capitolo 4 – La natura delle scelte umane
p. 121-154
Texte intégral
Per finirla con l’ambiguità, bisogna semplicemente finire di vivere.
Albert Camus (La caduta, 1956)
Fenomeni ambigui, scelte ambivalenti
11. Nei capitoli precedenti abbiamo argomentato che l’homo sapiens è immerso in un sistema di significati che ne orienta credenze, identità sociali, preferenze e azioni. Abbiamo altresì sostenuto che ogni sistema di significati è, per il soggetto, ineliminabilmente ambiguo, poiché offre molteplici interpretazioni del medesimo fenomeno. La concezione delle scelte umane che stiamo per discutere, discendendo da queste premesse, afferma che, davanti a fenomeni ambigui, le scelte sono ambivalenti. Introduciamo la tesi con un esempio: «la familiarità è la radice così delle amicizie più intime, come degli odi più intensi»1. Un unico fenomeno, la familiarità, si piega a significati differenti, perfino opposti, che portano il soggetto ad amare o piuttosto a odiare persone a lui ugualmente vicine. Davanti a una simile ambiguità interpretativa, la scelta del soggetto ha natura ambivalente: l’amore e l’odio non sono alternative del tutto separate, che si respingono nettamente, avendo anzi la stessa radice; la scelta dell’amore non equivale a eliminare l’odio, e non di rado accade che il soggetto, lo voglia o no, nell’amare qualcuno nutra verso di lui anche odio, e viceversa. Le scelte ambivalenti sono quelle che tengono assieme, in continua e ineliminabile tensione, polarità opposte. In questo capitolo le collochiamo al centro dell’analisi, mostrandone l’importanza e le implicazioni. Iniziamo prendendo le distanze dalle concezioni più diffuse della scelta umana.
Dalla scelta razionale alle big decisions
22. Fin dal classico contributo di Paul Samuelson, si è affermata l’idea che le varie branche della scienza economica siano unificate dal risolvere problemi di massimo o di minimo vincolato per una funzione obiettiva2. L’economics concepisce il soggetto come un decision-maker razionale che, per massimizzare il proprio benessere, o per minimizzare il proprio costo, segue con coerenza un criterio per cui nessuna azione è da lui intrapresa a meno che il beneficio marginale di essa non sia almeno pari al suo costo marginale. La sua scelta razionale è, in teoria, composta di una serie di passaggi: stabilisce gli esiti possibili e i costi e benefici associati a ognuno; assegna una probabilità a ogni esito per calcolare il suo valore; seleziona infine l’opzione che dà il più alto valore atteso. In questo mondo, per dirla in breve, c’è sempre la migliore alternativa e il soggetto è in grado di individuarla e sceglierla. Questa concezione si è ramificata, lungo un percorso avviato specialmente da Gary Becker, fino ad analizzare moltissimi fenomeni umani, non solamente interni alla sfera dei mercati e delle attività produttive3. Oggi, nel tipico modello comprensivo che compare sulle maggiori riviste di analisi economica, l’homo oeconomicus persegue tanto la ricchezza materiale che transita dai mercati, quanto costi e benefici morali non monetari4. Nella funzione obiettivo dell’agente razionale si inseriscono variabili come la fairness e l’altruismo, il senso identitario e lo status sociale, e così avanti, aggiungendo di caso in caso ciò che occorre per mostrare che ogni scelta ne massimizza l’utilità, sotto i vincoli dati. Come spesso è stato osservato, siamo davanti a un approccio tautologico: poiché la scienza economica studia l’azione razionale, intesa come quella che si colloca nel punto ottimale della relazione che la lega al suo scopo, allora è vero per definizione che il soggetto seleziona al meglio il nesso tra mezzi e fini5. Se, per fare un esempio-limite, egli fosse un masochista, nel procurarsi dolore starebbe sempre e comunque scegliendo la strategia che individua la migliore tra le possibilità a sua disposizione; e ciò anche qualora si spingesse talmente oltre da procurarsi danni permanenti o la morte.
33. All’accusa di tautologia si può affiancare un’altra critica, non meno radicale. Nel compiere la sua scelta razionale, il soggetto è alle prese con gravi problemi di non-commensurabilità: manca una comune misura delle unità di valore, che gli permetta di stabilire di quanto un’alternativa è superiore o inferiore a un’altra. Immaginiamo, quale primo esempio, ch’egli classifichi un assetto sociale con una terna di numeri (a, b, c), in cui a è il grado di benessere economico; b d’influenza politica; c di status sociale. Un assetto che produce livelli (2, 1, 3) è migliore, e di quanto, rispetto a quello che produce (1, 2, 3)? Non esiste una risposta rigorosa, poiché manca la possibilità di calcolare in modo univoco le compensazioni tra una dimensione e le altre6. Supponiamo, come secondo esempio, che Anna e Bruno abbiano tassi diversi di trasformazione di risorse in utilità. Un governo che si proponga di perequare le loro opportunità, potrà equalizzare le loro quote di risorse, rendendo così ineguali i loro gradi di utilità (sia totale sia marginale). Oppure potrà rendere i loro gradi di utilità eguali, rendendo ineguali le loro risorse. Ma non potrà mai rendere eguali sia i loro gradi di utilità, sia le loro quote di risorse: dovrà per forza eguagliare una cosa assieme alla disuguaglianza dell’altra7. Inoltre, dovrà eseguire una scelta a-razionale, non potendo calcolare di quanto l’utilità che Anna trae da un’opportunità differisce da quella che ne trae Bruno, e non potendo quindi privilegiare il soggetto che ricava il maggior vantaggio dalla policy. Infine, quale terzo esempio, ipotizziamo che il soggetto
miri a migliorare la sua posizione sociale, data una certa scala di valori dominante in una società. Avrà tre vie davanti a sé: o di agire operando individualmente (più lavoro, più intraprendenza sul mercato, e così via); o di sviluppare un’azione politica con altri che condividono i suoi fini, mirando a ottenere misure di governo che migliorino la posizione sua e della sua categoria; o agire perché muti la scala di valori che determina la sua posizione sociale relativamente alle altre (per esempio, mutare la valutazione del lavoro manuale, mutare pregiudizi etnici, e così via). Per scegliere dovrà essere in grado di confrontare i costi in cui incorrerà nei tre casi. Come fa se non ha un criterio di valore comune ai tre tipi di azione?8.
44. Tuttavia, la commensurabilità non è una condizione necessaria per la scelta razionale: il decision-maker può limitarsi a ordinare, secondo un criterio di giudizio coerente ed esaustivo, tutte le alternative che considera, ossia a stabilire che un’opzione è migliore, uguale o peggiore di un’altra, senza definire una scala di misura. Gli economisti sono soliti affermare che, sul piano teorico, l’individuo è un ordinamento di preferenze: tutto ciò che il teorico ha bisogno di sapere su una persona sta nelle preferenze di quella persona. In questa concezione, una persona cui manchi un insieme coerente di preferenze, appare priva di un senso integrato del proprio self 9. Va rilevato che quest’impostazione non dipende da una filosofia utilitaristica. Non occorre, infatti, che il soggetto massimizzi l’utilità, bastandogli ricavare il risultato «migliore» da un insieme di alternative. A sua volta, il soggetto valuta migliore un risultato secondo un qualsiasi criterio di giudizio che sia in grado di orientare le sue scelte ordinando le alternative. Pertanto il criterio di giudizio utilitario, che storicamente è stato spesso fatto coincidere con la scienza economica, può essere rimpiazzato da un criterio di giudizio etico, estetico, politico, e così via, senza che nulla cambi nell’oggetto e nel metodo dell’analisi. Il soggetto, quale portatore delle preferenze, giudica più utile, o più conveniente, o più bella, o più virtuosa, o più giusta, o più calda, o più intelligente, e così via, l’alternativa y rispetto all’alternativa x, nell’insieme di oggetti di scelta X; di conseguenza preferisce y ad x. Le preferenze altro non sono che un insieme di giudizi comparativi secondo un dato criterio. Il limite teorico di questa prospettiva emerge quando riconosciamo che, per il decision-maker, molte alternative sociali sono tra loro non-comparabili. Ammettendo questo, cade l’identificazione del soggetto con l’ordinamento dei giudizi di preferenza e sono poste in discussione le fondamenta stesse della scienza economica.
La non-comparabilità delle alternative
55. Soffermiamoci su questo punto, che è decisivo per il seguito del ragionamento. Nella scienza economica mainstream, il soggetto è posto davanti a coppie di alternative: la raccolta dei suoi giudizi comparativi sulle coppie costituisce la sua relazione di preferenza10. Se il soggetto, nell’insieme di oggetti di scelta X, valuta più y di x, allora il primo oggetto è strettamente preferito al secondo. Invece, le alternative x e y sono non-comparabili quando nessuna è migliore dell’altra, senza però essere equivalenti. Ciò implica che una terza alternativa z può essere migliore di x, senza essere migliore di y, o viceversa11. Supponiamo per esempio che il soggetto esiti tra una carriera da musicista e una da funzionario di banca. Immaginiamo che la banca aggiunga un po’ di soldi alla retribuzione che gli offre. Se le opzioni fossero equivalenti/indifferenti, allora l’incentivo monetario basterebbe a farlo diventare un funzionario; ma non è detto che ciò accada, poiché le due opzioni iniziali sono non-comparabili, ossia né l’una è migliore dell’altra, né esse sono di pari valore. Il punto teorico importante è che siamo in una situazione, del tutto comune, in cui i soldi (procurati dall’aumentare del salario o prezzo di mercato del lavoro in banca) non bastano a far cambiare comportamento. Finché assumiamo la comparabilità, la relazione di preferenza realizza una successione coerente e completa, nella quale il soggetto è in grado di giudicare una qualsiasi alternativa inclusa in X, una volta valutate due altre alternative di X, ovvero è in grado di ordinare gli elementi di X stabilendo quale viene prima e quale dopo. Quando invece ammettiamo la non-comparabilità, la relazione di preferenza include alternative che sfuggono alla tricotomia per cui l’una è preferita all’altra, o viceversa, oppure sono tra loro indifferenti. L’origine del fenomeno della non-comparabilità riceve varie spiegazioni12. Per la nostra argomentazione è sufficiente osservare che, mentre il soggetto è di solito nella condizione di ordinare una coppia di alternative abbastanza simili, può restare indeciso (ovvero, sospendere il giudizio) davanti a una terza alternativa qualitativamente “troppo distante” o “troppo vicina”. Consideriamo l’eccessiva dissomiglianza, riprendendo il caso discusso poco sopra: vi siano una carriera da musicista y e due carriere da funzionario di banca, x e z. Supponiamo che il soggetto sia indeciso, tra la carriera y e quella x, quale preferisce; e che lo stesso avvenga tra la carriera y e quella z. Se le tre alternative fossero comparabili, allora dovrebbe mancare qualsiasi preferenza anche tra le due carriere da bancario x e z13. Sembra invece ragionevole pensare che il soggetto possa prediligere una carriera in banca con qualche benefit aggiuntivo all’altra. Pertanto, mentre tra la professione di musicista e quella di bancario corrono troppe differenze e il giudizio s’impantana, è plausibile esprimere una graduatoria tra i due percorsi professionali da bancario. Passiamo all’eccessiva somiglianza. Vi siano tre automobili x, y e z dello stesso modello e colore, che differiscono tra loro unicamente per piccoli dettagli tecnici, che sono minimi nella x e massimi nella z. Supponiamo che il soggetto non si accorga del variare dei dettagli quando valuta le vetture nella sequenza x, y e z. Se però confronta direttamente l’automobile x con quella z, nota la differenza e sceglie la z. Ciò indica che la vettura y è non-comparabile, poiché anche stavolta fallisce la transitività che dovrebbe rendere indifferente la x rispetto alla y, la y rispetto alla z, e quindi la x rispetto alla z. I casi menzionati, con il loro immediato «buon senso», segnalano che la possibilità di ordinare tutte le alternative rimane in piedi finché il decision-maker ritiene di scorgere adeguate similitudini tra esse. Se l’insieme X è il suo universo dei processi sociali, egli compara gli elementi x, y e z appartenenti a X soltanto se essi gli appaiono o non eccessivamente dissimili, oppure non eccessivamente simili, tra loro. Pertanto la non-completezza emerge quando il soggetto, valutando le alternative in conformità a molteplici interpretazioni, ovvero a differenti e contrastanti punti di vista, si accorge che è tanto più difficile pervenire a un giudizio coerente e compiuto, quanto più le alternative gli appaiono troppo distanti o troppo vicine. È questa una condizione antropologica fondamentale della scelta: le valutazioni del soggetto (poniamo, giudicare la bellezza di Caia e Gaia) sono qualitative, poiché dipendono da interpretazioni (cos’è, qui e ora, la bellezza femminile?); ma, come sappiamo dal capitolo primo, di ogni evento il soggetto può proporre una pluralità d’interpretazioni; ciò comporta un’ambiguità ineliminabile dei significati, che mina la possibilità di elaborare valutazioni che siano confronti di quantità14.
66. Se in molte circostanze le alternative sono non-comparabili, il soggetto non può massimizzare simultaneamente le molteplici sfaccettature interpretative dell’oggetto della scelta. Infatti, finché le sue preferenze sono complete, un problema di ottimizzazione (vincolata) è costituito da variabili decisionali (di cui deve determinare il valore ottimo), una funzione obiettivo (che indica la relazione funzionale tra le variabili decisionali e certe variabili il cui valore debba essere da lui massimizzato o minimizzato) e un insieme ammissibile (che è l’insieme delle alternative per lui disponibili). Il soggetto è un homo oeconomicus che massimizza (il profitto, il livello di soddisfazione derivante dal consumo, il benessere sociale) o minimizza (i costi necessari per produrre un certo ammontare di output) la sua funzione obiettivo, dati certi vincoli; per lui un massimo relativo è anche un massimo assoluto se la funzione obiettivo è quasi concava e l’insieme ammissibile è convesso. Il suo comportamento è prevedibile: date le preferenze, data la natura dei vincoli e assumendo opportune restrizioni formali, la sua scelta è unica. Questa concezione deterministica cade, tuttavia, alla presenza della non-comparabilità. Poiché il soggetto sceglie in maniera volontaria, egli evita i peggioramenti, ossia evita le alternative che sono dominate, secondo il suo stesso giudizio, da altre alternative. Mentre però, con la comparabilità, le alternative non-dominate coincidevano con le dominanti, e queste selezionavano tra loro la migliore (lo stato massimo), adesso il soggetto aspira soltanto a entrare nell’insieme delle alternative massimali, che dominano tutte le altre senza dominarsi tra loro. In altre parole, mentre per massimizzare il soggetto adottava la regola di salire nell’ordinamento il più in alto possibile, nella ricerca dei massimali la sua regola è di salire quando è possibile: le sue scelte dipendono così dallo stato iniziale (più esattamente, dall’interpretazione iniziale dello stato), come dal processo seguito per effettuarle (ossia, dalle varie interpretazioni delle opportunità che lo stato esprime)15. Ma non basta. L’insieme dei massimali non-comparabili ha una natura paradossale: si tratta di un insieme di scelta nel quale i giudizi di migliore o di equivalente sono sospesi. Infatti in esso mancano sia i giudizi di preferenza (altrimenti non sarebbero massimali!), sia i giudizi di indifferenza (poiché «questo e quello per me pari sono» presuppone un giudizio di eguale valore, che invece è assente per ipotesi). Il paradosso sta dunque nella circostanza che, quando cade la comparabilità, il soggetto si trova a scegliere tra alternative che non sa ordinare, ossia sceglie… senza avere un criterio per farlo! È qui che la teoria della scelta razionale incontra il proprio limite più severo e deve cedere il passo ad altre spiegazioni dell’azione umana.
Come scegliamo quando non abbiamo motivi per farlo?
77. Pertanto, quando le alternative gli appaiono non-commensurabili o non-comparabili, il soggetto non risponde più al rational choice model. Come osserva John Maynard Keynes, le sue azioni possono assecondare criteri arbitrari:
parlando in generale, quando prendiamo una decisione abbiamo davanti a noi un gran numero di alternative, nessuna delle quali può essere dimostrata più «razionale» delle altre, nel senso che si è in condizione di ordinare secondo il merito la somma aggregata dei benefici ottenibili dall’insieme delle conseguenze di ciascuna. Per evitare di trovarsi nella condizione dell’asino di Buridano ricadiamo quindi, e necessariamente, su motivi d’altro genere, che non sono “razionali” nel senso di essere relativi alla valutazione delle conseguenze, ma che sono decisi dall’abitudine, dall’istinto, dal capriccio, dalla fantasia, dalla volontà e così via16.
Questi motivi, pur rilevantissimi, non appaiono suscettibili di un’analisi specifica rigorosa: il caso, lo sfizio o la consuetudine sono infatti fattori che giustificano un’azione senza spiegarla. Un’altra strategia consiste nel ristabilire la comparabilità mediante una logica oggettiva della struttura. Marx per esempio
aveva avvertito che il potere trasformativo del denaro sovverte la realtà, «smembrando e ricomponendo tutte le qualità naturali e umane. Il denaro serve a scambiare ogni proprietà con ogni altra, anche contraddittoria, proprietà e cosa: esso fraternizza l’impossibilità». Come reificatore definitivo – un «dio tra le merci» –, il denaro non soltanto cancella tutte le connessioni soggettive tra gli oggetti e le persone, ma anche riduce le relazioni personali al «nesso monetario». Quale puro valore di scambio, il denaro assume necessariamente una forma «priva di significato», che a sua volta neutralizza tutte le possibili distinzioni qualitative tra i vari beni. Pertanto, per Marx il denaro è un irresistibile e «radicale livellatore» che invade tutti i settori della vita sociale17.
Qui non è più il soggetto a desiderare che alternative eterogenee siano valutabili con il metro di misura monetario; piuttosto, la non-commensurabilità delle scelte viene effettivamente ridotta tramite un dispositivo istituzionale coercitivo, introdotto dal denaro capitalistico. Un altro esempio illustre riguarda le relazioni elementari della parentela che, secondo Lévi-Strauss, si dispongono in una struttura invariante, rispetto alla quale i vari sistemi di parentela particolari-concreti non sono che delle «trasformazioni» in senso algebrico. La ragione che organizza questa struttura trascende non soltanto la coscienza e l’esistenza individuale, ma anche la società e la storia, rinviando a una sorta d’inconscio collettivo o esprit18. Posizioni come quelle di Marx e Lévi-Strauss non affrontano il problema delle risposte soggettive alla non-commensurabilità o alla non-comparabilità delle alternative sociali, bensì lo dissolvono invocando una realtà omogenea più profonda. L’ultima strategia per ripristinare la commensurabilità o la comparabilità sta nel mostrare come siano i rapporti di potere a stabilire un canone cui misurare o equiparare tutte le alternative. Un caso paradigmatico è la teoria della «governamentalità»: Michel Foucault e gli studiosi che a lui s’ispirano, come Espeland, Stevens o Fourcade, esaminano le strategie e pratiche di dominio attraverso cui politici, ideologi, tecnici, giuristi, economisti professionali, et similia, intervengono attivamente per rendere effettuale un modo di commensurare e valutare i beni sociali19. Il loro approccio ha il merito di esprimere una concezione del potere non solo punitiva, coercitiva e violenta, bensì capace di egemonizzare la soggettività. Tuttavia, tende a scomparire l’idea che i soggetti possano (anche) intervenire in maniera intenzionale sulla non-commensurabilità o sulla non-comparabilità delle opzioni, elaborando modalità di scelta che meritino ancora l’etichetta di «ragionevoli».
88. È quest’ultima la posizione elaborata dalla sociologia analitica, per la quale le azioni e credenze umane sono «ragionevoli» in quanto discendono da ragioni. A differenza del rational choice model, per quest’approccio – che non poggia su basi assiomatiche, bensì di ragionamento pratico – non occorre che le preferenze del soggetto siano ordinate secondo requisiti «forti» di razionalità, come la comparabilità di tutte le alternative. Piuttosto, per delucidare una determinata azione o credenza, basta ricondurla a un sistema di significati che il soggetto sente come valido, anche qualora tale sistema esprima incoerenze logiche e metodi di comparazione pragmatici e cangianti20. L’azione intenzionale umana sta all’intersezione di tre dimensioni: desideri o preferenze, credenze o convinzioni e opportunità o occasioni21. Il «desiderio» è definito come un’aspirazione o un volere, la «credenza» come una proposizione sul mondo ritenuta vera o almeno attendibile, mentre l’«opportunità» è la lista delle azioni accessibili al soggetto. La spiegazione di un’azione sta all’intersezione tra eventi mentali (le credenze e i desideri) e opportunità. Per esempio: credo in dio, desidero la sua grazia e agisco, date le linee di condotta a mia disposizione, secondo i suoi precetti per ottenerla. Questa concezione, essendo centrata sul senso dell’azione, sembra vicina a quella che abbiamo difeso nel capitolo primo. Ciò è però esatto solo in parte, poiché essa non evita i problemi, sui quali ci siamo soffermati nei §§ 10-11 di quel capitolo, derivanti dal concepire il soggetto come portatore di desideri da soddisfare. Essa rivela inoltre una difficoltà riguardante il nesso tra credenze e opportunità. Le opportunità, sostiene Peter Hedström, «esistono indipendentemente dalle credenze che l’attore ha nei loro riguardi», sebbene «devono essere note a chi agisce e, perciò, è possibile sostenere che la loro influenza si manifesti attraverso le credenze dell’attore»22. Dunque le opportunità starebbero out there; al massimo, il variare delle informazioni, condizionando le credenze, plasmerebbe il grado e la facilità di accesso a esse. Questa tesi, tuttavia, svilisce in modo poco convincente il ruolo delle credenze. Riprendendo l’esempio di poco sopra, è la credenza in dio che forma il mio desiderio di grazia, il quale a sua volta orienta la mia azione in una direzione che, altrimenti, essa non avrebbe intrapreso: il calvinista, studiato da Weber, diventa mercante e usuraio perché sono quei comportamenti a rivelargli la grazia divina; se egli non credesse in un dio portatore di grazia, non diventerebbe un businessman. Senza una determinata credenza non si forma un certo desiderio che innesca una specifica azione; ma senza l’esigenza di svolgere quella specifica azione, sarebbe ritagliata una differente lista di opportunità. Al cambiare della credenza, mutano il desiderio, l’azione e l’insieme di opportunità. La credenza è la determinante diretta degli altri termini del processo di scelta. L’importanza di questa critica è stata al centro del capitolo 2.
La scelta come risposta alla perdita di senso
99. Dopo aver esaminato l’approccio della scelta razionale, e quello della scelta ragionevole (ovvero dello schema credenza-desiderio-opportunità), volgiamoci adesso alla concezione dell’essere umano che è stata tratteggiata nel capitolo 1. Il soggetto umano si attiva in risposta alla meaninglessness e sceglie in base all’importanza del significato che attribuisce alle varie alternative. Egli ordina i significati in termini di valori, oppure di giudizi di preferenza. I valori sono strutture cognitive internalizzate, che graduano le scelte evocando principi (per esempio, il giusto vs l’ingiusto), ideali (per esempio, la fiducia vs la sfiducia) o finalità (per esempio, la realizzazione personale vs il bene del gruppo)23. Piuttosto le preferenze sono, come abbiamo visto, un insieme di giudizi comparativi che ordinano le scelte secondo un dato criterio strumentale (utilità, bellezza, temperatura, e così via). Mentre i valori sono spesso recepiti passivamente dal soggetto, e in tali casi non comportano una valutazione consapevole, le preferenze esprimono un giudizio ponderato su quale sia l’alternativa migliore. Ovviamente i giudizi di preferenza non sono, in generale, indipendenti dai valori: se il soggetto preferisce qualcosa in termini di un certo criterio, è (anche) perché quel criterio riflette i suoi valori. Tuttavia, una volta che un ordinamento valoriale è posto quale premessa, le preferenze vengono ordinate dal soggetto secondo requisiti – come la transitività e la comparabilità – autonomi dai valori stessi.
1010. Cambia, in questa prospettiva, la stessa natura del processo di scelta: il soggetto, nel caso in cui il suo modello mentale è minacciato o sconvolto dalla meaninglessness, non prende semplici decisioni, bensì ricorre a meta-scelte, ossia decide sulla decisione. Ciò succede perché, come homo sapiens, è un animale «riflessivo»: se un’azione presenta problemi, egli guarda se stesso che agisce, per cercare il significato dell’azione e individuare un’appropriata strategia che riduca quei problemi. La sua decisione di secondo ordine si forma quindi per affrontare le difficoltà associate alla decisione di primo ordine; con essa egli stabilisce quando decidere, quanto tempo dedicare alle decisioni, quali informazioni considerare nel prendere una decisione e quali regole rispettare per la scelta24. A sua volta, se cambia il modo con cui il soggetto decide, è perché cambia la posta in gioco: mentre l’oggetto della scelta ordinaria, o di primo ordine, si colloca entro un quadro di riferimento dato, quello della meta-scelta viene costruito assieme a una ridefinizione – locale o radicale, ma comunque ridefinizione – del modello mentale. Approfondiamo quest’implicazione.
1111. Le decisioni di secondo ordine riguardano, in termini generali, scelte che segnano alterazioni stabili della nostra interpretazione dell’esperienza (decisions based on change of perspective). Iniziamo considerando un caso in apparenza banale: il soggetto impara a nuotare o ad andare in bicicletta. Egli prova qualcosa che nessuna descrizione astratta potrebbe trasmettergli; a rigore, dopo è qualcuno diverso da ciò che era prima, poiché ha avuto accesso a una nuova sfera di esperienza. Lo stesso fenomeno si verifica quando la persona valuta più menù gastronomici: per compiere una scelta, deve ordinare i menù in base alle sue preferenze. Ma per poter esprimere una preferenza o una indifferenza sulla base del «gusto», dovrebbe aver già «gustato» le diverse alternative25. In questi casi la sperimentazione diretta, con la sua inevitabile dose d’incertezza e di ambiguità, sta nei termini stessi della scelta. Ogni volta che una scelta e una nuova esperienza sono inestricabili, la scelta è «epistemicamente trasformativa» per il soggetto, sebbene il suo impatto possa variare molto da un caso all’altro. A rigore, davanti a un’esperienza trasformativa, il soggetto non può compiere scelte razionali: dopo di essa cambia infatti la base conoscitiva su cui egli calcola costi e benefici.
L’imprenditore che fonda un’impresa start up ha poche cose chiare davanti a sé. Spesso non sa chi siano i suoi concorrenti; non sa se la sua tecnologia funzionerà, né come sarà accolta dal mercato; non sa quali leggi si applicano in materia. È come se giocasse in un casinò dove regole e guadagni vengono specificati solo dopo la chiusura delle scommesse. L’ambiente in cui avviene il lancio di una nuova impresa non è solo incerto: alcuni suoi aspetti possono perfino essere sconosciuti. Ciò significa che i problemi decisionali dell’economia high-tech non sono debitamente definiti. Come tali (e forse questo sarà uno shock per il lettore) essi non hanno una soluzione ottimale. In queste condizioni, la sfida per i dirigenti non è risolvere razionalmente i problemi, ma dare un senso a situazioni indefinite, «conoscerle» o inquadrarle in situazioni gestibili, e poi posizionare la propria offerta di conseguenza26.
Le big decisions
1212. Tra le decisioni di secondo ordine, un sottoinsieme è composto dalle big decisions, ovvero dalle scelte di grande portata27. Esse stanno a un crocevia dell’esistenza e presentano caratteristiche molto precise: esprimono un significato trasformativo per la persona, modificandone il modello mentale; sono irrevocabili; continuano a proiettare l’«ombra di significato» dell’alternativa che hanno rifiutata. Il primo connotato segnala che queste scelte sono in grado di trasformare il sé futuro in modo rilevante, alterando il sistema cognitivo e valutativo del soggetto.
Le nostre ordinarie alterazioni di carattere, il nostro passare da uno scopo a un altro, non sono comunemente chiamate trasformazioni, perché ognuna è rapidamente avvicendata da un’altra nella direzione inversa; ma ogni volta che uno scopo si rafforza stabilmente fino a espellere definitivamente i suoi precedenti avversari dalla vita di un individuo, tendiamo a parlare del fenomeno come di una «trasformazione»28.
Tra gli esempi più impegnativi: diventare genitori, migrare verso un altro paese, combattere in guerra, innamorarsi, cambiare percorso lavorativo, sposarsi, assumere una droga, essere creativi, provare una forte esperienza fisica (fare l’amore la prima volta, o con un nuovo partner particolarmente desiderato) o culturale (imparare a conoscere Händel o Shakespeare, viaggiare in luoghi fascinosi), aderire a un’ideologia, seguire un capo carismatico, scoprire una nuova fede, cambiare gender e altre ancora. Il tratto che accumuna le situazioni menzionate a quelle trattate nel § 11, è che si tratta di esperienze che insegnano al soggetto qualcosa che non avrebbe mai potuto imparare, senza sperimentarle in prima persona. Sono sperimentazioni che non si possono simulare o testare in maniera indiretta; esse contengono «quello che non ti puoi aspettare, quando stai aspettando»29. Il tratto che distingue le big decisions è che esse tendono a cambiare l’intero nostro progetto di vita, alterando in maniera stabile non soltanto una dimensione dell’esperienza, come accade quando impariamo a nuotare, ma anche uno scopo, un significato di fondo dell’esistenza. Esse sono «personalmente trasformative»: comportano un cambiamento del modello mentale della persona, e quindi il mutamento delle sue credenze, preferenze e opportunità, inficiando ancor più la base del calcolo razionale.
1313. La seconda caratteristica delle big decisions è la loro irrevocabilità: una volta che sono state prese, il soggetto cambia per sempre. Ciò si manifesta anche nei casi in cui le scelte di grande portata – seguire un capo carismatico, innamorarsi di qualcuno, aderire a una fede religiosa, e altre ancora – sono reversibili: la loro natura irrevocabile sta nell’aver aperto al soggetto un ambito esperenziale diretto che ne modifica il modello mentale, anche qualora l’esperienza abbia termine30. Ovviamente, la forma più incisiva nella quale l’irrevocabilità si esprime, concerne le azioni che tagliano ogni ponte alle proprie spalle, ossia che non possono essere annullate o neutralizzate nemmeno mobilitando tempo e risorse: se un soggetto concepisce un figlio, o uccide un nemico in guerra, la sua vita cambia per sempre. Tuttavia, egli dispone di due risposte con le quali gestire e attenuare l’incertezza e l’ambiguità delle conseguenze di una big decision quale punto di non-ritorno. La prima risposta è l’autoinganno (self-deception): egli rappresenta la discontinuità come se fosse una sequenza di modesti passi incrementali31. Albert Hirschman parla, al riguardo, di un «principio della mano che nasconde»: posto davanti a un’esperienza trasformativa, il soggetto non sa come diventerà, esita e tende a rinunciare; se però egli fraintende la natura della big decision, interpretandola come non-innovativa, più facilmente osa affrontarla, trasformando le difficoltà in opportunità; in breve, parafrasando Marx, «l’umanità affronta sempre soltanto quei problemi che crede di poter risolvere»32. L’altra via d’uscita è stata discussa nel capitolo 1: il soggetto può tornare indietro nella propria immaginazione, mediante la strategia dell’«astrazione». L’arrivo del bambino, o l’assassinio del nemico, sommuove il quadro di riferimento dell’adulto, ma la possibilità di compensare le conseguenze di quella scelta, trasferendole in un ambito immaginario, fa sì che egli possa agire come se il figlio non sia mai nato, o l’altro essere umano non sia mai morto, ossia senza avere coscienza della propria big decision.
1414. La terza e ultima caratteristica suggerisce che è significativa, accanto all’alternativa selezionata, anche quella respinta. Ciò rende la big decision differente dalle scelte ordinarie, nelle quali la possibilità rifiutata smette di avere valore per il soggetto, dal momento in cui l’ha esclusa dalle azioni che intraprende. Qualora invece, per esempio, la persona valuta il proprio itinerario professionale, il percorso che avrebbe potuto imboccare resta significativo. L’ombra controfattuale della «strada non presa», costituisce il termine di confronto attraverso cui il soggetto interpreta e giudica l’autorealizzazione, ossia la tenuta del proprio modello mentale33. Se ciò, in linea di principio, succede sempre, di fatto possiamo distinguere tra le big decisions (A, B) e quelle (Sì, No). Le prime richiedono di selezionare tra due progetti di vita e, quindi, mantengono il significato anche del frame scartato dal soggetto e delle azioni che esso legittima. Le seconde, piuttosto, raffigurano situazioni in cui il Sì rimanda a un’esperienza trasformativa, mentre il No evoca la continuazione dell’odierna traiettoria. Qualora lo status quo sia considerato, da parte del soggetto, gravemente inadeguato, e venga quindi da lui associato a mera negatività, non soltanto scompare ogni rimpianto, ma la possibilità di scegliere il No è sradicata in partenza. I casi (Sì, No) sono definibili come processi di «conversione»: Paolo illuminato da Cristo sulla via di Damasco, o lo stalinista che nega le purghe e i Gulag mentre contribuisce ad alimentarli, è un soggetto che crede di non avere scelta e che, rifiutando il No, nulla perde. La sua conversione segnala il più radicale dei mutamenti identitari: egli è così convinto di migliorare rispetto al sé precedente, da accettare di legare se stesso o di essere legato da altri, pur di non scivolare nella tentazione del No.
1515. La conversione è dunque una big decision (Sì, No) che, muovendo da una profonda ambivalenza, ne elimina un corno e afferma l’assoluta positività dell’altro; è il momento rivelatore nel quale una polarità della scelta, dopo aver lottato con la polarità opposta, giunge a sopprimerla e prorompe senza freni. Un soggetto convertito smette di esitare davanti alla scelta, accettandone interiormente l’unilateralità34. Il modo più certo e potente con cui il soggetto cancella ogni dubbio e ambiguità della propria valutazione, sta nel rappresentarsi travolto da forze soverchianti. Tuttavia, il termine «trascendenza» ha almeno due accezioni. La «trascendenza radicale» si riferisce a un dio che crea, plasma, governa o ispira l’attività nel mondo terreno in modi che oltrepassano la consapevolezza di coloro che vi partecipano. Piuttosto, con «trascendenza mondana» indichiamo qualsiasi attività fuori del controllo umano, non suscettibile di piena rappresentazione mediante una spiegazione causa-effetto né prima del suo verificarsi, né dopo il suo svolgimento35. Pertanto ogni rigoroso percorso di conversione è trascendente, senza essere necessariamente religioso. In effetti, tra i sei principali motivi della conversione, schematizzati nelle colonne della tabella 5, quello che di gran lunga ha i maggiori riscontri empirici è il motivo mistico, proprio perché colloca al centro la dimensione trascendente: per esso la conversione scaturisce dalla fusione tra sé e il mondo; da un sentimento che abbraccia ogni cosa; da una luminosa trasfigurazione della propria situazione; da un’esperienza spazio-temporale alterata; ossia, in breve, dalla capacità (e, talvolta, dalla volontà) del soggetto di unirsi a flussi di forze che non governa36. In tal senso, il processo della conversione personale appare simile alla strategia dell’abbandonarsi, esaminata nel § 17 del capitolo 1, con la differenza che esso è capace di suscitare non già accomodamento nel mondo, bensì trasformazione del mondo. Le righe della tabella 5 indicano le cinque dimensioni lungo le quali varia il fenomeno, dal grado di pressione sociale fino alla sequenza con cui il soggetto adotta il nuovo framework cognitivo37.
1616. Riassumendo, se il soggetto è colui che reagisce alla meaninglessness, allora le sue scelte sono, essenzialmente, decisioni di secondo ordine. Se gran parte delle decisioni di secondo ordine si distinguono per l’intreccio inestricabile tra una scelta e una nuova esperienza, soltanto un loro sottoinsieme, le big decisions, è in grado di trasformare il sé futuro in maniera rilevante. Nei confronti delle decisioni di secondo ordine, e in particolare delle big decisions, il modello della scelta razionale e quello della scelta ragionevole appaiono inadeguati, perché il soggetto altera sempre il proprio sistema cognitivo e valutativo mentre sceglie e, nei casi più impegnativi, cambia anche il proprio frame of reference e la propria identità (personale e sociale). Ne segue che gli effetti delle big decisions, e in particolare dei processi di conversione, sono di solito descritti nei termini di una radicale riorganizzazione del senso dell’intera vita, ovvero di un consapevole processo d’intensificazione dell’esperienza e di cambiamento del rapporto profondo con la realtà38.
Big decisions e dilemmi
1717. La forma più diffusa di cui si rivestono le big decisions è il dilemma. Nei dilemmi si fronteggiano right-versus-right choices, poiché entrambi i corni riguardano opzioni riconosciute come valide e importanti. Mentre la tipica scelta economica si basa su un trade-off (una concessione reciproca, un compromesso), e quindi di solito cerca la migliore combinazione dei beni, rinunciando a qualche dose dell’uno a favore di qualche dose addizionale dell’altro, la scelta dilemmatica è di solito aut-aut, questo-o-quello, tutto-o-niente39. Antigone non decide «quanto» violare la legge della città, per tutelare i suoi affetti familiari, bensì se farlo o non farlo40.
Se si dovesse definire l’arte tragica con una sola frase, non ci sarebbe da menzionare che un unico fattore: l’opposizione di elementi simmetrici. […] La perfetta simmetria della disputa tragica si incarna, sul piano della forma, nella sticomitia in cui i due protagonisti si rispondono verso per verso. La disputa tragica è una sostituzione della parola al ferro nella singolar tenzone. Fisica o verbale che sia la violenza, la suspense tragica è la stessa. Gli avversari si restituiscono colpo per colpo, l’equilibrio delle forze c’impedisce di predire l’esito del loro conflitto41.
1818. Rushworth Kidder propone una semplice classificazione dei tipi fondamentali di dilemma sociale. Il primo attiene all’opposizione tra rivelarsi e camuffarsi, tra esternare le proprie preferenze private e allinearsi a quelle pubbliche, tra perseguire una propria verità e soggiogarsi a qualche forma di potere. Il secondo tipo di dilemma concerne il «confine» del soggetto che sceglie e agisce: Io o Noi? Una persona, una famiglia, un team o una comunità? Il terzo tipo si riferisce alla lunghezza dell’orizzonte delle scelte: adesso o dopo, oggi o domani? Infine, c’imbattiamo nella contrapposizione tra regola ed eccezione, tra applicazione formale e asettica di una norma e sua interpretazione informale caso-per-caso42. Questa tipizzazione, rappresentando efficacemente l’ampiezza e la varietà con cui le scelte dilemmatiche attraversano le nostre esperienze, aiuta a riconoscere che «i dilemmi sono cristallizzazioni periodiche delle incoerenze e dei conflitti che sempre attraversano l’ordine sociale e i suoi soggetti»43.
1919. Inoltre, la classificazione appena richiamata contribuisce a chiarire che le scelte dilemmatiche esistono indipendentemente dagli aspetti morali: la persona stabilisce se allineare i comportamenti pubblici alle convinzioni private; se agire in nome di se stesso o di un gruppo; se conferire preminenza al breve o al lungo periodo; se attenersi alla forma o alla sostanza delle regole sociali. Tutte queste decisioni non riguardano intrinsecamente la morale soggettiva o l’etica sociale, riferendosi piuttosto a una linea di condotta nei più svariati ambiti quotidiani di esperienza. Le tante scelte dilemmatiche che compiamo ogni giorno, e i dilemmi morali, condividono unicamente la logica dell’aut-aut44. Si può osservare che l’etica riguarda le scelte che contano davvero; e le scelte che davvero contano sono dilemmi45; in tal senso, i dilemmi morali non sono una parte della nostra etica, bensì sono il modo tramite cui i comportamenti etici si estrinsecano.
2020. Le ragioni della scelta aut-aut sono oggettive, cognitive o strettamente soggettive. Sotto l’aspetto oggettivo, esse riguardano fenomeni d’indivisibilità: vi sono opzioni che perderebbero gran parte del proprio valore se venissero spezzate; a esse si applica quindi la logica binaria (vedi § 10 del capitolo 3). Consideriamo le caratteristiche tecnico-oggettive d’inseparabilità di beni, input o attività. Un tavolo non può, per svolgere la sua funzione, essere tagliato arbitrariamente. Oppure, molteplici oggetti creano utilità soltanto se uniti tra loro, come quando, nella lavorazione dell’acciaio, si unisce la fase della fusione a quella della laminazione, non potendosi trasportare l’acciaio fuso. In questi casi, è necessario che beni, input o attività siano disponibili in determinate quantità discrete; se ne abbiamo troppo e troppo poco, non possiamo usarli. L’indivisibilità abbraccia piuttosto oggetti che è possibile e non di rado agevole suddividere; se però ciò si verifica, ciascuno e tutti perdono una quota sensibile del proprio valore. Si pensi a una serie di servizi avanzati di economia della conoscenza: la piattaforma informatica su cui girano, le risorse umane con una data qualificazione, il software appropriato, i canali di comunicazione con fornitori e clienti, e così via, costituiscono altrettanti ingredienti che nessuno impone debbano restare congiunti; ma essi generano economie, tali per cui la somma dei costi di produzione singoli di ogni servizio supera il costo di produzione congiunto del complesso dei servizi.
2121. Sotto il profilo cognitivo, consideriamo il dilemma dell’ambivalenza complessa. Io preferisco ascoltare una sinfonia di Beethoven, che dura 60 minuti, rispetto a 20 canzoni dei Beatles, che durano tre minuti ciascuna; tuttavia, preferisco una canzone dei Beatles all’ascolto di un pezzetto di pari durata della sinfonia di Beethoven.
Il nocciolo del dilemma è che il piacere che traggo da una sinfonia è di natura diversa e non-comparabile a quello che ottengo da una canzone popolare. Non posso aggiungere i piaceri momentanei di ogni di tre minuti di ascolto della sinfonia fino a una somma totale che rappresenta il valore dell’intero evento. Chiamo piacere la sensazione che traggo dall’ascolto di una sinfonia, proprio come denomino piacere quella che ottengo dall’ascolto di una canzone. Tuttavia, questi due cosiddetti piaceri non posso metterli su una scala, pesarli e compararli. Il piacere di ascoltare una particolare sezione di tre minuti di una sinfonia dipende fortemente anche dall’ascolto del resto del brano musicale. Se ascolto i primi cinquantasette minuti della sinfonia, trascurando gli ultimi tre, rischio di accorgermi che l’intera esperienza è stata rovinata. Ma come possono gli ultimi tre minuti riverberarsi indietro nel tempo e deteriorare i primi tre minuti di piacere che presumibilmente ho già sperimentato? Sarebbe come se i momenti iniziali della sinfonia fossero una sorta di investimento che si ripaga solo quando essa è terminata. […] È questa l’essenza dell’ambivalenza complessa: il valore di un’attività ha una qualità unitaria o totale che non può essere frammentata e pesata separatamente46.
Questo dilemma non ha natura oggettiva, riguardando piuttosto il modo di concepire e d’intendere i nostri comportamenti su differenti scale temporali.
Dal simbolo al sacro
2222. Veniamo infine all’aspetto propriamente soggettivo, che è radicato nella nostra condizione antropologica. La principale espressione culturale che sorregge l’aut-aut è il simbolo. Il «segno» è composto di un concetto (il significato della bandiera) e di un supporto linguistico o materiale che lo esprime (il significante: la parola «bandiera» o il drappo sventolante). Il segno diventa «simbolo» quando, mediante corrispondenze analogiche, gli si attribuiscono significati che lo oltrepassano (la bandiera come rappresentazione di una nazione, o di una squadra sportiva, o di un’università). Ogni volta che abbiamo a che fare con un simbolo, dobbiamo considerarlo, salvaguardarlo, promuoverlo, nella sua integrità. Infatti il simbolo è integro o non è: una bandiera strappata, un territorio dai confini incerti, un’identità personale frantumata, e così via, sono simboli privi d’integrità; essi, quindi, torneranno a essere simboli soltanto quando ricomporranno l’unità originaria. Etimologicamente, simbolo vuol dire «segno di riconoscimento» ma anche «mettere assieme»: permette di essere riconosciuti, poiché tiene assieme più segni in un unico significato. Se il simbolo non compone un’unità, perde significato e quindi non permette il riconoscimento. Per i Greci, il simbolo è un oggetto tagliato in due parti conservate da altrettanti ospiti. Quando le due parti vengono congiunte nuovamente, ciò significa che gli ospiti si sono rincontrati e riconosciuti. In questo significato originario, il simbolo rimanda alle nozioni d’identità, di reciprocità e di alleanza47. L’efficacia culturale del simbolo sta dunque nella sua eventuale capacità di mettere insieme, o di mantenere in tensione creativa, quegli «opposti» che la mente analitica, nel suo stesso fare differenziante, continuamente produce. In questa capacità i simboli non hanno limiti, poiché, oltre a rappresentare le cose del mondo, si rappresentano a vicenda; oltre a riferirsi direttamente a oggetti e fenomeni, si riferiscono indirettamente ad altri simboli. Ne segue che i simboli possono costituire sistemi organizzati autonomi, nei quali il significato di ciascuno dipende dalla posizione occupata dagli altri dentro questi sistemi48. Insomma, lo «spazio delle scelte dilemmatiche» è ampiamente animato dai simboli: il dilemma sorge quando un simbolo si spezza; la scelta favorisce inevitabilmente un corno del dilemma, tentando di ricreare l’integrità di un nuovo simbolo; spesso non vi riesce, perché il corno perduto suscita un danno persistente; ma ciò propone un nuovo dilemma, e così via. Circolarmente, abbiamo il tramonto di un vecchio simbolo, un dilemma, un nuovo simbolo, un nuovo dilemma, e così via.
2323. Gli esseri umani, per dirla con Alfred Schütz, sperimentano molteplici realtà49. Alcuni esempi sono il passaggio dalla veglia al sonno, intense sensazioni fisiche di piacere e di dolore, oppure le allucinazioni provocate dalle droghe. Tuttavia, il caso di gran lunga più importante manca di qualsiasi base fisiologica e riguarda la sospensione di significato delle attività quotidiane, ossia una forma provvisoria e contingente di meaninglessness. Ognuno di noi è impegnato per la maggior parte del tempo in pratiche routinarie di vita comune50. Il riprodursi di queste pratiche, di solito dato per scontato, può essere spezzato da esperienze di gioco (come quando combattiamo contro un esercito di marziani), di simulazione intellettuale (come quando il matematico puro elabora un teorema), di fruizione estetica (come quando ascoltiamo Cenerentola di Rossini), di esperienza comica (come quando il tiranno riceve la torta in faccia o perde i pantaloni), di passionalità (come quando ci innamoriamo, o proviamo rabbia e invidia), di contemplazione religiosa o spirituale e di adesione ideologica. In breve, le «vie d’uscita» (l’Ottuplice sentiero, evocando il buddismo) dal world-taken-for-granted sono: (1) gioco; (2) astrazione intellettuale; (3) arte; (4) comicità; (5) passioni; (6) religiosità; (7) spiritualità; (8) ideologia. È interessante notare i contrasti e gli apparentamenti tra queste vie: l’astrazione intellettuale e le passioni stanno agli antipodi, mentre gioco e comicità, spiritualità e arte, o religione e ideologia sono apparentate.
Quando subisce una tale esperienza di rottura, l’individuo si trova improvvisamente come al di fuori del mondo mondano, che ora gli appare come incrinato, assurdo, o persino illusorio. […] Tutte queste esperienze di rottura hanno un carattere estatico, nel senso letterale dell’ekstasis, dello «stare fuori» dal mondo comune. […] Dall’interno dell’esperienza di qualsiasi di queste fratture estatiche, il mondo comune […], dapprima percepito come denso e coeso, è avvertito come molto fragile, come un allestimento scenico di cartone, pieno di buchi e facilmente sprofondato nell’irrealtà. […] Ciò che tutte queste esperienze hanno in comune è l’aprire a realtà che sono letteralmente «al di là di questo mondo»: al di là, cioè, del mondo della comune esistenza di ogni giorno. In linea di principio, si può descrivere ognuna di tali «altre realtà», benché qualsiasi tentativo di descrizione soffra del fatto che il linguaggio ha le sue radici nell’esperienza mondana. È questo il motivo per cui di tutte le «altre realtà», da un mal di denti alla musica di Mozart, è «difficile parlare» (e, naturalmente, è virtualmente impossibile parlarne con qualcuno che non abbia provato un’esperienza del genere)51.
Per ognuno di noi, lo sfaccettarsi della realtà si accentua a misura che, nella società in cui viviamo, si afferma il pluralismo dei comportamenti e delle credenze. L’individuo moderno attraversa una pluralità di mondi, alternando strutture di significato che cercano di prevalere l’una sull’altra e che, talvolta, si contraddicono a vicenda; e ognuna di esse, per il solo fatto che si trova a coesistere tra altre strutture di significato, resta indebolita52. Quando molteplici credenze si oppongono tra loro, più facilmente le nostre attività quotidiane sono rimesse in discussione, essendo interpretate ora attraverso una credenza e ora mediante un’altra. Quando ciò succede, più facilmente affiorano le «fratture estatiche».
2424. Alcune fratture estatiche, particolarmente spiazzanti e sconvolgenti, vengono spesso chiamate «sacre». Nelle scienze sociali l’idea di sacro è tanto importante quanto controversa, e non intendiamo qui ricostruire un lungo e articolato dibattito53. Iniziamo da una definizione minimalista: il sacro è un oggetto o un fenomeno che «esce dall’ordinario», manifestandosi con un’interruzione nel flusso consueto dell’esperienza54. Quest’approccio getta un ponte tra la dimensione sacra e le fratture estatiche: l’una e le altre emergono quando il soggetto valica un confine tra il segno e il simbolo, tra il reale e il possibile, tra ciò che osserva e ciò che potrebbe osservare. Il limite sta nel mettere tra parentesi la straordinarietà del sacro, che modifica il modello mentale del soggetto; questo aspetto è invece enfatizzato dalla seconda definizione, per la quale un’esperienza è sacra quando appare così intensa da costituire o trasformare la visione del mondo e l’autocomprensione di quelli che la provano55. La terza definizione che richiamiamo è rappresentativa di un’accezione estremamente diffusa: i valori sacri differiscono da quelli materiali o strumentali poiché incorporano credenze morali che guidano l’azione in modi dissociati dalle prospettive di successo. Valori come il benessere della propria famiglia e del proprio paese, l’impegno per la religione, l’onore e la giustizia, diventano sacri quando la devozione verso essi, da parte delle persone, è, o dovrebbe essere, assoluta e inviolabile, superando perfino gli incentivi economici56. Il limite principale di questa concezione sta nel trattare il sacro come discendente da un imperativo morale: sarebbe un’istanza morale a formare il sacro. Piuttosto, la quarta definizione, dovuta a Émile Durkheim, sostiene che la contrapposizione bene/male (etica) e quella sacro/profano (capace di formare nuovi simboli per una collettività) hanno differente natura. In effetti, nota Durkheim, tutte le collettività umane hanno effettuato ed effettuano la divisione del mondo in domini rigorosamente scissi: l’uno include ciò che è sacro (il perimetro simbolico della collettività), l’altro ciò che è profano (ciò che resta esterno a quel perimetro). È una distinzione più radicale di quella tra bene e male:
questa eterogeneità [tra sacro e profano] è una qualità del tutto particolare: essa è assoluta. Non esiste nella storia del pensiero umano un altro esempio di due categorie di cose tanto profondamente diverse, tanto radicalmente opposte l’una all’altra. L’opposizione tradizionale tra il bene e il male non è nulla al confronto: il bene e il male sono due specie contrarie di uno stesso genere, cioè il morale, così come la salute e la malattia sono due aspetti diversi di uno stesso ordine di fatti, la vita, mentre il sacro e il profano sono stati sempre e ovunque concepiti dallo spirito umano come generi separati, cioè come due mondi tra cui non c’è nulla in comune57.
2525. Infine, che non sia la dimensione etica a fondare quella sacra, e che anzi le due vadano rigorosamente distinte, è il fulcro della quinta definizione, dovuta a Rudolf Otto. La sua analisi introduce fin dall’inizio un neologismo – il «numinoso» – per indagare il sacro meno il suo momento etico. (Eviteremo di usare questo termine, malgrado esso sia più preciso, per la sua lontananza dal linguaggio comune). Il sacro non coincide con il bene, il bello, il buono, il vero, il giusto, il perfetto o il santo. Esso è ambivalente: nella lingua latina, sacer indica «ciò che è consacrato agli dèi» e nello stesso tempo «ciò che suscita orrore»; ne deriva il termine sacrificio, che significa «rendere sacro» e allo stesso tempo «mettere a morte»58. Ricordando che una delle principali caratteristiche dei simboli sta nel riuscire a tenere assieme significati contrari (come fa, per esempio, il simbolo Yin/Yang), appare chiaro perché il linguaggio del sacro è intrinsecamente simbolico59. Il sacro è l’unità simbolica di polarità antitetiche: divino-demonico, fascinosum e tremendum, valore e disvalore, vero e falso, esuberanza e regola, bianco e nero, celeste e terrestre, anima e corpo, beneficio e pericolo, solidarietà e anomia. È il meraviglioso che repelle, l’amore che suscita timore, il brivido mistico, l’orrore che seduce, l’ebbrezza dello smarrimento, l’accoglienza che provoca ribrezzo, il sublime che atterrisce, l’esaltazione che inquieta. Il suo carattere repulsivo «disturba coloro che desiderano vedere nel divino solo qualcosa in cui confidare, solo bontà, mitezza, amore e in generale solo i momenti del suo esser volto al mondo»60. D’altra parte, il suo carattere affascinante/seducente «incanta, entusiasma, estasia i sensi, intensificandoli abbastanza spesso fino alla vertigine e all’ebbrezza»; e quindi disturba quelli che vogliono collocare il divino in una sfera staccata dalle pulsioni conflittuali della corporeità61. Nella nostra terminologia, il sacro è l’archetipo di tutte le scelte dilemmatiche in cui l’essere umano è immerso. Come sappiamo, quando un dilemma si consuma, la scelta cade su uno dei poli, ma l’altro rimane vivo e desiderato. Questa dinamica vale ancor più per il sacro che non può mai, data la propria costitutiva ambivalenza, separare il grano dal loglio: ogni scelta a favore di un dio crea un demonio, e viceversa; il sacro evoca il profano così come il puro richiede il contaminato. Il contrasto di polarità antitetiche è irriducibile, perché l’una non esiste e non funziona se l’antonimo non esiste e non funziona: «la sua originaria ambiguità si risolve in elementi antagonistici e complementari»62. Se un polo fosse annichilito, cadrebbe anche l’altro. Il sacro è l’unione di opposti, la coincidentia oppositorum 63.
2626. La teoria di Rudolf Otto approfondisce l’analisi della dimensione estatica della nostra vita e la comprensione della centralità antropologica dei dilemmi. Otto studia i casi estremi di frattura estatica, e i dilemmi che essa genera, attribuendo a questi casi la qualità sacra di essere «totalmente altri» rispetto alla realtà mondana. Questo requisito può, in vari periodi storici e in tante comunità umane, poggiare su premesse soprannaturali e religiose, ma può altresì basarsi su credenze immanenti e secolari: entità come il clan, le caste, lo stato-nazione, il partito rivoluzionario, ma anche come la libertà, la scienza, la civiltà occidentale o la persona quale portatrice di diritti inalienabili, sono state concepite sia come numinose, sia come mondane64. Staccando il sacro dall’etica, evitandone la riduzione alla religione, Otto può rappresentare, nel modo più compiuto e radicale, la dimensione simbolica degli esseri umani: ogni nostra scelta/azione meaningfulness è ambivalente, perché tenta di unire dinamicamente gli opposti, di contenere luce e tenebre, benessere e distruzione. Tra le fratture estatiche e il sacro corre una semplice differenza di grado: le une e l’altro si manifestano quando il tessuto consueto dell’esperienza s’interrompe; le une e l’altro danno forma ai dilemmi quali scelte multidimensionali i cui corni sono esclusivi ed esaustivi. Il sacro è insomma il caso-limite delle fratture estatiche, riguardando quei dilemmi che sorgono dalla tensione tra la vita quotidiana e una dimensione a essa del tutto estranea.
2727. Il sacro unisce simbolicamente polarità opposte, le quali stanno spesso in reciproca tensione, contrapponendosi nell’ambito della loro relazione. Quando ciò accade, il sacro non è una sintesi statica, bensì un campo conflittuale costituito da continui slittamenti di significato, tramite i quali l’inferiore può diventare superiore, il subalterno può sfidare il potente, ciò che sta dentro assume senso soltanto assieme a quello che sta fuori, un fine può tradursi in un mezzo65. L’ambivalenza dei quadri interpretativi e dei comportamenti sociali connotati dal sacro, può legittimare lo status quo, ma può altresì attivare alcuni dei più formidabili percorsi di cambiamento. Tre sono i principali meccanismi intorno ai quali si scatena la contesa, così tra le persone, come tra gruppi o istituzioni66. Il primo consiste nel tracciare confini, introducendo filtri, blocchi e segnali che escludano le credenze e le pratiche che minacciano gli oggetti sacri e, nel contempo, intensificando la dedizione verso le credenze e le pratiche che preservano e promuovono il sacro. Il secondo metodo sta nei rituali di purificazione, i quali permettono ai soggetti (individuali o collettivi) che risiedono nella sfera profana, o che hanno valicato la linea di confine verso il profano, di mettersi o tornare sulla retta via. Tali rituali comprendono di solito i momenti del riconoscimento dell’impurità/trasgressione, della riparazione e della riconciliazione. Infine, incontriamo il meccanismo del reframing, che è analogo a quello dell’accomodamento, esaminato nel capitolo primo: di fronte alle anomalie che spesso il rispetto del sacro porta con sé, ossia di fronte alle situazioni in cui i profani appaiono stare meglio di quelli che «si sacrificano», occorre riformulare confini e caratteristiche degli oggetti sacri, per adattarli agli eventi. Dove, quando e come stabilire i confini, consentire l’entrata e aggiustare il modello mentale: sono questi gli snodi nei quali il sacro rivela la propria tensione tra conservazione e innovazione.
Religione e politica assoluta
2828. Che il sacro sia inteso come un’esperienza interiore della singola persona, o invece come un’esperienza direttamente collettiva, esso costituisce, secondo grandi autori come Durkheim e Otto, la premessa fondativa delle religioni umane. Questa tesi rimane condivisibile, ma va precisata nel solco dell’impostazione delineata nel capitolo primo. Posto che l’essere umano è un animale ermeneutico, la religione costituisce un sistema di pensieri e azioni per interpretare e influenzare il mondo67. Più esattamente, essa è «una ricerca di significato in modi connessi al sacro»68. Tuttavia la sua peculiarità non sta in una relazione biunivoca con il sacro, perché il sacro non è la base soltanto della religione69. Piuttosto, la peculiarità della religione sta nell’essere un modello mentale costruito su premesse antropomorfiche70. Davanti alle macchie di Rorschach, che propongono stimoli visivi intenzionalmente ambigui, la risposta più comune delle persone è d’invocare forme umane71. L’attribuzione di caratteristiche umane a personaggi, cose ed eventi non umani avviene in quanto le persone, nell’esprimere significati su un mondo che appare incerto e ambiguo, si concentrano sui significati per loro più importanti, che di consueto riguardano proprio le motivazioni e i comportamenti di altri esseri umani. Inoltre, quando le persone cercano di capire e prevedere il comportamento di entità, viventi o meno, tendono a formulare spiegazioni teleologiche, come se l’entità fosse animata da finalità. Ciò accade quale effetto secondario di basilari predisposizioni evolutive: è adattativamente più vantaggioso interpretare il fruscio di un ramo mosso dal vento come il movimento di un predatore, ossia inferire l’esistenza di un agente intenzionale, anche quando non c’è, che mancare di farlo quando esso è presente. Un meccanismo mentale sorto per sopravvivere in ambienti potenzialmente ostili, diventa una propensione cognitiva ad aderire alla forma mentis religiosa72. Proiettando sul mondo i propri attributi, e in particolare un atteggiamento intenzionale, le persone conferiscono tratti quasi-umani a divinità, spiriti, eroi immortali, ma pure a macchine animate, animali parlanti, pietre magiche, acque salvifiche, o a eventi casuali come terremoti, fulmini e incidenti. A un’operazione analoga assistiamo quando gli animali proiettano sul mondo i propri caratteri: gli uccelli scappano davanti allo spaventapasseri, interpretandolo come un animale minaccioso73. L’antropomorfismo religioso rimane storicamente robusto perché i modelli di significato humanlike, basati su similitudini con noi stessi, presentano una formidabile semplicità e immediatezza nell’interpretare il funzionamento del nostro mondo. Ma, soprattutto, i modelli antropomorfici sono confortanti, poiché con essi gli esseri umani esorcizzano qualsiasi evento nefasto, traumatico o enigmatico, riconducendolo a quello che conoscono, ossia a se stessi74. Tuttavia, la funzione universale che la religione assolve nelle culture umane – la ricerca di significato come reazione alla meaninglessness – non è svolta esclusivamente da essa. Calata in un contesto sociale, la religione contribuisce a produrre orientamenti valoriali ed emotivi, articolare i fini ultimi della vita e promuovere la solidarietà sociale; ma non è la sola forma culturale in grado di farlo. Inoltre, basta cambiare il contesto sociale per verificare che la religione, proprio come ogni altra forma culturale, enfatizza valori e fini del tutto diversi e magari, anziché la coesione tra singoli e tra gruppi, fomenta feroci divisioni sociali. Mentre dunque gli esseri umani non possono non continuare a confrontarsi con il sacro – giacché esso è l’archetipo dei loro dilemmi, ossia è la più potente rappresentazione delle big decisions che danno senso alla vita –, la religione, pur dotata di solide ragioni per durare ancora a lungo, non appare una forma culturale necessaria.
2929. Come sappiamo, la società è composta di tanti campi istituzionali: ciascuno di essi si distingue per le regole, formali e informali, e per i meccanismi di enforcement di tali regole75. Soltanto in un campo, tuttavia, quello della politica, si stabiliscono i criteri ai quali si attengono i campi restanti. Definiamo «politica» l’unica attività istituzionale nella quale la posta in gioco è il cambiamento delle regole regolative, ossia delle regole che presiedono il funzionamento di tutte le altre attività istituzionali. La politica è dunque, per antonomasia, l’ambito dei futuri possibili, essendo l’unico nel quale i soggetti competono, e spesso confliggono, per cambiare vincoli e opportunità, doveri e diritti, di ogni altro ambito76. I soggetti impegnati in politica, essendo dediti a cambiare il funzionamento delle varie istituzioni, affrontano il tipo di azione sociale massimamente trasformativa. Ciò comporta che spesso tali soggetti, facendo politica, mutano anche se stessi. Quando ciò succede, la politica realizza un percorso di conversione – affronta un’esperienza trasformativa del tipo (Sì, No) – e diventa, per dirla con Pizzorno, «politica assoluta». In questi casi l’attività politica non soltanto presuppone modelli mentali, credenze e identità già costituiti, ma è anche generativa di nuove forme dell’immaginario:
nel far politica è contenuta un’altra possibilità, quella che l’identità dei partecipanti diventi altra, che gli interessi non siano più quelli dati e calcolabili, anzi, che il calcolo degli interessi possa diventare un’operazione irrilevante a capire quello che succede. […] Il linguaggio della politica ha bisogno di prestiti. La nozione di interesse gli veniva dal linguaggio economico, quella di conversione, dal linguaggio religioso. Ma non è soltanto questione di prestiti linguistici. È la materia stessa della politica che è fatta di calcoli simili a quelli economici fino a un certo tratto; più in là, di sentimenti simili a quelli religiosi77.
Ogni volta che un potere temporale si assume la responsabilità di definire i fini ultimi di una collettività, d’imporre un ordine normativo e di governarne la legittimazione, esso svolge le funzioni che in precedenza erano esaudite dal potere spirituale. Ogni volta che un movimento collettivo anima un simile potere temporale, i suoi membri sono, nel pieno senso della parola, convertiti.
3030. Abbiamo definito la religione come un modello mentale antropomorfico. Abbiamo poi chiamato «politica assoluta» un insieme di pratiche che, negoziando le regole regolative dei vari campi istituzionali della società, è in grado di convertire i propri seguaci, trasformandone le forme dell’immaginario, e quindi, ovviamente, anche i valori e le preferenze78. Non tutte le religioni hanno l’ambizione e la capacità di convertire persone e gruppi. D’altra parte, l’insieme «politica assoluta» include credenze e pratiche non-antropomorfiche. Mentre infatti alcune forme di politica assoluta – è il caso dei regimi basati su fondamentalismi religiosi – esprimono il rapporto dell’uomo con entità humanlike, altre forme sono del tutto mondane – è il caso di alcune varianti del nazionalismo, del socialismo, del populismo, del fascismo e del comunismo: il tratto che accomuna tutte queste forme, è che esse hanno (o hanno avuto) la capacità di convertire miliardi di persone, costituendo una delle maggiori forze storiche dell’età moderna e contemporanea. Inoltre, tanto la religione, quanto la politica assoluta, dipendono spesso da processi di sacralizzazione delle loro credenze e pratiche; ma tanto l’una, quanto l’altra, possono manifestarsi anche senza ricorrere al sacro. La figura 11 mostra tre insiemi: R (Religione), P (Politica assoluta) e S (Sacro). Esiste un insieme intersezione, che contiene elementi comuni sia a R, sia a P; ed esiste un altro insieme intersezione, che include elementi comuni a R, P e S; gli insiemi R, P e S, tuttavia, in misura rilevante non si sovrappongono.
Figura 11. Lo spazio della politica assoluta

Notes de bas de page
1 Antoine Rivarol, citato da A. Ben-Ze’ev, The Subtlety of Emotions, Cambridge (Ma), The Mit Press, 2001, p. 398.
2 P.A. Samuelson, Foundations of Economic Analysis, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1947.
3 G.S. Becker, A theory of marriage: Part I, “Journal of political economy”, n. 81, 1973, pp. 813-846; Nobel lecture: the economic way of looking at behavior, “Journal of Political Economy”, n. 101, 1993, pp. 385-409.
4 Vedi U. Gneezy, S. Meier e P. Rey-Biel, When and why incentives (don’t) work to modify behavior, “Journal of Economic Perspectives”, vol. 25, n. 4, pp. 191-210.
5 Vedi A.O. Hirschman, Interest, in Id., Rival Views of Market Society, New York, Viking, 1986, pp. 35-55.
6 Vedi M. Fleurbaey e D. Blanchet, Beyond GDP. Measuring Welfare and Assessing Sustainability, Oxford, Oxford University Press, 2013.
7 I. Carter, Introduzione a L’idea di eguaglianza, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 15.
8 A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 164.
9 R. Sugden, The opportunity criterion: consumer sovereignty without the assumption of coherent preferences, “American Economic Review”, vol. 94, n. 4, p. 1017.
10 Vedi D. Kreps, Notes on the Theory of Choice, Boulder, Westview Press, 1988.
11 Alla rovescia: si ha completezza se, preferendo il decision-maker x a y, allora per ogni altro stato z, si ha che o x è preferito a z, o z è preferito a y, o valgono entrambi i giudizi. Vedi J. Raz, The Morality of Freedom, Oxford, Clarendon Press, 1986, pp. 322-325; R. Chang, The possibility of parity, “Ethics”, n. 112, 2002, pp. 667-668.
12 Vedi N.-H. Hsieh, Incommensurable values, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2016 Edition), a cura di E.N. Zalta, http://plato.stanford.edu/archives/spr2016/entries/value-incommensurable/.
13 In effetti, come sottolinea J. Raz (The Morality of Freedom cit., p. 325), la non-comparabilità emerge da un «fallimento della transitività». Una relazione di preferenza completa è transitiva: ciò significa che – date tre alternative x, y, z appartenenti all’insieme X – se x è in relazione con y e y è in relazione con z, allora x è in relazione con z. Nell’esempio, se il soggetto stabilisce che la carriera bancaria x è in una relazione (di indecisione, ma potrebbe stare in una relazione di preferenza o di indifferenza) con la carriera da musicista y, e che la carriera da musicista y è nella stessa relazione con la carriera bancaria z, allora anche la carriera bancaria x è in quella relazione con la carriera bancaria z.
14 «Qui non si tratta di limiti nelle informazioni, ma di proprietà generali dei giudizi qualitativi: se pensassi che dicendo che Caia è più bella di Gaia sia implicito che ogni altra donna debba essere più bella di Gaia o più brutta di Caia, attribuirei alla bellezza una misura e dovrei considerare ogni comparazione come una comparazione tra numeri. Non direi che il nostro linguaggio pretenda tanto dai giudizi comparativi»: A. Gay, Introduzione a K.J. Arrow, Equilibrio, incertezza, scelta sociale, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 24-25.
15 Vedi A. Gay, Complete vs incomplete preferences and economic behaviour, in L.L. Pasinetti (a cura di), Italian Economic Papers, Oxford, Oxford University Press, 1992, pp. 123-188.
16 J.M. Keynes, The general theory and after, pt.2: defence and development, in Id., The Collected Writings, vol. 14, London, Macmillan, 1973, p. 294.
17 V.A. Zelizer, The Social Meaning of Money, Princeton, Princeton University Press, 1994, pp. 7-8.
18 C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela (1949), Milano, Feltrinelli, 1969.
19 Vedi M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corsi al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005; W.N. Espeland e M.L. Stevens, Rankings and reactivity: How public measures recreate social worlds, “American Journal of Sociology”, vol. 113, n. 1, pp. 1-40; M. Fourcade, Cents and sensibility: Economic valuation and the nature of «nature», “American Journal of Sociology”, vol. 116, n. 6, pp. 1721-1777.
20 R. Boudon, Il vero e il giusto (1995), Bologna, il Mulino, 1997, pp. 373-374.
21 L’approccio è espressione di un programma di ricerca che ha, tra i suoi maggiori esponenti, James Coleman, Jon Elster, Thomas Schelling e Raymond Boudon. La nostra esposizione trae ispirazione principalmente da P. Hedström, Anatomia del sociale (2005), Milano, Bruno Mondadori, 2006, cap. 3.
22 Ivi, p. 49 e nota.
23 D. Oyserman, Values, psychology of, in J.D. Wright (a cura di), International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences, II edition, vol. 25, Oxford, Elsevier, 2015, p. 36.
24 Vedi C. Sunstein e E. Ullmann-Margalit, Second-order decisions, “Ethics”, n. 110, 1999, pp. 5-31.
25 D. Laise, Logiche delle scelte economiche, Roma, Carocci, 1998, p. 43.
26 W.B. Arthur, La natura della tecnologia (2009), Torino, Codice, 2011, p. 186.
27 I §§ 12-14 attingono ampiamente da E. Ullmann-Margalit, Big decisions: opting, converting, drifting, “Royal Institute of Philosophy Supplement”, n. 58, 2006, pp. 157-172; Id., Difficult choices: to agonize or not to agonize?, “Social Research”, vol. 74, n. 1, pp. 51-78. Rispetto all’elaborazione di quest’autrice vi sono anche importanti differenze, che però non discutiamo in modo esplicito.
28 W. James, The Varieties of Religious Experience (1902), Pennsylvania, Pennsylvania State University, 2002, pp. 192-193.
29 L.A. Paul, What you can’t expect when you’re expecting, “Res Philosophica”, vol. 92, n. 2, pp. 149-170.
30 W. James, The Varieties cit., p. 252.
31 Vedi R. Trivers, The Folly of Fools. The Logic of Deceit and Self-deception in Human Life, New York, Basic Books, 2011, cap. 7.
32 A.O. Hirschman, Il principio della mano che nasconde (1967), in Id., Come complicare l’economia, Bologna, il Mulino, 1988, p. 209. Il riferimento è a K. Marx, Prefazione (1859) a Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1957, p. 5: «l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere».
33 Tra le scelte di grande portata che qui trascuro, vi sono quelle legate a un ruolo istituzionale: lo statista che decide di entrare in guerra, per esempio, assume una responsabilità destinata ad avere immense ripercussioni su altri e su lui stesso; ma egli può ricondurla soltanto in maniera indiretta e parziale alla propria soggettiva struttura di significati. Analogamente, qui non tratto gli eventi critici capaci di modificare la nostra vita, ma che non sono da noi decisi: dall’incidente al lutto, dalla crisi economica all’evento ambientale o sociale.
34 Questa definizione della conversione personale, non va confusa con quella della conversione istituzionale, discussa nel capitolo primo.
35 W.E. Connolly, A World of Becoming, Durham & London, Duke University Press, 2011, p. 74.
36 P. Marshall, Mystical Encounters with the Natural World, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 27-28. Vedi anche W.N. Pahnke, Lsd and religious experience (1967), http://www.druglibrary.org/schaffer/lsd/pahnke3.htm (visitato il 31 maggio 2016), ripreso da P. McNamara, The Neuroscience of Religious Experience, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 15 e 137-138.
37 La tabella 5 è tratta da J. Lofland e N. Skonovd, Conversion motifs, “Journal for the Scientific Study of Religion”, vol. 20, n. 4, p. 375; nonché, per qualche piccola modifica, da R.W. Hood et al., The Psychology of Religion, quarta edizione, New York, Guilford Press, 2009, p. 218.
38 Per una rassegna delle definizioni e spiegazioni del fenomeno della conversione, vedi H. Gooren, Religious Conversion and Disaffiliation, London, Palgrave MacMillan, 2010, pp. 19-42.
39 Vedi A.P. Fiske e P.E. Tetlock, Taboo trade-offs: constitutive prerequisites for political and social life, in S.A. Renshon e J. Duckitt (a cura di), Political Psychology. Cultural and Crosscultural Foundations, London, Palgrave MacMillan, 2000, pp. 47-65.
40 Vedi J. Butler, Antigone’s Claim, New York, Columbia University Press, 2000; B. Honig, Antigone, interrupted, Cambridge, Cambridge University Press, 2013. Secondo George Steiner, Antigone riesce a «esprimere tutte le costanti principali del conflitto presente nella condizione umana. Queste costanti sono cinque: l’opposizione uomo-donna; vecchiaia-giovinezza; società-individuo; vivi-morti; uomini-divinità. I conflitti che derivano da questi cinque ordini di opposizione non sono negoziabili. Uomini e donne, vecchi e giovani, individuo e comunità o stato, vivi e morti, mortali e immortali si definiscono nel processo conflittuale della definizione reciproca»: G. Steiner, Le Antigoni (1984), Milano, Garzanti, 1990, p. 260.
41 R. Girard, La violenza e il sacro (1972), Milano, Adelphi, 1980, p. 70. «La disputa tragica è una disputa senza soluzione. Sussistono sempre dall’una e dall’altra parte gli stessi desideri, gli stessi argomenti, lo stesso peso: Gleichgewicht, come dice Hölderlin. […] Agli uomini ripugna dover ammettere che le “ragioni” sono le medesime da entrambe le parti, ossia che la violenza è senza ragione»: ivi, p. 72. «Dovunque s’impianta l’interminabile e terribile equilibrio del conflitto tragico viene a mancare il linguaggio del giusto e dell’ingiusto» (ivi, p. 80).
42 R.M. Kidder, How Good People Make Tough Choices, New York, HarperCollins Publishers Inc., 1995, capp. 5 e 6.
43 B. Honig, Difference, dilemmas, and the politics of home, in S. Benhabib (a cura di), Democracy and Difference, Princeton, Princeton University Press, 1996, p. 259.
44 Un esempio di dilemma morale basato sulla logica aut-aut: «Chiunque s’impegna a rispettare il diritto alla vita di un feto e il diritto della madre di gestire il proprio corpo, non può perseguire contemporaneamente entrambe le finalità. Deve cedere su uno dei due. Dilemmi come questi non sono esercizi teorici, poiché alla fine si deve prendere una decisione e agire. L’inazione ha conseguenze non meno sconvolgenti del selezionare l’una o l’altra direzione»: M.L. Gross, Moral Dilemmas of Modern War, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, p. 22.
45 M. Cohen, 101 Ethical Dilemmas, seconda edizione, London, Routledge, 2007, p. xii.
46 H. Rachlin, The Science of Self-control, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 2000, pp. 61-62.
47 J. Ries, Simbolo, le costanti del sacro, Milano, Jaca Books, 2008, p. 140.
48 T.W. Deacon, La specie simbolica cit., p. 81.
49 A. Schütz, On multiple realities (1945), in Id., Collected Papers, I, Den Haag, Martinus Njihoff, 1962, pp. 340-347.
50 «Fra le molteplici realtà ve n’è una che si presenta come la realtà per eccellenza: la realtà della vita quotidiana»: P.L. Berger e T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale (1966), Bologna, il Mulino, 1969, p. 42.
51 P.L. Berger, L’imperativo eretico (1979), Torino, Elle Di Ci, 1987, pp. 70-71.
52 Id., Il brusio degli angeli (1969), Bologna, il Mulino, 1970, p. 77, traduzione rivista.
53 Vedi M. Hamilton, The Sociology of Religion. Theoretical and Comparative Perspectives, II ed., London, Routledge, 2001.
54 F. Cimatti, Il possibile e il reale (e-book), Torino, Codice, 2009, pos. 25.
55 H. Joas, La sacralità della persona. Una nuova genealogia dei diritti umani (2012), Milano, FrancoAngeli, 2014, p. 86.
56 S. Atran, R. Axelrod e R. Davis, Sacred barriers to conflict resolution, “Science”, n. 317, 2007, p. 1039, corsivo nostro. In altre parole, determinati valori ci appaiono sacri «quando ci dedichiamo alla preservazione e alla promozione dei beni che li sostengono senza calcolare la perdita che ne consegue, trascurando o rifiutando di comparare i benefici ai costi». S. Lukes, Comparing the incomparable: Trade-offs and sacrifice, in R. Chang (a cura di), Incommensurability, Incomparability, and Pratical Reason, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1997, pp. 188-189.
57 É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa (1912), Milano, Comunità, 1963, p. 41, corsivi nostri.
58 E. Pace, Introduzione alla sociologia delle religioni, Roma, Carocci, 2007, p. 83.
59 Qual è il rapporto tra religione e sacro? Nelle società premoderne, «la religione era un artefatto simbolico che si estendeva sull’intera società, convogliando tutte le interpretazioni comuni della realtà (représentations collectives) in una coerente visione del mondo, e che forniva, allo stesso tempo, la base per una morale sociale comune (conscience collective), in egual misura “sapere” e “coscienza”» (P.L. Berger e T. Luckmann, Lo smarrimento dell’uomo moderno (1995), Bologna, il Mulino, 2010, p. 101). Di questa struttura simbolica, che consiste nell’interpretare e nell’agire in forma dilemmatica, il sacro è la più potente rappresentazione. Come chiarisce Otto, il sacro è «la presenza nell’assenza, la manifestazione sensibile e tangibile di ciò che normalmente è celato ai sensi e sottratto alla presa umana»: R. Otto, Il sacro (1917), in Opere, a cura di S, Bancalari, “Archivio di filosofia”, n. 1, 2009, p. 298. È questa sua caratteristica che lo unisce al religioso, qui inteso come tensione verso entità trascendenti.
60 R. Otto, Il sacro cit., p. 212.
61 Ivi, p. 219, traduzione rivista. Un’opera d’arte che, con somma qualità estetica, esprime l’ambivalenza del sacro è la transverberazione di Teresa d’Avila (1647-1652), di Gian Lorenzo Bernini: l’estasi mistica di Teresa è, nel contempo, abbandono spirituale ed ebbrezza erotica, sublime elevamento e squassante orgasmo fisico.
62 R. Caillois, L’uomo e il sacro (1950), Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 31.
63 Questo tema è al centro della filosofia di Nicola Cusano (1401-1464), ma è anche stato oggetto delle riflessioni di C.G. Jung, Mysterium coniunctionis (1955-1956), in Id., Opere, vol. XIV, Torino, Boringhieri, 1989. Vedi D. Henderson, The coincidence of opposites. C.G. Jung’s reception of Nicholas of Cusa, “Studies in Spirituality”, n. 20, 2010, pp. 101-113.
64 P.L. Berger, L’imperativo eretico cit., pp. 71-75.
65 H. Wydra, Politics and the Sacred, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, p. 6.
66 Vedi K.I. Pargament e A. Mahoney, Spirituality: Discovering and conserving the sacred, in C.R. Snyder e S.J. Lopez (a cura di), Handbook of Positive Psychology, Oxford, Oxford University Press, 2002, pp. 652-654.
67 Per recenti rassegne delle teorie del fenomeno religioso, vedi I. Furseth e P. Repstad, Introduction to the Sociology of Religion, Aldershot, Ashgate, 2006, specialmente i capp. 2 e 5; M. Riesebrodt, The Promise of Salvation. A Theory of Religion, Chicago, University of Chicago Press, 2010, pp. 1-45.
68 K.I. Pargament, The Psychology of Religion and Coping, New York, Guilford Press, 1997, p. 32.
69 S. Guthrie, Faces in the Clouds. A New Theory of Religion, Oxford, Oxford University Press, 1993, pp. 18 e 203. Sul sacro non-religioso, vedi R.W. Belk, M. Wallendorf e J. F. Sherry Jr., The sacred and the profane in consumer behavior: theodicy on the Odyssey, “Journal of Consumer Research”, n. 16, 1989. pp. 1-38; P.E. Tetlock, Thinking the unthinkable: sacred values and taboo cognitions, “Trends in Cognitive Sciences”, vol. 7, n. 7, 2003, pp. 320-324.
70 Una profonda analisi filosofica di questa proposizione è in G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale (1972), secondo tomo del vol. II, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 617-725.
71 S. Guthrie, A cognitive theory of religion, “Current Anthropology”, vol. 21, n. 2, p. 188.
72 Vedi P. Bloom, Il bambino di Cartesio (2004), Milano, il Saggiatore, 2005. «Ma se i bovi i cavalli e i leoni avessero le mani, o potessero disegnare con le mani, e far opere come quelle degli uomini, simili ai cavalli il cavallo raffigurerebbe gli dèi, e simili ai bovi il bove, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di loro». Senofane, Frammenti (VI-V sec. a.C.), in I presocratici, a cura di A. Pasquinelli, Torino, Einaudi, 1958, p. 149.
73 «La tendenza nei selvaggi di immaginare che gli oggetti e gli eventi naturali siano animati da essenze spirituali viventi, è forse illustrato da un piccolo fatto che ho notato: il mio cane, un animale adulto e molto sensibile, un giorno afoso e calmo giaceva sul prato, ma a poca distanza una leggera brezza muoveva di tanto in tanto un parasole aperto, che il cane avrebbe completamente ignorato se qualcuno gli fosse stato vicino. E invece, ogni volta che il parasole sventolava leggermente, il cane ringhiava ferocemente e abbaiava. Doveva, credo, ragionare, automaticamente e inconsciamente, che il movimento senza una causa apparente indicava la presenza di qualche strano agente animato»: C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale cit., I, 3, pp. 600-601.
74 S. Guthrie, Faces in the Clouds cit., p. 201.
75 Vedi capitolo 1, § 21.
76 Un’implicazione di questo modo di ragionare è che la politica non costituisce un campo o ambito «localizzato», bensì che taglia trasversalmente gli altri: ogni istituzione ha, al proprio interno, una dimensione politica.
77 A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta cit., pp. 13-14.
78 La posizione espressa nel testo è, sotto questo aspetto, vicina a quella di R.N. Bellah, Beyond Belief: Essays on Religion in a Post-traditional World, Berkeley, University of California Press, 1970, pp. 12, 42, 183 e 227-228.

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