Prefazione alla seconda edizione (1895)
p. 37-46
Texte intégral
1Dopo la prima edizione di questo libro, ne ho pubblicato il seguito e il complemento con il titolo di Logica sociale 1.
2In quella sede credo di aver già risposto implicitamente ad alcune obbiezioni che la lettura delle Leggi dell’imitazione aveva potuto far sorgere. Non è tuttavia inutile fornire a questo proposito alcune brevi spiegazioni.
3Mi è stato rimproverato, qua e là, «di aver spesso chiamato imitazione fatti ai quali questo nome non conviene per nulla». Rimprovero che mi stupisce da un punto di vista filosofico. In effetti, quando il filosofo ha bisogno di una parola per esprimere una nuova generalizzazione, non ha che la scelta tra due possibilità: o il neologismo, se non può fare altrimenti, oppure, il che vale certamente molto di più, l’estensione del senso di un vecchio vocabolo. Tutta la questione è di sapere se ho esteso abusivamente – non dico dal punto di vista delle definizioni da dizionario, ma in base a una nozione più profonda delle cose – il significato della parola imitazione.
4Ora, so bene che non è conforme all’uso ordinario dire di un uomo, quando, a sua insaputa e involontariamente, riflette un’opinione altrui o si lascia suggerire un’azione dagli altri, che imita questa idea o questo atto. Ma, se egli prende a prestito dal suo vicino un certo modo di pensare o di agire volontariamente e deliberatamente, si conviene che l’impiego della parola di cui si tratta sia in questo caso legittimo. Nulla, tuttavia, è meno scientifico di questa separazione assoluta, di questa netta discontinuità, stabilita tra il volontario e l’involontario, tra il conscio e l’inconscio. Non si passa forse per gradi insensibili dalla volontà cosciente all’abitudine quasi macchinale? E uno stesso atto muta assolutamente di natura durante questo passaggio? Non è che io neghi l’importanza del cambiamento psicologico prodotto in questo modo; ma, sotto il suo aspetto sociale, il fenomeno è rimasto lo stesso. Si avrebbe il diritto di criticare come abusivo l’allargamento del significato della parola in questione soltanto se, estendendolo, l’avessi deformato e reso insignificante. Ma gli ho lasciato un senso sempre molto preciso e caratteristico: quello di un’azione a distanza da una mente all’altra, e di un’azione che consiste in una riproduzione quasi fotografica di un’impronta cerebrale attraverso la piattaforma sensibile di un altro cervello2. Se, a un certo punto, la piattaforma del dagherrotipo divenisse cosciente di ciò che accade al suo interno, il fenomeno cambierebbe essenzialmente di natura? – Per imitazione intendo ogni impronta fotografica inter-mentale [inter-spirituelle], per così dire, che sia voluta o no, attiva o passiva. Se si osserva che, in tutti i casi in cui tra due esseri viventi ha luogo un rapporto sociale qualunque, c’è imitazione in questo senso (sia dell’uno da parte dell’altro, sia di altri da parte dei primi due, come, per esempio, quando si discute con qualcuno parlando la stessa lingua, traendo nuove prove verbali da clichés molto antichi), mi si concederà che un sociologo fosse autorizzato a mettere in evidenza questa nozione.
5A ben più giusto titolo mi si potrebbe rimproverare di avere esteso oltre misura il senso della parola invenzione. È certo che ho dato questo nome a tutte le iniziative individuali, non soltanto senza tener conto del loro grado di coscienza – poiché molto spesso l’individuo innova a sua insaputa, e, a dire il vero, l’uomo più imitatore è per qualche aspetto un innovatore – ma anche senza aver il minimo riguardo alla maggiore o minore difficoltà e merito dell’innovazione. Non è che disconosca l’importanza di quest’ultimo punto di vista, e tali invenzioni sono così facili da concepire che si può ammettere che esse si siano presentate spontaneamente quasi dappertutto, nelle società primitive, senza nessun prestito, e che l’accidente della loro apparizione qui o là per la prima volta importa assai poco. Altre scoperte, al contrario, sono talmente difficili che il fortunato incontro di un genio che le coglie può essere visto come una possibilità singolare tra tutte, e di un’importanza ben maggiore. Ebbene, malgrado tutto, credo anche di aver ragione nel fare alla lingua comune una leggera violenza qualificando come invenzioni o scoperte le innovazioni più semplici, tanto che le più facili non sono sempre le meno feconde, né le più difficili le meno inutili. – A essere realmente abusiva, in compenso, è l’accezione elastica prestata da molti sociologi naturalisti al termine ereditarietà, che utilizzano per esprimere alla rinfusa insieme alla trasmissione dei caratteri vitali attraverso la generazione, la trasmissione di idee, di costumi, di cose sociali, attraverso la tradizione ancestrale, l’educazione domestica, l’imitazione-consuetudine [imitation-coutume].
6Inoltre, sarebbe stato forse più facile immaginare un neologismo derivato dal greco. Invece di dire invenzione o imitazione, avrei potuto forgiare, senza molta fatica, due parole nuove. – Ma lasciamo da parte questo piccolo cavillo senza interesse.
7Quel che è più grave, mi si è talvolta accusato di esagerazione nell’impiego delle due nozioni di cui si tratta. Rimprovero un po’ banale, è vero, che ogni innovatore si deve aspettare, anche quando abbia peccato di eccesso di riserbo nell’espressione del suo pensiero. Siate sicuri che, quando un filosofo greco si azzardò a dire che il sole era forse grande quanto il Peloponneso, i suoi migliori amici furono unanimi nel riconoscere che c’era qualcosa di vero al fondo del suo ingegnoso paradosso, ma che evidentemente esagerava. – In generale, non si è fatta attenzione allo scopo che mi proponevo, che era quello di estrarre dai fatti umani il loro aspetto sociologico puro, fatta astrazione, per ipotesi, dal loro aspetto biologico, che pure è inseparabile, lo so molto bene, dal primo. Il mio piano mi ha permesso soltanto di indicare, senza grande sviluppo, i rapporti tra le tre forme principali della ripetizione universale, in particolare tra l’ereditarietà e l’imitazione. Ma ho detto abbastanza, credo, per non lasciare alcun dubbio sul mio pensiero a proposito dell’importanza della razza e dell’ambiente fisico.
8Inoltre, dire che il carattere peculiare di ogni rapporto sociale, di ogni fatto sociale, è di essere imitativo, significa forse dire, come è sembrato abbiano creduto alcuni lettori superficiali, che non esista ai miei occhi nessun altro rapporto sociale, nessun altro fatto sociale, nessun’altra causa sociale, che l’imitazione? Tanto varrebbe dire che ogni funzione vivente si riduce alla generazione e ogni fenomeno vivente all’ereditarietà, poiché, in ogni essere vivente, tutto è generato ed ereditario. Le relazioni sociali sono molteplici, così numerose e così diverse quanto possono esserlo gli oggetti dei bisogni e delle idee umane, e gli aiuti o gli ostacoli che ciascuno di questi bisogni e ciascuna di queste idee dà oppure oppone alle tendenze e alle opinioni degli altri, uguali o diverse. In mezzo a questa infinita complessità, dobbiamo osservare che questi rapporti sociali così variegati (parlare e ascoltare, pregare ed essere pregati, comandare e obbedire, produrre e consumare ecc.) si riducono a due gruppi: gli uni tendono a trasmettere da un uomo all’altro, attraverso la persuasione o l’autorità, per amore o per forza, una credenza; gli altri, un desiderio. Altrimenti detto, gli uni sono delle varietà o delle velleità di insegnamento, gli altri sono delle varietà o delle velleità di comando. Ed è proprio perché gli atti umani imitati possiedono questo carattere dogmatico o imperioso che l’imitazione costituisce un legame sociale; poiché ciò che lega gli uomini è il dogma3 o il potere. (Si è vista soltanto la metà di questa verità, e la si è vista male, quando si è detto che la specificità dei fatti sociali era quella di essere obbligati e forzati. Significa misconoscere ciò che vi è di spontaneo nella maggior parte della credulità e della docilità popolari).
9Non credo dunque di aver peccato di esagerazione in questo libro; così l’ho fatto ristampare senza nessuna modifica. Semmai ho peccato di omissione. Non ho parlato per niente di un tipo di imitazione che svolge un ruolo molto importante all’interno delle società, soprattutto delle società attuali; e mi affretto a colmare questa lacuna. Ci sono, in effetti, due modi di imitare: fare esattamente come il proprio modello, oppure fare esattamente il contrario. Di qui la necessità di queste divergenze che Spencer constata, ma non spiega, con la sua legge della differenziazione progressiva. Non si potrebbe affermare alcunché senza suggerire, in un ambiente sociale per quanto poco complesso, non soltanto l’idea che si sta affermando, ma anche la negazione di questa idea. Ecco perché il soprannaturale, affermandosi insieme all’apparizione delle teologie, suggerisce il naturalismo che costituisce la sua negazione (si veda Espinas a questo proposito); ecco perché lo spiritualismo, affermandosi, dà l’idea del materialismo; la monarchia, instaurandosi, l’idea della repubblica ecc.
10Diremo dunque, ora in modo più ampio, che una società è un gruppo di persone che presentano tra loro molte somiglianze prodotte per imitazione o per contro-imitazione. Perché gli uomini si contro-imitano molto, soprattutto quando non hanno né la modestia di imitare puramente e semplicemente, né la forza di inventare; e, nel contro-imitarsi, cioè facendo, dicendo tutto l’opposto di quello che vogliono fare o dire, oppure facendo o dicendo proprio ciò che si fa o ciò che si dice attorno a loro, si assimilano sempre di più. Dopo la conformità alle usanze in fatto di sepoltura, di matrimoni, di cerimonie, di visite, di cortesie, non esiste nulla di più imitativo del lottare contro la propria inclinazione a seguire questa corrente e fingere di risalirla. Già nel medioevo, la messa nera è nata da una contro-imitazione della messa cattolica. – Nella sua opera sull’espressione delle emozioni4 Darwin attribuisce, a ragione, un posto importante al bisogno di contro-espressione.
11Quando un dogma viene proclamato, quando un programma politico viene reso pubblico, gli uomini si suddividono in due diverse categorie: quelli che si entusiasmano a favore, e quelli che si entusiasmano contro. Non c’è manifestazione che abbia reclutato dei manifestanti che non provochi la formazione di un gruppo di contro-manifestanti. Ogni affermazione forte, nello stesso momento in cui trascina gli spiriti medi e gregari [moutonniers], suscita da qualche parte, in un cervello nato ribelle, che non significa nato inventivo, una negazione diametralmente opposta e di forza pressappoco uguale. Questo ricorda le correnti di induzione in fisica. Ma entrambi possiedono lo stesso contenuto di idee e di disegni, sono associati benché avversari o proprio in quanto avversari. Distinguiamo bene tra la propagazione imitativa dei problemi e quella delle soluzioni. Che una certa soluzione si propaghi qui e un’altra là, ciò non esclude il problema dell’essersi propagata qui come là. Non è abbastanza chiaro che in ogni epoca, tra i popoli che si trovano in continuo contatto tra loro, e soprattutto nella nostra epoca, perché mai le relazioni internazionali sono state più intense, l’ordine del giorno dei dibattiti sociali e dei dibattiti politici è ovunque lo stesso? E questa somiglianza non è forse dovuta a una corrente di imitazione, anch’essa giustificabile attraverso bisogni e idee diffuse per mezzo di contagi imitativi anteriori? Non è forse questo il motivo per cui le questioni operaie attualmente sono rivendicate in tutta Europa? – A proposito di un’idea qualunque messa in evidenza dalla stampa, ogni giorno, lo ripeto, il pubblico si suddivide in due campi: quelli che «sono di questo avviso» e quelli che «non sono di questo avviso». Ma questi ultimi, non meno dei primi, non ammettono che ci si possa preoccupare, in questo preciso momento, di qualcosa di diverso dalla questione che è stata loro posta e imposta in tal modo. Soltanto alcuni spiriti selvaggi, stranieri, sotto la loro campana da palombaro, nel tumulto dell’oceano sociale nel quale sono immersi, ruminano qui e là dei problemi bizzarri, assolutamente privi di attualità. E questi sono gli inventori di domani.
12Occorre quindi stare ben attenti a non confondere con l’invenzione la contro-imitazione, sua pericolosa contraffazione. Non è che quest’ultima non possieda una sua utilità. Se essa alimenta lo spirito di partito, lo spirito di divisione bellicosa o pacifica tra gli uomini, essa li inizia al piacere tutto sociale della discussione, attesta l’origine simpatetica [sympathique] della contraddizione stessa, per il fatto che le stesse controcorrenti nascono dalla corrente. – Non bisogna nemmeno confondere la contro-imitazione con la non imitazione sistematica, di cui avrei dovuto ugualmente parlare in questo libro. La non imitazione non costituisce sempre un semplice fatto negativo. Il fatto di non imitarsi, quando non si è in contatto – in contatto sociale, attraverso la possibilità pratica delle comunicazioni – è semplicemente un rapporto non sociale; ma il fatto di non imitare quel certo vicino che ci tocca ci pone nei suoi confronti in un tipo di relazione realmente antisociale. L’ostinazione di un popolo, di una classe, di una città o di un villaggio, di una tribù di selvaggi isolati su un continente civilizzato, nel non copiare i vestiti, i costumi, il linguaggio, le industrie, le arti, che costituiscono la civiltà del loro vicino, rappresenta una perpetua dichiarazione di antipatia all’indirizzo di questa forma di società, che viene dichiarata assolutamente ed eternamente straniera; e, parimenti, quando un popolo comincia, con un sistematico partito preso, a non riprodurre più gli esempi dei suoi antenati, in fatto di riti, di usanze, di idee, ci troviamo di fronte a un’autentica dissociazione tra i padri e i figli, rottura del cordone ombelicale tra la vecchia e la nuova società. La non imitazione volontaria e perseverante, in questo senso, ha un ruolo purificatore, analogo a quello assolto da quello che ho chiamato il duello logico. Come questo tende a purificare l’ammasso sociale delle idee e delle volontà mescolate, a eliminare le disparità e le dissonanze, e a facilitare in tal modo l’azione organizzatrice dell’accoppiamento logico; così la non imitazione dei modelli esterni e diversi consente al gruppo armonioso dei modelli interni di estendere, di prolungare, di consolidare in consuetudine l’imitazione di cui vengono fatti oggetto; e, per la stessa ragione, la non imitazione degli antichi modelli, quando è giunto il momento di una rivoluzione civilizzatrice, spiana la strada all’imitazione-moda, che non trova più ostacoli alla sua azione conquistatrice.
13Questa ostinazione invincibile – momentaneamente invincibile – nella non imitazione, ha forse come causa unica o principale, come la scuola naturalista era portata a pensare ancora qualche anno fa, la differenza razziale? Neanche per sogno. In primo luogo, quando si tratta della non imitazione degli esempi paterni, nelle epoche rivoluzionarie, è chiaro che la causa indicata non potrebbe venire valorizzata in nessun modo, visto che la nuova generazione appartiene alla stessa razza delle generazioni precedenti, di cui rifiuta le tradizioni. Inoltre, se si tratta della non imitazione dello straniero, l’osservazione storica mostra che questa resistenza alle influenze esterne è molto lontana dal proporzionarsi alle dissimiglianze tra i caratteri fisici che dividono i popoli. Tra tutte le nazioni conquistate da Roma, non ce n’erano di più simili a essa delle popolazioni di origine greca; e proprio queste sono state le sole a essere sfuggite alla propagazione della sua lingua, all’assimilazione della sua cultura e del suo genio. Perché? Perché soltanto loro, a scapito della disfatta, avevano potuto e dovuto conservare il loro tenace orgoglio, l’indelebile sentimento della loro superiorità. A favore dell’idea che razze diverse fossero impermeabili, per così dire, a prestiti reciproci, uno dei più forti argomenti che si potevano ancora citare trent’anni fa era la chiusura ermetica opposta dai popoli dell’estremo Oriente, Giappone o Cina, all’intera cultura europea. Ma fin dal giorno assai recente in cui i Giapponesi, così lontani da noi per la carnagione, per i tratti somatici, per la costituzione corporea, hanno sentito per la prima volta che eravamo loro superiori, hanno smesso di arrestare l’irradiamento imitativo della nostra civiltà con lo schermo opaco di una volta; essi l’hanno invocato, al contrario, con tutta la loro speranza. E accadrà lo stesso per la Cina, se mai si decidesse a riconoscere che sotto certi aspetti – non sotto tutti gli aspetti, spero per lei – noi le siamo superiori. Si obbietterebbe invano che la trasformazione del Giappone in senso europeo è più apparente che reale, più superficiale che profonda, che è dovuta all’iniziativa di alcuni uomini intelligenti, seguiti da una parte delle classi superiori, ma che la gran massa della nazione rimane refrattaria a questa penetrazione dello straniero. Obbiettare questo significherebbe ignorare che ogni rivoluzione intellettuale e morale, destinata a rimescolare un popolo in profondità, comincia sempre in questo modo. Sempre un’élite ha importato degli esempi stranieri, propagati a poco a poco per moda, consolidati in consuetudine, sviluppati e sistematizzati dalla logica sociale. Quando il cristianesimo si è introdotto per la prima volta in un popolo germanico, slavo o finnico, ha esordito allo stesso modo. Nulla di più conforme alle «leggi dell’imitazione».
14Ciò significa forse che l’influsso della razza sul corso della civiltà venga negato dal mio modo di vedere? In alcun modo. Ho affermato che passando da un ambiente etnico a un altro l’irradiamento imitativo si rifrae: e aggiungo che questa rifrazione può essere enorme, senza che ne risulti una conseguenza appena appena contraria alle idee sviluppate in questo libro. Soltanto che la razza, ci sembra, è un prodotto nazionale, in cui si sono fuse, nel crogiolo di una particolare civiltà, diverse razze preistoriche, incrociate, macinate, assimilate. Perché ogni civiltà determinata, formata da idee geniali provenienti un po’ da ogni parte e armonizzate logicamente, si fa a lungo andare la sua razza o le sue razze, in cui essa si incarna per un certo periodo; e non è vero, inversamente, che ogni razza si faccia la propria civiltà. Ciò significa, in fondo, che le diverse razze umane, molto diverse in questo dalle diverse specie viventi, sono sia collaboratrici che concorrenti; che esse sono chiamate, non soltanto a combattersi e a distruggersi tra loro a maggior profitto di un piccolo numero di sopravvissuti, ma anche ad aiutarsi nell’esecuzione secolare di un’opera sociale comune, di una grande società finale, la cui unità sarà il frutto della loro stessa diversità.
15Le leggi dell’ereditarietà, così ben studiate dai naturalisti, non contraddicono dunque in nulla le nostre «leggi dell’imitazione». Esse piuttosto le completano, e non c’è sociologia concreta che possa separare questi due ordini di considerazioni. Se qui li separo è, lo ripeto, perché l’oggetto specifico di questo lavoro è la sociologia pura e astratta. D’altronde, non disdegno di indicare il loro posto alle considerazioni biologiche che trascuro per partito preso, poiché le riservo a persone più competenti. E questo posto è triplice. Innanzitutto, facendo nascere espressamente la nazione dalla famiglia – in quanto l’orda, anche primitiva, è costituita dagli emigrati o dai banditi dalla famiglia – ho affermato chiaramente che, se il fatto sociale è un rapporto di imitazione, il legame sociale, il gruppo sociale, è contemporaneamente imitativo ed ereditario. In secondo luogo, l’invenzione, dalla quale faccio socialmente derivare tutto, non è ai miei occhi un fatto puramente sociale nella sua origine: essa nasce dall’incontro del genio individuale, eruzione intermittente e caratteristica della razza, frutto saporito di una serie di matrimoni fortunati, con delle correnti e degli irradiamenti imitativi che si sono incrociati un giorno in un cervello più o meno eccezionale. Ammettete, se lo volete, con Gobineau, che le razze bianche sono le uniche inventive, oppure, con un antropologo contemporaneo, che questo privilegio appartiene esclusivamente alle razze dolicocefale, ciò importa poco dal mio punto di vista. E potrei pretendere anche che questa separazione radicale, vitale, stabilita in questo modo tra l’inventività di alcune razze privilegiate e l’imitatività di tutte le altre è adatta a far risaltare – un po’ abusivamente, sarebbe il caso di dirlo – la verità del mio modo di vedere. – Infine, per quanto riguarda l’imitazione, non soltanto ho riconosciuto l’influenza dell’ambiente vitale nel quale essa si propaga rifrangendosi, come ho affermato in precedenza, ma anche, ponendo la legge del ritorno normale dalla moda alla consuetudine, cioè del consolidamento consuetudinario e tradizionale delle innovazioni, non ho forse posto ancora una volta l’ereditarietà come sostegno necessario all’imitazione? Ma si può accordare all’aspetto biologico dei fatti sociali la più alta importanza senza arrivare a stabilire tra le diverse razze, supposte primitive e presociali, una paratia stagna che renda impossibile ogni endosmosi o esosmosi di imitazione. Ed è la sola cosa che nego. Intesa in questo senso abusivo ed erroneo, l’idea di razza conduce il sociologo che la assume come guida a rappresentarsi il termine del progresso sociale come una suddivisione di popoli murati, arroccati, chiusi gli uni agli altri ed eternamente in guerra tra loro. Così, generalmente, si incontra questo tipo di naturalismo associato all’apologia del militarismo. Al contrario, le idee di invenzione, di imitazione, e di logica sociale, prese come filo conduttore, ci conducono alla prospettiva più rassicurante di un grande futuro confluente – se non, ahimè!, prossimo – di diverse umanità all’interno di una sola famiglia umana, senza conflitto bellico. Questa idea del progresso indefinito, così vaga e così tenace, assume un senso chiaro e preciso soltanto da questo punto di vista. Dalle leggi dell’imitazione, in effetti, consegue la necessità di un cammino in avanti verso un grande obiettivo lontano, raggiunto di bene in meglio, seppure attraverso dei regressi apparenti ma passeggeri, ossia – in forma imperiale o federale, non importa – la nascita, la crescita, lo sviluppo universale di un’unica società. E, di fatto, mi si permetterà di osservare che, tra le predizioni di Condorcet relative ai progressi futuri, le uniche che si siano rivelate giuste – per esempio quelle concernenti l’estensione e il livellamento graduali della civiltà europea – sono conseguenze delle leggi di cui si sta trattando. Ma se egli avesse prestato attenzione a queste leggi, avrebbe dato al suo pensiero un’espressione allo stesso tempo più esatta e più precisa. Quando predice, in particolare, che la disuguaglianza tra le diverse nazioni andrà diminuendo, è dissimiglianza sociale che avrebbe dovuto dire e non disuguaglianza: poiché, tra gli stati più piccoli e gli stati più grandi, la sproporzione delle forze, dell’estensione, della stessa ricchezza, sta invece aumentando, il che non impedisce i progressi incessanti dell’assimilazione internazionale. È proprio sicuro che, sotto tutti gli aspetti, la disuguaglianza tra gli individui debba diminuire continuamente, come ha pure predetto l’illustre filosofo? La loro disuguaglianza in fatto di lumi e di talenti? Per nulla. In fatto di benessere e di ricchezze? È dubbio. È vero invece che la loro disuguaglianza in fatto di diritti è scomparsa del tutto o finirà tra poco di scomparire; ma perché? Perché la somiglianza crescente degli individui tra i quali sono state rotte tutte le barriere consuetudinarie dell’imitazione reciproca, e che si imitano sempre più liberamente, e anche sempre più necessariamente, fa sentir loro l’ingiustizia dei privilegi con una forza crescente, e alla fine irresistibile.
16Tuttavia intendiamoci bene su questa assimilazione progressiva degli individui. Lungi dal soffocare la loro originalità specifica, essa la favorisce e la alimenta. Ciò che è contrario all’accentuazione personale, è l’imitazione di un uomo solo, sul quale ci si modella in tutto; ma quando, invece di regolarsi soltanto su qualcuno o su pochi, si prendono a prestito da cento, da mille, da diecimila persone considerate ciascuna sotto un aspetto particolare, degli elementi di idea o di azione che si combinano in seguito, la stessa natura e la scelta di queste copie elementari, così come la loro combinazione, esprimono e accentuano la nostra personalità originale. E questo è forse il beneficio più evidente dell’esercizio prolungato dell’imitazione. Ci si potrebbe chiedere fino a che punto la società, questo lungo sogno collettivo, così spesso incubo collettivo, vale ciò che costa in termini di lacrime e sangue, se questa disciplina dolorosa, questo prestigio illusorio e dispotico, non servisse precisamente ad affrancare l’individuo, suscitando un po’ alla volta dal più profondo del suo cuore il suo slancio più libero, il suo sguardo più ardito gettato sulla natura esterna e su se stesso, e facendo sbocciare ovunque, non più le tonalità spirituali vistose e brutali di un tempo, le individualità selvagge, ma delle tonalità profonde e sfumate, chiare e civili, fioritura allo stesso tempo dell’individualismo più puro, più potente, e della socievolezza più alta.
Maggio 1895
Notes de bas de page
1 [G. Tarde, La logique sociale, Paris, Alcan, 1895; trad. it. parz. di V. Pasquali, G. Tarde, Scritti sociologici, Torino, Utet, 1976, pp. 413-554. Contiene soltanto i capitoli iv e viii].
2 Oppure dello stesso cervello, se si tratta dell’imitazione di se stessi; perché la memoria e l’abitudine, che ne sono i due rami, devono essere ricollegate, per essere comprese pienamente, all’imitazione degli altri, la sola di cui ci occupiamo in questa sede. Lo psicologico si spiega attraverso il sociale, proprio perché il sociale nasce dallo psicologico.
3 Il dogma, cioè ogni idea, religiosa o no, politica per esempio, oppure ogni altra, che si imprime nella mente di ogni associato attraverso la pressione dell’ambiente.
4 [C. Darwin, L’expréssion des émotions chez l’homme et les animaux (ed. orig. 1872), trad. fr. di S. Pozzi e R. Benoît, Paris, Reinwald, 1874; trad. it. di L. Breschi, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Roma, Newton, 2006].
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