soggetto alle variazioni più ampie, più strane, e si rafforza, si dirige, come ogni altro, nella misura e in proporzione alle soddisfazioni che riceve. Ne forniremo più avanti la prova.
II
18Quanto detto mi porta a esaminare un’altra obbiezione capitale che mi potrebbe essere fatta. Non avrei guadagnato granché, in effetti, nel provare che tutte le civiltà, anche le più diverse, sono come i raggi di uno stesso focolaio primitivo, se vi fossero delle ragioni di pensare che, oltre un certo limite, la loro diversità diminuisca progressivamente invece di aumentare, e che, qualunque sia stato il punto di partenza, l’evoluzione delle lingue, dei miti, dei mestieri, delle leggi, delle scienze e delle arti, si sia avvicinata sempre di più alla via che è stata poi effettivamente seguita, di modo che, inevitabilmente, il termine finale doveva essere sempre lo stesso, predeterminato, fatale.
19Resta da sapere se questa ipotesi sia vera. Non lo è. Mostriamo innanzitutto la sua estrema conseguenza. Da essa consegue che, non importa attraverso quale percorso speculativo, in un tempo sufficiente, lo spirito scientifico sarebbe dovuto approdare in matematica al calcolo infinitesimale, in astronomia alla legge di Newton, in fisica all’unità delle forze, in chimica all’atomismo, in biologia alla selezione naturale oppure a ogni altra forma ulteriore del trasformismo. E dato che l’immaginazione industriale, militare o artistica, in cerca di risposte a bisogni virtualmente innati, l’invenzione, per esempio, della locomotiva e del telegrafo elettrico, dei siluri e dei cannoni Krupp, dell’opera wagneriana e del romanzo naturalista, avrebbe dovuto basarsi su questa sedicente scienza unica e inevitabile, essa era necessaria, più necessaria forse dell’arte del vasaio ridotta alla sua più semplice espressione. Ora, o mi sbaglio di grosso, oppure tanto varrebbe dire che, fin dai suoi inizi, attraverso tutte le sue metamorfosi, la vita tendeva a far apparire certe forme viventi determinate, e che, per esempio, l’ornitorinco o il cactus, la lucertola o l’ofride, o anche l’uomo stesso, non potevano non apparire. Non sembra invece più plausibile ammettere che il problema posto in ogni istante dalla vita era in sé indeterminato, suscettibile di molteplici soluzioni?
20L’illusione che combatto deve la sua verosimiglianza a una specie di qui pro quo. È certo che il progresso della civiltà si riconosce dal livellamento graduale che essa impone su un territorio sempre più esteso, tanto che un giorno, forse, uno stesso tipo sociale, stabile e definitivo, ricoprirà l’intera superficie del globo terrestre12, un tempo frammentata tra mille tipi sociali diversi, estranei o rivali. Ma quest’opera di uniformazione universale alla quale assistiamo, tradisce almeno un orientamento comune delle diverse società verso uno stesso polo? Per nulla, poiché essa ha come causa manifesta l’affondamento della maggior parte delle civiltà originali sotto il diluvio di una di esse, il cui flusso avanza per mezzo di strati imitativi incessantemente allargati. Per vedere fino a che punto civiltà indipendenti siano lontane dal tendere a convergere spontaneamente, paragoniamo due civiltà pervenute al loro termine e qui arrestatesi, l’Impero bizantino del medioevo, per esempio, all’Impero cinese dello stesso periodo. L’una e l’altra avevano espresso da molto tempo ogni loro frutto e raggiunto il loro culmine. La questione è di sapere se, giunte a questo stadio di compimento finale, esse si assomigliassero tra loro più di quanto non si fossero assomigliate in passato. Per nulla, e il contrario mi sembrerebbe molto più vero. Paragonate Santa Sofia con i suoi mosaici a una pagoda con le sue porcellane, le miniature mistiche dei manoscritti alle piatte pitture dei vasi cinesi, la vita di un mandarino occupato da cavillature letterarie, e che nel frattempo dà l’esempio della pratica della terra, alla vita di un vescovo di Bisanzio appassionato a sottigliezze teologiche intrecciate ad astuzie diplomatiche; e così via. Tutto contrasta tra l’ideale di giardinaggio raffinato, di famiglia prolifica, di moralità fiaccata, caro a uno di questi popoli, e l’ideale cristiano di salvezza, di celibato monastico, di perfezione ascetica, dal quale l’altro è allucinato. Si fa fatica a classificare con lo stesso termine “religione” il culto degli antenati in cui crede uno di essi, e il culto delle persone divine o dei santi che è l’anima dell’altro. Ma se risalgo alle epoche più antiche di quei Greci e di quei Romani la cui doppia cultura si è amalgamata e completata nel Basso Impero, vi trovo un’organizzazione familiare che si direbbe ricalcata su quella cinese. Nell’antica famiglia ariana, in effetti, e aggiungo anche semitica, così come nella famiglia cinese, troviamo non soltanto il culto del focolare, dell’atrio e dell’anima degli antenati, ma anche gli stessi modi immaginati per onorare i morti, cioè le offerte alimentari e il canto degli inni accompagnato da genuflessioni, e anche le stesse finzioni, l’adozione in particolare, utilizzate per raggiungere, a dispetto della sterilità accidentale delle donne, il fine capitale, che è quello di perpetuare insieme alla famiglia la piccola religione del focolare.
21Si avrà la controprova di questa verità se invece di paragonare due popoli originali in due fasi successive della loro storia, si mettono in parallelo due classi o due fasce sociali di ciascuna di esse. È vero che il viaggiatore che attraversa diversi paesi europei, anche i più arretrati, osserva maggiore dissimiglianza tra le persone del popolo, rimaste fedeli ai loro antichi costumi, che tra le persone delle classi superiori. Ma ciò accade perché i secondi sono stati toccati in anticipo dal raggio della moda invadente: qui la somiglianza è evidentemente figlia dell’imitazione. Al contrario, quando due nazioni sono rimaste ermeticamente chiuse l’una all’altra, i membri delle loro nobiltà o dei loro cleri differiscono tra loro certamente di più a proposito delle idee, dei gusti e delle abitudini, dei loro agricoltori o dei loro manovali.
22Ciò accade perché più una nazione o una classe si civilizza, più essa sfugge ai bordi stretti in cui la schiavitù dei bisogni corporei, ovunque gli stessi, rinserra il suo sviluppo, e confluisce nello spazio libero della vita estetica, in cui la nave dell’arte voga secondo la direzione dei venti che il suo passato gli soffia. Se la civiltà fosse soltanto il pieno sviluppo della vita organica nell’ambiente sociale, tutto questo non accadrebbe; ma si direbbe che la vita, sviluppandosi in questo modo, cerchi prima di tutto di sfuggire a se stessa, di rompere il proprio cerchio, e non tenda a svilupparsi che per librarsi in volo; come se nulla le fosse più essenziale, come succede forse a ogni realtà, dell’affrancarsi dalla sua stessa essenza. Il superfluo dunque, il lusso, il bello, intendo il bello speciale che ogni epoca e ogni nazione si crea, è, in ogni società, ciò che vi è di più eminentemente sociale, ed è la ragion d’essere di tutto il resto, di tutto il necessario e di tutto l’utile. Ora, abbiamo visto che l’origine esclusivamente imitativa di tutte le somiglianze diventa sempre più incontestabile con l’innalzarsi dal secondo al primo di questi due ordini di fatti. Le abitudini artistiche dell’occhio, sorte da antichi capricci individuali dell’arte, diventano bisogni iperorganici ai quali l’artista è obbligato a dare soddisfazione, e che limitano singolarmente il campo della sua fantasia; ma questa limitazione, che non ha nulla di vitale, è più variabile che mai secondo i tempi e i luoghi. Per questo motivo l’occhio del Greco, a partire da una certa epoca, aveva bisogno di vedere, in fatto di colonne, una forma ionica e corinzia, mentre l’occhio egizio, sotto l’Antico Impero, esigeva un pilone quadrato e, sotto il Medio Impero, una colonna terminata in un bocciolo di loto. In questi casi, nella sfera dell’arte pura, o piuttosto quasi pura, poiché l’architettura resta pur sempre un’arte industriale, la mia legge relativa all’imitazione, considerata come l’unica causa delle vere somiglianze sociali, è applicabile già alla lettera.
23Essa sarebbe applicabile ancor più esattamente alla scultura, alla pittura, alla musica e alla poesia. In effetti, le idee di gusto e i giudizi estetici, ai quali l’arte risponde, non le preesistono affatto; non hanno nulla di fisso né di uniforme come possono avere i bisogni corporei e le percezioni dei sensi che in una certa misura predeterminano le opere dell’industria e le obbligano vagamente a ripetersi in seno a popoli diversi. Quando un’opera dipende sia dall’industria che dall’arte, bisogna attendersi da questo fatto che, simile per i suoi aspetti industriali ad altri prodotti di provenienza straniera e indipendente, ne differisca nel suo aspetto estetico. Generalmente, questo elemento differenziale appare di scarsa importanza all’uomo positivo; ma non è forse soltanto per il dettaglio che si differenziano i monumenti, i vasi, i mobili, gli inni e le epopee delle diverse civiltà? Questo dettaglio, questa sfumatura caratteristica, questo giro di frase, questo colorito speciale, costituisce lo stile e la maniera, che interessa soprattutto all’artista. È il connotato più visibile e più profondo di una società, qui l’ogiva, là il frontone, altrove il tutto sesto, la forma maestra che si impone all’utilità invece di subirla passivamente e, in questo, è perfettamente paragonabile a quei caratteri morfologici, dominatori di funzioni, da cui si riconoscono i tipi viventi. Ecco perché è consentito negare esteticamente, cioè dal punto di vista sociale più puro, l’autentica somiglianza tra opere che si differenziano tra loro soltanto per il dettaglio. È consentito affermare, per esempio, che il grazioso piccolo tempio egizio di Elefantina non assomiglia affatto a un tempio greco periptero, malgrado l’apparenza, e scartare, di conseguenza, la questione di sapere se questa somiglianza non sarebbe una prova che la Grecia ha copiato l’Egitto, come pensava Champollion. In definitiva, tutto ciò sembra confermare che la mia formula si applica tanto più esattamente quanto più si tratta di opere simili rispondenti a bisogni più fittizi, meno naturali, cioè di tipo meno vitale, più sociale. Da ciò si può indurre che, se mai certe opere si dovessero incontrare, ispirate da motivi esclusivamente sociali, assolutamente estranei alle funzioni vitali, questo principio sarebbe verificabile in tutto il suo rigore.
24Si è parlato molto, tra estetologi, di una pretesa legge di sviluppo delle belle arti che le costringerebbe a ruotare sempre nello stesso cerchio e a ripetersi indefinitamente. Il guaio è che non c’è nessuno che abbia mai potuto formularla con un po’ di precisione senza scontrarsi con la smentita dei fatti; e questa osservazione può anche essere applicata, ma meno bene, come ci si deve aspettare in base a ciò che abbiamo detto in precedenza, alle cosiddette leggi di sviluppo delle religioni, delle lingue, dei governi, delle legislazioni, delle morali e delle scienze. Condividendo questo pregiudizio del nostro tempo, Perrot, nella sua Storia dell’arte 13, è costretto a convenire che l’evoluzione degli ordini architettonici non ha attraversato fasi analoghe in Grecia e in Egitto. Senza dubbio, in entrambi i paesi, la colonna di pietra delle epoche più antiche, succedendo al palo di legno, ha cominciato con l’imitarlo più o meno fedelmente e ha conservato a lungo la cifra di questa contraffazione; in entrambi i paesi inoltre, sono state delle piante locali, l’acanto nell’uno, il loto o la palma nell’altro, a venir riprodotte sui capitelli al fine di abbellirli. Senza dubbio, anche il pilone, greco o egizio, inizialmente massiccio e indiviso, è andato suddividendosi in tre parti, il capitello, il fusto e la sua base. Senza dubbio, infine, la decorazione del capitello in Grecia, e dell’intera colonna in Egitto, è andata complicandosi, sovraccaricandosi di nuovi ornamenti.
25Ma è vero che, rispetto a queste tre analogie, la prima non fa che confermare ancora una volta il nostro principio, l’imitatività istintiva dell’uomo sociale, e la terza ci porta a dedurre una sua conseguenza obbligata, l’accumulazione graduale delle invenzioni che non si contraddicono, grazie alla conservazione e alla diffusione di ciascuna di esse attraverso l’imitazione irradiante di cui è il focolaio. Quanto alla seconda, è una di quelle analogie funzionali di cui ho parlato precedentemente: questa divisione tripartita della colonna, in effetti, era più o meno imposta dalla natura dei materiali impiegati e dalla legge di gravità, non appena il bisogno di riparo arrivava a richiedere dimore di una certa altezza. – Se si vuol rendere alle pseudo-leggi dello sviluppo religioso, politico o di altro tipo, che sto criticando di passaggio, la loro parte di verità, si vedrà che esse si risolvono in somiglianze che rientrano all’interno delle tre categorie precedenti. Se accade che non vi si possano far rientrare, è perché è intervenuta l’imitazione. Per esempio, i punti di somiglianza tra il cristianesimo e il buddismo, ma soprattutto tra il cristianesimo e il culto di Krishna, sono così numerosi da essere sembrati sufficienti a diversi scienziati tra i più autorevoli, in particolare a Weber, per affermare una filiazione storica tra queste religioni simili. La congettura deve stupire ancora di meno se si tratta di religioni proselitiste.
26Del resto – e qui le differenze significative stanno venendo alla luce – dai Greci «le proporzioni dei supporti sono state modificate sempre nello stesso senso; è attraverso un numero sempre più alto che è stato espresso il rapporto che rappresenta l’altezza del fusto rispetto al suo diametro. Il dorico del Partenone è più slanciato di quello dell’antico tempio di Corinto; lo è meno del dorico romano… Non è accaduto lo stesso in Egitto, dove le forme non tendevano affatto ad affilarsi con il passare dei secoli. La colonna a sedici facce e la colonna fascicolata di Beni-Hassen non hanno proporzioni più tozze rispetto alle colonne dei monumenti molto posteriori». Si incontra anche il contrario, esattamente l’opposto dell’evoluzione ellenica. «Troviamo dunque – conclude l’autore citato – nel corso dell’arte egizia, delle capricciose oscillazioni. Questo corso è meno regolare di quello dell’arte classica, e non sembra governato da una logica interna altrettanto severa».
27Direi piuttosto: da ciò consegue che l’arte non vuole lasciarsi rinchiudere in una formula, giacché questa formula, se formula ci dev’essere, talvolta sembra applicarsi, talaltra, manifestamente, non si applica in alcun modo, e proprio per quanto riguarda gli aspetti più importanti agli occhi del conoscitore, i più espressivi, i più profondi. Quando si tratta della colonna considerata dal punto di vista dell’utilità, le condizioni esterne circoscrivono strettamente il campo dell’invenzione architettonica e le impongono alcune idee fondamentali, come se fossero dei temi da variare. Ma una volta superato questo stretto, lungo il quale tutte le scuole erano obbligate a seguire un’evoluzione quasi parallela, esse hanno navigato ciascuna per conto suo, orientate diversamente, non soltanto più libere, ma obbedendo esclusivamente alle ispirazioni del loro genio personale. Pertanto, le coincidenze non si verificano più, e le dissimiglianze si approfondiscono14. Allora diventa preponderante, sovrana, l’influenza individuale dei maestri, sia passati, che presenti, rispetto alle trasformazioni della loro arte. In questo modo possono essere spiegate le «capricciose oscillazioni» dell’architettura egizia; e, in fin dei conti, se lo sviluppo dell’architettura greca appare più rettilineo, non si tratta forse di un’illusione? Se non ci si limita a considerare due o tre secoli notevoli di questo sviluppo, e si abbraccia l’intero decorso dell’arte greca dai suoi inizi mal conosciuti fino alle sue ultime trasformazioni bizantine, non si vedrà forse il bisogno di slancio crescente segnalato da Perrot diminuire a partire da un certo periodo? È stata una serie di artisti eleganti e graziosi ad aver fatto nascere e crescere questo bisogno visuale, così come sono state generazioni di validi costruttori ad aver reso generale e permanente sulle rive del Nilo il bisogno di solidità massiccia, eppure non senza slanci di gusto differente, quando si faceva luce un architetto dotato di un temperamento originale, meno portato a conformarsi al genio nazionale che a riformarlo. – Ma quanto guadagnerebbero queste considerazioni a essere illustrate per mezzo di esempi presi a prestito dalle arti superiori, dalla pittura, dalla poesia, dalla musica?
Notes de bas de page
1 Espèce humaine, p. 336 [A. de Quatrefages, L’espèce humaine, Paris, Baillière, 1877].
2 Il fatto è che le analogie sono numerose e sorprendenti. La civiltà, sia in America sia in Europa, è passata successivamente «dall’età della pietra all’età del bronzo con gli stessi metodi e assumendo le stesse forme. I teocalli del Messico corrispondono alle piramidi egizie, come i mounds dell’America del Nord corrispondono ai tumuli della Bretagna e della Scizia, come i piloni del Perù assomigliano a quelli dell’Etruria e dell’Egitto» (Clémence Royer, “Revue scientifique”, 31 luglio 1886) [C. Royer, L’art de faire du feu chez les races sauvages ou primitives, “Revue scientifique”, a. xxiii (31 juillet 1886), t. xii, n. 5, pp. 134-141. La citazione è a p. 140]. Cosa ancor più sorprendente, la lingua basca presenta alcune affinità soltanto con certe lingue americane. Ciò che indebolisce la portata di queste somiglianze, è che i termini di paragone sono tratti un po’ artificialmente, non soltanto tra due civiltà, ma tra un gran numero di civiltà diverse, sia del vecchio, che del nuovo mondo.
3 Egli presta maggiore attenzione ai casi di mimetismo, enigma fin qui indecifrabile, ma che, se la selezione naturale ne fornisse veramente la chiave, verrebbe spiegato attraverso le leggi ordinarie dell’ereditarietà, attraverso la fissazione e l’accumulazione ereditarie delle variazioni individuali più favorevoli alla salvezza della specie, giunta in questo modo a indossare, come per un travestimento, la livrea di un’altra.
4 L’incontro del resto è tanto più singolare in quanto tl in teotl non conta, poiché questo accoppiamento di consonanti è la terminazione abituale delle parole messicane. Téo e Théô (al dativo) hanno assolutamente lo stesso senso e lo stesso suono.
5 Se l’usanza delle mutilazioni di vario tipo, della circoncisione per esempio, del tatuaggio, dei capelli tagliati, in segno di subordinazione a un dio o a un capo, si ritrova perfino nei punti più lontani della terra, in America e in Polinesia, come nel vecchio mondo, se i totem dei selvaggi dell’America del Sud ricordano i blasoni dei nostri cavalieri medievali, si deve semplicemente vedere in questi incontri, in queste somiglianze, la prova che le azioni sono dirette dalle credenze, e che le credenze, in larga misura, sono suggerite all’uomo dalle inclinazioni innate della sua natura, ovunque in fondo la stessa, e dai fenomeni della natura esterna, molto più simili di quanto non differiscano tra loro, malgrado la diversità dei climi. – Queste analogie, è vero, possono anche non essere state provocate dall’imitazione. Ma sono soltanto analogie grossolane, vaghe, senza alcun significato sociologico, proprio come per gli insetti è insignificante, dal punto di vista biologico, il fatto di possedere degli arti come i vertebrati, oppure occhi e ali come gli uccelli. L’ala dell’uccello e quella del pipistrello, seppur di aspetto molto diverso, fanno comunque parte della stessa evoluzione, hanno lo stesso passato e la possibilità di uno stesso avvenire, questi organi si toccano in un’infinità di punti delle loro trasformazioni successive; così sono omologhi, mentre l’ala dell’insetto e quella dell’uccello hanno in comune soltanto una delle fasi dei loro processi evolutivi molto diversi.
La circoncisione, presso gli Aztechi, si accompagnava forse alle stesse cerimonie, aveva lo stesso significato religioso che aveva presso gli Ebrei? No, non più di quanto la loro confessione non assomigliasse alla nostra. Eppure questo dettaglio delle cerimonie è ciò che più conta dal punto di vista sociale, perché contraddistingue il ruolo specifico svolto dall’ambiente sociale nella direzione dell’attività individuale. E questo aspetto sta continuamente crescendo.
6 A maggior ragione di idee molto semplici, che esigono soltanto un piccolo sforzo di immaginazione. È il caso di molte delle particolarità dei costumi, anche dei più singolari. Per esempio, leggendo l’opera di Jametel sulla Cina [M. Jametel, La Chine inconnue, Paris, Rouam, 1886], ero stato sorpreso di vedervi riferita l’usanza dell’eruttazione per cortesia tra i commensali, alla fine di un pasto. Ora, secondo Garnier e Hugonnet – si veda La Grèce nouvelle, 1889 [L. Hugonnet, La Grèce nouvelle. L’hellénisme, son évolution et son avenir, Paris, Degorce-Cadot, 1884] – i Greci moderni praticano la stessa osservanza cerimoniale… Evidentemente, in entrambi i paesi, il bisogno di fornire la prova evidente che si è sazi, ha suggerito l’idea ridicola, ma naturale, di questa bizzarra usanza.
7 Per esempio, gli stessi bisogni hanno ispirato l’idea, nel vecchio continente, di addomesticare il bue, e, in America, di addomesticare il bisonte e il bufalo – si veda Bourdeau, Conquête du monde animal [Paris, Alcan, 1885], p. 212 – oppure, da una parte, di addomesticare il cammello, dall’altra il lama.
8 In politica, vengono chiamate generalmente questioni: la questione orientale, la questione sociale ecc.
9 Succede talvolta che, quasi dappertutto, la soluzione accettata sia la stessa sebbene il problema ne comportasse anche altre. Questo succede perché questa soluzione, si dirà, era la più naturale. Sì, ma non è forse proprio per questo che, sorta soltanto da qualche parte, e non in tutti i luoghi contemporaneamente, essa ha finito per diffondersi dappertutto? Per esempio, dai popoli primitivi la dimora dei morti malvagi è stata considerata quasi ovunque sotterranea, e quella dei beati celeste. La somiglianza si spinge spesso molto lontano. Gli Indiani Salisles dell’Oregon, secondo Tylor, dicono che i cattivi vanno ad abitare dopo la loro morte un luogo ricoperto da nevi perenni, «in cui, vero supplizio di Tantalo, vedono perpetuamente della selvaggina che non possono uccidere e dell’acqua che non possono bere».
10 Conquête du monde animal [cit.].
11 In un articolo molto interessante, apparso sulla “Revue des deux mondes” del 1° maggio 1890 [E. Goblet d’Alviella, La migration des symboles, “Revue des deux mondes”, a. lx (1890), vol. 99, pp. 121-144], Goblet d’Alviella fa delle giuste riflessioni sulla rapidità e sulla facilità con cui i simboli religiosi si diffondono grazie ai viaggi, alla schiavitù e alle monete, che sono dei veri e propri bassorilievi mobili. Accade lo stesso per i simboli politici. Per esempio, l’aquila bicefala degli stemmi dell’imperatore austriaco e dello zar di Russia è tratta dall’antico Impero germanico. Ora, esso ha utilizzato questo simbolo soltanto a partire dalla spedizione in Oriente di Federico II, nel xiii secolo, che a sua volta lo ha preso a prestito dai Turchi. D’altra parte, abbiamo buoni motivi di pensare, secondo l’autore citato, che la somiglianza così stupefacente tra questa aquila a due teste e l’aquila ugualmente bicefala che figura sui bassorilievi mesopotamici più antichi, sia dovuta a un susseguirsi di imitazioni. Si veda anche, nello stesso articolo, ciò che Goblet ha congetturato a partire dalla diffusione imitativa, così estesa, della croce uncinata come portafortuna. Del resto, è probabile che l’idea di simbolizzare con la croce il dio dei venti o la rosa dei venti, sia venuta spontaneamente, senza alcuna imitazione, tanto alla Mesopotamia quanto all’Impero azteco.
12 Si vedrà tuttavia più avanti che, alla fine, la consuetudine, cioè l’imitazione esclusiva, deve prevalere sulla moda, sull’imitazione proselitista, e che, in conseguenza di questa legge, la divisione dell’umanità in stati diversi, in civiltà differenti, soltanto meno numerose e più vaste di adesso, può benissimo costituire lo stadio finale, così come quello attuale e passato, delle società.
13 [G. Perrot, Histoire de l’art dans l’antiquité, Paris, Hachette, 1882-1914, 10 voll.].
14 Troviamo mai qualcosa di analogo all’obelisco al di fuori dell’Egitto? Il fatto è che l’obelisco rispondeva non a un bisogno principalmente naturale, come le porte, le finestre, le colonne in quanto supporti, ma a un bisogno quasi interamente sociale.
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