capitolo 2 – Credenze personali e collettive: le convinzioni su com’è fatto il mondo
p. 49-86
Texte intégral
Credono in ciò che hanno appena immaginato.
Tacito (Annales, V, 10)
Tra che cosa scelgo? Tra che cosa scegliamo?
11. Come abbiamo discusso nel capitolo i, i modelli mentali sono sistemi di significati per un ambito dell’esperienza o per un mondo possibile. Ogni situazione che incontriamo è costruita sulla base di un frame of reference di noi stessi e del mondo intorno a noi. Ed è ancora sulla base di quel frame che selezioniamo le informazioni che ci raggiungono attraverso gli organi di senso, che le valutiamo interpretativamente, che concepiamo e attuiamo piani d’azione1. Tra i tanti modelli elaborabili dal soggetto, chiamiamo «credenze» quelli che stabiliscono quali alternative esistono o possono esistere, e quali nessi corrono, o possono correre, tra loro. In altre parole, le credenze sono un sottoinsieme dei modelli mentali che identificano gli oggetti della scelta, e le fondamentali relazioni che passano tra essi. Dati tali oggetti, intervengono i «valori» per stabilire quali tra essi vanno perseguiti, ignorati o addirittura ripudiati. Entrano infine in scena le «preferenze», per ponderare, secondo un certo criterio strumentale, quali sono gli oggetti migliori (tra quelli cui si crede e si conferisce valore). Senza una comprensione e un’analisi delle credenze, siamo incapaci di delucidare la funzione così dei valori come delle preferenze, e quindi siamo ciechi sulla genesi e sulle caratteristiche del processo di scelta come tale2.
22. Una credenza – a differenza di una narrazione, che discuteremo nel capitolo 3 – non è formata da tutti i significati accettati dalla persona, bensì unicamente da quelli riguardanti le opportunità su cui scegliere. Quando una credenza è condivisa, sebbene in misura variabile, dai membri di un gruppo identificabile, essa ha natura collettiva. Chiamiamo «oggettivo» un fenomeno che esiste indipendentemente dalla nostra consapevolezza – per esempio, un coltello ci ferisce anche se non ce ne accorgiamo –, mentre lo classifichiamo come «soggettivo» se dipende da una credenza personale – per esempio, la paura può avvolgere qualcuno anche davanti a standard massimi di sicurezza. Piuttosto, la credenza collettiva appartiene al dominio dei fenomeni «intersoggettivi», i quali esistono entro una rete di significato che collega le menti di più soggetti. Essa si manifesta quando «si crede perché si crede che tutti vi credano, perché non si può fare altrimenti, perché tutti dicono di crederci»3. Come nel caso della moneta, della società per azioni o dell’Unione Europea, si tratta di una convinzione che, pur esistendo soltanto nell’immaginazione di tanti, plasma il mondo di ognuno4. Allo stesso modo dei modelli mentali, essa fornisce schemi per i processi cognitivi che la persona utilizza per processare le informazioni. Essendo però un modello condiviso, essa assolve un doppio compito: riferendosi alla posizione-nel-mondo della persona, è mezzo per orientare le scelte e le performance del soggetto; nel contempo, in quanto modello accettato d’interazione, è strumento per cercare l’approvazione e l’appartenenza sociale, ossia per allineare le intenzioni e le azioni del soggetto a quelle degli altri membri del gruppo di riferimento. Torneremo più avanti su questo duplice carattere della credenza collettiva5.
33. Riprendiamo il caso della moneta quale credenza collettiva, mediante un brano di Alfred Marshall: «Nel mondo in cui viviamo, la moneta, come rappresentante del potere di acquisto generale è di gran lunga la migliore unità di misura delle motivazioni, e nessun’altra cosa può competere con essa. Ma questo è, per così dire, un incidente e, forse, un incidente che non si ritrova in mondi diversi dal nostro. […] È possibile che, in mondi diversi dal nostro […] le onorificenze pubbliche siano distribuite, secondo una tabella graduata, come ricompense per ogni azione compiuta a favore di un altro. Se tali onorificenze potessero essere trasferite da una persona a un’altra senza l’intervento di nessuna autorità esterna, esse potrebbero essere usate come misura dell’intensità delle motivazioni quasi con la stessa praticità e precisione della nostra moneta. In un mondo siffatto vi potrebbe essere un trattato di economia del tutto simile a quelli dei nostri tempi, anche se non vi si parlerebbe quasi affatto di beni materiali, e affatto di moneta»6. La moneta nasce da un «incidente», ma si afferma dando forma a una convenzione. Se cambiassero i collective beliefs, e la spinta al massimo guadagno venisse attenuata a favore della ricerca della stima sociale, la moneta sarebbe funzionalmente rimpiazzata da una differente convenzione: poniamo, dalle «medaglie onorifiche». Quindi, sostiene Marshall, tutto ciò che occorre è il consenso sociale sull’unità di misura dei giudizi e delle azioni. Tale consenso si consegue plasmando una credenza collettiva: un modo con cui concepiamo le alternative tra cui scegliere. Possiamo immaginare un mondo parallelo in cui, anziché misurare monetariamente i beni sui mercati mediante i loro prezzi relativi, valutiamo i beni mediante la stima/prestigio espressi da «medagliette». Queste stanno al posto delle monete, e null’altro cambia.
Come una credenza personale diventa collettiva?
44. Ebbene, com’è che una credenza personale diventa collettiva? Come si dipana e afferma il percorso che la rende condivisa all’interno di un gruppo? Un antico, diffuso e semplicistico tentativo di risposta evoca la mimesi, ovvero la tendenza di qualcuno a riprodurre non consapevolmente le posture corporee, le espressioni e i comportamenti dei suoi partner sociali7. A differenza dell’imitazione, la mimesi è un fenomeno involontario: «la folla, quando guarda in alto verso un funambolo che danza, istintivamente si contorce, dimena e oscilla i corpi, come vede fare lui, e come sente che dovrebbe fare se fosse nella sua situazione»8. Qui la percezione del movimento altrui è non soltanto attivazione del nostro corpo, ma soprattutto diventa coinvolgimento emotivo, rispecchiamento empatico di ciò che l’altro prova. Non basta: «è umano desiderare ciò che gli altri desiderano, perché lo desiderano»9. Qui la propensione mimetica diventa percorso di desideri desiderati. Manca l’ultimo passaggio. Se gli esseri umani sono essenzialmente mimetici, perché non spiegare allo stesso modo anche le credenze collettive? Come uno di noi ricalca il gesto, l’emozione o il desiderio di un altro, così ne riproduce il modello mentale. In questa prospettiva, le credenze collettive non sono che le credenze credute da altri, lo scorrere nel flusso mimetico di un particolare modello mentale da una persona all’altra. Nondimeno, queste proposizioni appaiono inadeguate, in quanto trascurano il fondamento ermeneutico di qualsiasi attività umana. Questo punto è ben illustrato da un esperimento, nel quale i soggetti partecipano a una transazione finanziaria nel corso della quale uno sconosciuto li premia o li sanziona. In seguito essi assistono alla somministrazione di una lieve scossa elettrica allo sconosciuto. Se costui ha erogato premi, i soggetti manifestano una reazione neuronale collegabile all’empatia: si illumina la stessa area del cervello che viene coinvolta dalla scossa elettrica. Se invece lo sconosciuto ha erogato sanzioni, ogni traccia di empatia svanisce: si attivano le zone neuronali associate alla ricompensa e al piacere10. L’esperimento mostra che non scatta alcun coinvolgimento emotivo, alcun desiderio sui desideri altrui, alcuna credenza su quello che viene creduto, se, preliminarmente, il soggetto non stabilisce una sintonizzazione interpretativa con gli altri. Non è la mimesi in quanto tale che provoca la condivisione dei significati. Occorre un’interpretazione condivisa, affinché s’inneschi il riflesso mimetico. Ne segue che, per comprendere la formazione di una credenza collettiva, anziché menzionare la mimesi, occorre mettere a fuoco i meccanismi elementari d’innesco del coordinamento tra più persone.
55. Consideriamo il seguente «gioco della torre»11. Due soggetti, il Costruttore e l’Aiutante, collaborano per edificare una torre composta di tutti i mattoncini colorati, rossi oppure blu, disponibili sul tavolo. Il Costruttore stabilisce la configurazione finale della torre, predefinendo la sequenza di mattoncini rossi e blu. L’Aiutante ignora tale sequenza. Il gioco è composto di molte mosse, ciascuna delle quali pone un ulteriore mattoncino sulla sommità della torre. Nell’inserire un nuovo pezzo, è l’Aiutante a muovere per primo: soltanto se sceglie il mattoncino previsto nella sequenza progettata dal Costruttore, quest’ultimo può a sua volta inserire un pezzo. Nessuna mossa può essere interrotta, una volta iniziata, ed è quindi possibile che le mani dei giocatori s’intralcino o scontrino, quando scattano simultaneamente. Sia nel caso che l’Aiutante collochi un mattoncino del colore sbagliato, sia nel caso del sovrapporsi dei movimenti, occorre ripetere la mossa. Ovviamente, la regola cruciale del gioco è che le mosse vanno realizzate il più velocemente possibile, perché vince la squadra che costruisce la propria torre nel minor tempo. Ebbene, come può una coppia di giocatori coordinarsi, in assenza di accordi preventivi e di convenzioni che stabiliscano quali mosse eseguire? Ciascun membro della coppia può adottare tre strategie: solipsistica, socialmente consapevole e d’interazione costruttiva. Con la prima strategia, ogni giocatore opera come se l’altro non ci fosse, o non reagisse, o non fosse in grado di esprimere una reazione rilevante, qualunque scelta egli compia. In questo scenario vi è il rischio di ostacolarsi a vicenda: dato che, in effetti, l’interdipendenza esiste, può succedere che, trascurando l’altro, uno afferri lo stesso mattoncino, o provi a inserirlo nel medesimo momento. Nella seconda strategia, i giocatori adottano un profilo proattivo, consistente nel capire che cosa l’altro sta facendo: essi attribuiscono esplicitamente agli altri atteggiamenti proposizionali, come credenze e intenzioni, mappati come rappresentazioni simboliche. In particolare, l’Aiutante, per incorporare i piani mentali del Costruttore nei propri piani, tenta d’interpretarne a fini previsionali le credenze e le intenzioni: se si aspetta che l’altro stia per mettere un mattoncino, ritarderà il proprio turno; se immagina che l’altro probabilmente non abbia selezionato una sequenza con tre mattoncini rossi di fila, inserirà un pezzo blu. Questa strategia consiste nel mettersi dal punto di vista dell’altro, per intercettare non i suoi aggiustamenti istante-per-istante, bensì un’intera sequenza di mosse. Si tratta però di una strategia (troppo) esigente: non basta guardare i comportamenti altrui ed elaborare su essi semplici aspettative adattive (per le quali si può anticipare la scelta successiva, dato che ricalcherà quella precedente); contano gli stati mentali dell’altro, che non sono direttamente osservabili. Più la capacità dell’Aiutante, nell’interpretare i segnali mentali del Costruttore, è elevata, più è raffinata la sua strategia di risposta; d’altra parte, più la consapevolezza di ciò da parte del Costruttore è elevata, più raffinata diventa la sua strategia d’azione. Ognuno dei due pensa a come il suo procedere influenzerà quello dell’altro, ma pensa altresì che l’altro pensi che lui lo pensa, e così ricorsivamente: la capacità di comprendere, spiegare e predire il comportamento di altri soggetti mediante l’attribuzione a essi di stati mentali, chiamata mindreading, soffre della complessità strategica (sulle azioni scelte) e dell’ambiguità interpretativa (sulle credenze e intenzioni adottate) con le quali i soggetti si calano nel gioco.
66. Nella terza strategia si formano rappresentazioni condivise che non esistono ex ante, emergendo in maniera interattiva nel corso del gioco. Il Costruttore e l’Aiutante pensano se stessi quali partecipanti a una «azione congiunta», nella quale la comune finalità – costruire la torre – non può generalmente essere raggiunta dai singoli membri del gruppo, richiedendo il contributo simultaneo di tutti12. Ogni giocatore mette in secondo piano la rappresentazione logico-concettuale della finalità sua e di quella dell’altro; il monitoraggio di ciascuna mossa, sua e dell’altro, per appurare se essa avvicina alla realizzazione della finalità; la predizione delle mosse sue e dell’altro. Anziché tentare d’inferire che cosa l’altro giocatore sta facendo, e quale debba essere la risposta strategica, la sua attenzione è principalmente dedicata a decidere cosa fare (e quando) per riuscire a coordinarsi con l’altro. Al centro stanno i modi con i quali cambiare l’interazione, per convergere su una rappresentazione condivisa. Questi modi, rendendo la sua azione più prevedibile all’altro, sono chiamati «facilitatori del coordinamento» (coordination smoothers)13. Essi riguardano anzitutto l’attenzione congiunta: cogliere cosa l’altro percepisce. La capacità del giocatore di dirigere l’attenzione sugli spazi e sui momenti nei quali si attende che l’altro giocatore interagirà, fornisce un meccanismo di base per condividere oggetti ed eventi. Si forma un terreno percettivo comune che unisce due menti nei riguardi delle stesse evenienze. Ciò predispone alle azioni congiunte, come quando uno segue lo sguardo dell’altro verso un mattoncino da manipolare, e rafforza il coordinamento di azioni comuni già in esecuzione, come quando il gesto verso la torre dell’uno si alterna armonicamente con quello dell’altro. Un secondo facilitatore si basa sull’osservazione delle azioni: durante la visualizzazione di cosa l’altro fa, il giocatore non si limita a codificare il movimento altrui, ma tende a interpretarlo in termini di finalità, rappresentandone l’azione entro un sistema che rende più prevedibili le sue azioni successive. Questo contribuisce a formare un terreno procedurale comune per l’azione congiunta. È il caso di specifici comportamenti non-verbali e spesso non-consapevoli, come alzare il sopracciglio, sbuffare energicamente, iniziare a sudare, sorridere rilassati, indossare una maglietta di un certo colore o sfiorare un determinato mattoncino prima d’iniziare. Ciascun giocatore valorizza i vantaggi delle interazioni percettive faccia-a-faccia, potendo accorgersi che l’altro sta per muovere la mano, o che assume l’espressione di chi sta per inserire per due volte di fila un mattoncino di uguale colore, sebbene l’altro non glielo segnali intenzionalmente, e sebbene lui stesso non sia cosciente del modo in cui se ne accorge. Il terzo facilitatore è la condivisione dei compiti (task-sharing): individuare quali azioni l’altro giocatore dovrebbe portare a termine, e sotto quali condizioni. Nel gioco della torre la condizione comune ai giocatori è la velocità di esecuzione, mentre il compito comune sta nel piazzare uno sull’altro, secondo una precisa sequenza, tutti i mattoncini. Per esempio, il Costruttore prevede l’affanno di entrambi nel tentativo di fare presto, e gli errori dell’Aiutante, che ignora la sequenza: la combinazione dei due fattori può spingerlo ad agire con movimenti regolari e sicuri, che assecondino i movimenti dell’altro e che riducano i tempi di aggiustamento nei casi in cui l’altro sbaglia la mossa. Un quarto facilitatore consiste nel sintonizzare le azioni: sono processi di entrainment (trascinamento ritmico), come quando due persone, collocate su sedie a dondolo vicine, tendono a sincronizzare la frequenza con cui le lasciano oscillare14. Malgrado il gioco della torre sia stato elaborato proprio per togliere di mezzo la possibilità di trasmettere informazioni sulla futura distribuzione delle mosse, l’entrainment non è eliminabile: l’Aiutante e il Costruttore possono «tenere il ritmo» delle loro mosse, per evitarne l’inceppamento15. Il quinto facilitatore risiede in percorsi di affordance (invito a comportarsi così-e-così), come quando un buffet «invita» gli ospiti affamati a convergere verso i tavoli imbanditi, secondo schemi di movimento regolari e prevedibili16. Nelle concrete situazioni sociali è ben difficile non imbattersi nell’affordance, ossia in forme di coordinamento non-verbale innescate dagli oggetti: un buon esempio è la rotatoria stradale, la quale impedisce, o almeno condiziona, numerosi comportamenti dei veicoli, anche qualora i guidatori ignorino o siano propensi a non rispettare le regole della circolazione17. Infine, un sesto facilitatore scaturisce, in alcune circostanze, dalla difficoltà a distinguere i contributi di ciascuno al risultato. Quando le azioni s’intrecciano continuamente, e ancor più quando perseguono la stessa finalità, i giocatori tendono a trascurare le possibili azioni singole per dedicarsi a quelle congiunte. Ciò appare nitidamente nel gioco della torre: poiché in esso le azioni hanno senso, per i giocatori, soltanto se sono coordinate, ossia se entrambi cooperano alla costruzione della torre, ognuno s’impegna nel riconoscere e cogliere le opportunità di coordinamento18.
77. L’abilità d’interpretare gli stati mentali altrui può essere un minimal mindreading, quando il comportamento di un soggetto dipende sistematicamente dai cambiamenti negli stati psicologici di altri partecipanti all’interazione sociale; oppure può essere un substantive mindreading, nei casi in cui il suo comportamento dipende sistematicamente da come concepisce gli stati mentali altrui. A sua volta, un substantive mindreading si articola in propositional attitude mindreading (modelli mentali con esplicito contenuto linguistico-concettuale) e in perceptual mindreading (modelli mentali che non esprimono e non ragionano sugli stati mentali altrui)19. Gli animali dispongono del minimal e del perceptual mindreading, come quando imparano che gazzelle e leoni non bevono mai assieme; vedono le gazzelle bere nello stagno; assumono che, nelle vicinanze, non vi siano leoni20. Gli esseri umani, pur essendo i soli capaci di propositional attitude mindreading, si muovono nel mondo prevalentemente come fanno gli animali: usano, in larga misura, modelli mentali non-concettuali, i quali modificano i comportamenti di ciascuno non tanto perché costui legge gli stati mentali altrui, bensì perché è influenzato anzitutto dai cambiamenti di comportamento altrui, che si manifestano anche come cambiamenti mentali o degli stati psicologici (quali che essi siano, e che egli li colga consapevolmente o meno). Infatti «cognition is for doing, not for thinking» 21. È questa la ragione per la quale i coordination smoothers sono i meccanismi grazie ai quali gli esseri umani formano l’intersoggettività: in molte occasioni non attribuiamo, in maniera esplicita e consapevole, intenzioni agli altri; ci limitiamo a rilevarle. Assistendo ai comportamenti altrui, riusciamo a coglierne i contenuti motori, senza metarappresentarli in un formato proposizionale22. Quella che stiamo presentando è una spiegazione del coordinamento, e quindi del formarsi delle credenze collettive, basata sulla comprensione implicita, di origine pragmatica e non riflessiva: essa non richiede common knowledge, bensì soltanto mutual manifestness. Si ha «conoscenza comune» di una proposizione p tra più individui quando ciascuno sa che p, e soprattutto ciascuno sa che ciascuno sa che p… in modo indefinitamente iterato23. Piuttosto, un fatto è «mutuamente manifesto» se più soggetti sono in grado di rappresentarlo mentalmente, anche in maniera non proposizionale; di conferire affidabilità a tale rappresentazione; e se questo fatto è a sua volta manifesto a più soggetti. Un fatto può essere manifesto senza essere conosciuto: non è necessario che un soggetto conosca le intenzioni degli altri24. Ne segue che, affinché un fatto sia mutuamente manifesto, occorrono e bastano meccanismi come i sei coordination smoothers. Grazie agli smoothers i giocatori, coordinandosi più e più volte, finiscono per approntare un corrispondente atteggiamento cognitivo, che giustifica e rafforza l’azione congiunta25. Abbiamo pertanto un nesso causale che, permesso da una credenza, procede dal comportamento all’atteggiamento cognitivo, per retroagire, infine, sulla credenza. Approfondiamolo meglio.
88. «Tutte le definizioni normative dipendono da specifiche definizioni cognitive. Per esempio: il tabù dell’incesto è probabilmente il principio morale più antico. In termini estremamente generali, si tratta di una norma che mi dice che io non posso sposare un parente stretto. Ma chi è un parente stretto? In una certa società questa norma può essere specificata dicendomi che non posso sposare un cugino di quinto grado. Per seguirla, o anche per darle un senso, devo sapere chi sono i miei cugini di quinto grado. In altre parole, la definizione normativa “l’incesto è sbagliato” dipende da una serie di definizioni cognitive relative alla natura della consanguineità, che a sua volta probabilmente si basa su ulteriori definizioni cognitive relative alla natura degli esseri umani, all’ordine sociale e forse alla struttura fondamentale dell’universo»26. In questo brano, Peter Berger intende per «norma» un qualunque comportamento regolare o iterato nel tempo. La sua tesi, in linea con l’impostazione qui difesa, è che ogni norma poggia su cognizioni, che ci segnalano com’è il mondo; ma le cognizioni che fondano l’azione ripetuta non si limitano a dati empirici specialistici su un dominio circoscritto, bensì rimandano a definizioni su chi siamo e quale mondo abitiamo, ossia evocano le credenze personali. La sequenza completa va dunque dal comportamento iterato, reso possibile da una credenza e favorito dall’innesco di specifiche circostanze, alle giustificazioni o razionalizzazioni cognitive, fino al rafforzamento e/o alla modifica della credenza. Con poche efficaci parole, lo schema era già stato suggerito da Pascal: «chi si abitua alla fede, le crede e non può non temere l’inferno»; ossia, può essere la ripetizione di un certo comportamento a farcelo giustificare e a irrobustire la credenza che lo consente27. Quando questa sequenza si dispiega, per il giocatore A, alla presenza dei coordination smoothers, emerge la possibilità (che non equivale a certezza!) che anche il giocatore B attivi la stessa sequenza, e che quindi determinati comportamenti, cognizioni e, soprattutto, credenze, siano condivisi a livello di gruppo. La figura 3 rappresenta questo percorso.
Figura 3. Come una credenza personale può essere condivisa

La concezione della scienza economica
99. La realtà esiste indipendentemente dalle menti umane, ma la nostra comprensione di essa dipende dalle credenze che, in un dato momento, deteniamo28. Senza credenze personali, non siamo in grado di comprendere la realtà, e quindi non possiamo agire. Ma senza credenze condivise, non siamo in grado di comunicare, in termini «mutuamente manifesti» (§ 7), la comprensione della realtà, e quindi non possiamo realizzare alcuna azione collaborativa. La credenza collettiva è dunque un fondamentale linguaggio sociale che ognuno può parlare soltanto con altri, ossia soltanto se, allo stesso tempo, altri lo parlano. Essa non esiste per me o per te, bensì direttamente per noi; è un «significato intersoggettivo» che non si afferma prima tramite l’iniziativa di qualcuno (come avverrebbe se Tizio si creasse un suo linguaggio privato), e dopo mediante quella di qualcun altro (come se Caio aderisse, con il proprio linguaggio privato, alla pratica linguistica di Tizio), bensì emerge direttamente dal circuito d’interazioni condivise sintetizzato nella figura 3 (Tizio e Caio sono immersi, fin dall’inizio, in un comune «gioco della torre», ed è nel flusso del gioco che le credenze personali sono immediatamente socializzate)29. La decisiva caratteristica di condivisione della credenza è adeguatamente formulabile grazie al concetto di «bene partecipativo», dovuto alla giurista Denise Réaume30. Com’è noto, nella teoria economica i «beni pubblici» non possono essere forniti a una persona senza essere offerti anche a tutti i membri del gruppo cui tale persona appartiene. Tuttavia, parecchi beni pubblici generano benefici individuali: per esempio l’aria pulita è un bene pubblico che non può essere prodotto dal soggetto isolato, ma la cui utilità è godibile dalla singola persona31. Ciò non accade per il sottoinsieme di beni pubblici composto dai beni partecipativi: com’è impossibile giocare a calcio senza gli altri membri della propria squadra e senza una squadra rivale, così la fruizione del bene partecipativo da parte di qualcuno dipende soltanto dal fatto che qualcun altro lo usi. Una credenza collettiva viene accettata da una persona soltanto se altre persone la adottano. A differenza dell’aria pulita, non può mai esistere per me senza essere condivisa con voi32.
1010. La formazione delle credenze collettive è stata qui delucidata secondo un approccio teorico differente da quelli diffusi tra gli economisti. Schematizzando, l’odierna scienza economica ragiona o sulle credenze esperenziali, oppure sulle credenze motivate. Nella prima ipotesi, le credenze si formano quale conseguenza delle interazioni soggettive e riflettono obiettivamente differenti realtà. Nell’altra ipotesi, piuttosto, un soggetto agisce con l’intento strategico di modificare le credenze degli altri, ma anche le proprie: se, poniamo, egli manifesta una debolezza della volontà, può orientare le sue stesse credenze allo scopo di aumentare l’impegno33. Da parte nostra, a differenza dell’approccio delle credenze esperenziali, abbiamo sostenuto che le persone si muovono nel mondo con una pluralità di modelli mentali, che possono condurle a differenti conclusioni sulla base dei medesimi dati: ne segue che le credenze non riflettono univocamente alcuna realtà. Diversamente dall’approccio delle credenze motivate, abbiamo argomentato che le credenze collettive emergono interattivamente durante il gioco sociale. Nessun marinaio, e nessun equipaggio navale, possono alimentare o abbattere il vento marino, ma, sotto condizioni favorevoli, riescono a governare la barca, dato il vento, nella direzione desiderata. Allo stesso modo, nessun singolo soggetto, e nessun gruppo sociale, detengono e controllano il processo di produzione della credenza collettiva (insisteremo su quest’aspetto nel § 14), sebbene siano talvolta in grado di orientare l’evoluzione sociale, utilizzando la forza e le caratteristiche della credenza collettiva esistente (torneremo su quest’aspetto nei §§ 23-25).
1111. Un differente approccio economico alle credenze, in linea con quello che stiamo provando a sviluppare, è proposto da Giacomo Becattini.
È chiaro – e solo un “drogaggio scientistico” può farlo diventare oscuro – che ogni soggetto umano, sia esso lavoratore o capitalista imprenditore, sposta le proprie risorse da un tipo di attività all’altro secondo la rappresentazione che soggettivamente si dà: a) delle proprie risorse; b) del loro rendimento, in qualche modo definito, nei diversi impieghi possibili; c) dei modi realmente possibili del loro impiego. Se è così, diventa essenziale capire come il soggetto si rappresenta le risorse, come ne valuta il rendimento, come delimita il campo degli impieghi possibili, come lo ripartisce. […] I sistemi capitalistici concreti attraversano fasi in cui la “forzatura” del processo culturale è più, e altre in cui è meno, accentuata. Quando essa è poco accentuata, nel senso che i valori e i significati che il sottosistema dei profitti secerne si sposano “quasi-naturalmente” con quelli secrèti dall’“evoluzione culturale”, allora il processo di espansione socio-economica si svolge regolarmente: i soggetti leggono e valutano tutti la realtà più o meno nello stesso modo, si formano configurazioni di aspettative coerenti e auto-giustificantesi, il processo economico produce, simultaneamente e congiuntamente, soddisfacimento dei bisogni e profitti34.
Il saggio di rendimento degli investimenti si livella, pertanto, non perché esista un meccanismo impersonale e automatico che, facendo migrare i capitali da un’industria all’altra, elimina le possibilità di extraguadagno; bensì perché gli imprenditori si autorappresentano in una sfera istituzionale culturale gli spazi delle industrie nella sfera istituzionale dell’economia; e lo fanno in maniere abbastanza stabili e reciproche da condurli alla percezione che, per ciascuno di loro, sia conveniente l’investimento realizzato, dati gli investimenti degli altri membri della cerchia. Ciò che succede è l’affermarsi di un sistema di credenze self-enforcing. Immaginiamo un gruppo di imprenditori. Il n. 1 ritaglia la realtà in 10 settori, ove il perimetro del settore I (“metallurgico”) va da 0 a 3 (di una retta virtuale), il II (“informatico”) va da 4 a 8, il III (“cantieristico”) va da 9 a 15, e così avanti. Anche il n.2 ritaglia la realtà in 10 settori, ma il perimetro del settore I va da 0 a 4, il II va da 7 a 13 (poiché le opzioni 5 e 6 l’imprenditore n.2 o non le vede, o non gli sono accessibili, o le rifiuta), il III va da 14 a 19, e così avanti. Il n. 3 ritaglia piuttosto la realtà in 12 settori, poiché 2 sono da lui scomposti in sottosettori autonomi, e così via. Quello che è decisivo, è che le credenze del n. 1 si confermino, date quelle del n. 2; e nel contempo che le credenze del n. 2 si confermino, date quelle del n. 1. Non importa che i settori (o industrie) esistano oggettivamente out there, e che ciascun imprenditore calcoli la convenienza di spostare in uno o nell’altro i propri capitali, fino al pareggiamento dei rendimenti marginali.
Il cambiamento delle credenze collettive
1212. Quando si forma una credenza collettiva, tutto cambia. «Se gli uomini definiscono reali le situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze»35. In primo luogo, vi sono cose che esistono socialmente soltanto finché le persone credono in esse: nel xiv e xv secolo circolavano molte false reliquie, che esistevano come tali finché gruppi di cristiani credevano che provenissero dalla Terra Santa36. Oppure si consideri il caso di una guerra che giunge all’armistizio: su un’isoletta contesa la notizia non arriva e i combattimenti continuano; poiché gli abitanti dell’isola credono nella guerra, fanno la guerra. In secondo luogo, al contrario, alcuni fenomeni cessano di esistere socialmente quando molti credono in essi: se gran parte dei membri del gruppo credesse nella piena sicurezza della circolazione stradale, tanti guiderebbero senza prestare attenzione e la sicurezza verrebbe meno. In terzo luogo, alcune credenze sono suscitate da precisi comportamenti, al fine di estendere e rafforzare quegli stessi comportamenti. Secondo Michel Callon, Donald MacKenzie e colleghi, la teoria economica (economics) dominante ha un’influenza performativa sulla vita economica (economy): i mercati esistenti funzionano così-e-così anche perché gli economisti hanno predicato che essi fossero creati e fatti girare in quella maniera37. Per esempio, nel funzionamento dei mercati finanziari, ogni nuovo prodotto deve essere accettato dagli operatori. I famigerati «derivati» (contratti che gestiscono le variazioni nei prezzi di un’attività sottostante, mediante il trasferimento a terzi del rischio) coprivano negli scorsi decenni una ridotta quota di mercato ed erano assimilati al gioco d’azzardo; la loro legittimazione, e quindi il loro diffondersi, avvenne grazie alla campagna promossa dal Chicago Board of Trade, che si appoggiò sulla teoria di Black, Scholes e Merton. Quella teoria, che sarà in seguito catastroficamente smentita dagli eventi, plasmò i mercati, nel senso che gli operatori costruirono i nuovi prodotti finanziari orientati da essa; e la corrispondenza tra teoria e realtà, inizialmente scarsa, andò aumentando man mano che la teoria venne adottata38. In quarto luogo, vi sono azioni socialmente predisposte per favorire la credenza collettiva in altre azioni: i magistrati si avvolgono in toghe d’ermellino, e i medici si bardano con berretti quadrati, per gabbare il mondo con la loro pompa.
Se possedessero la vera giustizia, o conoscessero la vera arte di guarire, la maestà di queste scienze sarebbe venerabile per se stessa. Ma non esercitando che arti immaginarie, è necessario che usino di quei vani strumenti che colpiscono l’immaginazione, con cui hanno a che fare; e in tal modo si procurano il rispetto39.
In quinto luogo, vi sono cose alle quali le persone credono pur conoscendone l’implausibilità:
Mondi immaginari, come l’Olimpo, il Valhalla, il Paradiso e l’Inferno influenzano il comportamento della gente in questo mondo. Tant’è che ipotesi sulla «volontà» di un dio ineffabile sono state tra gli strumenti più efficaci per dare forma a mutamenti storici; sono rappresentazioni con un effetto fisico; possono cambiare il mondo, e lo cambiano per davvero, sono reali e concrete come la forza di gravità o l’impatto di un proiettile40.
Le credenze umane si reificano, vivendo di vita propria, diventando autonome come se fossero reali, distaccandosi dall’oggetto (che non c’è) e assumendo forza propria. In sesto luogo, possiamo credere non in un evento, ma direttamente in una credenza, ossia avere una credenza su una credenza. Per esempio, alcune persone credono in dio, ma altre credono nella credenza in dio. Mentre per le prime dio esiste, le altre si limitano a costatare che si può avere quella fede, e che, inoltre, essa è opportuna per gli scopi che si perseguono41. Infine, vi sono cose alle quali le persone credono pur sapendo che la credenza è falsa: il lettore di fumetti sa che Spiderman non esiste, eppure crede in lui. Un esperimento mette i bambini davanti a un teatrino di marionette. Il pupazzo A entra e nasconde una collana sotto il cuscino a destra, poi esce. Il pupazzo B entra, cerca la collana e, trovatala, la sposta sotto il cuscino a sinistra; poi esce. A questo punto lo sperimentatore chiede ai bambini dove il pupazzo A, quando tornerà, cercherà la collana. Di solito, fino ai cinque anni i bambini rispondono che la cercherà dove effettivamente sta (sotto il cuscino a sinistra), mentre al di sopra dei cinque anni mostrano la capacità di elaborare credenze false, e quindi rispondono indicando il cuscino a destra42. Nel caso dei bambini più grandi, la realtà filtrata dalle credenze si stacca da loro: essi sanno che la credenza è falsa, ma sanno pure che quella falsità influenzerà effettivamente l’altrui azione e, se vi è interdipendenza, la propria. Sulla base dei sette scenari richiamati, possiamo concludere che i membri di un gruppo umano plasmano il loro agire in conformità a una credenza collettiva. Qualunque siano i significati, i riscontri empirici e la coerenza logica di tale credenza collettiva, sono effettive le conseguenze che ne derivano43. Max Weber ha espresso questo punto in maniera insuperata: «Gli interessi (materiali e ideali), non già le idee, dominano immediatamente l’agire dell’uomo. Ma le “immagini del mondo”, create per mezzo di “idee”, hanno molto spesso determinato le vie sulle quali poi la dinamica degli interessi continuò a spingere avanti l’agire»44.
1313. Perché i membri di un gruppo passano da una credenza collettiva a un’altra? Ricalcando le analisi del capitolo primo, la ragione fondamentale sta nel sorgere e radicarsi di anomalie, che mette in crisi un frame of reference; tale processo accade di solito in maniera graduale, ma sfocia improvvisamente in un riorientamento gestaltico (Gestalt = forma). Tutti conosciamo le popolari figure in cui possiamo scorgere forme alternative. Il punto è che o vedo la testa di Freud oppure vedo la donna nuda, come in un famoso poster stampato anche sulle magliette: «cosa sta nella testa degli uomini?». Non posso mai vedere assieme le due forme, perché il processo di rappresentazione «salta» necessariamente dall’una forma all’altra. Il cervello umano funziona come un software di simulazione, elaborando modelli, sulla base dei dati sensoriali che riceve, e aggiornandoli di continuo. Tuttavia, come ci ricordano le nostre tante illusioni ottiche, queste simulazioni sono spesso sfocate, cosicché gli stessi dati appaiono compatibili con più modelli alternativi della realtà. Non riuscendo a scegliere, il nostro cervello ci fa sperimentare una serie di commutazioni dall’un modello all’altro45. Quando il disegno che stiamo osservando si trasforma, diventando qualcos’altro, il riorientamento gestaltico si realizza come un cambiamento discontinuo. Eccone un esempio:
Nel 1985, nel vecchio Sudafrica dell’apartheid, a Durban vi fu una manifestazione. La polizia caricò i dimostranti con la consueta violenza. Un poliziotto inseguì una donna di colore, con l’ovvio proposito di colpirla col manganello. La donna, correndo, perse una scarpa. Il poliziotto, brutale nelle sue funzioni, era anche un giovane afrikaner ben educato, cui era stato insegnato che se una donna perde una scarpa, bisogna chinarsi a raccoglierla. I loro sguardi s’incontrarono mentre lui le restituiva la scarpa. Poi lui la lasciò andare, poiché colpirla non era più un’opzione accettabile46.
Ma vale il contrario: finché il cambio di paradigma non si verifica, siamo prigionieri di una sola forma.
L’assenza dell’enforcement
1414. Le credenze collettive, e più in generale tutti i modelli mentali condivisi, non richiedono di essere applicati (enforced) da una pressione sociale diretta47. In effetti, come abbiamo illustrato nei §§ 5-9, esistono meccanismi elementari che, facilitando il coordinamento di più soggetti, tendono a far convergere comportamenti, interpretazioni e convinzioni. Lungo questi percorsi di convergenza è assente la coercizione diretta, poiché, grazie a un progressivo allineamento cognitivo, le persone aderiscono spontaneamente a una certa convinzione per ragioni che sovente loro stesse non sanno, o non si preoccupano di, spiegare. Per cogliere meglio questo punto, discutiamo la differenza tra due fenomeni umani: un mosaico (esempio di evento concreto) e uno stile artistico (caso di evento mentale). Un mosaico, composto di migliaia di tessere colorate, è stato prima progettato; in seguito, il disegno complessivo sulla parete è stato pazientemente riempito, senza mai uscire dal perimetro, fino a restituire l’intenzionalità espressiva del progetto. Nel risultato finale tutto si tiene: il dettaglio di un abito fluttuante si colloca con precisione all’interno della grandiosità di una cruenta battaglia, che vede attorcigliarsi cavalli, spade, fanti, scudi, cavalieri, alberi, cocchieri, insegne, generali, lance e carri48. Al contrario, lo stile artistico non trae origine da un processo unitario deliberato: «parecchi artisti che creano spontaneamente, lavorando spesso in maniera indipendente l’uno dall’altro, confluiscono nell’unità di un indirizzo collettivo». Lo stile
è una struttura che non si può ottenere dalla qualità dei suoi portatori, né mediante addizione né mediante astrazione […]. Si tratta di qualcosa di simile a un tema musicale di cui si abbiano soltanto le variazioni. Il tema, se si prova a ricostruirlo, non risulta una somma delle variazioni, né una scelta delle loro caratteristiche, e nemmeno una specie di compendio astratto dei tratti identici ricorrenti nelle variazioni49.
Non soltanto nessuno ha elaborato lo stile artistico a tavolino; ma, soprattutto, nessuno può aderirvi, perché esso non sta out there nello stesso modo con cui il mosaico sta sul muro. Lo stile non è un esito da accettare o da subire, in quanto viene forgiato dal progressivo coordinarsi dei contributi distinti di vari artisti, che soltanto ex post etichetteremo come i suoi esponenti. Ovviamente, nulla esclude che, in determinate circostanze storiche, esso diventi un precetto obbligatorio, un momento di enforcement istituzionale, per ogni artista che desideri trovare occasioni di lavoro e ottenere riconoscimento sociale. Ma, quando ciò accade, lo stile smette di esistere unicamente nelle menti di coloro che, spesso senza consapevolezza, lo promuovono, assumendo invece i dispositivi applicativi propri di ogni assetto istituzionale. Insomma, il confronto tra mosaico e stile artistico aiuta a mettere a fuoco la mancanza di meccanismi diretti di comando e controllo nella fase di affermazione dei modelli mentali condivisi. Esso chiarisce un punto controintuitivo: se ascoltiamo (in musica) o guardiamo (in un’arte figurativa) una sequenza di variazioni, esse possono non derivare da un tema originario, bensì, al contrario, possiamo cogliere un tema unificante proprio attraverso quell’ascolto/sguardo. Nello stesso esatto modo la credenza collettiva non deriva da qualche repertorio di archetipi dell’inconscio umano, codici simbolici universali, linguaggi culturali sovrastorici, et similia; piuttosto, quella credenza viene condivisa attraverso processi interattivi diffusi, esaminati nei §§ 5-9, che giungono alla consapevolezza mentre si realizzano.
1515. Le credenze collettive richiedono un percorso di mutamento che è costoso. Come accade per uno stile artistico (§ 14), nessuno può da solo eliminare o modificare una religione, un ideale politico o una mentalità sul rapporto tra i generi, così come nessuno può, per proprio conto, decidere di passare dal latino al «volgare» italiano, o dall’italiano al globish50. Manca un enforcement diretto – una coazione o un incentivo, una sanzione o un premio – che possa stabilire quale lingua è parlata dalla comunità, o qual è la sua credenza. Ogni fenomeno collettivo dipende evolutivamente da miriadi di decisioni individuali alla lunga convergenti e, per cambiare, richiede il coordinamento di una massa critica di membri della collettività intorno a una nuova Gestalt (§ 13). Finché ciò non accade, tende a prevalere una forza d’inerzia, che mantiene il vecchio fenomeno anche quando le circostanze sono mutate. Ne segue che le credenze collettive tendono a resistere al cambiamento e che, per chi a esse si oppone, diventano ideologie, stereotipi, pregiudizi, illusioni, autoinganni, senso comune, falsi pensieri, intuizioni irrazionali del mondo51. Nei prossimi paragrafi inizieremo a indagare sotto quali condizioni può attenuarsi la deformazione a favore dello status quo delle credenze collettive.
La diffusione e l’istituzionalizzazione delle credenze collettive
1616. Come si diffonde una credenza collettiva? Per offrire qualche elemento di risposta, occorre anzitutto distinguere tra «folla solitaria» e «gruppo deliberante». La folla solitaria è una moltitudine di esseri umani che, sotto l’effetto di significati individuali (una credenza personale, un’aspettativa, una preferenza privata), si raduna nello stesso luogo, reale o virtuale: la stazione all’ora di punta, la piazza del mercato, l’assemblea politica, lo spettacolo teatrale, il forum sul web, e così via52. Il gruppo deliberante è invece un insieme di persone che, interagendo sulla base di un’interdipendenza non episodica (di uno scopo altrimenti non raggiungibile), tende verso una condivisione di credenze, aspettative e preferenze; ne segue che i suoi membri tendono ad attribuire al gruppo un’intenzionalità collettiva, come se fosse un soggetto capace di pensare e agire in modo corporato53. In secondo luogo, occorre distinguere tra «contagio epidemico» e «contagio sociale». Nel primo, più numerosi sono i contatti con l’agente patogeno, più alta è la probabilità che il soggetto s’infetti: ciò descrive quanto accade nella folla solitaria che, essendo una moltitudine priva di struttura, vede diffondersi la credenza in modo simile alla circolazione di un’epidemia. Piuttosto, nell’ambito di un gruppo deliberante quello che avviene è il contagio sociale, nel quale qualcuno attivamente seleziona le credenze e deliberatamente le propaga. Stavolta chi ha più contatti ha minore probabilità d’infettarsi, e maggiore probabilità d’infettare. Infatti, chi è ultraconnesso è meno probabile che reagisca a ogni singolo bit informativo, perché deve selezionare tra le troppe informazioni che gli giungono e abbisogna di segnali più forti per (re)agire. I segnali sono forti in base: (1) a come il network organizza i contenuti; (2) al numero dei contatti stretti che hanno già reagito; (3) all’impegno che il soggetto è disposto a compiere per vagliare le sue informazioni. Soltanto quando chi è ultraconnesso riceve un segnale forte, lo diffonde tra i suoi molti seguaci e quindi alimenta il contagio sociale54. Siamo insomma davanti a due differenti scenari: nel contagio epidemico ogni persona è singolarmente esposta alla circolazione delle credenze; nel contagio sociale, piuttosto, conta molto la struttura del network, le coalizioni che si formano, la conquista di posizioni strategiche. In terzo luogo, è necessario distinguere tra «contagio semplice» e «contagio complesso»: la forma semplice si verifica quando la trasmissione di un comportamento richiede soltanto un contatto tra chi già lo adotta e chi potrebbe adottarlo, mentre la forma complessa comporta l’esposizione a una molteplicità di fonti – non l’esposizione più volte alla stessa fonte – che siano tra loro indipendenti e che si rafforzino vicendevolmente55. Se per esempio Tizio prende l’influenza da suo figlio, è superfluo che venga altresì contagiato dalla moglie; se ascolta una notizia alla radio, non gli serve sentirla anche dalla televisione: in questi casi sta subendo contagi semplici. Affinché invece Tizio aderisca a una credenza – accettando una norma sociale o una pratica culturale –, è sovente decisivo che venga contagiato in maniera complessa, ossia che i messaggi provenienti dagli amici convergano con quelli emessi dal suo predicatore religioso, dai suoi colleghi di lavoro, dal partito politico per il quale simpatizza, e così via. Davanti a un cambiamento di credenza, se manca la pluralità convergente delle fonti, tende a mancare il convincimento; il contagio semplice basta per ricevere un’informazione o per mutare un’opinione, mentre è quasi sempre inadeguato per plasmare le convinzioni che rilevano nella vita sociale. Lo scenario connotato dal contagio epidemico e semplice non richiede decisioni ponderate e strategiche: esso raffigura quindi il modus operandi del membro della folla solitaria. Piuttosto, nello scenario caratterizzato dal contagio sociale e complesso, importa la posizione strategica nel network e i contatti sociali con una molteplicità di network: esso rappresenta la tipica azione del membro del gruppo deliberante.
1717. Ebbene, come si diffonde una credenza collettiva nell’ambito di una folla solitaria? Mentre, ovviamente, non esiste una risposta semplice e univoca, sembra importante concentrarsi, quale meccanismo potente e ricorrente, sulla sequenza shock-meaninglessness-soluzione estrema. Il passaggio iniziale è uno shock: un colpo di stato, un attacco terroristico, un crollo dei mercati, una guerra, un disastro ambientale, un’impennata della delinquenza, un flusso insistito di migranti, e così via. Lo shock viene percepito dalla folla come una catastrofe: ciò avviene in quanto esso viene selezionato – da un’epoca all’altra, da un contesto all’altro – tra gli eventi che, nei termini della credenza collettiva vigente, sono concepiti come portatori di disordine e di paura. Per provocare un «taglio» nell’odierna credenza condivisa, occorre introdurre una grave anomalia, che sia tale proprio nei termini e secondo i criteri della credenza che si vuole spiazzare. Essendo emergenziale e discontinuista, lo shock sollecita una tensione traumatica tra le nuove credenze personali, ispirate allo sgomento e all’insicurezza, e lo status quo rappresentato dalla vecchia credenza collettiva. Qui giungiamo al secondo passaggio della sequenza: la tensione traumatica si manifesta, tra coloro che animano la folla, come meaninglessness: «le persone possono sviluppare reazioni a un cambiamento graduale: un taglio alla sanità qui, un accordo commerciale là; ma se dozzine di mutamenti arrivano tutte insieme da ogni direzione, subentra un senso d’impotenza, e la popolazione resta inerte»56. Infine, propagandosi la perdita di senso, tutto può succedere, poiché la folla si muove su una tabula rasa in cui le regole istituzionali precedenti sono azzerate o quantomeno sospese. Nelle parole di Milton Friedman: «soltanto una crisi – reale o percepita – produce vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano»57. Pertanto, e siamo all’ultimo passaggio della sequenza, la finestra di opportunità della tabula rasa favorisce qualche soluzione estrema che – dalla repressione feroce di quelli che non stanno nel flusso della folla, alla crociata ideologica verso qualche nemico, fino a interventi di policy che contrastano gli interessi di gran parte della folla – contribuisca a un nuovo assetto istituzionale, grazie al quale la diffusione della nuova credenza collettiva possa durare58.
1818. Piuttosto, come si diffonde una credenza collettiva nell’ambito di un gruppo deliberante? Il meccanismo principale al quale ci riferiamo è quello del conformismo. La discussione con altri, che esprimono credenze personali diverse, è spesso governata dalla strategia del minore attrito, ossia dalla comoda propensione a imitare gli altri, o quantomeno a evitare nei loro riguardi un esplicito dissidio59. Come sappiamo dal capitolo primo, ciò è motivato dalla ricerca di significato: poiché la più forte preoccupazione del soggetto è di preservare un frame of reference, o di restaurarlo se è minacciato, allora il porsi nella traiettoria della maggioranza è un atteggiamento che, con il minimo sforzo e rischio, persegue, nell’ambito di un gruppo, questo obiettivo60. Tuttavia, il conformismo può essere sia moderato che estremista. Per rendercene conto, riferiamoci alla «moda» (la credenza personale che, avendo la massima frequenza, ottiene il maggior numero di adesioni: essa rappresenta, per definizione, la posizione del conformista) e alla «mediana» (la credenza personale che occupa la posizione centrale, spaccando a metà la distribuzione delle credenze). Definiamo moderato il conformismo quando le persone convergono sulla moda che coincide con la mediana (figura 4a). Ciò succede soltanto se, entro il gruppo deliberante, la distribuzione delle credenze personali è simmetrica, come nella curva a campana o normale. Definiamo invece estremista il conformismo quando vi è un’asimmetria, perché stavolta allinearsi alla credenza modale equivale, allo stesso tempo, a schierarsi a destra o a sinistra della credenza mediana (figure 4b e 4c). A sua volta, la distribuzione è asimmetrica quando, tra i membri del gruppo, fiorisce una pluralità di credenze personali: in tal caso si formano «pacchetti» rilevanti di adesioni nei riguardi di più credenze e i soggetti possono agglutinarsi attorno a molteplici conformismi, come accade nella figura 5, nella quale abbiamo una moda di destra e una di sinistra61.
Figura 4. Conformismo moderato ed estremista

Figura 5. Conformismi estremisti, di destra e di sinistra

1919. Siamo abituati ad associare il conformismo alla moderazione. Imitare gli altri dovrebbe mettere tra parentesi ogni posizione innovativa e azzardata, mantenendo l’imitatore in un cono d’ombra nel quale nulla lo distingua: l’imitatore sarebbe un moderato perché, in mezzo agli altri, desidererebbe scomparire. Eppure, contrastando il senso comune, la forma più diffusa di conformismo, dentro un gruppo deliberante, è quella estremista, che trae forza dal meccanismo della «polarizzazione di gruppo»62. Quando un gruppo inizia a deliberare su un determinato tema, raramente i suoi membri coltivano un’unica indiscussa credenza; essi, piuttosto, interagiscono a partire da una pluralità di credenze personali. Dopo un certo tempo di relazione comunicativa, solitamente il gruppo converge in maggiore misura su una credenza condivisa (o su poche, come nel caso in cui si abbia una moda di destra e una di sinistra). Infatti, durante la discussione di gruppo, per ovvie ragioni statistiche, la maggior parte degli argomenti favorisce la credenza inizialmente prevalente all’interno del gruppo. Ascoltando tali argomenti, i singoli membri tendono sempre più a spostarsi verso la credenza maggioritaria: più argomenti a favore di una credenza, creano o rafforzano il frame of reference per il soggetto e lo spingono ad aderirvi; come lui procedono altri; più numerose sono le adesioni a una credenza, più i singoli sono convinti di quella convinzione. Insomma: la forza degli argomenti, che nasce (anche) dalla forza dei numeri, serve a rafforzare ulteriormente i numeri e infine a rendere ancora più forti gli argomenti. Questo circuito cumulativo, favorendo la credenza iniziale, persuade sempre più membri del gruppo che tale credenza deve essere la migliore. Fin qui, abbiamo spiegato la propensione a convergere su una credenza (o su poche), non il suo contenuto estremista.
2020. Chiediamoci dunque: perché i gruppi tendono a muoversi, nel corso delle loro discussioni, verso posizioni sempre più estreme, nella direzione in cui erano originariamente orientati? E ancora: perché i gruppi deliberanti tendono ad assumere credenze più estreme di quelle degli individui che li compongono? Un primo ingranaggio del meccanismo esplicativo è il mere thought effect. Più un singolo soggetto elabora dentro di sé una credenza o un’aspettativa, più i contenuti di questa s’intensificano e radicalizzano: un bambino in attesa di una nuova bicicletta rosso-fuoco per Natale, pensa spesso a quella bicicletta, e ogni volta che ci pensa essa diventa più attraente per lui; oppure, lo studente nervoso per un esame imminente ci pensa spesso, e ogni volta l’esame diventa più odioso e spaventoso63. Lo stesso fenomeno accade dentro un gruppo: più dibattiamo una credenza, anche in assenza di nuove informazioni esterne, più tale credenza ci appare significativa e importante, mentre, per contrasto, svalutiamo le credenze in competizione con essa. Ne segue che non soltanto aderiamo alla credenza più dibattuta (§ 19), ma che il nostro convincimento in essa s’intensifica e radicalizza64. Da qui in avanti, la spiegazione della polarizzazione si basa sull’affermarsi e diffondersi nel tempo del conformismo. Un secondo ingranaggio riguarda l’esternalità reputazionale: anche se una persona non crede che quello che tanti altri membri del gruppo fanno indichi ciò che va fatto, può credere che quello che molti fanno segnali ciò che essi credono che andrebbe fatto65. L’esito è lo stesso del primo ingranaggio: poiché, agli occhi del soggetto, quella credenza appare via via più significativa e importante, a essa egli aderisce in modo più intenso e radicale. Quando i due menzionati ingranaggi sono all’opera, può generarsi un effetto a cascata che ne rafforza ed estende gli esiti. In effetti, il terzo ingranaggio del meccanismo esplicativo segnala che una persona, per farsi percepire favorevolmente dagli altri membri del gruppo, e per percepire favorevolmente se stessa, cerca di aggiustare la propria posizione nella direzione di quella dominante. Ella assume la credenza più diffusa quale termine di paragone per la propria. Poiché però la credenza che prevale sta diventando più intensa e radicale, anche l’adesione del conformista avrà una crescente intensità e radicalità66.
Supponiamo che le persone di un certo gruppo ritengano di essere fortemente contrarie agli interventi per le pari opportunità, al femminismo e al controllo delle armi, e vogliano inoltre cercare di apparire fortemente tali. Se inserite in un gruppo i cui membri sono pure fortemente avversi a tali politiche, esse si sposteranno probabilmente verso un’opposizione ancora più forte dopo aver visto cosa pensano gli altri membri del gruppo
e, soprattutto, dopo avere costatato che è in crescita – per i primi due ingranaggi – l’estremismo di tali politiche67.
2121. La polarizzazione di gruppo può essere spontanea o pianificata. Vi sono situazioni in cui essa non è controllata dall’alto, come nel caso delle comunità virtuali sul web: la comunicazione elettronica e il social networking creano città virtuali nelle quali le persone possono isolarsi da quelle con differenti convinzioni. Ognuno legge blog che rafforzano il proprio punto di vista, e quei blog rimandano a tanti altri simili. Così, gli scettici del cambiamento climatico, le vittime dei rapimenti da parte degli Ufo, i teorici della cospirazione, i razzisti e i simpatizzanti del terrorismo non soltanto trovano supporto alle loro credenze, ma le radicalizzano68. Tuttavia, una realtà sociale nella quale i gruppi si polarizzano è intrisa di conflitti. Quando i gruppi tendono a scontrarsi, diventa cruciale l’abilità di formare, orientare e governare un proprio gruppo contro gli altri. Ne segue che la polarizzazione stimola l’emergere di leader che s’impegnino a progettare e realizzare comunità di persone con credenze condivise le quali, nel tempo, si andranno estremizzando. Questi leader intervengono secondo la logica del contagio sociale e complesso (§ 16): la loro efficacia è tanto maggiore, quanto più essi ricoprono una posizione strategica nel network del gruppo, e quanti più contatti intrattengono con una pluralità di network.
2222. Nel capitolo primo abbiamo definito l’istituzione come un insieme di regole formali e informali che include i loro modi di applicazione (enforcement). Tra le istituzioni e le credenze collettive corrono nessi di complementarità. In termini generali, «mentre i sistemi di credenze esprimono la rappresentazione mentale dell’ambiente sociale, le istituzioni sono la struttura che gli esseri umani impongono su quell’ambiente, al fine di raggiungere il risultato desiderato»69. Più esattamente, una prima forma di complementarità si afferma perché le credenze collettive legittimano e rendono funzionanti le istituzioni. Affinché più soggetti ammettano e rispettino un insieme di regole, essi devono convergere su un’interpretazione non troppo dissimile di quale «gioco sociale» stanno giocando, di quali e quante alternative hanno davanti, di come sono fatte e si relazionano tra loro. Senza la condivisione di un sistema di credenze da parte dei membri di una collettività, qualsiasi regola girerebbe a vuoto70. Un’altra forma di complementarità si ha quando «le istituzioni sono poco più che la “codificazione” delle credenze, come nei casi in cui l’avversione alla violenza in una società si traduce in una legislazione formale che la contrasti»71. Qui le credenze collettive influenzano il processo d’istituzionalizzazione, anziché limitarsi a giustificare un’istituzione una volta che essa è formata. Infine, come mostra la vicenda storica di tutte le religioni di successo, una terza forma di complementarità riguarda il fatto che nessuna credenza collettiva può durare stabilmente senza essere incorporata e sostenuta da istituzioni (politiche, giuridiche, militari ed economiche)72. In effetti, una credenza collettiva diventa una forza non episodica di cambiamento storico soltanto quando è istituzionalizzata, ossia quando viene resa concreta attraverso apparati rituali e simbolici, cerimonie di massa, rappresentazioni liturgiche che la diffondano sotto forma di stereotipi morali e politici. Il punto teorico decisivo è che questi processi non creano propaganda – qualcosa che artificiosamente condiziona le menti delle persone –, bensì possono plasmare dall’interno le scelte umane73. Lo annota Hannah Arendt:
L’elemento sconcertante nel successo del totalitarismo è la genuina abnegazione dei suoi seguaci: può essere comprensibile che un nazista o un bolscevico non si senta scosso nella sua convinzione da crimini contro persone che non appartengono al movimento o che addirittura gli sono ostili; ma lo stupefacente è che non tentenni quando cominciano a esser colpiti i suoi compagni di fede, e neppure quando è lui stesso a cader vittima della persecuzione, a esser condannato sulla base di accuse inventate, espulso dal partito e deportato in un campo di concentramento o di lavoro forzato. Anzi, con grande meraviglia dell’intero mondo civile, egli può essere persino disposto ad accusarsi e a collaborare alla sua condanna a morte, purché non sia toccata la sua posizione di militante74.
Ovviamente, nei casi in cui avviene una compenetrazione tra credenze collettive e assetti istituzionali, il cambiamento delle credenze diventa difficile, lento e oneroso: se per esempio la maggioranza degli italiani si dichiarasse pubblicamente atea o agnostica, non saremmo di fronte a un semplice mutamento delle opinioni; dovremmo affrontare una serie di smottamenti istituzionali, finalizzati a rimuovere la presenza del cattolicesimo, quale credenza collettiva, dalle nostre istituzioni.
L’adeguamento delle credenze personali
2323. Le credenze collettive non richiedono enforcement (§ 14). È soltanto sul lungo periodo che esse ricevono forme di pressione sociale diretta, per stabilire la complementarità con un assetto istituzionale (§ 22). A differenza delle credenze collettive, per quelle personali l’enforcement non serve nemmeno nel lungo periodo, giacché nessuno può convincere (poniamo) qualcuno ad amare il prossimo puntandogli una pistola, né incentivandolo in qualche modo; può, al massimo, convincerlo a comportarsi come se l’amore per gli altri fosse parte della sua credenza. Non associandosi mai all’enforcement, le credenze personali presentano un ridotto nesso di complementarità con le istituzioni, il cui funzionamento dipende invece proprio dall’enforcement. Ciò sembrerebbe implicare che ogni soggetto, nella sua sfera privata, possa mutare a piacimento fede religiosa, parte politica o modo di vedere il partner, valutando soltanto costi e benefici psicologici che di volta in volta ne trae. Tuttavia, la credenza personale è una concezione di come il mondo funziona e di quali opportunità esso offre (§ 1). Mettendo in gioco aspetti così importanti della vita del soggetto, non è scontato che la credenza personale possa cambiare facilmente e velocemente; anzi, in non poche circostanze il soggetto difenderà in modo strenuo la sua credenza nel timore di affrontare costi psicologici eccessivi e di smarrire la posizione-nel-mondo. Fin qui, è però soltanto metà della storia. Ognuno di noi elabora tante credenze personali, spesso tra loro in contrasto: per esempio una donna afroamericana è, nella Virginia del xix secolo, una schiava quando raccoglie il cotone nei campi, ma è creativa e felice quando canta uno spiritual, ed entrambe le sfere esperienziali sono da lei percepite come altrettanto significative. La figura 6 rappresenta la tensione fra tre principali articolazioni delle credenze personali: la credenza comportamentale (nell’esempio appena introdotto: «credo che la mia condizione di schiava sia un destino ineluttabile»); quella normativa («il padrone può sopraffarmi e abusare di me, poiché sono la sua schiava»); quella di controllo, ovvero dell’abilità soggettiva a realizzare un comportamento («se canto uno spiritual, mi piaccio e quindi mi sento felice!»)75. Una ragione importante di cambiamento delle credenze personali s’innesca ogni volta che sorge tensione tra le tre articolazioni della figura 6, ossia quando la credenza comportamentale contrasta quella normativa e/o quella del controllo.
Figura 6. Come le credenze personali plasmano il comportamento

2424. Nel cambiare, le credenze personali potrebbero idealmente convergere verso una rappresentazione totale coerente. Ma, in effetti, questa totalità spesso il soggetto non la raggiunge mai, poiché la sua vita si dipana alternando o sovrapponendo tante credenze particolari. Inoltre, il percorso di cambiamento delle credenze personali diventa tanto più problematico, quanto più tali credenze «stridono» l’una con l’altra, generando meaninglessness. Il soggetto risponde, come sappiamo dal capitolo primo, ricorrendo ai meccanismi dell’accomodamento, dell’affermazione, dell’assimilazione, dell’astrazione e dell’abbandonarsi. Ma sappiamo altresì che, in larga misura, questi meccanismi hanno natura compensatoria: anziché affrontare e, se possibile, risolvere una determinata perdita di senso, essi la rendono sostenibile trasferendola in una diversa sfera di esperienza, reale o virtuale. Ne segue che il cambiamento delle credenze personali non attiva di solito mutamenti diretti del mondo sociale rappresentato da tali credenze. Piuttosto, quando le credenze personali mutano, tende a mutare un «pezzo» di mondo sociale diverso da quello inizialmente coinvolto, poiché è in tale «pezzo» che le credenze sono riuscite a restaurare un significato. Per esempio, più si accentua l’oppressione schiavistica sulla donna afroamericana, citata nel § 23, più si accresce la sua fede religiosa e la connessa gratificazione del cantare gli spiritual. Usando le categorie della tabella 2, la credenza comportamentale e quella normativa si mantengono nel tempo, confermando la condizione di schiavitù; ciò, per rispondere alla meaninglessness, ossia per ridonare un senso alla vita, modifica la credenza di controllo, non per alleviare l’oppressione, bensì per rafforzare il ruolo della fede e del canto nell’ambito dell’identità (poco coerente) del soggetto. Insomma, i percorsi di cambiamento delle credenze personali, basandosi ampiamente su fenomeni «palliativi» di compensazione, tendono in parecchi casi a «scaricare» il cambiamento in ambiti sociali differenti da quelli che lo avevano sollecitato. Ne segue che, se vogliamo comprendere l’impatto delle credenze personali sulla società, non dobbiamo fermarci soltanto sulla loro evoluzione in quanto tali, bensì guardare alle relazioni conflittuali che internamente le animano e che sono sintetizzate nella figura 6.
2525. Abbiamo argomentato che le credenze personali non sono modificabili a colpi d’incentivi e di punizioni estrinseci, ovvero esterni alla persona, considerando che nella propria mente ogni persona può credere in B, mentre pubblicamente dichiara e agisce come se credesse in A (§ 23). Questa tesi rimane valida, ma va riformulata quando consideriamo il rapporto tra credenze personali e istituzioni. Una società istituzionalizzata, mentre non può modificare con qualche semplice procedura di comando-e-controllo le credenze (§§ 14-15), può influire in maniera decisiva su come esse cambiano, riducendo la divaricazione tra ciò che una persona crede e le convinzioni che manifestamente condivide76. Infatti ogni ambito istituzionale ha qualche forma di enforcement: sia esso un incentivo o una punizione, sia esso esterno alla persona oppure interiorizzato. Mediante l’enforcement, questo ambito esercita una pressione sociale che rende sensibile il singolo soggetto alle convinzioni degli altri, ossia che modifica i suoi atteggiamenti per allinearli a quelli approvati dalla maggioranza. In altri termini, le istituzioni attivano forme d’influenza sociale sui soggetti; ciò comporta che ciascun soggetto possa trovare sensato e conveniente ridurre lo scarto tra quello in cui crede e quello in cui fa finta di credere. Tutte le volte che il soggetto decide di conformare la sua convinzione personale a quella collettiva, compie un adeguamento della credenza personale: è il caso del fedele che, visitando un santuario religioso, finisce per condividere l’attesa del miracolo, nonostante l’iniziale scetticismo; o del ricercatore scientifico che si adegua al paradigma dominante, nonostante vi riscontri numerose anomalie. Come argomentato nel capitolo primo, ogni credenza personale deriva da un percorso di ricerca di senso, e soprattutto di reazione alla perdita di senso (meaninglessness). Lungo questo percorso, la pressione sociale tende ad allineare ogni credenza privata a quella pubblicamente dichiarata: qualora lo scarto tra la credenza privata e quella pubblica sia troppo ampio e durevole, la persona ne prova disagio e reagisce facendo convergere, lungo la linea di minore resistenza, i comportamenti alle attitudini, o viceversa77. La figura 7 riassume.
Figura 7. Adeguamento della credenza personale a quella collettiva

2626. L’adeguamento delle credenze personali può anche realizzarsi unicamente entro la mente del soggetto, e quindi basarsi su premi e sanzioni intrinseci alla persona. Per approfondire quest’aspetto, osserviamo che una credenza personale può assumere tre forme: pensabile, inaccettabile e impensabile. Alla prima ci siamo riferiti nel § 25 e il suo percorso di adeguamento è rappresentato dalla figura 6. La seconda forma non può essere approvata dal soggetto, mentre la terza non può nemmeno essere da lui ammessa: l’una attiene alla non legittimità di un certo comportamento, mentre l’altra riguarda la sua non concepibilità. Un caso di credenza inaccettabile è il privilegio legato a un titolo nobiliare, o a uno status religioso, in un’odierna società occidentale, mentre una credenza impensabile è rappresentata da tabù come il cannibalismo, la zoofilia, l’incesto e il sacrilegio. Tanto la credenza personale inaccettabile, quanto quella impensabile, è tale, ovviamente, nei confronti di una credenza collettiva: se mancasse, quale pietra di paragone, una convinzione diffusa e condivisa su cos’è legittimo e cos’è ammissibile, il soggetto non sarebbe in grado d’interpretare le proprie convinzioni in termini d’inaccettabilità o d’impensabilità. Siamo quindi di fronte a situazioni in cui il prius è la credenza collettiva, ed è rispetto a esso che la credenza personale assume significato. Supponiamo che una società approvi lo scopo x, che crede possa essere raggiunto lungo il percorso A, oppure lungo quello B. Assumiamo che, da un determinato istante, B sia delegittimato o inammissibile: esso diventa una credenza inaccettabile o impensabile. Coloro che credono B, soffrono la pressione sociale a favore di A. Essi allineano quindi la loro vecchia credenza privata B a quella collettiva A. Per convincere gli altri del loro conformismo verso la credenza A, essi iniziano ad adattare i loro comportamenti a essa, così da corroborarla ulteriormente. Il risultato è un progressivo adeguamento della credenza iniziale: il soggetto cancella la sua credenza personale B, che diventa per lui, come già lo è socialmente, una credenza inaccettabile o impensabile. Anche in queste situazioni, come in quelle richiamate nel § 25, il soggetto adegua le credenze quando riduce lo scarto tra le sue convinzioni e quelle collettive. Tuttavia, stavolta la divergenza tra i precetti dettati dalle credenze collettive e i comportamenti/pensieri del soggetto diminuisce soltanto nella mente di quest’ultimo. Nel caso di una credenza impensabile, ad esempio, perfino il pensiero di violare un tabù è un problema. Le penalità associate non attengono soltanto al comportamento che contraddice il tabù, bensì pure al semplice immaginare o considerare tale comportamento. In questa chiave, il tabù è una forma di «polizia del pensiero” che governa, oltre alle azioni, anche i pensieri umani78. Stavolta il contrasto tra una credenza personale e una collettiva è espressione di un potere istituzionale capace di plasmare non soltanto i comportamenti, ma pure le convinzioni.
2727. Nell’ultima parte del capitolo abbiamo concentrato l’attenzione sul nesso tra credenze e istituzioni. Poiché le istituzioni funzionano mediante meccanismi di enforcement, quando le credenze sono calate in ambiti istituzionali subiscono la pressione diretta di quei meccanismi. Il soggetto, subendo tale pressione, tende all’adeguamento delle credenze personali, ossia ad allineare le sue convinzioni private a quelle pubbliche (§§ 25-26). Tuttavia, in reazione all’influenza istituzionale, il soggetto può anche adottare la strategia opposta: sganciare la propria credenza da quella collettiva; ed è tanto più spinto a farlo, quanto più è inserito in gruppi deliberanti polarizzati (§§ 18-21). Che la divaricazione si restringa oppure si allarghi, essa segna sempre e comunque una tensione tra le credenze personali e quelle condivise. Questa tensione conflittuale contribuisce a spiegare perché nessuna credenza resta a lungo inalterata, anche quando le condizioni del suo cambiamento sono lente, difficili e costose.
Notes de bas de page
1 J. Bowlby, Loss: Sadness and Depression, New York, Basic Books, 1980, p. 229.
2 «Per credenze (beliefs) si intendono due realtà psicologiche un po’ diverse fra loro. La prima prende il concetto in modo estensivo: qui la credenza è qualsiasi tipo di aspettativa. In questo caso non c’è molta distanza fra una credenza e una conoscenza. Per esempio, se credo che domani farà bel tempo è perché ho qualche informazione per affermarlo. […] La seconda realtà psicologica, invece, è restrittiva e anche più appropriata. Si crede “in” qualcosa. Così, credere nell’astrologia non è affatto lo stesso che conoscere l’astrologia e vi può essere una discrepanza significativa fra il credere in se stessi e il conoscere se stessi. Qui le credenze sono convinzioni personali emotivamente connotate»: G. Jervis, Pensare dritto, pensare storto, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 169-170. La nostra definizione di «credenza» si avvicina alla seconda accezione appena richiamata; essa è più stringente, rispetto alla generica definizione di credenza come aspettativa, riguardando soltanto i modelli mentali che stabiliscono quali alternative esistono o possono esistere nel mondo, e quali nessi corrono, o possono correre, tra loro.
3 G. Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale (1996), Torino, Bollati Boringhieri, 1997, pp. 29-30.
4 Vedi Y.N. Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro (2015), Milano, Bompiani, 2017.
5 Una precisazione metodologica: poniamo la «credenza» quale determinante prioritaria, in quanto essa permette alle persone di conferire o recuperare un senso alla loro vita, non perché «alle sue spalle» non vi siano altri flussi informativi, sui quali la credenza stessa poggia. «Alle informazioni che ci provengono dalla nostra lontanissima storia evolutiva abbiamo dato il nome di genetica. A quelle che si tramandano da millenni, religione. A quelle che si tramandano da secoli, cultura. A quelle che ci arrivano nell’arco di decine d’anni, famiglia. Infine, a quelle che abbiamo ricevuto qualche anno, mese, giorno o ora fa, abbiamo dato il nome di educazione, istruzione, consigli» (D. Brooks, L’animale sociale (2011), Torino, Codice, 2012, p. 35). È lecito, in un’indagine scientifica, fermarci sulla determinante adeguata a delucidare il nostro problema – la spiegazione dell’azione personale e collettiva –, anche se essa rimanda ad altre variabili.
6 A. Marshall, «Prolusione inaugurale in occasione del conferimento della cattedra di Economia a Cambridge» (1885), in Id., Antologia di scritti economici, a cura di G. Becattini, Bologna, il Mulino, 1981, pp. 133-134.
7 T.L. Chartrand e J.A. Bargh, The chameleon effect: the perception-behavior link and social interaction, “Journal of Personality and Social Psychology”, vol. 76, n. 6, 1999, pp. 893-910.
8 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali (1759), Milano, Rizzoli, 1995, p. 83.
9 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel (1947), Milano, Adelphi, 1996, p. 20.
10 P. Bloom, Buoni si nasce (2013), Torino, Codice, 2014, p. 37.
11 Questo paragrafo e il prossimo attingono ampiamente a N. Sebanz et al., Joint action: bodies and minds moving together, “Trends in Cognitive Sciences”, vol. 10, n. 2, pp. 70-76; C. Vesper et al., A minimal architecture for joint action, “Neural Networks”, n. 23, 2010, pp. 998-1003; G. Pezzulo, Shared representations as coordination tools for interaction, “Rev. Phil. Psych.”, n. 2, 2011, pp. 303-333; G. Pezzulo e H. Dindo, What should I do next? Using shared representations to solve interaction problems, “Exp. Brain Res”, vol. 211, n. 3-4, pp. 613-630.
12 Vedi R. Tuomela, Social Ontology. Collective Intentionality and Group Agents, Oxford, Oxford University Press, 2013, p. 40.
13 Il gioco della torre è stato progettato così da proibire l’entrata in scena di meccanismi di comunicazione verbale spontanea, nonché di comunicazioni che, in maniera deliberata, siano usate per trasmettere segnali di coordinamento. (Su tali meccanismi, vedi S. Garrod e M.J. Pickering, Joint action, interactive alignment, and dialog, “Topics in Cognitive Science”, n. 1, 2009, pp. 292-304). Questo gioco è un contesto artificiale nel quale soppesare l’efficacia dei coordination smoothers per la formazione dell’intersoggettività e del coordinamento. Ciò, ovviamente, non equivale a sostenere che, specialmente nelle situazioni più complesse, i meccanismi lasciati da parte non siano importanti.
14 M.J. Richardson et al., Rocking together: Dynamics of intentional and unintentional interpersonal coordination, “Human Movement Science”, n. 26, 2007, pp. 867-891.
15 «[Abbiamo] una straordinaria capacità: tenere il tempo assieme. […] Le persone vicine sono in grado di trascinarsi reciprocamente a sintonizzarsi nello stesso ritmo»: P. Apolito, Ritmi di festa, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 55-56.
16 G. Knoblich e N. Sebanz, Evolving intentions for social interaction: From entrainment to joint action, “Philosophical Transactions of the Royal Society”, n. 363, 2008, p. 2022.
17 Vedi J.J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva (1986), Bologna, il Mulino, 1999.
18 Va sottolineato che i sei coordination smoothers confermano l’impostazione di questo libro: nell’alimentare l’azione congiunta, essi funzionano perché il soggetto è un animale ermeneutico; l’«attenzione congiunta» dipende da un’aspettativa, l’«osservazione delle azioni» si lega a un’interpretazione, e così per gli altri.
19 J.L. Bermúdez, Mindreading in the animal kingdom, in R.W. Lurz (a cura di), The Philosophy of Animal Minds, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 145-164.
20 J.L. Bermúdez, Thinking Without Words, Cambridge (Ma), The Mit Press, 2003, p. 141.
21 G. Pezzulo, Coordinating with the future: the anticipatory nature of representation, “Minds & Machines”, n. 18, 2008, p. 181.
22 M. Ammaniti e V. Gallese, La nascita dell’intersoggettività, Milano, Cortina, 2014, p. 28.
23 D. Lewis, Convention, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1968, pp. 52-60. Questa definizione è alla base di gran parte della letteratura di teoria economica su beliefs e istituzioni: per una sintesi e una raffinata elaborazione, vedi J. Urpelainen, The origins of social institutions, “Journal of Theoretical Politics”, vol. 23, n. 2, pp. 215-240.
24 D. Sperber e D. Wilson, Relevance, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1986, pp. 38-45.
25 Una corroborazione sperimentale delle giustificazioni cognitive a posteriori si ha «quando chiediamo alle persone di spiegare il loro comportamento. Le persone s’impegnano in uno sforzo che sembra d’introspezione; nondimeno, quello che cercano non è la memoria degli effettivi processi cognitivi che hanno provocato i loro comportamenti, poiché [nelle situazioni sperimentali controllate] quei processi non sono accessibili alla loro coscienza. Piuttosto, esse escogitano teorie plausibili sul perché possono avere fatto ciò che hanno fatto. […] Questi ragionamenti causali post hoc sono documentati, per esempio, nei casi in cui l’ipnosi e l’illustrazione subliminale sono usate per spingere all’azione. Dovendo giustificare le proprie scelte, le persone avanzano con facilità ragioni plausibili ma infondate»: J. Haidt, The emotional dog and its rational tail: A social intuitionist approach to moral judgment, “Psychological Review”, vol. 108, n. 4, p. 822.
26 P.L. Berger, Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo (1992), Bologna, il Mulino, 1994, p. 183.
27 B. Pascal, Pensieri (1670), Roma-Bari, Laterza, 1963, p. 55.
28 M. Shermer, The Believing Brain (e-book), New York, Holt & c., 2012, pos. 18.
29 La credenza collettiva è una forma assunta dai significati intersoggettivi. Questi ultimi «sono concetti, argomenti, credenze e giudizi che non possono essere attribuiti a individui; piuttosto, essi sono attributi condivisi da gruppi di esseri umani. La ragione per cui non possono essere attributi di un singolo soggetto è che essi non sono astrazioni di menti individuali (come i concetti matematici o le aspettative di piacere e sofferenza), bensì sorgono dalle regole che costituiscono le pratiche sociali e che non esisterebbero senza il coordinamento sociale»: V. Gauri et al., Intersubjective meaning and collective action in developing societies, “Journal of Development Studies”, vol. 49, n. 1, p. 161.
30 D. Réaume, Individuals, groups, and rights to public goods, “University of Toronto Law Review”, vol. 38, n. 1, pp. 1-27. L’autrice non discute della «credenza collettiva», ma della «cultura»: l’argomentazione è ovviamente la stessa, riguardando qualunque linguaggio sociale.
31 C. Taylor, Irreducibly social goods, in Id., Philosophical Arguments, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1995, pp. 129 e 137.
32 Un anno dopo la pubblicazione del saggio di Réaume, apparve quello di C.J. Uhlaner sui «beni relazionali» (Relational goods and participation: Incorporating sociability into a theory of rational action, “Public Choice”, n. 62, 1989, pp. 253-285). Questi beni sono connotati dal fatto che il loro consumo positivo da parte di un soggetto ne incrementa il consumo da parte di altri. Come i «beni partecipatori», anche quelli «relazionali» non possono essere consumati da soli, ma questa circostanza è spiegata da Uhlaner mediante la semplice interazione dei soggetti, e quindi invocando il concetto ancora individualistico di «esternalità», invece che sulla base di una forma di significato intersoggettivo, e quindi invocando un attributo direttamente collettivo, come accade in Réaume.
33 Questa classificazione dei contributi degli economisti è suggerita da R. Di Tella et al., The formation of beliefs: Evidence from allocation of land titles to squatters, “Quarterly Journal of Economics”, n. 122, 2007, pp. 232-233. Tra i contributi più discussi in tema di credenze, ricordiamo T. Piketty, Social mobility and redistributive politics, “Quarterly Journal of Economics”, n. 110, 1995, pp. 551-584; R. Bénabou e J. Tirole, Belief in a just world and redistributive politics, “Quarterly Journal of Economics”, n. 121, 2006, pp. 699-746; E. Glaeser, The political economy of hatred, “Quarterly Journal of Economics”, n. 120, 2005, pp. 45-86.
34 G. Becattini, Sulla nozione di saggio uniforme di profitto, “Materiali filosofici”, n. 7, 1983, pp. 46 e 55, corsivo nostro.
35 W.I. Thomas e D.S. Thomas, The Child in America, New York, Knopf, 1928, p. 572.
36 Definire «false» le reliquie di Frate Cipolla, nella famosa novella di Boccaccio, non equivale ad ammettere che vi siano reliquie «vere», bensì che il saio di Padre Pio può effettivamente essere stato indossato da lui, mentre la Sindone torinese, essendo un manufatto medioevale, non può aver avvolto il corpo di Gesù.
37 Vedi D. MacKenzie, F. Muniesa e L. Siu, Do Economists Make Markets? On the Performativity of Economics, Princeton (Nj), Princeton University Press, 2007; F. Muniesa, The Provoked Economy. Economic Reality and the Performative Turn, London, Routledge, 2014.
38 D. MacKenzie, An Engine, Not a Camera. How Financial Models Shape Markets, Cambridge (Ma), The Mit Press, 2006; Id., Material Markets. How Economic Agents Are Constructed, Oxford, Oxford University Press, 2009.
39 Pascal, Pensieri cit., p. 52.
40 T.W. Deacon, La specie simbolica (1997), Roma, Fioriti, 2001, pp. 437-438.
41 D. Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale (2006), Milano, Cortina, 2007, p. 237. In riferimento alla posizione difesa nei §§ 4-7, annotiamo che «è possibile avere credenze di credenze anche in assenza di un linguaggio», ossia anche mediante rappresentazioni mentali che non abbiano natura proposizionale e concettuale. F. Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 147.
42 Vedi A. Rainone, Mindreading, in S. Gensini e A. Rainone (a cura di), La mente, Roma, Carocci, 2008, p. 437 in nota.
43 In tutta la nostra esposizione, «la differenza tra finzione e realtà non è obiettiva e non pertiene alla cosa stessa; essa risiede in noi, a seconda di che cosa soggettivamente vediamo, o meno, in una finzione» (P. Veyne, Did the Greeks Believe in their Myths? (1983), Chicago, University of Chicago Press, 1988, p. 21). Possiamo ammettere che il modo con cui autorappresentiamo un evento ha effetti reali, senza chiederci come sono davvero andate le cose. Ciò, tuttavia, non implica un agnosticismo intorno alla possibilità di distinguere tra rappresentazioni più o meno dotate di riscontri empirici. Al riguardo, Assmann distingue tra tracce, memorie e ricordi. Le tracce sono i reperti archeologici e, per estensione, l’eredità documentaria di un periodo storico, in parte non controllata dagli attori di quel periodo. Esse consentono quindi, almeno in parte, di effettuare una ricostruzione interpretativa indipendente dai desideri di coloro che hanno abitato quel periodo. Le memorie sono invece le autorappresentazioni degli attori nei riguardi dei propri contemporanei e discendenti. Infine, i ricordi sono le rappresentazioni che i discendenti elaborano di un periodo storico precedente. Qui ci concentriamo su «memorie» e «ricordi», ma siamo consapevoli dell’esistenza delle «tracce». Vedi J. Assmann, Non avrai altro dio, Bologna, il Mulino, 2007, cap. 4.
44 M. Weber, Economia e società (1920-1921), vol. I, Milano, Comunità, 1980, p. 240.
45 R. Dawkins, L’illusione di dio (2006), Milano, Mondadori, 2007, p. 92.
46 J. Glover, Humanity (1999), Milano, il Saggiatore, 2002, p. 58.
47 World Bank, World Development Report 2015. Mind, Society, and Behavior, Washington, World Bank, 2015, p. 62.
48 Il riferimento è al mosaico della battaglia di Isso (100 a.C. circa), svoltasi nel 333 a.C. tra Alessandro Magno e Dario III di Persia, conservato al museo archeologico di Napoli.
49 A. Hauser, Le teorie dell’arte (1958), Torino, Einaudi, 1969, pp. 173-177, corsivo nostro.
50 «Gli individui non possono da soli cambiare una norma, allo stesso modo in cui non possono cambiare una regola grammaticale, il valore di una moneta o il senso di marcia dei veicoli»: S. Moscovici e W. Doise, Dissensi e consensi (1991), Bologna, il Mulino, 1992, pp. 130-131.
51 Vedi R. Boudon, L’ideologia. Origine dei pregiudizi (1986), Torino, Einaudi, 1991, pp. 26-27 e 85.
52 Vedi per tutti D. Riesman, La folla solitaria (1950), Bologna, il Mulino, 1956.
53 Vedi per tutti C. List e P. Pettit, Group Agency. The Possibility, Design, and Status of Corporate Agents, Oxford, Oxford University Press, 2011.
54 Vedi N.O. Hodas e K. Lerman, The simple rules of social contagion, “Nature”, vol. 4, n. 4343, pp. 1-7.
55 Vedi D. Centola e M. Macy, Complex contagions and the weakness of long ties, “American Journal of Sociology”, vol. 113, n. 3, pp. 702-734.
56 N. Klein, Shock Economy (2007), Milano, Rizzoli, 2008, p. 170. Vedi anche D. Losurdo, La sinistra assente, Roma, Carocci, 2014, specialmente le parti terza e quarta.
57 M. Friedman, Capitalismo e libertà (1962), Pordenone, Studio Tesi, 1987, p. ix.
58 Il meccanismo shock-meaninglessness-soluzione estrema è, come tutti i meccanismi esplicativi nelle scienze sociali, una condizione di possibilità, né necessaria, né sufficiente al prodursi del risultato (la diffusione di una nuova credenza collettiva). Esso può essere deliberatamente avviato da qualche minoranza organizzata, per «uno scopo politico evidente: vuole farci rifugiare sotto l’ala di un Grande protettore, pronto a difenderci dalle minacce che esso stesso crea incessantemente, e a tassarci pesantemente per il servizio fornito» (P. Arlacchi, L’inganno e la paura, Milano, il Saggiatore, 2009, p. 21). In alternativa, ed è questo il senso della frase di Friedman citata nel testo, esso può fruire della crescente frequenza di emergenze sociali e ambientali nel capitalismo contemporaneo, per orientare lo shock collettivo verso uno scopo politico. Sui meccanismi nelle scienze sociali, vedi B. Bengtsson e N. Hertting, Generalization by mechanism: Thin rationality and ideal-type analysis in case study research, “Philosophy of the Social Sciences”, vol. 44, n. 6, 2014, pp. 707-732. Per una definizione e misurazione di alcune delle emergenze complesse, vedi A.L. Everett, Post-Cold War complex humanitarian emergencies: introducing a new dataset, “Conflict Management and Peace Science”, vol. 33, n. 3, pp. 311-339.
59 A differenza della mimesi, di cui parlammo nel § 3, l’imitazione è un atteggiamento consapevole.
60 Com’è ovvio, non stiamo sostenendo che il conformismo sia un atteggiamento sempre dominante. Talvolta la ricerca o il ripristino di senso procede, da parte del soggetto, mediante un’opposta strategia di distinzione dagli altri. Inoltre, il conformismo può risultare inadeguato quando il soggetto, anziché posizionarsi dentro un gruppo, si relaziona a più gruppi: specialmente se tali gruppi sono molto diversi, e magari in conflitto tra loro, la strategia imitativa appare poco efficace: chi si imita? Su questa tematica torneremo nel capitolo 5. La nostra tesi afferma soltanto che il conformismo sta alla base di un meccanismo potente e ricorrente per la spiegazione della diffusione delle credenze dentro un gruppo deliberante.
61 Vedi E. Screpanti, Un mondo peggiore è possibile, Roma, Odradek, 2006, p. 48. Peraltro, Screpanti discute le opinioni politiche, non le credenze.
62 È importante fornire una definizione rigorosa del fenomeno della polarizzazione. «In senso lato, ogni società può essere pensata come un amalgama di gruppi, dove due individui tratti dallo stesso gruppo sono “simili”, e da differenti gruppi sono “diversi”, relativamente a un dato insieme di attributi o caratteristiche. La polarizzazione di una distribuzione di attributi individuali deve presentare le seguenti caratteristiche di base. (1) Elevato grado di omogeneità entro ogni gruppo. (2) Elevato grado di eterogeneità tra i gruppi. (3) Piccolo numero di gruppi dalle dimensioni significative»: J.-M. Esteban, D. Ray, On the measurement of polarization, “Econometrica”, vol. 62, n. 4, p. 824. Come mostrano questi autori, la polarizzazione è un fenomeno distinto dalla disuguaglianza: può aumentare mentre la disuguaglianza diminuisce, resta inalterata o aumenta essa pure.
63 A. Tesser, Self-generated attitude change, in L. Berkowitz (a cura di), Advances in Experimental Social Psychology, vol. 11, New York, Academic Press, 1978, p. 298.
64 Vedi J.J. Clarkson et al., A self-validation perspective on the mere thought effect, “Journal of Experimental Social Psychology”, n. 47, 2011, pp. 449-454.
65 C. Sunstein, The law of group polarization, “John M. Olin Law & Economics Working Paper”, University of Chicago, n. 91, 1999, p. 6.
66 D.G. Myers e H. Lamm, The polarizing effect of group discussion, “American Scientist”, vol. 63, n. 3, p. 300. Vedi anche D.G. Myers et al., Attitude comparison: Is there ever a bandwagon effect?, “Journal of Applied Social Psychology”, n. 7, 1977, pp. 341-347.
67 C. Sunstein, Republic.com (2001), Bologna, il Mulino, 2003, p. 85. Dello stesso autore, vedi Going to Extremes. How Like Minds Unite and Divide, Oxford, Oxford University Press, 2009.
68 D.G. Myers, Exploring Psychology, IX ed., London, Worth, 2014, p. 473.
69 D.C. North, Capire il processo di cambiamento economico (2005), Bologna, il Mulino, 2006, p. 77, trad. modificata.
70 Questo argomento non implica, tuttavia, che l’istituzione possa definirsi «un sistema di credenze condivise, capace di autosostenersi, intorno a una maniera saliente con cui giocare ripetutamente un gioco» (M. Aoki, Toward a Comparative Institutional Analysis, Cambridge (Ma), The Mit Press, 2001, p. 10). Le ragioni di perplessità verso una simile definizione, oggi molto diffusa, sono almeno tre. La prima l’abbiamo menzionata nel § 6: si tratta di una definizione che poggia su un concetto di «conoscenza comune» che è troppo esigente, stravolgendo le effettive modalità del coordinamento e della comunicazione tra esseri umani. La seconda è che l’istituzione viene concepita in maniera così larga da incorporare le credenze collettive, e anzi da coincidere con esse. Ciò rischia di ridurre la specificità e l’efficacia esplicativa dell’analisi istituzionale, in particolare lasciando svanire la possibilità d’indagare le tensioni conflittuali tra credenze e istituzioni. Infine, la terza ragione riguarda l’accezione di «credenza», che autori come Aoki concepiscono strettamente quale sinonimo di «aspettativa». Se invece, come noi facciamo, essa è intesa principalmente quale «convinzione emotivamente connotata» (vedi la nota 2), ne segue che può essere staccata dalla conoscenza (per esempio, possiamo essere convinti che gli Ufo rapiscano i bambini, anche se tutto lo smentisce) e che può cocostruire il futuro (anziché aspettarmi che qualcosa succederà, immagino che qualcosa possa accadere).
71 J. Mokyr, Culture, institutions, and modern growth, in S. Galiani e I. Sened (a cura di), Institutions, Property, Rights, and Economic Growth, Cambridge, Cambridge University Press, 2013, p. 155.
72 Vedi R. Stark, Discovering God. The Origins of the Great Religions and the Evolution of Belief, New York, HarperCollins, 2007.
73 Uno studioso che ha colto tutto ciò, è stato lo storico George Mosse, sul quale vedi E. Gentile, Il fascino del persecutore, Roma, Carocci, 2007.
74 H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), Milano, Edizioni di Comunità, 1967, pp. 425-426.
75 Vedi I. Ajzen, Attitudes, Personality, and Behavior, 2a ed., Open University Press, New York, 2005, p. 126.
76 Questo paragrafo è ispirato, pur con parecchi cambiamenti, a T. Kuran, Private Truths, Public Lies. The Social Consequences of Preference Falsification, Cambridge (Mass), Harvard University Press, 1995.
77 Siamo in presenza di un meccanismo simile, ma non uguale, a quello che regola la dissonanza cognitiva: «Non può quel che vuole, vorrà quel che può» (W.A. Mozart e L. Da Ponte, Così fan tutte, II, 22). Sulle differenze con la dissonanza cognitiva, vedi la nota 48 del capitolo i.
78 C. Fershtman et al., Taboos and identity: considering the unthinkable, “American Economic Journal: Microeconomics”, n. 3, 2011, p. 140.

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