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4. Metafisica e modernità

p. 105-150

Note de l’éditeur

L’introduzione è di Francesca Michelini.


Texte intégral

Jeder Mensch philosophiert

D. Henrich (Fluchtlinien)

1L’occasione scatenante il dibattito tra Henrich e Habermas risale a una recensione apparsa sul “Merkur” nell’ottobre del 1985 intitolata Ritorno alla metafisica - Una tendenza nella filosofia tedesca? In essa Habermas ascrive ad alcuni filosofi tedeschi (in particolare Bubner, Spaemann e Löw) un ritorno conservatore alla metafisica che andrebbe letto in parallelo alla svolta avvenuta nella politica tedesca all’inizio degli anni Ottanta. Ma la sua critica è indirizzata soprattutto contro lo sforzo di Dieter Henrich di unificare le tesi fondamentali di Kant e Hegel in una “teoria dell’autocoscienza” e di voler ritornare all’“universalità del pensiero platonico”, come dimostrerebbe la raccolta di saggi di Henrich Fluchtlinien (1982), che è all’origine della recensione39.

2Se la critica di Habermas a Henrich è condotta per tratti abbastanza generali, Henrich trae occasione da questo “attacco” per ingaggiare una discussione con Habermas più ampia e dettagliata, che appare circa un anno dopo, nuovamente sul “Merkur”, e successivamente nel 1987 (in una versione rivista), all’interno della raccolta di saggi Konzepte40. È questa la versione di cui oggi, per la prima volta, si propone la traduzione italiana.

3Al centro del dibattito con Habermas sono alcune questioni considerate da Henrich irrinunciabili e sulle quali ritiene necessario fare chiarezza: che cosa si debba intendere con metafisica, entro quali limiti possa essere considerata ancora valida e indispensabile, e in che modo sia collegata alla questione della modernità. Già in apertura del saggio Henrich enuncia il proposito che guida il suo progetto: riproporre una nozione di metafisica che non consideri affatto la metafisica moderna un’esperienza conclusa, obsoleta, ma, al contrario, «un compito del pensiero» che deve essere considerato ancora del tutto valido, se non necessario. Non senza una certa provocazione nei confronti di Habermas, Henrich ritiene che per questo compito non si possa appunto trovare una migliore designazione di quella che in fondo, già dalla sua origine aristotelica, è costituita dal non-titolo di metafisica.

4A partire dal confronto con Habermas, Henrich intende delineare dunque i tratti del suo stesso progetto filosofico, di quel progetto della metafisica moderna da pensarsi in alternativa – nonostante gli sforzi di alcuni critici per avvicinarli – allo stesso progetto del moderno habermasiano. Riletto a distanza di più di vent’anni, lontano dall’occasione che lo ha suscitato e dalle polemiche contingenti, lo scritto di Henrich su Habermas ci aiuta a comprendere meglio la plausibilità e la legittimità dello stesso progetto henrichiano, proprio riguardo ai termini che in esso entrano in gioco: metafisica e modernità. Ed è proprio su questo che risulta interessante soffermarsi brevemente, senza entrare nel merito della correttezza delle obiezioni che Henrich muove a Habermas, né nei dettagli del dibattito, che sono stati già frequentemente oggetto di studi critici41.

5Alla base della convergenza che Henrich pone tra i due termini, si trova la tesi fondamentale – che si è già avuto modo di discutere – della irriducibilità della soggettività. Questa non viene formulata da Henrich solo sulla base di una diagnosi delle dinamiche presenti nella modernità, ma a partire dalla struttura stessa della soggettività. In base a essa, non è possibile ridurre la soggettività né all’intersoggettività, né all’interazione linguistica, né, tantomeno, al naturalismo. Intersoggettività, comunicazione, analisi linguistica, semantica, autoconservazione costituiscono, nel migliore dei casi, dimensioni cooriginarie della vita cosciente, anch’esse a loro volta completamente irriducibili alla soggettività stessa.

6Ma quali sono i caratteri fondamentali di una metafisica che non deve essere esclusa dal progetto della modernità?

7Per limitarsi ad accennarne qui almeno ad alcuni, va anzitutto ricordato che, nella sua legittimazione del non-titolo metafisica, Henrich prende le mosse da quel filosofo che ha invalidato per sempre l’idea della metafisica come scienza: Kant. Kantiana è infatti la distinzione tra la metafisica dell’elementare (Metaphysik des Elementaren) e la metafisica dei pensieri conclusivi (Metaphysik des Abschlußes) che apre il saggio alla tesi 1. La prima tratta delle operazioni fondamentali della nostra intelligenza, e il suo compito non è solo quello di analizzarne la costituzione, ma anche i presupposti su cui queste si basano: le loro condizioni di validità sia dal punto di vista teoretico che da quello pratico.

8La seconda – la “metafisica della conclusione”, l’ambito dei pensieri conclusivi o ultimi – è di più complessa definizione, pur riguardando universalmente tutto il genere umano e costituendo un interesse «non professionale, bensì latente in ogni essere umano» (tesi 1). Tali pensieri ultimi non sono né un prodotto della curiosità teorica, né sono dettati dal mero bisogno vitale, e neppure costituiscono un ambito di competenza delle scienze naturali. «Sono un interesse (Sache) della ragione e, in quanto tale, dell’umanità» (tesi 1). Essi trovano cioè origine e radicamento in ciò che, di nuovo kantianamente, si può designare come la “natura della ragione”: «Sono così intessuti nella natura della ragione, che non possiamo liberarcene» (tesi 3). Non sono finzioni, illusioni o mere costruzioni intellettuali. Sono concetti di ragione da cui si origina il pensiero speculativo.

9Si tratta naturalmente di una ragione, come Henrich stesso specifica, che va intesa nel suo senso più comprensivo, “pieno” o, per meglio dire, sintetico: una ragione che «include forme di comprensione e interpretazione che sono al di là di ciò che è possibile accertare per mezzo di prove, non meno della dimostrazione e della critica» (tesi 1). Una forma di razionalità, dunque, del tutto differente anche dalla razionalità comunicativa di Habermas. Come ­Henrich afferma nel saggio-intervista che conclude il volume Bewußtes ­Leben, i pensieri ultimi non sono relativi a «interessi della vita», ma emergono «dal pensiero che è nella vita»42.

10La metafisica non è dunque radicata nella vita biologica e naturale, ma nella “vita cosciente” – una vita che non semplicemente “accade” ma che “è vissuta” coscientemente – di ogni essere umano, e nella sua spontaneità, molto prima di ogni sua formulazione a livello teorico43. Essa riguarda in fin dei conti l’antichissima domanda su chi è l’uomo, una domanda che – come la ragione in cui si radica – deve essere compresa in maniera “sintetica”, ovvero come la questione concernente tutte le domande che da essa nascono e le possibili risposte, o i possibili “principi” di risposta44. Solo cogliendone il carattere sintetico, si può comprendere la potenza, la forza dirompente della domanda stessa, e gli esseri umani possono giungere a un’autentica descrizione di se stessi che non si limiti a quella parzialità che ha caratterizzato la maggior parte delle risposte che a quella domanda sono state date (che Henrich elenca alla tesi 3)45.

11La formazione di pensieri ultimi e comprensivi, in cui la vita cosciente si autocomprende, non è dunque un’impresa volta a superare la scienza con i suoi propri mezzi, e neppure vuole essere un’operazione fondativa in senso assoluto (tesi 7). La metafisica alla Henrich (e con essa quella dei metafisici moderni) non è quella che si prefigge il compito di costituire un mondo dietro il mondo – quella Hinterwelt ferocemente criticata da Nietzsche – né il mondo di pura oggettività dei positivisti, che giace privo di interpretazione di fronte al soggetto conoscente. Non va neppure vista come l’apertura di un regno sovramondano, inteso come l’unica sfera in cui possiamo trasformare noi stessi: «Ciò che è sottoposto a trasformazione è la nostra comprensione di noi stessi e delle nostre condizioni. In questo modo il mondo in cui viviamo ci appare in una nuova luce»46. I pensieri ultimi concernono il nostro posto in questo mondo e ci offrono un orientamento fondamentale su come dovremmo condurre la nostra vita, e anche in questo senso sono “sintetici”.

12La loro “sinteticità” non deve tuttavia indurre a credere che la vita cosciente sia caratterizzata da una sostanziale armonicità, come quella che ­Henrich viceversa scorge nella nozione habermasiana di mondo della vita (tesi 4). Se le questioni filosofiche e metafisiche appartengono strettamente all’esistenza umana, questo può avvenire tuttavia soltanto perché la vita cosciente stessa è caratterizzata da profonde tensioni e da conflitti. Si tratta di conflitti che sorgono non solo dalla relazione cognitiva tra noi e il mondo ma – ed è questo uno dei temi al centro di Fluchtlinien – dalla distinzione nell’autocoscienza umana tra soggetto e persona47. Come persone siamo in un mondo insieme e accanto alle altre cose intramondane, come soggetti ci troviamo posti di fronte a un mondo di cui non costituiamo una parte integrante. Come persone siamo dunque inseriti in un mondo, come soggetti lo trascendiamo. La relazione conflittuale e contraddittoria che esiste tra questi due termini viene indicata da Henrich con il termine rapporto fondamentale (Grundverhältnis): è da questo rapporto tra la nostra situazione extramondana di soggetti e quella intramondana di persone che si originano la tensione e i conflitti.

13La domanda metafisica è allora, in ultima analisi, sintetica, proprio perché è la domanda sulla possibilità di togliere le tendenze contraddittorie della vita cosciente. Intesa in questo senso – come richiesta e tendenza all’unificazione – è la domanda di riconciliazione e di unità che sta alla base della stessa filosofia moderna. Sono i conflitti stessi che ci portano a pensare a un intero che li ricomprenda, in cui essi si possano “acquietare”. Ma ciò non significa che possano essere eliminati o soppressi completamente. Sono fondati nella natura stessa dell’autocoscienza e sono pertanto ineliminabili. Il valore di verità di una interpretazione della vita è misurabile allora in termini di capacità di integrare tendenze conflittuali, senza mai poter arrivare a risolverle completamente48.

14C’è un concezione, tuttavia, in cui la dinamica dei conflitti che si è rivelata nella vita cosciente viene affrontata apparentemente con successo: il naturalismo, che la risolve attraverso il ricorso all’unità e alla onniinclusività delle leggi naturali. Nel suo riferimento al naturalismo, Henrich ha in mente in particolar modo quella teoria linguistica per cui la vita umana sarebbe un agire e interagire tramite segni e suoni, determinato interamente dalle leggi naturali (tesi 6). Nel momento in cui infatti si pretende di spiegare la soggettività a partire dai significati semantici, si ricade in una concezione che riduce il soggetto a oggetto e, in ultima analisi, si approda a una concezione naturalistica del sé.

15Ora, la tesi di Habermas per cui l’autocoscienza si fonda sull’iterazione linguistica, non risulta per Henrich affatto distante dalla stessa strategia argomentativa utilizzata dal naturalismo (tesi 9)49. Il cambio di paradigma che propone – il passaggio dal paradigma della coscienza a quello del linguaggio e l’inserimento della dimensione cognitivo-strumentale all’interno di una più ampia razionalità comunicativa – si fonda inoltre su una visione della modernità che, per quanto miri a difenderne la complessità50, parte da presupposti non condivisibili e nel contempo – quasi paradossalmente – non risulta distante neppure dalle tesi di coloro che tenacemente vorrebbe confutare.

16L’idea, per esempio, che il linguaggio e l’interazione linguistica fossero già presenti in maniera sotterranea e nascosta in alcuni momenti nella modernità (per esempio nei primi scritti di Hegel) – anche se, come Henrich sottolinea, sono divenuti metodi autonomi di ricerca soltanto a partire dal Novecento – porta a una visione della modernità che si imbatte in inevitabili contraddizioni. Habermas è infatti costretto ad ammettere che, almeno in una prima fase della modernità, il momento dell’autocoscienza non fosse ancora affatto dipendente dall’interazione linguistica, ma, al contrario, fosse completamente autonomo. Di conseguenza, questo lo porta a intendere l’autocoscienza di fatto ancora come «una grandezza di riferimento solitaria e autosufficiente» (tesi 8). Una concezione che non pare distante né dalla visione di Heidegger, né, in fin dei conti, da quella dei “detrattori” della modernità. Con questi avrebbe in fondo in comune l’idea che l’autocoscienza si presenti nella modernità come una struttura di autoproduzione incondizionata, come un sapere assolutamente privo di resistenza e disponibile. Anche Habermas, infatti, accolla alla “fissazione sull’autocoscienza” quella ipertrofia che crede di scoprire in ogni metafisica e che considera una specie di intralcio al progetto della modernità (tesi 8). Il declino del pensiero – al centro dell’analisi di Heidegger – che raggiungerebbe il suo punto di crisi in un’universalizzazione dell’autorelazione della conoscenza, viene condiviso da Habermas: propone dunque un cambio di paradigma senza mettere in discussione il suo punto di partenza heideggeriano (Heidegger sarebbe un “suo garante”, tesi 8).

17Viceversa, per Henrich, la modernità avrebbe colto le potenzialità dell’autocoscienza in una maniera molto più articolata rispetto alla stilizzazione operatane da Heidegger, anche se non è stata in grado di dominarle fino in fondo in una teoria conseguente. Pur senza misconoscere a Heidegger il merito di aver elaborato una tra le più penetranti interpretazioni della modernità, la diagnosi di quest’ultimo non renderebbe giustizia, secondo Henrich, alla struttura fondamentale della soggettività nella modernità, quella struttura che nel saggio Die Grundstruktur der modernen Philosophie51 veniva ricondotta al rapporto tra autocoscienza e autoconservazione (Selbsterhaltung). Nella concezione heideggeriana la differenza tra autoconservazione e autocoscienza va a fondo in un’identità che non solo non tiene conto della loro differenza, ma riduce la prima alla seconda. Henrich, rifacendosi già alla concezione stoica del nesso autoconservazione-autocoscienza (che trapassa nel moderno), considera questi due poli della soggettività nella differenza e irriducibilità l’uno all’altro. Solo sulla base della coscienza di sé è possibile desiderare autoconservarsi52. E solo sulla consapevolezza della irriducibilità di un momento all’altro è possibile confutare la diagnosi heideggeriana della struttura della soggettività come incondizionato dominio.

18La tensione riconducibile ai due aspetti, in cui si articola la struttura fondamentale della soggettività, corrisponde a quella tensione tra autonomia e condizionatezza che è alla base della soggettività moderna stessa. La filosofia moderna ha infatti, per Henrich, compiuto una duplice operazione: da un lato ha fissato il sapere di sé come unico principo valido sia teoreticamente che praticamente, ma dall’altro ha elaborato la nozione di un fondamento non disponibile, da cui l’autocoscienza deve riconoscersi dipendente53. L’autoconservazione non sarebbe infatti necessaria se l’autocoscienza non includesse la coscienza di essere dipendente da condizioni che non sono sotto il nostro controllo: «ciò che deve conservarsi deve anche sapere che esso non ha in qualsiasi momento, e soprattutto non assolutamente, il proprio fondamento in se stesso»54. L’idea della dipendenza da un fondamento di cui non si può disporre e che è sottratto, va allora di pari passo con l’autonomia del soggetto e permette di confutare l’immagine di un soggetto che «produce da se stesso la cognizione di sé, così da essere, riguardo al proprio esser cosciente, la reale causa sui»55.

19La nozione di fondamento – anche se nelle tesi contro Habermas rimane un po’ sullo sfondo – si rivela allora, ancora una volta, la chiave di volta per comprendere il nesso che Henrich pone tra metafisica, modernità e autocoscienza. È infatti proprio in virtù della nostra finitezza e del nostro essere dipendenti da un fondamento sottratto, che i pensieri ultimi sono inevitabili e inaggirabili. Tuttavia, questo stesso assunto apre a una questione centrale per la stessa teoria henrichiana. Tutti i possibili tentativi di spiegazione della soggettività che non tengono conto o eliminano una tale dimensione di dipendenza (comunicazione, naturalismo, nichilismo, ecc.) risultano, nella visione di Henrich, in ultima analisi strettamente correlati e “imparentati”, anche se non sono ovviamente identici: sono tutti necessariamente unilaterali e, alla fine, sono tutti strutturalmente riduzionistici. Ma questi programmi, queste Weltanschauungen sono realmente così vicine l’una all’altra? E non vi è il rischio di appiattirle una sull’altra, prescindendo e astraendo, in vista di quel preciso obiettivo, dalle loro pur notevoli ed essenziali differenze?

4.2. Che cos’è metafisica - che cos’è modernità? Dodici tesi contro Jürgen Habermas56

Il termine «metafisica» ha connotato una disciplina filosofica speciale finché alla filosofia è stato possibile autocomprendersi come un sistema di dottrine fissate rigorosamente nei loro lineamenti fondamentali. È noto, tuttavia, che la sua storia originaria è ambigua e che la sua ricezione si presenta come una sequenza di impasse. In origine, questo nome designava solo una raccolta di lezioni di Aristotele la cui collocazione, nell’ambito delle sue opere complete, faceva seguito alle lezioni sulla fisica. «Metafisica» è dunque una denominazione provvisoria e sostitutiva per una serie di ricerche rimaste fino a oggi senza titolo, una denominazione cui molto è stato associato ed è ancora possibile associare. Proprio per questa ragione è facile attribuire ogni sorta di oscure connessioni a chiunque non solo non si avvicini esclusivamente in termini di critica a ciò che rientra nell’ambito di pertinenza di questo non-titolo par exellence, ma che vi scorga anche un nesso con problemi teorici rimasti sino a oggi irrisolti. Il non-titolo riporta inoltre alla memoria il ricordo di risultati fondamentali delle nostre capacità intellettuali, e non evoca dunque soltanto una vuota profondità e una serie di sforzi tesi a sottrarsi al flusso della storia. È dunque davvero importante dar conto del contenuto che oggi si associa a quel non-titolo.

20Jürgen Habermas ha posto un punto interrogativo nel titolo di un saggio in cui discute alcune tendenze relative al ritorno della metafisica nella filosofia tedesca57. Il punto di domanda evidenzia come ciascuna di tali tendenze vada considerata obsoleta e come, in ogni caso, conduca inevitabilmente fuori da quel progetto della modernità, della cui prosecuzione Habermas, con legittima insistenza, si fa portavoce. La serie di tesi qui presentate costituisce una risposta a quel saggio. Si intende presentare una nozione di metafisica che è collegata al progetto della modernità. Allo stesso tempo, si vuole mostrare come Habermas abbia torto a credersi dispensato, nel suo sforzo teorico, da una serie di adempimenti di pensiero per i quali, perfino oggi, non abbiamo a disposizione titolo migliore che quello di «metafisica».

1. Il luogo della metafisica

21In epoche in cui esisteva, in filosofia, un sistema dottrinale stabilito, al non-titolo era almeno allegato un indice delle materie, che includeva delle indagini ordinate in base a un principio non immediatamente evidente a partire dall’indice stesso. Si trattava di ricerche, per esempio, su ciò che rende una cosa autosufficiente, su possibilità e necessità, sulla natura della mente, sul concetto di mondo e sul fondamento primo tanto delle forme che delle trasformazioni. Il perché esse costituissero punti di partenza dell’indagine è semplice da comprendere, mentre oscura rimane la ragione della loro raccolta sotto il medesimo non-titolo.

22Per questo motivo, al non-titolo è connessa una lunga serie di tentativi volti a rintracciare l’origine di quel groviglio senza nome di questioni e, in tal modo, a ordinare correttamente le indagini in esso comprese, liberandolo da eventuali immissioni di problematiche estranee, confuse o irrisolvibili. Secondo noi, il tentativo di maggior successo in questo senso va attribuito a Immanuel Kant. Chiunque ritenga che quel non-titolo evochi ancora pensieri che possono avere una qualche dimostrabile validità, deve stabilire una relazione più che meramente formale con il tentativo kantiano di far luce sulla costituzione interna dell’impresa di derivazione aristotelica. Ma lo stesso vale anche per il critico che, pur richiamandosi a Kant, si limiti a rivolgere alla metafisica, e alle speranze a essa collegate, la ben più vecchia accusa di futilità.

23Kant ha ripartito in due gruppi le indagini che richiedono una metafisica, e ha basato questa distinzione su una classificazione. Da una parte, si trovano indagini rivolte alla chiarificazione delle operazioni elementari dell’intelligenza. Esse sono «metafisica» nella misura in cui non analizzano la struttura stessa di quelle operazioni, ma piuttosto i presupposti a partire da cui esse hanno luogo in relazione al contenuto che dischiudono. Si dà, in tal modo, una metafisica collegata a una conoscenza in grado di determinare oggetti, se è possibile mostrare che tale conoscenza implica dei presupposti sulla costituzione fondamentale di tutti gli oggetti che non possono essere derivati dall’esperienza o dalla ricerca metodica. E si dà una metafisica «dei costumi», se si può mostrare che la distinzione tra «buono» e «cattivo» non risale solo a proposizioni normative, ma implica delle assunzioni sulle loro condizioni di validità, sugli agenti, dunque sulle persone e sulle possibili motivazioni del loro agire.

24L’altro gruppo di indagini consiste in temi e procedimenti riflessivi dotati di tutt’altro valore e collocazione. Non appartengono all’ambito in cui hanno origine e trovano il loro ancoraggio iniziale gli enunciati che determinano oggetti e quelli normativi. Non si tratta di pensieri elementari, ma di pensieri relativi a una conclusione risolutiva (Abschluß). Collegato a tal tipo di pensieri ultimi (Abschlußgedanken) è un particolare interesse nei confronti del non-titolo metafisica, un interesse non professionale, bensì latente in ciascun essere umano. Si tratta di pensieri che non possono essere evitati, e per due ragioni che si presuppongono reciprocamente: (1) le forme elementari di conoscenza conducono a risultati irrimediabilmente incompleti che, per di più, si contraddicono; (2) né la ragione, né una vita orientata alla ragione, possono tuttavia contentarsi di restare in questo stato di incompiutezza e di contraddizione. La metafisica della conclusione, dunque, non è un’impresa dipendente da quella disposizione da cui derivano i nostri programmi teorici. Non è, in quanto tale, né materia di competenza delle scienze, né un prodotto della curiosità teoretica, né una nostra capacità di costruzione a servizio di meri bisogni vitali. È piuttosto un interesse (Sache) della ragione e, in quanto tale, dell’umanità. Per questa sua origine, la razionalità rivendicata dalla metafisica della conclusione non è vincolata alla necessità che i suoi pensieri siano suscettibili di essere suffragati da procedure scientifiche di dimostrazione. La ragione è all’opera anche quando è in gioco la migliore – vale a dire la più ampia e internamente coerente – risposta a una situazione problematica in cui s’innestano più ambiti di problemi, ciascuno richiedente l’uso di differenti metodi di risoluzione, i quali, a loro volta, non possono essere sussunti in un concetto superiore di metodo. Nel suo senso più comprensivo, la ragione include forme di comprensione e interpretazione che sono al di là di ciò che è possibile accertare per mezzo di prove, non meno della dimostrazione e della critica. Solo se separata dalla critica e da un’ampia valutazione di ogni pro e contra, la riflessione sui pensieri della conclusione diventa un’impresa meramente arbitraria e pretestuosa.

2. Iperteoria o scepsi?

25È importante essere consapevoli del fatto che la ridefinizione, del tutto moderna, della nozione di «metafisica» proposta da Kant, deriva da un accordo con quel genere di pensiero che sorge in ciascun essere umano e che, nonostante sia diretto ad autocomprendersi, risulta inseparabile dallo sforzo di dare una forma alla vita – di non lasciare che questa semplicemente accada, ma di «condurla» in modo cosciente. Tenendo presente questo legame, si può dire che la metafisica procede dalla “vita cosciente” e, nella terminologia utilizzata da Kant, dalla sua “spontaneità”. L’accordo con la vita così intesa è caratteristico già dell’inizio platonico della metafisica, come lo è poi della ridefinizione ­della sua natura nella filosofia moderna. La “metafisica” si configura nel pensiero spontaneo di ogni uomo, prima di ogni sua possibile formulazione nel linguaggio della teoria. Alla filosofia spetta innanzitutto il compito di comprenderne le assunzioni fondamentali (nella metafisica dell’elementare) e il suo protendersi al di là (nella metafisica della conclusione), valorizzandole contro le iper-teorie che deformerebbero la nostra vita, se vi avessero effetto. Sono teorie che derivano da una prospettiva scientifica fondamentale che anticipa ogni pensiero reale, che si oppone e contrasta di necessità la vita spontanea della ragione nella forma di un uso dei concetti non affatto trasparente, ma rigido e avulso. In questo senso, Habermas manca il bersaglio quando obbietta alla metafisica, così intesa, di violare il principio di falsificazione, un principio non più negoziabile per la moderna comprensione della scienza. Ogni teoria della serie dei numeri naturali è certamente fallibile. Ma da ciò non è possibile ricavare nessun tipo di argomentazione contro la formazione spontanea della serie numerica stessa. Coerentemente, la giustificazione della metafisica non mira alla rivendicazione di una teoria infallibile o di un diritto a parlare ex cathedra da parte di chi cerca di valutare la portata dei pensieri ultimi (letzte Gedanken).

26Chi intendesse addebitare queste false conclusioni a tutta la metafisica europea precedente la modernità, dovrebbe fare immediatamente una mossa ulteriore, per distaccare almeno il protendersi al di là, caratteristico della metafisica della conclusione, dalla spontaneità della vita cosciente. Dal momento che a esso non sarebbe assegnato alcun valore veritativo, dovrebbe anche essere possibile rinunciarvi, e dare alla propria vita un orientamento di fondo all’insegna della modestia. Anche quest’obiezione è antica come la metafisica stessa in tutte le sue forme. Ed è collegata a quella scepsi della sospensione del giudizio, che non solo intende essere una critica della teoria, ma vuole soprattutto raccomandare una determinata organizzazione e una determinata attitudine di vita. È utile qui ricordare come proprio la filosofia moderna abbia preso forma a partire dalla difesa contro questa scepsi, ancor più che dalla difesa contro le iperteorie professionalizzate. Il successo della sua battaglia su entrambi i fronti illumina la sua formazione, il suo impianto interno e la sua influenza storica.

27Chi credeva di aver gioco facile con quella seconda mossa, rammenti anzitutto la posizione di Kant, il quale si trovava a sostenere la propria opera non tanto in un’epoca ebbra di iperteorie metafisiche, quanto in un periodo storico che aveva abbandonato la metafisica all’ironia e allo scherno. Per Kant non era Leibniz, ma piuttosto Voltaire, il contemporaneo maggiormente rappresentativo dello stile dell’epoca. Questi incarnava infatti la concezione per cui, nelle condizioni proprie della modernità, le indagini necessarie all’umanità potevano restare del tutto indifferenti a ogni tentativo che si richiamasse al non-titolo «metafisica». L’obiezione decisiva mossa da Kant a tale opinione, per altro direttamente connessa alle convinzioni alla base della sua filosofia, è questa: «Del resto, anche i sedicenti indifferenti, sebbene si ingegnino di mascherarsi cangiando il linguaggio della scuola in un tono popolare, appena vogliono riflettere su qualche oggetto, ricadono inevitabilmente in quelle affermazioni metafisiche verso le quali ostentavano tanto disprezzo»58. Vedremo tra breve come quest’asserzione sia applicabile all’analisi della teoria di Habermas esattamente come lo era al modo di pensare che Kant, duecento anni fa, attribuiva ai suoi contemporanei.

3. Autodescrizioni

28Ma perché Kant riteneva inevitabile che quell’indifferenza, apparentemente disimpegnata, fosse destinata a smentire se stessa, palesando una metafisica implicita, non appena soltanto si fosse pensato in termini generali e fossero state affrontate le problematiche davvero fondamentali? Un’indicazione sul più fondamentale dei motivi kantiani può essere ricavata da una lezione solo di recente pubblicata: «Non (possiamo) disavvezzare l’intelletto da quelle domande… Sono così intessute nella natura della ragione che non possiamo liberarcene. Anche tutti gli spregiatori della metafisica, che in tal modo hanno voluto apparire come spiriti spensierati, possedevano – Voltaire stesso – una loro propria metafisica. Infatti, ciascuno dovrà pur pensare qualcosa della sua anima»59. Il discorso sull’“anima” rappresenta qui solo il posto, lasciato vuoto, per tutte le risposte alle domande che la ragione ci costringe a porci a proposito di noi stessi: cosa pensi, infine, di te stesso quando, rispetto a tutto ciò che ti è noto e che sei capace di discernere, provi a rendere conto a te stesso di cosa e di chi veramente tu sia? È proprio questo l’interrogativo nel quale Kant, con parole che appartengono al patrimonio culturale dell’umanità, compendiava tutte le questioni della filosofia, un interrogativo che presenta un senso tutt’altro che banale solo se recepito, appunto, in questo significato, come sintesi di questioni che le preesistono e di tentativi volti a fornire risposte provvisorie: “Che cos’è l’essere umano?” Con un’apposita riformulazione, è possibile porre la questione anche nel linguaggio della teoria semantica della nostra epoca, in questo modo: quale auto-descrizione dell’essere che è capace di discorso ragionevole resiste bene a tutto ciò che sappiamo di lui e degli indispensabili presupposti di differenti autodescrizioni?

29Se si misconosce il senso sintetico della questione, ci si può facilmente acquietare con vecchie, e in parte banali, risposte: l’uomo è un essere vivente capace di ridere e di pensare, è homo faber, inventore delle proprie relazioni di vita, è un agente responsabile, è socievole – dunque capace d’interagire all’interno di istituzioni – di vivere in comune con altri uomini; è ego sempre in rapporto all’altro, quindi com-passionevole, egli è inoltre (così suona la banalità considerata, dal punto di vista della semantica, come progresso in rapporto alle altre risposte) un locutore. Tutte queste risposte si possono ricondurre, in realtà, alle prospettive presenti in determinate teorie, e possono così acquisire anche un profilo filosofico. Se vengono date però in maniera diretta, presentano tutte il medesimo carattere fondamentale che le porta a mancare il senso della questione: misconoscono, cioè, che la forza dirompente della questione risulta dal fatto che mira a una sintesi, mentre esse si attengono, nell’informazione che danno, al primo livello, e a un solo livello, quello dell’autodescrizione. In questo senso, esse attribuiscono all’uomo un’unidimensionalità estranea alla sua reale autocomprensione. E proprio per questo si sottraggono al pensiero che in tale autocomprensione in realtà è già all’opera. È per tale pensiero che il non-titolo “metafisica”, in accordo con la sua ridefinizione moderna, deve tenere aperto uno spazio anche nella teoria. Il titolo per sé non ha alcun significato. Può essere agevolmente sostituito – i pensatori più significativi successivi a Kant lo hanno evitato.

4. All’inizio il conflitto

30Fino a ora abbiamo designato soltanto ex negativo il punto di partenza delle questioni filosofiche che riguardano la metafisica, che emergono quando la filosofia aiuta la coscienza moderna ad articolarsi e a fare chiarezza su se stessa. La filosofia non ha misconosciuto, come fondata su un’illusione o una confusione, la scoperta che la comprensione che gli esseri umani hanno di se stessi conduce a un conflitto tra autodescrizioni parimenti convincenti circa quell’essere capace – sia per inevitabili presupposti sia per riflessione spontanea – di giungere a concetti che può applicare a se stesso. Noi siamo supposti essere o siamo considerati essere qualcosa di altro, ogni volta che esaminiamo i fondamenti di verità di asserzioni; se non ci limitiamo a riconoscere l’esistenza di norme non riconducibili a interessi di autoconservazione, ma ne facciamo dei criteri del nostro agire; se non solo manifestiamo noi stessi a un altro in maniera sincera, ma ci riveliamo a lui in confidenza. Queste autodescrizioni ci pongono già in conflitto con noi stessi. Infatti, sembra chiaro che siamo obbligati a riconoscere norme per cui non possiamo fornire una fondazione cogente. E l’intimità, in cui una vita si relaziona a un’altra, non permette, in alcune situazioni decisive, di comprendere quella relazione come posta sotto norme strettamente universali. Questi stessi conflitti ci costringono a pensare a una dimensione più ampia in cui possano finalmente essere risolti; una dimensione che renda inoltre possibile un’autodescrizione che riconcilii le autodescrizioni primarie. Il protendersi verso questa dimensione ha realmente luogo laddove gli uomini si trovano a condurre la propria vita in maniera consapevole. Un pensiero che si colleghi strettamente a quel protendersi, e rifletta sulle ragioni che vi dovrebbero avere il maggior vigore, non è sottoposto all’obbligo di dimostrare in anticipo che le sue riflessioni possono essere sostenute in modo definitivo da una teoria di tipo scientifico.

31I tre tipi di autodescrizione che ho prima menzionato, e che appartengono al gruppo molto più ampio delle autodescrizioni primarie, possono essere agevolmente differenziati nei termini di atti linguistici e di pretese di validità che a questi sono annesse. Ma concludere, alla maniera di Habermas, che già l’analisi di questi atti linguistici, in quanto tale, apra una prospettiva e dischiuda una dimensione nella quale le autodescrizioni della vita autocosciente coesistono in armonia, significa vincolarsi a un punto di vista che si sottrae alla comprensione dei conflitti e del modo in cui essi si originano – conflitti di cui abbiamo notizia nella nostra vita ben prima che intervenga la teoria. Ciò comporterebbe anche una presa di distanza dalla coscienza della modernità e dalle forme teoriche che ne caratterizzano il discorso filosofico.

32“Mondo della vita” è un termine nel cui profilo sta inscritta questa elusione. Enuncia infatti come il punto di partenza di ogni atto linguistico sia inevitabilmente una totalità in principio armonica. In realtà, Habermas, con questa espressione, intende anche custodire l’eredità dei concetti sistematici fondamentali della filosofia moderna, almeno quella parte che non è stata dissipata nelle illusioni di una qualche iperteoria. Ma il termine è stato messo in circolazione dagli apostati di un’immediatezza ormai da tempo perduta. E le deficienze di tale provenienza sono difficilmente cancellabili per mezzo di misure teoretiche ausiliarie, che mirano alla possibilità di una teoria sociale. Il pensiero di Habermas permane nella sfera d’influenza del modo di pensie­ro del suo primo maestro, Erich Rothacker – nonostante tutti gli sforzi e i risultati che lo hanno portato oltre.

5. Distanza e sintesi

33“Riflessione” è un termine fondamentale del pensiero della modernità, anche se andrebbe definito con maggior precisione. È un termine che comprende almeno due operazioni intellettuali. In primo luogo, la consapevolezza delle differenze tra le forme di comprensione che si sviluppano in maniera spontanea nella vita cosciente. Colui che riflette ha anche compreso di non essere a casa in un mondo solo e di non potersi immedesimare in esso senza rotture. “Riflessione” significa allora, in secondo luogo, una presa di distanza dalle tendenze primarie che stanno alla base della totalità delle nostre forme di comprensione e di autodescrizione. Una distanza tale da consentire l’apertura di due differenti possibilità di ottenere un atteggiamento stabile nei confronti dei fatti primari della nostra vita cosciente, che non implica semplicemente un’astensione dai pensieri ultimi. O le forme primarie della conoscenza e dell’agire consapevole, e in particolare i concetti del mondo ivi presupposti, possono essere, pur nel riconoscimento delle loro differenze, ricongiunti – e a questo scopo è necessario un pensiero capace di compiere un’integrazione che non è disponibile in nessuno dei livelli primari; oppure bisogna considerare un’illusione ciò che orienta i discorsi primari e vi è presupposto – un’illusione che riguarderebbe tutto ciò che fonda le loro pretese di correttezza e soprattutto di definitività. Le due alternative sono rigorosamente contrapposte. Ma per entrambe vale parimenti il fatto che la riflessione, presa nel suo secondo significato, ci deve rendere poco propensi a considerare come complete e definitive le convinzioni che si collegano ai discorsi primari e, dunque, o a trasporle e trasformarle in un altro contesto, in cui possano essere comunque conservate, oppure a prenderne completamente la distanza e sospenderne la validità in una forma di conoscenza che vi si contrapponga. Il pensiero moderno, in tutte le sue principali varianti, emerge da questa situazione problematica. Tale situazione risulta però elusa da un linguaggio teoretico come quello di Habermas, in quanto esso opta, anche se involontariamente, per una forma di immediatezza e considera affidabili fino in fondo le risorse del mondo della vita, senza sottoporle a un’indagine più approfondita.

34È importante notare che anche l’alternativa derivante dal secondo senso di riflessione non è imposta alla vita cosciente dalle abilità teoriche dei filosofi di professione o dal progresso scientifico. Anch’essa si sviluppa spontaneamente da una coscienza anteriore a ogni teoria e interpretazione. La filosofia moderna non ha fatto altro che mettersi nella posizione di questa coscienza, subordinandosi in tal modo a ciò di cui parla.

35È inoltre importante tenere presente il fatto che quei risultati teoretici della modernità, che si presentano nella maniera più evidente come metafisica, hanno trovato corrispondenza proprio in tale situazione. La metafisica moderna è stata una sequenza di sforzi teoretici tesi a risolvere, nel senso della prima delle due alternative, l’insieme dei problemi derivanti dalla riflessione su condizioni di validità e conflitti di validità. Il sistema concepito da Leibniz non è che il tentativo di una sintesi teorica capace di coniugare i differenti concetti di mondo ­– materiale, organico, mentale e formale – in un’ontologia unitaria. Una sintesi atta inoltre a sottrarre al conflitto le autodescrizioni dell’essere umano, e a porle in un continuum. È ancora più semplice riconoscere come la metafisica di Spinoza serva allo scopo di concepire e fondare il concetto antropologico di autoconservazione, su cui Hobbes aveva fondato la sua teoria politica, in maniera tale che esso non permanga in una situazione d’irrisolvibile conflitto con il concetto di una conoscenza pura in cui il sé è dissolto. Anche le concezioni metafisiche fondamentali della filosofia classica tedesca sono emerse da analoghi tentativi. Sono concezioni che hanno contribuito a formare e sostenere la coscienza di un’intera epoca. Ogni forma contemporanea di pensiero che a esse si ricolleghi, al di là delle loro molteplici trasformazioni, che porti o non porti il non-titolo «metafisica», si trova confrontata con il medesimo compito da assolvere. Jürgen Habermas, invece, riesce a vedervi solo l’espressione della pretesa conoscitiva mal indirizzata e ipertrofica di una élite marginale. Anche in questo caso dobbiamo sempre tener presente che il non-titolo “metafisica” è in grado di indicare, sia alla filosofia moderna sia alla vita moderna, una modalità di accesso a pensieri ultimi capaci di determinare quella stessa vita, solo nella misura in cui si appella a criteri di legittimità altri da quelli validi per il progresso scientifico. Certo, è vero che la chiarificazione di un compito non ci assicura affatto che il compito previsto possa essere effettivamente assolto. Ed è inoltre vero che, chi intenda individuare una modalità del pensiero differente dalla razionalità specifica della scienza, deve a maggior ragione giustificare l’introduzione di altri criteri di legittimità e porli in un rapporto, che a sua volta deve essere giustificato, con la razionalità della scienza. Solo così è possibile conservare quell’unità di senso della ragione cui si è vincolata la metafisica moderna – a differenza di altre modalità di linguaggio empatiche e prive di simili vincoli. Esiste però anche una maniera di presentare intenti e mire della metafisica tale che entrambi i compiti appaiano fin dall’inizio senza speranza di successo, semplici atti di presunzione. Questa è la procedura adottata da Habermas. A un tale misconoscimento e a una tale forma di riduzione, si può ribattere anche soltanto ricordando la maniera in cui i progetti della metafisica moderna sono edificati.

36È evidente come tutte le successive teorie di derivazione kantiana si siano poste al servizio delle spontanee forme di pensiero e dei conflitti della vita orientata dalla ragione, assumendosi inoltre quei compiti di giustificazione sopra menzionati. Ciò che le rendeva così impressionanti, e le faceva apparire superiori, non era un’astratta nozione dell’Assoluto inteso come supersintesi. Era piuttosto la maniera in cui riuscivano a rendere chiara a se stessa, rivelandone la dinamica interna, quella vita cosciente che prende necessariamente avvio all’interno di conflitti irrisolvibili a livello primario. Nonostante la loro connessione al pensiero kantiano, hanno recepito alcuni impulsi derivanti da Rousseau, il pensatore par exellence del conflitto. Inoltre, con il loro procedimento, indipendentemente dal metodo di costruzione utilizzato, intendevano allo stesso tempo soddisfare l’esigenza espressa da Jacobi, che la filosofia non dovesse edificare costruzioni autosufficienti. L’autentico compito della filosofia doveva essere quello di “rivelare l’esistenza”. Tutti questi impulsi sono stati riuniti e hanno trovato attuazione tanto nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel, quanto nella poesia di Hölderlin, che è guidata da pensieri metafisici; in maniera diversa (e più kantiana), anche nella musica di Beethoven.

37La Fenomenologia di Hegel illumina la costruzione interna di alcune forme di discorso, incorporando le autodescrizioni che sono in esse racchiuse e che si formano prima di ogni esplicita teorizzazione. A dispetto delle analogie, il suo approccio teoretico non è quello di una teoria evolutiva del tipo di Piaget e di Kohlberg. Questo perché tratta di forme di discorso disponibili anche per la coscienza adulta, che coesistono e sono in concorrenza tra loro. Di conseguenza, si sovrappongono e tendono con forza a sintesi discorsive che, a loro volta, come Hegel tenta di mostrare, richiedono che vengano sviluppati concetti complessi di mondo, che si distaccano dagli abituali concetti primari di mondo e che perciò, da un punto di vista metafisico e procedurale, presentano una costituzione «speculativa». Al modello costituito da una teoria di questo tipo si sono orientate successivamente molteplici teorie significative per lo sviluppo della coscienza moderna. Kierkegaard, Heidegger e Sartre ne rappresentano gli esempi più emblematici.

6. Alla fine il naturalismo?

38Ma per il successivo sviluppo della storia della modernità risulta decisivo l’approccio rappresentato dall’altra possibilità di distanza riflessiva nei confronti delle tendenze vitali primarie: la soluzione dei conflitti primari attraverso la comprensione di quelle illusioni, dalla cui accettazione dipendono nel loro complesso o in parti essenziali, e, pertanto, la loro risoluzione in una descrizione naturalistica del mondo. Quest’ultima è sorretta da un’autodescrizione dell’essere umano che riceve un potente impulso non tanto da eventuali forme di discorso e dalle loro relative istanze di validità, quanto dall’esperienza quotidiana dell’uomo – da fatti come la procreazione e la morte, l’ereditarietà e la malattia, da osservazioni sulla continuità delle specie, inclusa la specie umana, e inoltre da nozioni relative alla sua filogenesi e alla lunga preistoria delle culture superiori, nozioni acquisite solo a partire dalla prima metà del xix secolo. Un naturalismo, inteso come teoria capace di conciliare queste esperienze con i fatti che, da Platone in poi, avevano sbarrato la strada a un naturalismo conseguente sul modello di Democrito, si è sviluppato solo nella seconda metà del nostro secolo. Questo naturalismo è un prodotto delle nuove culture regionali sorte negli ex territori coloniali della vecchia Europa. Ma può essere compreso solo come risposta rovesciata a quei tentativi – di cui la Fenomenologia di Hegel costituisce un esempio – di fornire un’autentica spiegazione e una sintesi finale delle forme elementari del discorso.

39Questo tipo di naturalismo si serve dei mezzi di analisi delle forme del discorso messi a disposizione dalla teoria dell’uso dei segni, anch’essa una conquista del tardo xix secolo. In questo senso – inteso come una prospettiva che non poteva affatto essere aggirata – il naturalismo è implicato nelle concezioni teoriche del linguaggio che la filosofia della nostra epoca ha sviluppato come uno strumento irrinunciabile per la chiarificazione di alcuni problemi filosofici fondamentali. Un tale naturalismo analizza le forme primarie del discorso in quanto modi dell’uso regolato di segni. I presupposti riguardanti l’uomo e il mondo impliciti in quei discorsi sono ridotti alle condizioni d’uso dei segni linguistici. In questo modo, sembra possibile chiarire l’uso dei segni tramite una teoria del comportamento linguistico che, a sua volta, è riconducibile alle leggi dell’occupazione successiva di punti spazio-temporali nel mondo materiale. Le assunzioni connesse ai discorsi primari, che presuppongono dei fondamenti di validità e una razionalità coerente dell’uso del linguaggio, vengono sospese da questa dimostrazione a più livelli. Si tratta di forme d’interazione ben funzionanti, ma che, una volta analizzate, perdono tutte le loro pretese di conoscenza e di intelligibilità autosufficiente.

40Le formulazioni più potenti di questo tipo di naturalismo risalgono all’americano Quine. Le sue tesi, e la prospettiva naturalistica che le informa, sono da tempo penetrate nella problematica della filosofia del linguaggio, riconfigurandone completamente l’impostazione originaria fornita da Frege e Wittgenstein. L’ampio dibattito circa la miglior forma di comprensione dei significati linguistici, e delle convenzioni che ne stanno alla base, è dominato dalla questione di fondo della legittimità o dell’illegittimità della riduzione naturalistica.

41La ricezione dei metodi della filosofia del linguaggio in Germania era caratterizzata, fino a poco tempo fa, da una lacuna fondamentale, vale a dire dall’indifferenza verso l’impellenza del problema naturalistico. Quest’indifferenza si può riconoscere dal fatto che i termini «semantici» fondamentali come “significato”, “verità” e “riferimento oggettuale” delle espressioni linguistiche, sono impiegati in maniera assolutamente aproblematica e come se fossero termini del tutto autoesplicativi. Quest’ingenua sicurezza è in sommo grado caratteristica della teoria habermasiana dell’agire comunicativo. Gli rende possibile estendere universalmente il metodo della chiarificazione semantica degli atti linguistici, che al contrario occorrerebbe impiegare con grande prudenza e riserbo. In questo modo Habermas può introdurre il concetto di mondo della vita come la vera e propria dimensione portante della comunità della comunicazione, senza sottoporlo ad alcun ulteriore tentativo di chiarificazione e giustificazione. La stessa ingenua sicurezza gli impedisce di scorgere alcunché di problematico nell’ampia fiducia che accorda alla teoria degli atti linguistici di Austin. Quest’ultima fu elaborata in un ambiente conservatore, immunizzato contro il naturalismo. Anche John Searle, che ha sistematizzato questa teoria in una forma comoda per Habermas, ha ritenuto nel frattempo inevitabile rendere conto del senso dell’intenzionalità connesso agli atti linguistici, per giustificare se stesso di fronte al consesso di coloro che s’inseriscono in una prospettiva naturalistica e sono persuasi della sua correttezza.

7. L’alternativa

42Ma anche tale naturalismo può essere definito, in termini ampiamente giustificati, una metafisica. Metafisica in quanto tale non significa infatti antinaturalismo, come si può facilmente rilevare dagli esempi di Aristotele, Spinoza e Nietzsche. Non è certamente una teoria scientifica. Il naturalismo in questione, tuttavia, si ricollega ai risultati della fisica e conferma l’opinione, per lo più legata alla teoria fisica, secondo cui essa sarebbe una corretta descrizione della realtà, e non solo uno strumento di dominio teorico del sapere empirico. Questo tipo di naturalismo è il risultato di un’estrapolazione, e nella sua struttura si presenta come una sintesi di discipline scientifiche che non può essere intesa a sua volta quale esito di una ricerca empirica. In questo senso, corrisponde largamente al concetto kantiano di una metafisica della conclusione. Corrisponde inoltre alla concezione moderna della metafisica in quanto intende essere una comprensione ultima del nesso tra differenti forme del discorso e modi di esperienza.

43Tuttavia, un tratto fondamentale separa questo naturalismo dal progetto della metafisica moderna, un tratto che è veramente costitutivo: il naturalismo mira all’autodistanziamento della vita cosciente. Non la trasforma in un modo di esperienza in cui si possa conoscere come custodita e raccolta – senza dunque essere misconosciuta – in e tramite pensieri ultimi, “idee”. La dinamica, innescata dai conflitti e dalle conflittuali pretese di validità della vita, presenta, nel naturalismo, un unico esito in grado di dare giustificazione e sottoporre a verifica: la conoscenza dell’unità e dell’onninclusività delle leggi di natura. La vita dell’uomo è un agire e interagire tramite segni e suoni completamente determinato da queste leggi. Una volta giunti a una tale conclusione, ci si può accomodare in questa vita in maniera gaia e rilassata – senza tutte quelle pretese di andare al di là dei limiti mondani, e anzi restando del tutto impermeabili alle loro seduzioni, se venissero avanzate. E così il naturalismo, a prescindere dal suo rifiuto dei «pensieri ultimi», presenta alla fine anche conseguenze politiche.

44Dobbiamo dunque distinguere il naturalismo radicato nella metafisica dal naturalismo propriamente moderno, di stampo riduzionista. A queste due tipologie si può inoltre aggiungere un terzo tipo, un naturalismo del common sense privo di una pretesa teorica chiaramente formulata. Ora, chi si mostra indifferente nei confronti del naturalismo specificamente moderno (da Holbach a Quine) e, tuttavia, nella teoria sostiene un universalismo giustificato con mezzi filosofici, resta confinato in una posizione marginale rispetto alla situazione attuale del pensiero, ed è incapace di assumersi e proseguire in maniera credibile il progetto della modernità. Il fatto che oggi proprio la teoria del linguaggio, da cui Habermas trae gli argomenti del proprio universalismo, favorisca in modo eminente il naturalismo, e che Habermas però ignori l’ambiguità di fondo di questa argomentazione, gli procura i sorrisi compiaciuti di quanti si presentano come i «postmoderni», non appena si rendono conto di quale potente alleato involontario abbiano reclutato.

45Si potrebbe certo considerare anche una variante “postmoderna” di altro genere, caratterizzata da una reticenza teorica, che si attiene, come già Montaigne, entro i limiti di innegabili verità parziali e di indispensabili adempimenti di vita. Ma, in questo caso, le pretese universalistiche della teoria dovrebbero decadere. Si potrebbe anche accordare il primato alla teoria sociale e fornirle le migliori concettualizzazioni delle forme e dei processi sociali. Ne risulterebbe però solo una teoria speciale che, per quanto dotata di un grado di generalità paragonabile a quello della fisica o dell’economia, porterebbe con sé tuttavia l’intero bagaglio di problemi di classificazione e di fondazione caratteristici di queste discipline, i quali sarebbero destinati a rimanere intonsi. Di conseguenza, sarebbe compromessa la combinazione di problemi filosofici e sociologici caratteristica dell’opera di Habermas.

46Ciò non significa che l’universalismo di Habermas sia compromesso, e tanto meno lo siano i suoi sforzi volti a porre al proprio servizio i mezzi migliori della spiegazione filosofica. Ma dovrebbe risultare chiaro come il compito di fondazione connesso a quell’universalismo richieda uno sforzo che va ben oltre. E la circostanza che Habermas rimuova da tutte le sue considerazioni il naturalismo – sembianza capovolta della metafisica moderna – deve porre nella giusta luce la superficialità con cui tiene in sospetto la metafisica bandendola dal dominio della considerazione razionale. Il suo sospetto è complementare alla rimozione del naturalismo.

47Si potrebbe anche mostrare che le chances migliori per il naturalismo consistono proprio nell’essere fondato sulla teoria del linguaggio e, in questa versione, finisce per dar luogo a una prospettiva che non può essere semplicemente lasciata a margine. Ciò non giustifica però l’affermazione secondo cui al naturalismo spetta l’ultima parola. E non gli spetta in virtù del fatto che può essergli contrapposta una prospettiva che si trova sulla linea di fuga della metafisica, che è assolutamente indissociabile dal progetto filosofico della modernità.

48Dovrebbe risultare dunque evidente che l’opera di configurazione di pensieri ultimi e, pertanto, unificatori – pensieri in cui la vita cosciente può giungere a una comprensione di sé – non vuole superare la scienza con i suoi stessi mezzi, non aspira ad alcuna teoria fondativa e non è impegnato nell’istituzione di un mondo dietro il mondo. Alla sequenza di tali criteri negativi potrebbero aggiungersene altri – per esempio che il successo dell’impresa non dipende dalla possibilità di giustificare il realismo in materia di conoscenza del “mondo esterno”, o di giungere a uno stadio definitivo della conoscenza delle cose in sé. “Sostanza”, “libertà”, “vita” e “spirito” erano una volta i concetti fondamentali della metafisica moderna. La loro accettazione è interamente dipendente da una tesi sulla realtà, ma si tratta di una tesi che, fin dall’inizio, ricomprende il procedimento del discorso in ciò che essa pone come reale. Il mondo vero dei metafisici moderni non è stato un mondo dietro il mondo e neanche un mondo di pura oggettività, rimasto privo di interpretazione di fronte alla conoscenza come tale.

49Non possiamo in questa sede interrogarci oltre su come questi concetti di mondo possano essere ulteriormente determinati e giustificati e su cosa possa loro corrispondere nel pensiero attuale. Questo è un peccato, e costituisce una vera e propria mancanza nella serie delle tesi qui proposte. La replica più efficace a coloro che contestano la legittimità e la possibilità di un pensiero che s’inscriva in una linea di continuità con la moderna tradizione della metafisica sarebbe infatti costituita dalla dimostrazione della sua sopravvivenza attuale. Un genere di prova che mostra tutta la sua efficacia anche nell’ambito della procedura giudiziaria – e che consisterebbe appunto nel mostrare che quel pensiero emerge davvero e viene sviluppato nella forma che gli è peculiare. Ma di fronte alle tesi, astratte e pregiudiziali, con cui Habermas formula la sua obiezione a esso, è necessario far ricorso all’apologia e alla polemica. E qui domina un’atmosfera del tutto differente, e vi sono perfino ristrettezze di spazio che non permettono che le riflessioni peculiari a quel pensiero possano essere sviluppate nell’andamento che è loro proprio.

50Il posto che abbiamo assegnato alla metafisica moderna può tuttavia suscitare l’impressione che ogni pensiero conclusivo sia destinato a essere nient’altro che una proiezione o un idolo baconiano. Quel pensiero sarebbe allora già sempre eluso dalla riflessione sulle sue condizioni, che diverrebbe l’unica fonte di legittimazione. Pertanto occorre almeno fare un accenno a come sia possibile giustificare quei pensieri ultimi, se non altro dal punto di vista formale. In un primo momento, è necessario elaborare le disomogeneità interne ai concetti primari di mondo e alle autodescrizioni, e i loro conflitti reciproci, per poi tradurli in concetti sintetici di secondo livello. In un secondo momento, va mostrato che i pensieri conclusivi non sono semplici finzioni, ma sono capaci di verità in base a tutti i criteri di verifica applicabili in quest’ambito60. In un terzo momento, poi, l’intera sequenza dell’indagine deve essere ricostruita a partire dal suo punto finale, in maniera tale che ciò che al principio sembrava solo una conclusione possa essere compreso, al tempo stesso, come un punto di partenza. In tal modo, una teoria iniziata come analisi della dinamica dei nostri discorsi, si converte in un pensiero che prende avvio dai pensieri conclusivi e dai loro contenuti. Di conseguenza, si trasforma in un pensiero sui nostri discorsi nella loro totalità, un pensiero che addirittura subordina se stesso ai contenuti inizialmente dischiusi come pensieri conclusivi. È nella costituzione del sistema di Kant che si delinea per la prima volta questo modo di pensare, che può risultare valido anche nel presente, a patto di deporre le sue pretese di giungere a quel sapere un tempo qualificato come «assoluto». Deve piuttosto rifarsi a quel senso di – «sapere» che è all’opera – seppure a partire da presupposti completamente differenti – negli itinerari teorici di Wittgenstein e Heidegger61.

51Ciò può forse bastare a dissipare l’apparenza che la definizione della metafisica moderna fin dall’inizio si impigli necessariamente in un assetto teorico incapace di sfuggire al sospetto di finzione. Queste astratte delucidazioni non sono comunque di grande utilità. In questa sede, si possono chiarire in maniera sufficientemente adeguata solo il concetto di metafisica moderna, la situazione a cui questa risponde, e alcune sue condizioni di possibilità.

8. Mutamento di paradigma?

52Abbiamo così raggiunto il punto in cui, a partire dalla nostra comprensione della costituzione della metafisica nella modernità, risulta necessario fornire qualche spiegazione sulla problematica dell’«autocoscienza». Habermas attribuisce alla fissazione sull’autocoscienza, come campo di ricerca e mezzo di risoluzione di problemi, quell’ipertrofia che crede di scoprire in ogni metafisica e che considera una specie di intralcio al progetto della modernità. In questa sua diagnosi di uno sviluppo distorto, concorda con le critiche mosse dalla prima teoria critica francofortese. Quest’ultima, a sua volta, si ispirava alla concezione heideggeriana di una storia della decadenza del pensiero che sarebbe giunta al suo punto di crisi finale con l’universalizzarsi dell’autoreferenzialità dell’autocoscienza. A dimostrazione di questa patologia della modernità, si possono portare alcuni teoremi di Fichte. Tuttavia, a differenza dei suoi garanti, Habermas non aspira a una svolta capace di volgere la crisi in uno stile di pensiero del tutto nuovo. Gli è sufficiente in parte constatare, e in parte promuovere, un mutamento del “paradigma” teorico, in seguito al quale i medesimi problemi, che i classici della modernità con il loro orientamento all’autocoscienza si limitavano ad affrontare attraverso vane iperstilizzazioni della potenza del pensiero, possano giungere a una soluzione tanto semplice, quanto felice.

53Questo nuovo paradigma risulta da un radicale riorientamento teorico verso la comunicazione linguistica. Habermas è persuaso che già i classici della modernità avrebbero potuto compiere questo passo. In ciò egli si attiene al suo antico intento, ispirato da Benjamin, di reperire tracce di un pensiero promettente, ma che sarebbe rimasto nascosto e represso, nell’opera giovanile di Hegel. Il linguaggio e i modi d’interazione linguistica rappresentano per Habermas il punto di convergenza a cui si orientano tutti gli sviluppi teorici autenticamente moderni. Questi possono servirgli dunque complessivamente come base per la sua teoria della modernità – una modernità di cui egli intende salvare il progetto e proseguire il discorso62 – nonostante siano stati introdotti come metodi di ricerca indipendenti solo a partire dal Novecento. Habermas è costretto perciò ad argomentare che, nella storia della prima età moderna, un pensiero non ancora sufficientemente consapevole di sé ha svincolato dall’interazione linguistica il momento dell’autocoscienza, da quella completamente dipendente, elevandolo al rango di una grandezza di riferimento solitaria e autonoma. Quella stessa mossa ha finito poi col prestare il fianco all’operazione teorica degli antimodernisti. Da ciò risulta chiaro come Habermas, con l’ascesa di un’antica, per quanto rimossa, intuizione allo status di nuovo paradigma teorico, intenda offrire una prospettiva di salvezza e di rinnovamento per il pensiero moderno.

54In via del tutto preliminare va detto soltanto che è difficile che questo schema argomentativo, che delinea un radicale mutamento di paradigma generato unicamente in risposta a una fallacia teorica, possa far luce sulla dinamica della storia della teoria moderna. Saremmo almeno lieti di sapere quali risultati dei loro progetti teorici avrebbero spinto i classici della modernità a sottrarsi a quel nuovo paradigma che si trovava già nella loro disponibilità. Dal momento che quei pensatori, come già ricordato, intendevano chiarire le tendenze fondamentali della vita degli esseri razionali nascoste nei linguaggio delle teorie premoderne e liberarle dalle loro contraddizioni, la spiegazione più evidente sembra essere che, a ragione, non riuscivano a vedere come la pluralità dei concetti di mondo e delle autodescrizioni ivi presupposte potessero essere rese trasparenti e coerenti attraverso l’analisi del linguaggio e dell’interazione.

55Va tuttavia senza dubbio riconosciuto che la teoria dell’uso dei segni e specialmente la sua semantica (la sua teoria dei significati) hanno reso disponibili nuovi strumenti per il chiarimento di antiche questioni e compiti teorici della filosofia. La questione è solo se sia legittimo interpretare tale spostamento teorico come uno storico mutamento di paradigma, in forza del quale un’autocoscienza, collocata tramite una serie di manovre in una posizione teorica enfatizzata e dunque destinata, come forma di vita, a essere priva di fondamento e di speranza, possa essere redenta grazie all’irruzione nella comunità della comunicazione, entro un comune mondo della vita.

9. Autocoscienza e forma linguistica

56Procedendo con l’esame della questione, è opportuno ricordare che Kant, indubbiamente responsabile delle aspettative teoretiche riposte sul principio dell’“autocoscienza”, era ben lungi dal considerare quest’ultima un’entità solitaria e autosufficiente. E ne ha fatto un uso teorico quale principio, un principio che tuttavia doveva funzionare in un quadro di riferimenti ben più ampio. Né le forme logiche fondamentali, né le modalità di fondazione della scienza e della metafisica, né le norme fondamentali dell’agire possono essere derivate da quel principio quali sue dirette implicazioni. Che l’autocoscienza le preceda, significa solo che perderebbero il loro senso, il loro impiego sistematico e anche il fondamento della propria legittimità, se non fossero a esse presupposti degli esseri autocoscienti. In questo senso specifico, l’autocoscienza è il punto d’ancoraggio di ogni uso della ragione e la garanzia di validità delle norme, non solo il loro destinatario.

57Tutto ciò necessiterebbe sicuramente di maggiori delucidazioni. Ma il punto decisivo può essere presentato anche in questo modo: pur non potendo più promuovere l’autocoscienza al rango di fondamento universale autosufficiente, tuttavia l’aspettativa teorica riposta su di essa non è divenuta obsoleta solo perché è emerso che la semantica della forma proposizionale e della forma normativa richiedono una chiarificazione nell’ambito di una teoria del significato linguistico. Tutto dipende dalla possibilità di giustificare la tesi, ben più forte, secondo cui l’autocoscienza si riduce all’interazione linguistica – ovvero che è completamente derivabile da questa.

58È dunque da questa tesi che dipende il successo del naturalismo fondato su base semantica, nell’ampio terreno della sua strategia fondativa. Ed è proprio questa tesi che ho tentato di confutare già da lungo tempo, quando la teoria del linguaggio era ancora costretta nell’orizzonte teorico di un interazionismo di matrice semiotica. Naturalmente, in questo stesso ambito, si presenta anche il problema ulteriore di come l’autocoscienza possa essere adeguatamente descritta e forse anche compresa, senza ridurla a interazione linguistica. Questo problema, inizialmente solo di ordine teorico, si ricollega però poi direttamente all’altro problema, di cosa sia di per sé la vita autocosciente. Una vita siffatta, infatti, dipende dalla possibilità di raggiungere una descrizione stabile di se stessa. E questo spiega anche il nesso che lega la prospettiva di una forma di metafisica, intrinseca al progetto della modernità, alla problematica di una teoria dell’autocoscienza.

59Se oggi abbiamo motivo di constatare una “svolta” nello stile filosofico e nello stato della discussione, ciò non accade perché saremmo in presenza di un mutamento di paradigma capace di imprimere svolte all’intero quadro teorico. Tantomeno dobbiamo permettere a Habermas, astuto scopritore di conservatorismi, di mettere all’angolo ogni mutamento nella situazione teorica e nel clima teorico che non favorisca il suo teorema dell’interazione, considerandolo come un presagio di acquiescenza politica e di confusione culturale.

60Ho già avuto occasione altrove di specificare come gli sviluppi teorici, per cui propendo, siano quelli al centro del dibattito anglosassone63. I problemi dell’autoattribuzione e dell’autocoscienza non vengono qui più risolti pregiudizialmente a favore dell’interazionismo linguistico – e dunque neppure pregiudizialmente in una maniera che è di vitale interesse per la sopravvivenza teorica del naturalismo moderno, il quale segue e seguirà come un’ombra la metafisica moderna. Sarebbe certamente fuori luogo, in questa sede, entrare nei dettagli teorici di quest’argomentazione. E tuttavia è indispensabile fare alcuni accenni: Thomas Nagel ha tentato, già molto presto, di mostrare che la “soggettività” richiede un’altra spiegazione rispetto a quella che l’uso della prima persona singolare nel linguaggio può fornire. La semantica dei dimostrativi e delle modalità ha condotto poi ad attribuire all’autorelazione implicata nell’uso dei predicati un ruolo chiave nella chiarificazione di ogni uso del linguaggio (H.N. Castañeda, John Perry, David Lewis, ecc.). Quest’intuizione appartiene alla stessa costellazione a cui afferisce anche l’idea che la relazione a un oggetto (denominata “referenza”) presupponga una modalità distintiva di autoattribuzione e pertanto anche di autocoscienza (Sidney Shoemaker). E di questa costellazione fa parte anche l’ulteriore intuizione che l’uso pienamente sviluppato del concetto di verità includa la possibilità dell’autorelazione: ciò che affermo essere vero viene fatto valere come qualcosa che appare essere “così e così” non solo a me (Roderik Chisholm, ecc.).

61Tutti questi teoremi non li si può certo concepire semplicemente come verità acquisite una volta per tutte. È abbastanza difficile perfino coordinarli correttamente in un campo problematico, la cui particolare difficoltà va nuovamente riconosciuta. È ovviamente possibile farli propri e inserirli nella cornice di una raffinata dottrina naturalistica. Nonostante la loro comparsa abbia portato alla riabilitazione anche dei più speculativi tra i metafisici (E. Anscombe, con riserva, nel caso di Descartes e R. Nozick per Fichte), la forza dirompente di quei teoremi non sta nel fornirci la licenza di fondare una qualche metafisica, che sarebbe da essi deducibile senza ulteriori preoccupazioni. Consiste piuttosto nella soppressione del dogma dell’autosufficiente priorità dell’interazione linguistica nei confronti dell’autocoscienza, che a sua volta sarebbe completamente derivabile da tali teoremi. Insieme ad altri segni di allentamento della situazione teorica, queste teorie convergono nell’intento di sottrarre le forme dell’elaborazione concettuale e della spiegazione, in cui sono condensati i temi della metafisica moderna, alla parvenza di obsolescenza che grava su di esse ancor prima di nascere64.

62Ogni metodo nuovo e produttivo induce coloro che lo sviluppano a credere di trovarsi in possesso di qualcosa di simile alla pietra filosofale. Niente di più facile che a tale credenza si colleghi l’aspettativa di poter catturare finalmente in una teoria universale ciò che fino a quel momento era stato refrattario alla comprensione. Habermas associa questa speranza, nel frattempo non più valida nell’ambito della semantica, alla sua teoria sociale, che ha elaborato molto presto e già allora assolutamente “con un intento pratico”65. Ma in ogni aspettativa così ambiziosa si introducono ben presto considerazioni di altro genere. Non devono arrestare né arresteranno l’impulso che ha dato origine al nuovo approccio metodologico, ma necessariamente demoliscono quella prematura certezza di sé secondo cui da un paradigma apparentemente rivoluzionario si giunge, con un percorso diretto, a una teoria universale. Questa situazione ci consente, inoltre, di comprendere e proseguire il progetto della modernità meglio di quegli approcci teorici che, secondo Habermas, se fossero stati perseguiti già allora in maniera conseguente, avrebbero innalzato la teoria sociale e linguistica alla collocazione di sapere fondamentale, che era stata abbandonata dalle teorie precedenti. I pensatori della modernità si sono sottratti a questa prospettiva, spesso anzi – per esempio Hegel – rifiutandola esplicitamente, sulla base di motivazioni valide, per quanto non sufficientemente esplicitate.

10. Comunicazione invece di soggettività?

63Per Habermas è bene accetto chiunque sia pronto a testimoniare contro ogni annuncio di sopravvivenza della metafisica nella modernità, a condizione, tuttavia, che sia disposto anche a confermare il primato della comunità della comunicazione in maniera sufficientemente chiara e a marcare una distanza abbastanza decisa nei confronti della “filosofia della soggettività” e della metafisica. Questa tesi non si limita a condizionare tutta la sua opera. Deriva da motivazioni autentiche e certo anche molto personali, quelle stesse motivazioni che lo hanno portato a fare filosofia e a diventare un pensatore66. La questione della sostenibilità delle sue tesi, dunque, non riguarda solo la possibilità di stabilire se un mutamento di paradigma teorico, che dia priorità all’agire comunicativo rispetto a ogni teoria della soggettività, tracci davvero la linea di confine decisiva di un’epoca. Su di un lato di questa demarcazione, che rappresenta il passato da cui prendere le distanze, si troverebbero tutti coloro che non riescono a tenere il passo con la modernità progressista insieme con tutte le varianti del pensiero conservatore; dall’altro, la comunità dei testimoni convocati da Habermas. All’interno di questa comunità è permesso addirittura parlare di un “assoluto”, a patto che venga espressa ostilità verso la nozione di soggetto e verso il termine “metafisica”. Nel tracciare questa linea di confine è in gioco anche la possibilità di stabilire se il pensiero di Habermas, per ciò che concerne quella vita da condurre alla luce della ragione, riposi su assunti soddisfacenti o inadeguati. Chiunque si relazioni alla sua opera deve cercare di spiegarsi proprio tale questione.

64Sono state in precedenza fornite alcune indicazioni sulle molteplici ragioni che hanno portato al ritorno del tema dell’“autocoscienza” nell’analisi dell’uso del linguaggio. È la modalità stessa in cui tale ritorno si è attuato a offrirci un punto di appoggio per risolvere la questione. Si può osservare, infatti, che il funzionamento della comunicazione linguistica implica una relazione a sé dei «parlanti» – nei termini di una delle sue condizioni costitutive, che è altrettanto originaria quanto la forma soggetto-predicato della proposizione. Questo non significa ripetere la tesi che Habermas si limita ad attribuire alla «filosofia del soggetto», secondo cui, cioè, la comunicazione ha luogo solo se dei soggetti solitari entrano reciprocamente in comunicazione. Una simile opinione rappresenterebbe soltanto il rovesciamento dell’ipotesi perseguita con convinzione da Habermas, che cioè il mondo della vita linguisticamente organizzato, per sé autosufficiente, è in grado di generare le relazioni a sé – e dunque le identità dei parlanti – da sé. Ma, in questo modo, non si sarebbe davvero in grado di descrivere e comprendere né il linguaggio né la comunicazione.

65Dobbiamo piuttosto affermare che la capacità linguistica può svilupparsi solo insieme all’emergere spontaneo della relazione a sé. Un emergere che a sua volta deve essere spiegato. E la sua spiegazione richiederebbe di menzionare una relazione a sé implicita, che è già presente e all’opera nei più elementari livelli dell’acquisizione linguistica. Infatti, l’acquisizione della capacità di usare la prima persona singolare grammaticale (il pronome “io”) ha luogo solo in una fase successiva all’acquisizione del linguaggio. Se l’esistenza dell’autorelazione dipendesse e fosse determinata in maniera costitutiva proprio dall’acquisizione di tale capacità, la tesi del primato dell’interazione avrebbe gioco facile; si tratterebbe di una verità addirittura triviale e ovvia.

66Ma se è possibile dimostrare che già la padronanza dei dimostrativi, l’uso corretto del nome proprio, l’uso sviluppato della negazione e, ­quindi, di una delle condizioni elementari della comprensione della verità, sono comprensibili solo sulla base della relazione a sé, la situazione si modifica in maniera sostanziale. Bisogna dunque partire dal presupposto che la relazione linguistica ha luogo in un quadro complesso di attività intelligenti che non si trovano l’una con altra in un rapporto progressivo. È assodato infatti, per ciò che concerne le prestazioni linguistiche superiori – come per esempio la padronanza dell’identità e dei pronomi relativi – che possono essere acquisite solo attraverso salti, nei quali più funzioni possono essere apprese “in un colpo solo”, proprio come in un lavoro artigiano o nello sport s’impara una difficile doppia impugnatura. Esse vengono certamente apprese, ma non una dopo l’altra, bensì a partire da tentativi spontanei, se pur orientati a un modello, che sfociano alla fine nell’emergere spontaneo di una forma di comprensione e in una capacità. Tutto ci induce a credere che anche i primi passi dell’acquisizione del linguaggio siano mossi all’interno di queste irriducibili e complesse reti d’interdipendenze.

67Anche se questo è riconosciuto, siamo ancora lontani dall’ottenere il nullaosta per figurarci una metafisica basata sulla relazione a sé della vita cosciente. Ci siamo piuttosto inizialmente avvicinati al naturalismo in un punto che gli è essenziale. Il naturalismo parte infatti dall’idea che le attività comunicative – e in generale tutte le attività che implicano una “comprensione” di “significati” – vadano intese alla fine come una serie di processi funzionali nella corteccia cerebrale. A prescindere dal fatto che è solo negli esseri viventi socializzati che questi processi conducono sino alla capacità linguistica, la corteccia cerebrale costituisce la base individuale dell’emergere e dell’utilizzo di questa capacità. Abbiamo motivo di credere che i processi funzionali della corteccia cerebrale corrispondano alle prestazioni complesse e ramificate che si possono osservare nello sviluppo dell’intelligenza.

68Tuttavia risulterà comunque privo di credibilità qualunque concetto di una moderna metafisica incapace di stabilire una relazione con i dati di partenza del naturalismo. Chi, dunque, considera che l’autorelazione, fin dai suoi inizi, sorge insieme alla capacità linguistica, non deve lasciarsi intimorire dal fatto che in questo punto i suoi argomenti convergono con quelli del naturalismo. Resta il problema di mostrare nel dettaglio come sia possibile accogliere i dati da esso provenienti, senza nel contempo volerlo avvalorare.

11. Speranza e avventatezza

69Al problema della corretta determinazione del ruolo dell’autorelazione nell’agire linguistico, corrisponde direttamente, ma a un livello superiore, un altro problema: come concepire senza riduzionismi la socialità dell’essere umano, in quello stadio evolutivo della sua intelligenza che corrisponde alla capacità di produrre una cultura superiore. Con socialità s’intende sia la relazione d’intimità che si stabilisce nell’esperienza della condivisione umana in maniera indipendente dal gruppo sociale, sia la realizzazione di sé che si attua in associazioni istituite tramite lo scambio argomentativo – dunque, la relazione io-tu di Buber e la “sfera pubblica” di Habermas. Persino qui, dove è possibile rinvenire la prima, personale e dunque autentica motivazione del pensiero di Habermas e di alcuni altri interazionisti, sono in gioco rappresentazioni e questioni da risolvere, sulla miglior maniera di pensare come l’autorelazione della vita cosciente possa essere coinvolta in forme di condivisione umana e di scambio comunicativo.

70Il mondo moderno non si è limitato a produrre esperienze di rinuncia e di dolore dovute all’isolamento. Sotto le voci “alienazione” e “scissione”, ne ha fatto anche un tema di interesse teorico, che ha ricevuto ancora una volta da Rousseau l’impostazione dotata di maggiore incisività. Ben presto emersero numerosi tentativi teorici e movimenti politici di riforma miranti a ricuperare nell’alveo di una comunità protettiva o di una vita politica – capace di trasformare il “soggetto” in “cittadino” o in “compagno”– coloro che l’isolamento aveva corrotto. I primi tentativi teorici contro il processo d’isolamento dello spirito sono costituiti dalla dottrina di Jacobi, secondo la quale ogni “io” trova in un “tu” il suo complemento, e dalla filosofia dell’unificazione del primo Hölderlin. A questi primi tentativi fecero seguito la filosofia sociale del riconoscimento di Fichte e l’antropologia dell’uomo come essere essenzialmente sociale di Feuerbach e Marx. Dopo la Prima guerra mondiale, queste fonti confluirono sino a formare un’ampia corrente di pensiero. La teoria dell’intersoggettività di Husserl, il concetto di coscienza di classe di Lukács e il trattato di Martin Buber sull’originarietà della dimensione che rende possibile l’apertura reciproca tra l’“io” e il “tu”, ne costituiscono i contrassegni più evidenti. Nel pensiero di Heidegger, questo “tra” è stato definito più specificatamente come “linguaggio”. C’era perciò da aspettarsi che tra la filosofia della linguisticità dell’uomo d’ispirazione heideggeriana e l’impostazione del pragmatismo americano – con la sua teoria dell’interazione sociale – sarebbero state notate delle affinità, a cui presto sarebbe stata associata la dottrina del carattere originario dei giochi linguistici, sviluppata in Inghilterra da Wittgenstein.

71Ovunque fosse stata accordata la predominanza, apertamente o meno, ai motivi rousseauiani all’interno della sindrome così sviluppatasi, nelle speranze riposte nella teoria dell’intersoggettività confluì anche l’idea che una vita umana potesse giungere alla pace e al proprio compimento solo ritrovando nella sua prassi di vita la comunità umana che la precede, che in essa si relativizza, e che infine – come si potrebbe affermare con Hegel – in essa si abbandona fino a esserne del tutto assorbita. Questa convinzione può divenire addirittura per qualcuno l’unico essenziale movente del proprio pensiero. Questi riterrà raggiunto il proprio obiettivo quando quella convinzione guadagnerà, in una teoria, la posizione centrale, quella a partire da cui organizzare l’intero impianto teorico. Anche ­deficit teorici palesi potranno allora sembrargli irrilevanti. Sebbene gli sforzi teorici di Habermas non siano di certo dotati di un angolo visuale così ristretto, è possibile riscontrare anche in essi, ovunque, proprio questa motivazione personale che lo spinge alla teoria. Tuttavia, non si tratta per Habermas della forma intima di comunità che si trova nella teoria hegeliana dell’amore sviluppata a Francoforte, nel “tu” di Jacobi e Buber, e nelle teorie del dialogo e della comunicazione “essenziale”. Il fuoco dell’analisi habermasiana si orienta piuttosto in direzione della comunità politica e non è indirizzato al dialogo, ma alla discussione; non alla comprensione intima, ma all’agire comunicativo. Per questa ragione, la sua origine rousseauiana riesce a rimanere celata dietro il riferimento teorico all’americano Peirce e alla teoria linguistica anglosassone.

72Lungi dalle mie intenzioni è attribuire un carattere meramente immaginario ai problemi e alle concezioni emerse nell’ambito del rousseauismo e del pragmatismo. Non ce n’è alcun motivo, così come non c’era motivo di assicurare l’ineludibile posizione dell’autocoscienza affermando che la forma logica e linguistica fosse derivabile da essa. Del resto, questa non è la sede appropriata per una caratterizzazione più approfondita dei diversi sviluppi del dialogismo e dell’interazionismo, né per un’indagine su un concetto sostenibile della natura sociale dell’uomo. Tuttavia, nel voler collocare il movente teorico habermasiano nella storia delle motivazioni della modernità, occorre aggiungere due considerazioni concernenti direttamente la tipologia della sua obiezione contro la metafisica e, in particolare, contro quella forma specifica di metafisica che emerge dalla dinamica dell’autocomprensione.

73Ritenere che, laddove alla comunità linguistica venga attribuita la priorità rispetto all’autorelazione, sia offerto un sostegno a quei motivi che orientano il pensiero verso una comunità umana razionale, sarebbe un’idea avventata. Si è già mostrato che niente è così adatto ad assicurare la vittoria del naturalismo quanto la scoperta che l’uso dei segni costituisce un sistema autosufficiente. La circostanza che l’interazione linguistica funzioni in maniera fluida, che i giochi linguistici siano implicati nell’agire quotidiano, e che la “discussione” di una cultura politica si sviluppi all’interno di regole condivise in maniera stabile e sia capace di promuovere la decisione – tutto ciò può essere un motivo valido per respingere ogni pretesa di un concetto universalistico di ragione in quel regno dei sogni, da cui da tempo ci siamo svegliati. Ma insieme a quel concetto viene meno anche ogni nozione di un’autorealizzazione capace non solo di eliminare l’angustia del soggetto isolato, ma perfino di “portare a compimento” le sue autentiche speranze e la sua propria natura. Quine ha suscitato clamore proprio con la tesi secondo cui la fluidità di una forma linguistica non dice assolutamente nulla sulla realtà delle intenzioni e degli stati “interni” di coscienza che le sono connessi. Ed è inoltre una delle esperienze che la riflessività della coscienza moderna ha reso possibili, il fatto che proprio la stabilità dei modelli d’interazione dia adito al sospetto che essi siano una finzione. La poesia contemporanea ha osservato, a proposito dell’ubriacatura linguistica del rousseauismo, che il parlare a oltranza può essere la maniera in cui si articola e trova sfogo la coscienza dello scacco di tutte le parole. E le autentiche parole della poesia stanno sul confine del silenzio, dove anche per Wittgenstein risiede tutto ciò che è essenziale per la vita.

74Chi riconosce la metafisica come parte della modernità e le tiene aperto un futuro, non può considerare questa conclusione come la sua ultima parola. Deve credere che il pensiero sia capace anche di una lingua e, quindi, deve riconoscere alla soggettività la possibilità di interloquire e di comprendere. In ragione di ciò, solidarizza con chi si muove nella corrente del rousseauismo. Ma se è vero che la soggettività emerge solo dove è rivolta la parola agli uomini come tali, è altrettanto vero che un colloquio degno di questo nome ha luogo solo dove gli interattori differiscono dai drammaturghi e dai “locutori” della teoria semantica e della teoria dell’agire comunicativo. Bisogna restare in sé ed essere capaci di “meditazione” (Besinnung), per poter pronunciare una parola da amici. E questa capacità di ritegno non può essere compresa solo come uno degli stadi intermedi di cui forse la comprensione di sé necessita, ma prende forma sulla base di quel rapporto a sé che è collegato con la capacità linguistica in quanto tale. Tanto più risulta vero, inoltre, che, per poter far volgere una discussione verso la misura e la verità, bisogna essere già in possesso di una determinata comprensione di sé. Duecento anni fa, Herder ha obiettato alla filosofia dell’unificazione che l’“amore” – che è qualcosa d’altro dall’esuberanza del trasporto – presuppone l’“esser-sé” degli amanti. Hegel ha preso a cuore questo ammonimento, e altrettanto ha fatto Hölderlin. E da quel momento il loro pensiero ha mirato a riconciliare, senza riduzionismi, la libertà compiuta del singolo con l’unità avvolgente della vita, anche della vita politica. Solo in questo modo è possibile rendere reciprocamente compatibili le irrinunciabili esperienze della modernità e la speranza umana di una comunità libera, non concepita in un senso strumentale. Hegel e Hölderlin sapevano di aver bisogno della metafisica per questo compito. Chi non si avvede di ciò, ricade nel campo gravitazionale della politica aristotelica che, com’è noto, era sganciata dalla metafisica.

12. Il rifiuto di pensare

75Habermas non è del tutto insensibile a questa verità. Tuttavia essa non ha forza alcuna nel modo in cui la sua teoria è concepita. Ciò è riscontrabile nella sua nozione, priva di struttura, di “mondo della vita”; nella facilità con cui egli (appoggiandosi a Mead) fa derivare l’autorelazione dalla comunicazione. Ed è riscontrabile pure nel suo vuoto concetto di un “mondo soggettivo” che presume di comunicare attraverso azioni drammaturgiche e frasi “espressive”. È in particolare quest’ultimo teorema (assunto da Tugendhat) che meriterebbe di essere scomposto nei suoi elementi ed evidenziato così nelle sue debolezze. Chi parla di “autocomprensione” e di una vita cosciente che, come tale, è organizzata tramite il rapporto a sé, deve di fatto prendere distanza in maniera esplicita da questo teorema. Ma soprattutto non possiamo sostenere, salvare e comprendere il discorso della modernità, abbandonandolo nel nostro linguaggio teoretico a una vita completamente svuotata. Tuttavia, ci dobbiamo accontentare di aver almeno identificato il posto di questo teorema nell’ambito dei concetti con il cui ausilio Habermas crede di essersi portato oltre la soggettività e la metafisica.

76Occorre inoltre aggiungere l’osservazione seguente: è stato ricordato che Hegel fu obbligato a configurare una forma concettuale della metafisica moderna quando comprese la necessità di ricollegare soggettività e socialità senza operare alcun riduzionismo dall’una e dall’altra parte. Non si tratta ancora della metafisica che è da ultimo compatibile con l’autocomprensione della vita cosciente, dunque non è ancora la metafisica della conclusione. Si tratta piuttosto di una teoria strutturale che la precede. Nel linguaggio specialistico dei vecchi metafisici, appartiene all’ambito denominato “ontologia”. La debolezza strutturale del linguaggio concettuale di Habermas è già stata rilevata a proposito della sua nozione di “mondo della vita”. Se viene incalzata da domande pressanti sullo status del “mondo” in relazione agli individui, questa nozione si dimostra oscura almeno quanto la nozione di mondo del primo Heidegger. Tuttavia, dalla sua chiarificazione, dipendono questioni riguardo al metodo della sociologia, che sono difficili da decidere. E Wittgenstein, per fare un esempio, si è impegnato tutta la vita a elaborare una maniera per tematizzare in modo appropriato il concetto di “forma di vita”. Al di là del chiarimento relativo al carattere “olistico” della costituzione del mondo della vita, nella teoria di Habermas i concetti fondamentali restano tuttavia indeterminati e oscillanti. Un’oscillazione che non si spiega attraverso una sua indecisione, quanto tramite l’incapacità di prendere una decisione su di un problema fondamentale della teoria sociale: in ultima istanza, esistono solo gli individui, il cui carattere interattivo, insieme ai complessi motivi che in esso sono all’opera, fornisce la base reale per la costruzione del concetto di “mondo della vita”? Oppure è necessario richiamare forme d’associazione che precedono gli individui, che in effetti non potrebbero avere alcuna consistenza senza di essi, ma che, rispetto al loro statuto “ontologico”, sono indipendenti dagli individui, determinandone il comportamento sociale, così come lo spazio newtoniano determina la posizione dei corpi in esso? E le istituzioni non sono forse entità di questo genere? Nella valutazione di quest’alternativa la teoria sociale può intervenire solo se i suoi procedimenti sono guidati filosoficamente. Naturalmente è possibile anche eludere quest’alternativa – magari facendo nuovamente ricorso ad argomenti ispirati alla filosofia trascendentale e al pragmatismo –, ma solo dopo aver pensato sino in fondo i pro e i contra delle due parti in gioco. Dopo questa riflessione in profondità, il rinnovamento di una prospettiva fondata sulla limitazione della conoscenza diventerebbe manifesto dall’accresciuta chiarezza e cautela delle concettualizzazioni della teoria sociale.

77Nel caso di Habermas, è notevole la leggerezza con cui egli crede di poter costruire una teoria sociale “a due livelli”, attraverso un ingente prestito dal suo più pericoloso avversario, la teoria dei sistemi. Come funzioni un sistema, e come occorra interpretare il fatto che esso si lasci derivare dal “mondo della vita” e dall’agire comunicativo per poi “sganciarsene”, resta alcunché di non chiarito, esattamente come nel caso della costituzione del “mondo della vita”, alla luce del problema messo prima in evidenza. Inoltre, “mondo della vita” e “sistema” sono, per la loro impostazione, concetti incommensurabili, che pertanto non possono essere coordinati reciprocamente come due “livelli”. La mancanza di tali considerazioni è tanto più evidente in quanto il lavoro di Habermas si connota per una straordinaria ampiezza nell’orientamento e nell’assunzione di letteratura specialistica significativa o rilevante per la costruzione di una teoria sociale.

78Se è vero che nel dominio di problemi che possiamo chiamare “ontologia” quest’interrogativo è già stato eluso, non deve sorprendere quanto sia difficile identificare in generale la posizione di Habermas di fronte a delle semplici questioni filosofiche fondamentali, che in quanto tali sono questioni par exellence della modernità. Di fronte alla domanda se egli sarebbe disposto a contrastare il naturalismo, è difficile stabilire come risponderebbe o come riterrebbe opportuno rispondere. È comunque evidente che il naturalismo non è ciò verso cui si dirigono le intenzioni della sua teoria. Ma è altrettanto impossibile riconoscere la presenza di un qualche sforzo coerente per contrastarlo. Tra i motivi che inducono Habermas ad appagarsi nella difesa di una razionalità comunicativa è presente una certa restrizione del campo visuale, la quale lo rende vittima dell’illusione di poter separare facilmente, e senza alcuna perdita, la metafisica dal paradigma della modernità.

79Con quest’osservazione si chiude un cerchio che ci riporta alla lucida diagnosi kantiana degli indifferenti, da cui eravamo partiti per definire il concetto di metafisica nella modernità. Nell’intento di scoprire l’impostazione di incurante superiorità con cui gli indifferenti si stilizzano e autorappresentano, Kant ha loro obiettato il fatto che possiederebbero una propria metafisica occulta, «appena vogliono riflettere su qualche oggetto». Il senso di questa frase incidentale appare adesso nel suo perdurante significato: la teoria di Habermas rifiuta di pensare proprio le questioni che sono decisive per quel pensiero che Kant ha in mente e in cui consiste la filosofia. Quest’obiezione non avrebbe alcun effetto contro una proposta teorica di matrice sociologica. Ma noi non ci eravamo impegnati a discutere le obiezioni di un sociologo sulla possibile modernità della metafisica. Non si possono restringere, offuscare e, alla fine, perfino sbarrare – scoraggiandoli – gli irrinunciabili percorsi della vita cosciente attraverso qualcosa che vorrebbe essere una filosofia della libertà, e che come tale andrebbe valorizzata pienamente, ma che indugia nell’indeterminato e distorce in alcuni tratti essenziali il concetto di una vita siffatta e della libertà stessa.

80Occorre adesso concludere, magari solo per il momento, questa discussione. Al termine vorrei aggiungere una parola d’altro tenore. Nessuno più di Habermas ha operato per ridare spazio a un dibattito teorico in Germania. E vi partecipa dimostrando un sincero interesse per i suoi risultati e un’energia indefessa, che si rispecchia anche nella costruzione della sua opera, e che ha meritato di attirare su di sé l’interesse generale. Nessuno, neanche Habermas, può disporre per ogni argomento d’intuizioni e di pensieri di così ampia portata da ristrutturare il quadro problematico generale. Abbiamo bisogno di una forma di concorrenza tra diversi approcci, in cui ciascuno giunga fino al limite della sua competenza, ma in cui l’interesse (Sache) del pensiero emerga in maniera tanto più chiara. E proprio dalla maniera in cui Habermas dibatte in pubblico occorre imparare come il lavoro possa essere subordinato a una questione che, lungi dal consentirci di metterci in scena, ci obbliga a un servizio perfino zelante. Sebbene per il resto del tutto in disaccordo con Habermas, le mie tesi trovano un importante punto di connessione alle sue, proprio in riferimento alla questione che quasi da solo fa valere nella pubblica arena e che – accanto all’emancipazione della soggettività da se stessa – costituisce per lui la questione principale: la difesa della modernità contro i suoi eruditi detrattori. Ma non è l’unanimità che può portar frutti a tale questione. Una modernità che si esprimesse a una sola voce – o attraverso un’unica voce – sarebbe già in procinto di morire. E perciò, proprio il dissenso fondamentale a proposito della modernità, costituisce tutt’altro che una smentita del suo persistente vigore.

4.3. Discussione

Tra me e Habermas sussiste una vicinanza profonda circa l’importanza di un autore che nei nostri incontri abbiamo solo avuto modo di nominare: Max Weber. Siamo entrambi d’accordo sul fatto che nel pensiero di Weber sia contenuta una realizzazione fondamentale, di cui non si può non tenere conto, ma che io e Habermas interpretiamo in maniera differente. Il capolavoro di Habermas, La teoria dell’agire comunicativo, è quasi totalmente una ricostruzione del pensiero di Max Weber – e per quanto mi riguarda devo ammettere che non vi è praticamente nessuna delle mie tesi centrali, della quale non speri, nel mio intimo, che avrei potuto convincere Max Weber. Ecco dunque già un comune punto di riferimento.

81Il pensiero di Habermas è largamente orientato in senso socio-politico. L’esperienza fondamentale di Habermas, dopo il nazismo, è stata un’esperienza politica a cui egli ha conferito una cornice e un orizzonte filosofici. La posizione fascista è descritta come una sintesi vitale violenta: tutte le forze della vita devono convergere verso un unico centro unitario. Formulata in un quadro teorico tendenzialmente weberiano, la tesi fondamentale di Habermas assume come evento decisivo della modernità l’emergere di una divergenza tra le tendenze vitali dell’uomo. Si tratta della divergenza tra le tendenze della ragione strumentale, relative al dominio tecnico del mondo, e quelle della razionalità organizzativa, relative all’attività di coordinamento delle azioni, di cui è caratteristico il sistema giuridico; ma anche della separazione di queste due possibilità di comprensione della vita da ciò che si designa col nome di ragione espressiva – ovvero quella ragione che mira a dare alla vita una prospettiva e un’espressione: in pratica, ciò che nella modernità è rappresentato dall’arte. Nel fatto che la tecnica, la codificazione morale dell’agire e l’espressività artistica non possano essere reciprocamente integrate, consiste complessivamente l’esperienza fondamentale della modernità. La conseguenza di tale non-integrabilità è che ogni mezzo produce una propria razionalizzazione – il momento strumentale si sviluppa fino a diventare il sistema della tecnica, il coordinamento del comportamento dà luogo a una propria sistematica (il sistema del diritto) e perfino l’arte risulta razionalizzata nelle forme dell’autoriflessività. Tali sono le tendenze fondamentali della modernità. Ora, secondo Weber, il destino della modernità è quello di produrre conflitti che sono portati, veicolati e radicalizzati da strutture sociali: la razionalità tecnica risulta veicolata non solo dalla tecnica moderna, ma anche dall’economia che dalla tecnica si distingue; le operazioni intersoggettive di coordinamento da un sistema autonomo di elevata complessità – come il sistema giuridico, e anche l’amministrazione e la burocrazia; la dimensione espressiva della vita da una molteplicità di modi di autorappresentazione, così che neppure le arti giungono a un’integrazione definitiva. Per Habermas questo è il quadro della modernità. Ma adesso si pone la questione: se questo sviluppo della modernità è inarrestabile – e questa è anche una questione posta da Max Weber – come è possibile, a queste condizioni, la vita umana? Max Weber, nella sua teoria del capitalismo, ha definito il mondo moderno la «gabbia d’acciaio» da cui la vita non può evadere, e che porta a un processo di pietrificazione dell’umanità come suo ineluttabile destino. Per quanto mi riguarda, condivido l’opinione di Habermas secondo cui, a partire da questa prospettiva critica sulla modernità – da cui si può derivare sia la ricetta heideggeriana del “diniego della modernità” sia il fascismo – e restando nell’ambito di questa diagnosi della modernità, il pensiero deve concentrarsi nell’indicare le condizioni di possibilità di una vita umana.

82Ora, partendo dalla diagnosi di Max Weber, si può spiegare e comprendere perché Habermas si sia tuffato con tanto entusiasmo nella filosofia analitica del linguaggio. Egli è senz’altro un pensatore straordinariamente ricettivo, un pensatore capace di comprendere assai velocemente e chiaramente la questione che, in maniera ancora informe, aleggia al centro del dibattito, dandole una formulazione adeguata. Habermas ha integrato la diagnosi weberiana della modernità, di matrice teorico-sociale, con una diagnosi proveniente dalla filosofia del linguaggio, fondamentalmente in quella forma teorica fissata a Oxford dal filosofo britannico Austin tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, che è stata resa nota, e anche in parte sistematizzata, da John Searle – che allora studiava con Austin – nel suo libro Speech Acts. Questa è la fonte cui attinge Habermas. Diversamente da quanto anche i teorici del linguaggio potevano aver pensato – cioè la centralità del momento proposizionale nel linguaggio – qui il linguaggio viene differenziato in molteplici modalità e tipi di atti. E consente di associare atti linguistici alle forme separate della razionalità: alla razionalità tecnico-strumentale si possono associare gli atti linguistici affermativi (affermare e giustificare); alla razionalità coordinatrice – che rende reciprocamente compatibili i raggruppamenti umani – si può associare l’atto linguistico dell’esortare; e all’arte è possibile associare l’atto linguistico dell’esprimere qualcosa. Dunque: “Ti comporti in maniera irragionevole” è un atto linguistico descrittivo; “Comportati in manie­ra ragionevole!” è un ­atto linguistico prescrittivo; e “Oh, com’è ragionevole!” è un atto linguistico espressivo. Allo stesso modo in cui la modernità differenzia le forme della razionalità e i piani della vita, così è possibile fondare una teoria della modernità sulla base di una teoria del linguaggio.

83Ho appena delineato uno schizzo generale del progetto di Habermas. Alla base di questo progetto – un elemento in comune con Max Weber – sta il fatto che la possibilità della vita umana si determina – per altri “si frammenta” – attraverso questa molteplicità di “sistemi” (non volevo utilizzare ancora la parola “sistema”, che Habermas ha ripreso solo più tardi), dunque attraverso la pluralità di usi linguistici e di modalità di vita. Si può fare esperienza della frammentazione solo se a essa si fa precedere una situazione in cui tale frammentazione non ha ancora avuto luogo. Per descrivere tale modalità dell’umano risulta decisivo il termine “mondo della vita”, un termine che Habermas riprende da Husserl. A quale tipo di situazione si riferisce il concetto di mondo della vita? Secondo la descrizione di Habermas, laddove il mondo della vita non è ancora disintegrato dalla razionalizzazione, il passaggio tra le diverse forme linguistiche, e le possibilità di vita a esse collegate, è preservato in maniera armonica, e rimanda costantemente alla totalità dell’attuazione della vita. Nella modernità, il mondo della vita è dapprima minacciato e poi – e questa è la teoria di filosofia della storia proposta da Habermas – colonizzato; vale a dire che il potere della razionalità parcellizzata retroagisce sul modo in cui è possibile, per l’essere umano – a dispetto delle sue molteplici intenzioni di razionalità –, condurre di fatto una vita unitaria e umana. In altre parole, nella vita quotidiana dell’uomo penetra la giuridicizzazione delle relazioni di vita – all’amore, per esempio, viene data una nuova forma dalla legislazione sul divorzio; la razionalità tecnica penetra in diverse configurazioni (l’automanipolazione sulla base di criteri tecnici); e penetra in maniera colonizzante nei rapporti della vita anche il mercato, quale sistema che regola il consumo in base alle condizioni della produzione tecnica, in una maniera che deforma le situazioni vitali in termini di guadagno e perdita, massimizzazione dei profitti, ecc.

84A questo punto, il compito di una cultura moderna, che per Habermas è essenzialmente un compito politico, consiste nel mobilitare contro questa colonializzazione i soggetti radicati nel mondo della vita. Nel corso degli anni, gli interventi politici di Habermas si sono mossi costantemente in questa direzione. E questo è lo sfondo delle sue riflessioni: egli è convinto che il tentativo di introdurre la metafisica nel mondo moderno debba coincidere – e lo deve già sapere a priori – con un tentativo di trattenere la modernità, di frenare cioè il processo di compartimentazione veicolato dalla razionalizzazione. Io dico naturalmente: no, proprio no, la metafisica, qualunque cosa essa sia, consiste invece nell’impresa di preservare le possibilità di vita dell’uomo in questo mondo. Per quanto concerne il lato teorico di questa metafisica, abbiamo che fare in definitiva con qualcosa di obsoleto, appunto perché la teoria di Habermas si fonda sulla dottrina degli atti linguistici di John Searle. Ho avuto già modo di dire a Habermas nel 1972 – quando ricevette molto giovane il “Premio Hegel” e io tenni la laudatio – che correva il rischio di basare il proprio impianto teorico su di un assunto transitorio della teoria linguistica. Il suo orientamento verso i miei tentativi in questo campo è stato condizionato fin dal principio da questo mio intervento.

85Ritengo che il concetto di mondo della vita sia, per dirlo in termini gentili, troppo poco differenziato e, se lo si vuol dire brutalmente, ideologico. Voglio dire che un mondo della vita armonioso in realtà non esiste, e di fatto non è mai esistito. Già nelle culture primitive, i rapporti di vita sono stati plasmati dai conflitti; l’unica differenza è che venivano immediatamente bloccati da sistemi di mediazione – attraverso sistemi di integrazione sociale a cui bisognava aderire senza alternativa – e dalle religioni. Le religioni stesse rappresentano anche una conseguenza della coscienza del carattere assolutamente conflittuale della vita. In certo modo anche Habermas potrebbe convenirne, sebbene non precisamente in questi termini. Egli è legato a quest’idea di un mondo armonioso della vita. È vero, ci sono anche delle differenze al suo interno, ma esse non diventano mai virulente, non diventano un problema vitale per l’uomo; piuttosto, secondo lui, nelle culture primitive, il passaggio tra le modalità di comprensione era privo di conflitti e dunque armonico. Intendo dire con questo – anche da quell’archeologo che io sono – che gli uomini, sin dal Cro-Magnon, e cioè da 40 000 anni, sono sempre gli stessi e le loro dotazioni interiori hanno trovato realizzazione, sebbene in modi diversi, nei loro modi di vivere. Voglio dire che la modernità ha portato allo scoperto ciò che è peculiare all’uomo, rendendo drammatici e acuti i problemi rimasti sotto controllo nelle fasi primordiali del suo sviluppo. Anche per questa ragione penso che la modernità rappresenti una fase di sviluppo dell’umanità non affatto reversibile.

86L’orientamento conflittuale della vita è una conseguenza della complessità della sua attuazione cosciente. Nella coscienza stessa sono radicati i conflitti – ho formulato questa tesi sulla base di uno dei pensieri fondamentali di Hölderlin. I conflitti sono, per così dire, ciò attraverso cui la complessità della vita diviene manifesta a ciascun uomo. Ma la complessità è già presente prima che i conflitti si sviluppino – per esempio il rapporto tra persona e soggetto, il fatto che siamo nel mondo e che nel contempo gli stiamo di fronte (tuttavia anche questo è già una conseguenza e non l’autentica situazione fondamentale). Il pensiero di Heidegger mira a riguadagnare l’originaria unità della vita in una corrispondenza di quest’ultima con l’evento costituito dal dischiudersi di un mondo, e con l’esperienza dell’essere-interpellato dell’uomo da parte di ciò che egli chiama l’essere in quanto evento. Io ritengo che questo non sia un pensiero originario, ma un pensiero conclusivo. Per dirlo in termini teologici: “Dio” è l’ultima parola dell’uomo, non la prima. Habermas, per quel che riguarda il mondo della vita, rimane indeciso tra Heidegger e Max Weber.

87Un altro punto in cui mi differenzio da Habermas riguarda naturalmente il rapporto tra autocoscienza e linguaggio: si tratta di un grande tema di dibattito presente nella stessa teoria linguistica. Parlare presuppone già da sempre una relazione a sé. Ciò è vero comunque nella lingua che noi parliamo, la lingua nella sua forma proposizionale. Per l’uso elementare della forma proposizionale ci si serve di termini singolari, espressioni deittiche, pronomi personali, e tutti questi elementi insieme danno luogo a un sistema al cui centro si trova la relazione a sé. Questo è un aspetto del problema: la teoria degli atti linguistici di Austin mi sembra una forma deficitaria del concetto di uso linguistico introdotto da Wittgenstein. Quanto ho appena sostenuto non è più messo in discussione nella filosofia analitica del linguaggio, ma costituisce un elemento comunemente accettato almeno a partire dall’indagine di Peter Strawson e dalla sua descriptive metaphysics: senza un riferimento a sé del locutore, non c’è uso proposizionale significante. Ma questo non costituisce ancora una spiegazione dell’autocoscienza; si può dire che il sistema del linguaggio, la forma proposizionale e i molteplici termini singolari che sottendono l’autoreferenzialità e nel cui contesto essa occupa una posizione centrale, devono essere acquisiti in un atto, anche se poi si può sempre affermare che l’io sia una parte dell’uso linguistico.

88Habermas costruisce l’acquisizione dell’espressione “io” in altro modo: con i pragmatisti, con George Herbert Mead (è una cosa tra l’altro piuttosto singolare la sua disponibilità ad assumere una tesi così centrale per la filosofia da un pragmatista americano che la sviluppa più o meno ad hoc intorno alla Prima guerra mondiale). Ma esiste anche un’altra dimensione in cui è possibile sviluppare il problema, e deriva dal fatto che, come ben sappiamo, i bambini iniziano a usare la prima persona singolare, dunque il pronome “io”, solo molto tardi. E allora si potrebbe approfittare di questo fatto per dire, come del resto fa Habermas: «Devi prima saper parlare per poi, assumendo un uso linguistico sviluppato all’interno di una società, vale a dire sviluppato attraverso un apprendimento mediato linguisticamente, giungere all’uso della parola io e quindi all’autocoscienza». Io voglio invece dire che l’uso della parola io non coincide con l’autocoscienza, è piuttosto una conseguenza relativamente tarda di un’autocoscienza sviluppata. Sono qui in gioco anche diverse questioni di ordine empirico – è possibile dimostrare che i bambini comprendono già per tempo che cosa significhi io, pur senza utilizzare la parola io. Essi ascoltano parlare gli adulti, e l’atto di dire io ha luogo forse a due anni (esistono naturalmente diversi studi sull’argomento). I bambini dapprima utilizzano il proprio nome in sostituzione della parola io; quando iniziano a dire io, in quel preciso momento essi si dichiarano in maniera esplicita membri autonomi della comunità di linguaggio. Ciò equivale a dire che non imparano che cosa significa io nel momento in cui dicono io – lo sanno già. E non si può dire neanche che essi acquisiscano l’autocoscienza attraverso la comprensione del significato della parola io. Si tratta piuttosto di un atto di dichiarata autonomia (in quanto atto linguistico) e quindi posteriore nella sua genesi. Fichte aprì una bottiglia di champagne quando suo figlio, Immanuel Hermann, pronunciò per la prima volta la parola io. Ma Fichte non aveva capito cosa esattamente stava accadendo, che cioè suo figlio già da tempo era un io, non lo diventava certo allora per la prima volta. In un certo senso però Fichte aveva anche ragione. Quella era in effetti la prima volta in cui suo figlio, dicendo io, aveva designato se stesso in quanto io.

89Rimane naturalmente aperta la questione relativa a tutto il tempo in cui i bambini non sanno affatto parlare: che ne è del rapporto a sé in quel periodo? E che nesso c’è tra questo rapporto a sé e l’autocoscienza? C’è un teorico del linguaggio americano – Paul Grice – che ha sviluppato una teoria sul significato del linguaggio che tenta di rispondere alla domanda: che cosa significa linguaggio? Se per Searle un atto linguistico è l’uso di una frase, che cosa rende l’uso di una frase un linguaggio? Devo sapere che cosa sia il linguistico, se non voglio limitarmi a descrivere dall’esterno. Devo sapere altresì che cosa distingue il linguaggio da altri tipi di espressioni, come quando dico «Ahi!». Paul Grice ritiene che parlare significhi voler far capire qualcosa a qualcuno. Se questo è linguaggio, bisogna allora osservare che siamo già in presenza di un elemento autoreferenziale, poiché ho un’intenzione, quando parlo, ed essa è mia. Ciò significa che per il semplice fatto di parlare devo essere già anche in rapporto a me stesso. Un altro autore che bisognerebbe ricordare in questo contesto è il mio amico David Donaldson, per il quale la possibilità del rapporto a sé è costitutiva per l’uso del linguaggio.

90Ma vorrei ora dire qualcosa sulle recenti svolte di Habermas e su quanto avvenuto all’interno della sua scuola: Habermas, da sempre un attento osservatore della situazione politica, ha notato – ovviamente da tempo – come la religione abbia assunto un ruolo notevole all’interno dell’attuale dibattito. Si è dunque impegnato in una diagnosi del ruolo della religione nel mondo moderno. Ciò non di meno gli è del tutto impossibile comprendere davvero la rinnovata riscoperta religiosa che sembra essersi avviata nella società, perché le stesse coordinate di fondo del suo pensiero gli impediscono di cogliere il nocciolo autentico della religione. Forse è meglio premettere una breve notazione sull’arte che tuttavia ha in parte relazione con la teoria della religione: all’interno della stessa scuola di Habermas, è stata sottoposta a critica la sua tesi secondo cui l’arte sarebbe una forma di razionalizzazione settoriale che corrisponde alla possibilità espressiva dell’uso del linguaggio. La Scuola di Francoforte, che Habermas rappresenta nella sua seconda generazione, ha avviato adesso, con la terza e quarta generazione, diverse indagini proprio nel campo della teoria dell’arte e, paradossalmente, questa reazione a Habermas in campo estetico si ricollega all’ispirazione della prima Scuola di Francoforte – soprattutto ad Adorno, che attribuiva all’arte un significato integrativo. Albrecht Wellmer, già assistente di Habermas, e i suoi allievi, hanno sviluppato diversi tentativi in questo senso, partendo proprio dalla prospettiva per cui l’arte nella società moderna avrebbe un significato ulteriore rispetto al semplice uso espressivo della lingua.

91Ora, tra questi tentativi nella teoria dell’arte e le successive difficoltà con la religione, incontrate da Habermas, sussiste un legame: in entrambi i casi la questione riguarda come sia possibile mantenere una prospettiva di vita integrata alle condizioni di una razionalità differenziata. Può competere solo alla politica difendere il mondo della vita oppure esiste anche una modalità rappresentativa capace di realizzare la vita in forma artistica, pur nelle condizioni della sua separazione moderna, come sostiene Albrecht Wellmer?

92Ma Habermas non si è limitato a fornire una struttura teorica, nei termini della teoria linguistica (Austin, Searle), alla diagnosi della modernità weberiana sulla perdita di una ragione integrativa. Ha anche adottato una struttura teorica adeguata a tale modernità in via di radicalizzazione, da lui descritta in termini molto simili all’immagine fornitane da Heidegger. A tale scopo si è ricollegato – giungendo di nuovo rapidamente a posizioni definitive – a una prospettiva a quel tempo piuttosto influente, ovvero la teoria sociologica dei sistemi con cui allora ebbe un interessante dibattito. Il dibattito sfociò per Habermas nella critica della pretesa universale della teoria sistemica – il mondo della vita non è descrivibile attraverso il concetto di sistemi autodifferenzianti – ma la forza sociologica di questa teoria sistemica gli parve tuttavia di così ampio impatto da indurlo a prenderla in considerazione per descrivere le conseguenze ultime dello sviluppo della modernità, ossia la colonizzazione del mondo della vita da parte delle razionalità parcellizzate. Ha così proposto una combinazione tra fenomenologia del mondo della vita e teoria sistemica delle razionalità moderne nella loro forma acuta, prendendo in esame soprattutto la politica, la burocrazia, il diritto e l’economia. A questi ambiti Habermas ha adattato la teoria sistemica e oggi, come sociologo, deve porsi la seguente questione: come è possibile mettere assieme una fenomenologia del mondo della vita con una teoria sociologica dei sistemi? La metodologia delle scienze sociali ha preso le distanze dalla teoria sistemica, circostanza che crea a Habermas una difficoltà di cui la maggior parte dei filosofi non è per niente consapevole: ma chi tiene presente Max Weber sa che qui si profila un problema cruciale per la sua tesi della colonizzazione del mondo della vita a opera dei sistemi integrati dei media, del denaro e del potere.

93Vorrei tuttavia precisare che, se è vero che Habermas pensa in chiave sociologico-politica, tuttavia non si tratta di un approccio meramente sociologico. Egli possiede un programma normativo, cioè l’autonomia dell’uomo, seppur nella (e a partire dalla) relazione all’altro. Egli crede inoltre che questo programma normativo sia sufficientemente rappresentato, da una parte, dal suo concetto di mondo della vita e, dall’altra, dal suo progetto di una cittadinanza libera e postmetafisica. In altre parole è persuaso, in questo senso in continuità con Feuerbach piuttosto che con Hegel, che la realizzazione dell’essenza dell’uomo debba essere compresa e raggiunta su un piano di immanenza, in questo mondo, e unicamente sulla base di ciò che la caratterizza. Nel frattempo Habermas percepisce – e lo può fare in virtù della sua diagnosi storico-filosofica della colonizzazione del mondo della vita – che la situazione della libertà dell’uomo, nella comunità intersoggettiva, diventa ogni giorno più grave a causa della minaccia rappresentata dai sistemi del diritto, del potere e del denaro. Ciò gli ha dato modo di osservare come le religioni veicolino un potenziale umano in grado di incrementare la capacità di resistenza alla colonizzazione da parte degli elementi residuali del mondo della vita. Habermas vorrebbe riconoscere e attivare tale potenziale, ma senza avere la possibilità di attribuire alla religione un nucleo di verità. I suoi dibattiti con i rappresentanti delle diverse confessioni si muovono su tali binari. Com’è noto ha discusso con Ratzinger prima che questi divenisse papa, e il senso della discussione è stato poi colto dallo stesso Ratzinger correttamente con la tesi: “In negativo siamo d’accordo”. Ciò significa: d’accordo nella diagnosi del pericolo, ma naturalmente non per quanto riguarda il positivo.

94Habermas sostiene sempre, con Max Weber, di essere «musicalmente stonato in campo religioso», tuttavia fraintende l’affermazione di Weber. Quando Max Weber afferma di essere «musicalmente stonato in campo religioso», egli intende dire di non poter diventare un virtuoso; ciò non significa che egli non sapesse suonare questo strumento, ciò non significa che egli non s’intendesse affatto di musica; al contrario. Voglio dire che in effetti la filosofia accetta qualcosa che anche nella religione rappresenta un momento fondamentale – e si tratta di una tesi della modernità, almeno nei momenti in cui la metafisica vi ha avuto un qualche ruolo (in Hegel per esempio, ma anche in Schopenhauer, ecc). Ma si tratta di una possibilità preclusa a Habermas. Per ovviare a ciò, egli dovrebbe davvero intraprendere una revisione radicale dei suoi assunti di fondo. Per Habermas la ragione va compresa in senso procedurale e analogamente la realtà vitale dell’uomo va intesa in senso immanente (nella comunicazione semplicemente a partire dalle sue diverse forme, nell’approfondimento che essa rende possibile), così che ogni passo compiuto in direzione dello sfondo su cui la realtà umana si staglia è interpretato come un ritorno a qualcosa di premoderno. Questo per me è sbagliato. Ritengo che Habermas potrebbe risultare davvero convincente nel suo riconoscimento della religione quale forma arricchente della vita, solo se riuscisse ad attribuire alla religione un qualche momento che non fosse solo umano, che in definitiva non si limitasse a significare ricchezza comunicativa. Habermas tuttavia non ha risorse sufficienti per questo e pertanto è anche destinato a restare impermeabile a una simile prospettiva. E tutto ciò ha relazione, in certa misura, con il naturalismo: Habermas è dell’avviso che la sua concezione del mondo della vita sia una sorta di naturalismo, un naturalismo a prova di metafisica e di scientismo, dunque un naturalismo feuerbachiano. E io credo che una cosa del genere non possa esistere nella modernità; l’immagine del mondo sviluppata dalla scienza è troppo potente perché questo sia possibile.

95E qui entrano in gioco differenze reali. Tuttavia, non è difficile riconoscere che le differenze sono fondamentali ma non per questo impediscono a ciascuno dei due di scorgere con chiarezza la questione che sta a cuore all’altro. Credo pertanto, o almeno spero, che le nostre divergenze abbiano qualcosa di produttivo, e non siano affatto paragonabili a quelle che ci separano entrambi da Heidegger, sebbene io non esiti a sostenere la grandezza del pensatore Heidegger – cosa che invece non faccio per quel che riguarda me o Habermas.

96Tutto ciò che dico, oltre che in Max Weber, trova conferma (lo spero) in Kant. Come ho già avuto modo di dire, considero Kant, accanto a Platone, uno dei maggiori pensatori. Kant aveva ben chiare le molteplici specie di atti linguistici e le forme della moderna razionalità, e lo dimostra persino la sua teoria dell’arte. Per Kant, anche l’arte è definita da una differenza interna ai piani del discorso; l’arte non è essenzialmente attività estetica, le appartiene anche un’altra attività, che ha qualcosa che fare con la metafisica. E anche la razionalità scientifica e quella giuridica nella loro autonomia sono state prese in considerazione da Kant, tuttavia – e qui entra in gioco la mia impostazione kantiana – esiste un punto di congiunzione a cui entrambe fanno capo: l’autocoscienza. Habermas non riesce a vederlo, dal momento che riduce l’autocoscienza alla comunicazione.

Notes de bas de page

39 Cfr. J. Habermas, Rückkehr zur Metaphysik - Eine Tendenz in der deutschen Philosophie?, in “Merkur”, 10 (1985), pp. 439-440 poi in J. Habermas, Nachmetaphysisches Denken. Philosophische Aufsätze, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1988; trad. it. M. Calloni, Il pensiero post-metafisico, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 261-272.

40 D. Henrich, Was ist Metaphysik, was Moderne? Thesen gegen Jürgen Habermas, in “Merkur”, 6 (1986), pp. 495-508; poi, con il sottotitolo Zwölf Thesen gegen Jürgen Habermas, in Id., Konzepte, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1987, pp. 11-33. Habermas, a sua volta, replica in un saggio intitolato La metafisica dopo Kant (1987) – preparato originariamente per la Festschrift in onore dei sessant’anni di Henrich e poi ripubblicato ne Il pensiero post-metafisico – in cui i toni sono molto più pacati e concilianti, e in cui cerca di mettere in luce anche ciò che lo avvicina a Henrich, pur senza negare le insormontabili differenze che li distinguono (cfr. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, trad. it. cit., pp. 14-30). Un ulteriore episodio di questo dibattito può essere rinvenuto nello scritto di Henrich del 1989 (e destinato a sua volta a una Festschrift in onore di Habermas) Die Anfänge der Theorie des Subjekts, nella cui prima parte Henrich commenta alcune delle assunzioni chiave del cambio di paradigma propugnato da Habermas. Cfr. D. Henrich, Die Anfänge der Theorie des Subjekts (1989), in Zwischen­betrachtungen, a cura di A. Honneth, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1989. Questa polemica costituisce in realtà, indirettamente, anche lo sfondo di diversi lavori più recenti dei due filosofi.

41 Sul dibattito e il rapporto tra Henrich e Habermas si veda, solo a titolo esemplificativo, P.B. Heider, J. Habermas und D. Henrich. Neue Perspektive auf Identität und Wirklichkeit, Freiburg, Albert, 1999; D. Freundlieb, Dieter Henrich and Contemporary Philosophy: the Return to Subjectivity, Aldershot, Ashgate, 2003, in partic. pp. 125 sgg.; P. Dews, Modernity, Self-Consciousness and the Scope of Philosophy: J. Habermas and D. Henrich in Debate, in Id. The Limits of Disenchantment. Essays on Contemporary European Philosophy, London - New York, Verso, 1985.

42 D. Henrich, Bewußtes Leben und Metaphysik, in Bewußtes Leben, cit.

43 Secondo Habermas «l’idealismo di Henrich si nutre di un’unica intuizione, e cioè che nella vita coscientemente colta, la comprensione contemplativa di sé e del mondo vada di pari passo con l’autonomia» (Cfr. J. Habermas, Il pensiero post-metafisco, trad. it. cit., p. 266).

44 Il senso “sintetico” della domanda è evidenziato dalla maniera in cui Henrich la ritraduce: «cosa pensi, infine, di te stesso quando, rispetto a tutto ciò che ti è noto e che sei capace di discernere, provi a rendere conto a te stesso di cosa e di chi veramente tu sia?» (infra, p. 117).

45 La natura sintetica di quella domanda si coglie inoltre se si ha in mente il concetto henrichiano di “Summe des Lebens”. Cfr., per esempio, D. Henrich, Bewußtes Leben und Metaphysik, in Bewußtes Leben, cit., p. 195.

46 Cfr. D. Henrich, Konzepte, cit., p. 195.

47 D. Henrich, Fluchtlinien, cit., p. 21.

48 Per Henrich l’opera fondamentale dei pensatori della metafisica postkantiana va ricercata nella loro capacità di dischiudere le dinamiche della vita cosciente e di renderle più trasparenti a se stesse, e non tanto nel contributo che hanno offerto a una nozione “astratta” di assoluto. È proprio questo che rende così attuali e impressionanti, per esempio, la Fenomenologia hegeliana, la poesia di Hölderlin, la musica di Beethoven (tesi 5).

49 L’interpretazione di Henrich del naturalismo non può essere qui adeguatamente trattata e meriterebbe un discorso a parte. Si pone infatti il problema se sia riuscito a eliminare la strategia argomentativa di fondo del naturalismo che più è pericolosa per il suo stesso pensiero: ovvero la possibilità di una genesi naturalistica dei pensieri ultimi. Si può sempre pensare – ed è un pericolo avvertito dallo stesso Henrich – che derivi dalla storia naturale della coscienza il fatto che insieme a una più elevata modalità di autoconservazione facciano comparsa anche domande a cui non si può rispondere, domande che in fin dei conti per una concezione “naturalistica” risultano vuote. Mi pare che la strategia in generale adottata sia di evidenziare che una visione naturalistica in senso stretto è inconcepibile, perché si riferisce a un “teorema limitativo”, nel senso che è un’idea che non può essere applicata, né può esplicare se stessa. Sul tipo di naturalismo che Henrich ha in mente, si veda anche lo scritto più recente Zwei ­Naturalismen auf English, in “Merkur”, 565 (1996), pp. 334-343, in cui vengono discusse in particolare le teorie di John McDowell e Colin McGinn.

50 Anche Habermas ammette la sua vicinanza a Henrich riguardo alla difesa della modernità: «la rivendicazione di tale connessione [esistente tra metafisica e modernità] distingue a limine l’impresa di Henrich da quel ritorno alla metafisica che si scosta da un Moderno che, a quanto sembra, cova ormai soltanto sciagure, così come del resto anche da quel superamento della metafisica, che è alimentato da analoghe tematiche. Contro tali confusioni, Henrich si difende a buon diritto. Sotto questo riguardo, io sento di essere affine alle sue convinzioni di base». Cfr. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, trad. it. cit., p. 15.

51 D. Henrich, Die Grundstruktur der modernen Philosophie, in Selbstverhältnisse, cit., pp. 83-108.

52 «L’autoconservazione implica e con ciò presuppone la struttura del Sé – l’intimità con sé è legata all’esperienza della necessità di continuare la propria esistenza», ibidem, p. 95.

53 Ibidem, p. 101.

54 Ibidem, p. 97.

55 Ibidem, p. 98.

56 D. Henrich, Was ist Metaphysik - was Moderne? Thesen gegen Jürgen Habermas, cit.; poi, con il sottotitolo Zwölf Thesen gegen Jürgen Habermas, in Id., Konzepte, cit. La traduzione è di F. Michelini.

57 Cfr. J. Habermas, Rückkehr zur Metaphysik - Eine Tendenz in der deutschen Philosophie?, cit.; trad. it. cit. Il pensiero post-metafisico.

58 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A X; trad. it. G. Gentile e G. Lombardo-­Radice, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 6-7..

59 I. Kant, A XXIX, 1.2. p. 765 (corsivo di Kant).

60 Cfr. D. Henrich, Versuch über Fiktion und Wahrheit, Funktionen des Fiktiven («Poetik und Hermeneutik», X), a cura di D. Henrich e W. Iser, München, Fink, 1983, pp. 511 sgg.

61 Alcuni accenni in proposito si trovano nel volume da me redatto e da Habermas recensito: D. Henrich, Fluchtlinien, cit., pp. 125 sgg. e in All-Einheit. Wege eines Gedankens in Ost und West, a cura di D. Henrich, Stuttgart, Klett-Cotta, 1985, pp. 33 sgg.

62 Le seguenti considerazioni si riferiscono a J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1985; trad. it. A. e E. Agazzi, Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1987; e in seguito anche alla sua Theorie des kommunikativen Handelns, 1/2, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1981; trad. it. P. Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, il Mulino, 1986.

63 Cfr. D. Henrich, Konzepte. Essays zur Philosophie in der Zeit, cit., pp. 66 sgg..

64 Cfr. ibidem.

65 Già tempo fa, nella mia laudatio a Jürgen Habermas, ho ipotizzato l’eventualità di tale associazione (Kritik der Verständigungsverhältnisse, in J. Habermas, D. Henrich, Zwei Reden, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1974, p. 20)

66 Cfr., per es., J. Habermas, Erläuterung zum Begriff des kommunikativen Handelns, in Vorstudien und Ergänzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1984, p. 605, riga 20 sgg. Questo capitolo, risalente al 1982, apporta per il resto delle precisazioni molto importanti ai concetti fondamentali della Theorie des kommunikativen Handelns del 1981.

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