Conclusione si può toccare l’ineffabile?
p. 149-169
Texte intégral
Case felici
1Che lo spazio, quello corporeo, ma soprattutto quello dell’ambiente in cui si vive possa – anzi: debba – essere felice e, come tale, evocare immagini di intimità era un’idea di Gaston Bachelard da quando, influenzato dalla fenomenologia, dal pensiero junghiano e dai dubbi che, a proposito del tempo, gli aveva insinuato la teoria della relatività, aveva smesso di fare l’epistemologo per dedicarsi a una poetica dell’immaginazione e del fantasticare, che è stata anche una poetica della casa, luogo per eccellenza di rêverie nonché guscio protettivo, simbolo di calore e accoglienza.1 L’obiettivo del filosofo in questa seconda parte della sua attività speculativa era di andare alla ricerca di immagini felici, realizzando una “topofilia”, disciplina inesistente, cui spetterebbe stabilire il valore affettivo che hanno per gli umani gli spazi amati, ricordati, quelli cui noi attribuiamo una funzione di difesa e di protezione. Rifuggendo dalle discipline causali, quindi dalla psicologia e dalla psicoanalisi, ma semmai facendo affidamento sulla «fenomenologia dell’immaginazione poetica» (e su alcune suggestioni junghiane), Bachelard vedeva nella casa uno strumento di analisi per l’animo umano. L’immagine della casa restituiva «la topografia del nostro essere intimo». Non solo fisicamente “alloggiamo” in una casa, nel «nostro angolo di mondo», ma la abitiamo anche psichicamente, attraverso i sogni, nei ricordi; il nostro inconscio vi dimora e, se impariamo a dimorare in essa, impareremo a farlo anche “in noi stessi”.2 Nella galleria di immagini di case vagheggiate da Bachelard, prima fra tutte è quella natale, la casa dell’infanzia, originaria, che resterà sempre nei nostri ricordi come “casa abitata”, «fisicamente dentro di noi» tanto che anche da anziani saremmo in grado di riprodurre perfettamente i gesti originari che compivamo in essa da bambini.
2Sarah Robinson, l’architetta filosofa che ha collaborato con Pallasmaa ed è autrice di un libro dal titolo programmatico, “fare il nido” (per di più recante come sottotitolo tre concetti altrettanto filosoficamente densi: “corpo, abitare, mente”)3 annovera Bachelard4 tra i pensatori che hanno paragonato il corpo, più specificamente la sua energia, a quella di un edificio, le energie fisiche e morali dell’uno sono quelle dell’altro, e questo trasferimento diventa particolarmente evidente quando la casa si oppone agli eventi meteorologici estremi: il muro si incurva contro la tempesta, tende le reni e trasmette alla schiena tutto il calore della casa. Ma Bachelard andava ancora oltre, tant’è che la casa era per lui anche modello della psiche:5 la casa è anima e corpo, è dove ha inizio la vita. Rinviava alla polarità di una casa che si innalza nella sua verticalità e si immagina come un essere concentrato, che oppone la razionalità (protettrice) del tetto contro l’essere oscuro della cantina. Lo stare a casa è una “orizzontalità” e la casa onirica, quella sognata, ha una “sensibilità estrema”.6 Come per Rilke, anche per il filosofo è la casa isolata, non quella cittadina di Parigi, a tremare “come noi” sotto i lampi e i tuoni e, se il centro di ogni casa è un centro di forza (un centro a cui la àncora la tovaglia), la lampada alla finestra è il suo occhio, l’occhio con cui la casa guarda fuori – «umana, vede come un uomo» – e gli angoli sono il luogo ideale per rannicchiarsi.7 La casa lotta, resiste, difende e si difende, dà una protezione che è conforme al corpo, è materna, si stringe intorno a chi la abita, divenendo la cellula di un corpo con i suoi muri vicini, addirittura rimodella l’uomo, e vive essa stessa “umanamente”. L’uomo desidera una casa come se abitasse un guscio, e vuole che le sue pareti siano levigate, compatte, «come se la sua carne sensibile dovesse toccar[le]».8
3Per esprimere il carattere dinamico dell’immaginazione non bastava una descrizione sul piano della psicologia. Per questo motivo, Bachelard ricorreva a un’accurata scelta di esempi letterari, poiché – parafrasando D’Annunzio – quando gli occhi si aprono sul visibile, già da tempo avevamo aderito all’invisibile, un risveglio al quale ci prepara la poesia. In più luoghi, Bachelard rinviava alla “poetica della casa” come era stata concepita da uno scrittore provenzale cattolico, poeta e sognatore, con cui egli si era trovato in grande sintonia, Henri Bosco, che aveva ispirato fascinose immagini di casa: nel bosco, materna, onirica, notturna, solare ecc. Bosco aveva descritto persino gli atti meccanici compiuti al suo interno, come quelli delle mani che passano la cera con lo strofinaccio, e rendono più dignitosi gli oggetti della casa umana, che è bisognosa di cure.
4Non meno seducenti dei tratti poetici dello spazio o della rêverie, erano per Bachelard gli elementi naturali, e si può dire che il filosofo sia stato un antesignano nell’intravedere le potenzialità di un dialogo futuro tra l’architettura e i quattro elementi, a ciascuno dei quali ha dedicato un’opera non meno suggestiva di quella riservata allo spazio. Terra, aria, fuoco e acqua: Bachelard si era proposto di riunirli nel regno dell’immaginazione, nell’intento di sussumerli sotto una legge che consentisse di classificare i tipi di immaginazione “materiale”, che da essi traevano alimento, poiché è a partire dagli elementi che si realizza quella conoscenza sensibile che può dar vita all’immaginazione e alla rêverie. Tra i due tipi di immaginazione distinti da Bachelard, formale e materiale, Pallasmaa era rimasto colpito dalle osservazioni riservate alla seconda. Grazie all’apporto degli elementi naturali, l’immaginazione materiale può contare su un insieme di esperienze, ricordi, emozioni, associazioni ben più cospicuo e profondo di quello dell’immaginazione formale. Oltre alle immagini della forma, che sono oggetto di trattazione degli psicologi – rilevava Bachelard – ci sono quelle della materia, ed è qui che interviene la mano: quelle forme
la vista le nomina, ma la mano le conosce
e le immagini materiali «hanno un peso».9
5In questa cornice, la mano oziosa e accarezzante che percorre le linee del lavoro finito si contrappone alla mano lavoratrice, che impasta terra e acqua, incontrando le resistenze della materia, cui alla fine darà forma. Ma la presa dell’acqua sulla materia non può essere oggetto della mera osservazione visiva: occorre l’osservazione del tatto.10 Per seguire passo a passo l’azione, l’osservazione tattile si dovrà aggiungere a quella visiva secondo una concezione dell’homo faber che metta insieme rêverie e duro lavoro, fantasia e fatica, e che sia comprensiva del ruolo della mano – una mano dinamica che rappresenta l’antitesi della mano geometrica d’ispirazione bergsoniana – dacché anch’essa ha i suoi sogni, formula ipotesi e conosce la materia nella sua intimità.
6Questo genere di riflessioni sulla mano che lavora la pasta formata dall’incontro tra la terra e l’acqua – una mano che opera penetrando nella sostanza, con la gioia di palparne l’interno, prendendo progressiva coscienza del successo di quella unione materiale11 – non poteva non impressionare l’architetto che stigmatizza una modernità troppo a lungo dominata dalla forma piuttosto che dalle suggestioni mentali ed emozionali della materia. In un primo periodo della sua arte, persino Le Corbusier era stato condizionato dal predominio delle forme visuali per arrivare solo tardivamente a scoprire il «potere espressivo della materia». Riconoscendo l’importanza del lavoro e dell’abilità manuale dell’artigiano e dell’architetto (il quale per forza deve avvalersi dell’opera di bravi artigiani, non potendo seguire in prima persona tutte le fasi della costruzione), Pallasmaa definisce la mano organo “pensante”, depositario di una “saggezza incarnata”, tale che il suo lavoro e il lavoro del pensiero non esistono separatamente.12 Nella mano si materializza il legame tra il momento dell’esperienza e la successiva immaginazione, tra il concreto e l’astratto, tra l’emozione e la razionalità. Affermando di voler oltrepassare il dualismo tra la mente e il corpo, l’architetto concepisce quest’ultimo come “entità cosciente”, ma altresì contenitore di conoscenza incarnata. Sotto forma di memoria incarnata e vissuta, questa conoscenza è trasferita alle abilità manuali. Attraverso il disegno, l’architetto proietta se stesso nello spazio esterno, mettendo capo a una duplice prospettiva, del mondo e del proprio vissuto. È risaputo che Pallasmaa è da sempre sostenitore dello schizzo a mano, un esercizio spaziale e aptico di grande rilevanza per la memoria e l’immaginazione. Come avevano intuito Matisse e il poliedrico John Berger,13 l’interazione “dialettica” tra il disegno e l’immagine mentale implica che nella mente dell’autore si riproduca il modello, che potrebbe avere origine anche da un’impressione tattile, e non solo visiva. Nelle prime fasi del disegno, è dunque fondamentale l’azione muscolare e nervosa della mano (il disegno è «della stessa carne» del suo autore), mentre il disegno virtuale, progettato al computer è astratto e interrompe la relazione tra l’immaginazione creativa e l’oggetto, generando distanza tra l’artefice e il suo prodotto.14 Quindi il CAD e i sistemi informatici potrebbero sì essere una risorsa per le loro caratteristiche di velocità, precisione e comodità, ma solo nelle fasi successive dell’elaborazione progettuale.
7Nonostante la “pioggia di immagini” che la tecnologia quotidianamente propina, l’esposizione al rumore e alla soverchiante comunicazione che finiscono per impoverire l’immaginazione, nei primi anni Duemila l’architetto sentiva che, da qualche parte, il vento stava cambiando e che l’architettura appariva più interessata ai tratti caratterizzanti la materia. Profondità, opacità, peso, patina e invecchiamento dei materiali sono quell’insieme di qualità della Chimica poetica degli elementi, contemplata da Bachelard, dove è protagonista l’acqua, artefice della dissoluzione della materia solida.15 Menzionando artisti dei più svariati settori, dalla poesia al cinema, che hanno mostrato una peculiare attrazione per l’acqua, Pallasmaa osserva che da quell’influenza non potrebbero uscire indenni gli architetti, perché l’acqua esprime suono e silenzio, evoca l’esperienza della durata e quindi del tempo, riflette la malinconia sulla sua superficie, e le sue immagini ci rendono sospesi tra gli opposti, come aveva già riconosciuto Burke, giocando sul legame tra la bellezza e il senso di minaccia.16
8Bachelard raccolse tutte le idee sull’immaginazione materiale e formale, in un’ulteriore “poetica” dedicata alla rêverie, nella quale si proponeva che questo fenomeno non fosse trattato come un puro e semplice rilassamento psichico, oggetto di analisi psicologica, e quindi lasciato su un pendio che inclina verso il basso e l’oscurità, bensì dovesse indirizzato verso una pendenza “buona”, che sale, quella della poesia. Nella rêverie poetica «tutti i sensi si risvegliano e si armonizzano», in una «polifonia» sensoriale che essa ascolta, e che la coscienza poetica registra.17 Non occorre qui aggiungere altra carne sul fuoco (ecco un’altra immagine che ci fissa al terreno della materialità!) a favore di un’espressione che ha goduto di un’immane fortuna e continua a essere citata non soltanto in teoria dell’architettura. Appropriandosene, Pallasmaa chiudeva il cerchio “filosofico”, poiché l’interazione sensoriale bachelardiana è della stessa stoffa della “percezione totale” – non mera somma di dati visivi, uditivi, tattili ecc. – teorizzata da Merleau-Ponty. Gli architetti hanno accentuato queste visioni corpose, affermando che tanto gli edifici quanto gli umani sono della stessa carne del mondo e che le case, grazie alle sensazioni dei loro occhi, pelle, orecchie, bocche ecc., completano la sensorialità visiva, che altrimenti sarebbe priva di quel senso di pienezza che contraddistingue la vita.
Risonanze dentro e fuori
9Sotto l’influsso della fenomenologia, in particolare di Eugène Minkowski, Bachelard era stato il primo a liberare da ogni vincolo causale l’immagine poetica nel suo rapporto con il profondo dell’inconscio, e a distinguere le risonanze dal retentissement.18 Solo quest’ultimo fenomeno fa sì che ci appropriamo di un’immagine poetica al punto che l’essere del poeta diventi nostro, che l’immagine sia così profonda in noi da suscitare poi risonanze, ricordi, e abbia ripercussioni sentimentali. Di conseguenza, le immagini della casa in tutti i suoi aspetti sono state considerate come fonti di “irradiazione atmosferica”, e anche Bachelard è stato “arruolato” tra i pensatori che, più o meno consapevolmente, da almeno due decadi, hanno contribuito a far lievitare l’interesse sull’atmosfera, dando il via a quella che è stata definita una vera e propria atmospheric turn. In genere, provenendo dall’estetica o dalla fenomenologia, gli “atmosferologi” non sono soliti ricostruire la “storia” dei loro concetti, limitandosi piuttosto a far emergere alcuni snodi che segnano il percorso che ha portato alla popolarità questa nozione; chi è risalito alle sue origini non ha mancato di rilevare che le osservazioni sui luoghi (su come ci si muove e ci si sente in essi) possano esser considerate un punto di partenza (con Heidegger precursore e, tra gli altri, Minkowski, Ludwig Klages, Merleau-Ponty, Hermann Schmitz fino a Gernot Böhme), dal quale si è preparato il terreno che, dallo spazio vissuto, si è ampliato e trasformato fino a comprendere lo spazio atmosferico.
10Fin da subito, al di là delle differenze e soprattutto delle sfumature caratterizzanti le visioni “atmosferologiche” dei vari pensatori, benché il concetto in esame si riferisca a qualcosa di oltremodo evanescente, sono emersi alcuni tratti meno indefiniti. Sul fronte di “ciò che non è”, la parola d’ordine è che l’esperienza atmosferologica vissuta, di natura fenomenologica e non fisiologica, vada liberata dai sensi considerati reificanti, vista e tatto: semmai il punto di vista percettivo dovrà essere passivo, come se fosse il punto di vista delle cose. Anzi, percepire atmosfericamente vuol dire proprio esser coinvolti dalle cose, o meglio ancora dalle situazioni, lontano dal cogliere dati sensibili; tanto più oscuro resta il significato, meno si regredisce ai dati sensibili che sono anaffettivi, e non si deve credere che una percezione così “derealizzante” e sensorialmente deprivata sia priva di atmosfericità.19 Si tratta, al contrario, di un coinvolgimento emozionale, affettivo, incentrato sul corpo-proprio, disgiunto dal vedere ottico, che in realtà sarebbe un fenomeno ben più raro di quanto si pensi, dacché l’occhio è sempre più ossessionato dal proprio passato e ha il suo bel daffare, dovendo maneggiare anche gli stimoli che gli provengono dagli altri sensi.
11Cercando invece di stilare un atlante delle determinazioni sia pure sfuggenti che connotano positivamente l’atmosfericità, ve ne sono alcune di carattere fenomenologico che ne fanno emergere la natura di qualità terziarie, qualia espressivi, estranei alla “dimensione cosale” e nemmeno proiezioni di stati psichici precedenti (Bachelard docet), ma altresì impressioni fluide e impalpabili, che emanano da persone, cose e situazioni. Possono derivare dalla postura, dal tono della voce, dallo sguardo, dal modo di camminare di una persona; può essere l’ombra di un bosco che genera inquietudine nel caso di un’atmosfericità situazionale, o la poesia che traspare dalla storia e dalle fasi di preparazione del tè, descritte nel libro di Kakuzo Okakura, nonostante quel rituale sia rigido e in ossequio alla tradizione. Si è tentato comunque di rintracciarne le parole-chiave. Eccone alcune: invisibile, incorporea, indivisibile, priva di confini fisici, mutevole, instabile, soggettiva, allusiva, variabile, ma soprattutto vaga, sfuggente alle analisi, prodotto dell’intreccio tra i poli fisico e spirituale.20 E, in particolar modo, da non identificarsi con le metafore,21 bensì appartenente al novero delle semi-cose, secondo la definizione data da Schmitz, nel senso che queste “spariscono e ritornano”, senza che abbia senso domandarsi dove siano state nel frattempo. Una tazza rimane dove la si è posta, ma il vento che soffia e si calma, che proviene da nord o da est, può essere variabile e, quando smette di soffiare in un luogo, non ci si domanda dove sia andato, come è anche per la tempesta: variabile è il suo aspetto, non il suo carattere, ché il soffiare è nella sua natura.22
12Paradossalmente, per quanto ci si sforzi di non cadere nella reificazione, per avvicinarsi al concetto di uno stato di per sé ineffabile, sembra venire in soccorso la scienza della conoscenza sensibile, come l’aveva concepita Baumgarten, proprio l’estetica sotto il profilo della sensorialità. Anzi, Tonino Griffero ritiene che, dalla neo-fenomenologia atmosferologica, l’estetica possa persino ricevere nuova linfa, ed ecco che all’atmosfericità si attribuiscono i caratteri di essere polimodale e polisensoriale, sinestesica, e a questo proposito si torna a Bachelard, alla sua “polifonia dei sensi”. Di qui si ricava una delle tante definizioni, o meglio uno dei tentativi di definizione, che si articolano intorno a questo oggetto indefinibile: «è uno stato di risonanza con la realtà, mediato dall’architettura» (dove il rinvio all’architettura lascia intravedere la possibilità di sviluppi interessanti).23 Le atmosfere possono essere mutevoli ed emendabili, occasionalmente o permanentemente suscitate da luoghi e situazioni, quindi con qualità transienti o perduranti, ma sempre con qualche traccia che ne consenta l’identificazione, non sono mai stati potenziali, bensì coincidono con il carattere fenomenico degli oggetti, sono influssi (ma non cause, poiché in esse cause ed effetti coincidono).24 Sono composte e non focalizzate (unfocused) come lo è la visione periferica, istintive, ma anche cinestetiche e aptiche. Nel momento in cui se ne ammette la natura di esperienza percettiva, di «condizione fisica che emerge dalla fisicalità» di corpi e ambienti, tra i quali quelli architettonici rivestono un ruolo notevole, l’attenzione si concentra sui corpi e sui sensi, per mezzo dei quali i corpi assorbono e metabolizzano lo spazio atmosferico, naturale e artificiale. A questo punto, i tentativi di definizione non sfuggono al destino di un legame apparentemente à trois tra il dato sensibile dell’atmosfera, le sue manifestazioni fenomeniche e le condizioni psicologiche del soggetto che le avverte. Di fatto, questi componenti coincidono: l’atmosfera è ciò che appare e che, al tempo stesso, il soggetto esperisce tramite la sua sensibilità. Per quanto si sottolinei che essa resiste alle “strategie reistiche e riduzionistiche”, al “reismo egemone”, si osserva che si può essere sintonici o discordanti rispetto alla serenità di un paesaggio, che un’atmosfera possa essere istintivamente suggerita dalla prima impressione o mantenersi dinamica ed evolvere nel tempo, che possa avere origine dal corpo-proprio che fa da ponte tra percipiente e percetto, o solo occasionalmente coincidere col corpo fisico. Questi riferimenti divengono via via più robusti e più delineati (non solo tratteggiati) laddove rinviano alle caratteristiche del paesaggio, al clima e al microclima, alle cose con i loro colori e ruvidezze o morbidezze, in una parola: ai dati della sensorialità, sia pure quella di un corpo non fisico, né di uno schema corporeo, una sensibilità che nulla ha a che vedere con lo spazio geometrico, ma che è portatrice dello spazio vissuto, affettivamente coinvolgente. C’è posto allora per il riconoscimento della funzione ontologica del tatto, del vedere apticamente; di Minkowski si cita che «c’è qualcosa di tattile in ogni percezione», e si ricorda un’altra polifonia sensoriale, quella materiale di Zola, condensata ne Il ventre di Parigi, ma anche quella raffinata di Proust; la diffidenza husserliana verso le qualità terziarie è contrapposta alla corrispondenza merleau-pontiana tra parole e stati corporei, che si avverte quando si dice “duro” e si sente rigidità alla schiena. In questo contenitore non c’è che un passo per dare a Cesare quel gli spetta, ed ecco che allora dall’ambiente naturale lo sguardo si sposta sulla città e sui materiali, non solo il landscape evocatore del genius loci, ma il townscape, il paesaggio urbano; si risale a Simmel e a Benjamin, alle contaminazioni semantiche derivanti da Stimmung, aura e mood, fino a sfruttare la metafora della pelle, secondo la quale l’atmosfera proprio-corporea ricopre l’intera città. E quando viene a perdersi qualcosa, come nel caso di un edificio in rovina o demolito, rimane pur sempre lo spirito del luogo, oppure ci si appella al retentissement e alla rêverie (e quantunque il suo nome ricorra di rado in questo ambito atmosferologico, alle sensazioni legate agli edifici in rovina ci aveva già pensato Rilke, finanche a proposito degli odori). Dunque, le atmosfere possono essere orosensoriali, effetti di profumi e di cattivi odori, personali, non controllabili, non facilmente comunicabili, né riproducibili a piacere, intenzionalmente. È il “come ci si sente” in un ambiente naturale o edificato, una sensazione che ci fa star bene, in pace con noi stessi, o ci provoca nervosismo, insonnia, difficoltà respiratorie, tanto che Pallasmaa aveva ipotizzato che siamo «geneticamente e culturalmente» condizionati a ricercare (o a evitare) certi tipi di situazioni o di atmosfere.25 Che di questa sensibilità possano essere responsabili gli edifici, le abitazioni, i luoghi di lavoro, gli spazi commerciali, gli ospedali (questi ultimi, secondo le storie individuali fatte di ricordi, di attese, di esperienze che lì si sono vissute, in base a pregresse atmosfere) era già noto a Wölfflin, ai teorici dell’empatia e dell’architettura di metà Novecento, da Rasmussen a Richard Neutra, i quali avevano dato una “lettura fisiognomica”, o antropomorfica, dello spazio: Neutra alludeva a un processo simulativo e introspettivo tale che ci identifichiamo con l’azione del costruttore o dell’artigiano, immaginando il suo esercizio muscolare, come se ne avessimo noi stessi esperienza, fino ad avere un’esperienza empatica dei “dolori della creazione” di un manufatto.26
13A proposito dell’atmosfericità dei luoghi, c’è chi si è servito del concetto di genius loci per esprimere il “carattere” di un ambiente, di uno spazio che può essere interno o esterno, e chi invece ha messo in dubbio che questa espressione, introdotta dai latini e rinvigorita nel Settecento, abbia potuto trovare adeguata applicazione nel caso di alcune città, che hanno perso o snaturato il loro primitivo “senso” del luogo.27 Di non minori potenzialità atmosferiche sono dotati i materiali, il legno, ovviamente, ben più della plastica, anche se il loro destino potrebbe cambiare secondo i tempi, le mode, gli stili. Per Pallasmaa ogni materiale ha la propria storia, identità, linguaggio, per mezzo dei quali comunica – basti pensare al rispetto della patina come “segno del tempo” – e a proposito di alcuni di essi si osserva che «risvegliano le esperienze corporee circa il peso e la gravità», sollecitando il sistema muscolo-scheletrico.28 Altrove egli ha definito l’autentica esperienza architetturale nei termini di una «sequenza di situazioni e incontri», derivanti da confronti corporei reali o immaginari piuttosto che non da entità osservate visivamente.
Esperienze architettoniche autentiche hanno più l’essenza di un verbo che non di un nome29
14Ha portato come esempio l’entrare e uscire attraverso una porta più che non il vederla, così come il telaio di una finestra non sarebbe un’unità architettonica, mentre il guardare attraverso di essa o i raggi di luce che la oltrepassano sarebbero autentici incontri architetturali. La suggestione che l’esperienza che si prova in un’atmosfera architettonica sia simile più alla transitorietà di un verbo che non alla fissità e staticità di un nome fa il paio con la distinzione che, a fine Ottocento, William James aveva operato tra gli stati mentali transitivi e quelli sostantivi del flusso di coscienza. In quello stream, infatti, vi sarebbero luoghi di riposo ove il pensiero si sofferma per un tempo indefinito, in un’alternanza con i luoghi di fuga, che attestano relazioni dinamiche, attraverso le quali però la mente tende sempre a tornare verso qualche parte sostantiva. Anche James nel linguaggio espressivo del flusso di coscienza distingueva avverbi, congiunzioni, preposizioni, inflessioni di voce – ciascuno con la propria funzione – fringes rivelatrici degli stati d’animo e dei loro mutamenti.30 Nell’architettura, quelle parti transitive sono diventate le soglie, le aperture, le zone liminali, attraverso le quali il corpo, o anche soltanto lo sguardo, passano oltre.
15Tuttavia, a tratteggiare i contorni sia pure sfumati dell’atmosfera architettonica non concorrono soltanto le situazioni e gli incontri, il frammento e l’incompleto. Vi contribuiscono in maniera decisiva elementi sostanziali quali i materiali, ognuno con le sue caratteristiche più o meno atmosferologiche. Tra i massimi estimatori dei materiali in architettura, di un loro impiego “etico”, consono allo spirito del luogo, vi è Peter Zumthor, il quale attingendo al personale bagaglio di emozioni, nel 2006 ha messo capo a una serie di riflessioni (già presentate in una conferenza del 2003), a seguito delle quali non solo i teorici dell’architettura, ma finanche i filosofi si sono sentiti autorizzati a coniare il motto che «l’architettura è atmosfera».31 Non a caso, un libro di Gernot Böhme dal titolo Architektur und Atmosphäre dedica un capitolo a questo binomio, rifiutando la tesi che l’architettura sia un’arte visuale (come si potrebbe vedere lo spazio?), dacché essa consiste nella produzione di atmosfere, alle quali si accede con la totale presenza corporea.32 Per Zumthor l’atmosfera è indice della qualità dell’architettura, che deve «toccare emotivamente». Ma oltre al silenzio, alla luce dello spazio, ad aspetti scenografici dell’ambiente che possono generare «calma e seduzione», Zumthor aveva in mente fattori fisici, come la temperatura dello spazio connessa al tipo di materiali che danno sensazioni sulla pelle, o estraggono il calore dal corpo (per esempio, l’acciaio). Al “contatto” contribuisce il corpo dell’architettura – “corpo in senso letterale” – «la presenza materiale delle cose», ché il grande segreto dell’architettura per Zumthor consiste nel collezionare oggetti e materiali dalle più svariate parti del mondo per combinarli insieme e creare uno spazio.33 La sua idea di architettura è quella di un corpo, non l’idea di corpo, bensì massa corporea, tessuto, pelle, qualcosa che “tocchi”. E persino a proposito dei livelli di intimità, asseriva di intendere qualcosa di più fisico di scale e misure, alludendo alle dimensioni, al peso, al volume delle cose, e quindi al contrasto tra la massa dell’edificazione, del «suo corpo con il mio».
16Non è un caso, allora, che tra le proprietà dell’atmosfera, oltre ai termini generali di “multisensoriale” e “multimodale”, compaia l’aggettivo “aptica”, in riferimento all’attività della mano e alla funzione della pelle, ma anche all’affordance che ci viene offerta da determinati materiali, come il legno e il velluto, che “invitano” a toccarli. Qui la linea di separazione tra l’invito all’uso pratico e l’atmosfera è sfumata: si “vedono” le qualità tattili e si sentono gli inviti al tocco, che può risultare morbido o ruvido, di un materiale caldo come la lana o freddo come l’acciaio.34 E se da una parte si riportano i resoconti delle ricerche sperimentali sul sistema somatosensoriale, sulla propriocezione, sull’homunculus con relativa mappa somatotopica, sul ruolo dell’emisfero destro deputato oltre che all’elaborazione dell’informazione spaziale anche all’espressione delle emozioni – un insieme di informazioni desumibili da quella bibbia delle neuroscienze che è tuttora il manuale di Eric Kandel –, dall’altra parte si cita Benjamin, il quale avvertiva che gli edifici sono recepiti in un duplice modo, con l’uso e con la percezione: «O meglio, in modo tattile e in modo visivo».35 (A questo proposito, Benjamin aggiungeva altre interessanti considerazioni sul tatto, circa il quale rilevava che la ricezione tattile avviene grazie all’abitudine e nulla ha a che vedere con la contemplazione tipica del piano ottico. Nel caso dell’architettura, l’abitudine determina la ricezione ottica, tant’è che vi sono periodi storici di svolta, che non si possono risolvere con la semplice ottica, ma occorre la ricezione tattile, cioè interviene l’abitudine.)
17Che però, a proposito dell’architettura atmosferica, il tattile o l’aptico non vogliano riferirsi soltanto al “corporeo”, Pallasmaa in più luoghi lo ha sottolineato. In margine a una riflessione di Böhme sul tema, ha commentato di non voler intendere il tatto in senso letterale, ma di avere in mente, piuttosto, una tattilità in senso esistenziale, come un’esperienza dell’essere e il senso di sé, un senso aptico di “essere nel mondo”, come integrazione di tutte le modalità sensoriali, in un luogo e in un momento specifico, la «realtà dell’esistenza», che è poi la stessa cosa dell’«essenza dell’atmosfera».36
18Quando si tratta di atmosfere, che la tattilità non possa fare a meno delle emozioni?
Atmosfere e neurobiologia delle emozioni
19Con l’architettura l’atmosfericità sembra condividere una natura ibrida, per non dire ambivalente. Quando si afferma che la vocazione “esperienziale” dell’architettura si realizza nella dimensione atmosferica, oppure che non sia possibile separare l’architettura dall’atmosfera nonostante essa non sia percepibile, e che “abitare” significa “coltivare atmosfere”, si procede in parallelo lungo due ordini di proposizioni, che affondano le loro radici da un lato nella fisicità, dall’altro lato nell’inconsistenza. Si riconosce, infatti, che l’atmosfera non può crearsi a prescindere dalla natura fisica dell’ambiente, ma ci si affretta subito a completare la frase, osservando che l’atmosfera trascende il dominio del concreto e del materiale: da una parte si guarda all’insieme misurabile dei parametri fisici dell’ambiente edificato, ma al tempo stesso, dall’altra parte, non si perde di vista il campo, non quantificabile, evanescente, della sensibilità, comprensiva di sensazioni, sentimenti, emozioni, stati d’animo, suggestioni ecc. Benché l’autore avesse avvertito che si trattava di formule soggettive, “altamente personali”, le risposte fornite a suo tempo da Zumthor nei nove capitoli dedicati al come e al che cosa di un’architettura atmosferica hanno fatto scuola, diventando veri e propri “generatori di atmosfera” e, seguendo il suo esempio, in più luoghi si sono proposte categorie, al fine di mettere un po’ di ordine in una rete di significati e interpretazioni variabili.
20Il risvolto più interessante dei lavori sull’architettura atmosferica è però consistito nel passo avanti che i “neuroarchitetti” hanno compiuto grazie all’impiego degli strumenti messi a disposizione dalle neuroscienze per cercare di studiare in maniera oggettiva percezioni, immagini, interpretazioni delle persone nei confronti degli elementi dell’architettura, cioè i colori, le forme, le proporzioni, le trame, «la totalità delle proprietà fisiche, sensoriali e materiali che definiscono una stanza o un contesto urbano».37 Gli studiosi che hanno messo capo a questo genere di progetti si sono proposti di verificare se vi sia un fondamento neurobiologico della percezione atmosferica, e dunque un’origine (neuro)fisiologica delle interazioni spaziali, conferendo in questo modo un substrato scientifico all’idea originaria di Richard Neutra, secondo il quale siamo totalmente immersi nell’ambiente in cui viviamo, anzi, uniti a esso chimicamente per mezzo della respirazione. A questo riguardo, una ricerca italiana si è articolata in due fasi,38 con obiettivi diversificati: il primo ha messo capo a una conclusione che si è basata su una forma di “auto-analisi” dell’emotività, mentre il secondo ha sortito una specie di neurofenomenologia.
21Anche sullo sfondo di questa impostazione neuroscientifica si avverte il dominio della teoria dei neuroni specchio attraverso, in particolare, il suo corollario della simulazione incarnata che, nel presente caso, consiste nell’idea che l’essere umano interiorizzi e simuli aspetti dell’ambiente edificato. Assumendo che l’atmosfera sia un medium empatico dell’oggetto architettonico, e la “dinamica atmosferica” uno stato di risonanza tra l’individuo e il suo circondario fisico, una prima indagine era finalizzata a misurare i feelings soggettivi nei confronti dell’architettura «attraverso quelle emozioni che – si ipotizza – sarebbero in grado di orchestrare il continuum atmosferico». All’informazione somatosensoriale (rilevata dalla pelle e dai propriorecettori) si è aggiunta quella dello spazio peri-personale ed extra-personale, derivante dagli stimoli visivi, uditivi, olfattivi. Si trattava quindi di registrare e studiare le reazioni di un gruppo formato da 205 partecipanti, applicando un Indice di Reattività Interpersonale (IRI) che consentisse di valutarne la disposizione e la reattività empatica. Muniti di una cuffia con visore per Realtà Virtuale, i soggetti erano invitati a entrare e passeggiare in un “box atmosferico” costituito da un corridoio di base, largo 1 metro e 20 cm e alto 2 metri e 70 cm, rivestito da pareti, soffitto e pavimento in calcestruzzo, materiale scelto per le sue qualità estetiche in termini di colore, porosità e texture. In questo ambiente, venivano operate delle variazioni sul pavimento, sullo sviluppo in sezione – orizzontale e verticale (le pareti) –, sulla disposizione del piano, della luce, dell’ombra. Queste simulazioni duravano pochi secondi, dopo di che i soggetti erano invitati a rispondere a un questionario, dal quale sarebbe dovuta emergere la misura soggettiva della componente atmosferica emotiva, basata sui due parametri dell’intensità dell’attivazione (arousal) dello stato emotivo e della valenza edonica, cioè la “qualità affettiva” dell’esperienza, se era valutata come piacevole o sgradevole. Senza entrare nei particolari della sperimentazione, la conclusione era che più i soggetti erano empatici sul piano dei rapporti interpersonali con i loro simili, più era alta la loro attivazione emozionale, con particolare riguardo alle variazioni del colore e del materiale del corridoio. Non sembrava manifestarsi invece altrettanta reattività su base empatica, quando le variazioni ambientali riguardavano luce e ombra, probabilmente perché il grado di eccitabilità della luce è già di per sé così forte da poter influenzare le abilità percettive del soggetto indipendentemente dalla sua disposizione empatica. In questa prima fase dell’indagine, i ricercatori mettevano le mani avanti, ipotizzando un possibile limite della loro ricerca, che – come essi stessi dichiaravano – non era di natura strettamente neurofisiologica, in quanto basata su reports di auto-analisi delle emozioni, cui si aggiungeva una sorta di “vulnerabilità linguistica”. Difatti, potrebbe esserci uno iato “insormontabile” tra il vivere un’esperienza atmosferica ed essere in grado di comunicarla e descriverla.
22In una seconda fase della ricerca, si è effettuato un interessante chiasma tra i dodici “generatori di atmosfera” suggeriti da Zumthor e le cinque modalità sensoriali, con l’aggiunta, ispirata da Pallasmaa, di un “sesto senso atmosferico”, combinati tra di loro in modo da formare una matrice, denominata ABODE (acrononimo di Atmospheric BODy Experience), nella quale i generatori di atmosfera sono situati sull’asse delle y, mentre i sensi coinvolti nell’esperienza atmosferica sono disposti sull’asse delle x. Scopo di questa matrice è «analizzare come le loro correlazioni contribuiscano a plasmare un’atmosfera che offra un’esperienza sensoriale pienamente incarnata».39 Senza entrare nei dettagli neppure di questa seconda serie sperimentale, le conclusioni raggiunte in parte confermano le ipotesi, ma anche le prese di posizione che si sono caldeggiate in questi ultimi vent’anni.
23A monte dell’esperimento, sono raccolte svariate osservazioni su ciascuno dei sei percorsi percettivi indicati da Pallasmaa. A proposito della visione, si rileva che, pur condivisibile, la critica all’“ossessione” oculocentrica, tipica di gran parte della cultura architettonica contemporanea, non deve però sminuire i meriti dell’occhio nel contesto di un approccio multisensoriale. Si apprezza dunque la visione periferica, che – più consona alla dinamica atmosferica e non focalizzata su oggetti specifici – consente di ottenere un quadro generale della realtà esterna, e non concentrandosi sul “che cosa”, ma sul “dove”, individua contorni, contrasti, movimenti nella scena visiva, che sfuggirebbero alla visione centralizzata. A carico dell’udito in architettura, si rievocano le osservazioni di Rasmussen nonché il pregio del silenzio nell’ambiente domestico e di lavoro, una qualità che anche Zumthor aveva declinato in modalità diverse, per evidenziarne l’aspetto protettivo, fondamentale per concentrarsi. Il suo beautiful silence era associato a quegli attributi (di compostezza, presenza, durabilità nel tempo, integrità, calore e sensualità) che denotano l’essenza di un edificio.40 Circa le qualità orosensoriali, Neutra asseriva che le sue prime impressioni architettoniche nel corso dell’infanzia erano state soprattutto gustative. Profumi, gusti e persino cattivi odori sono presenze costanti nelle nostre abitazioni domestiche e, sebbene a un certo punto, quando se ne diventa assuefatti, non si percepiscano più, rappresentano però le sensazioni più attive a far rinascere i ricordi. Movimento e gravità sono compagni assidui del nostro corpo, a partire dal quale si organizza la dinamica atmosferica, senza dimenticare la funzione fondamentale del camminare e dell’esperienza cinetica. Il sesto senso, quello atmosferico, comprende – fondendole in sé – tutte le altre sensazioni, ed è responsabile di quel senso di radicamento e di appartenenza, che lega il nostro corpo allo spazio domestico.
24Restano il tatto e la sensibilità aptica, il tocco della mano che, secondo Kandel, è uno dei prodotti più sensazionali dell’evoluzione umana. Il contatto non solo ci dà informazioni sull’ambiente esterno, ma ci rende consapevoli dei confini del nostro corpo e del “senso di presenza” che proviamo quando siamo immersi in un ambiente, massimamente nella nostra casa, al punto che casa e pelle per Pallasmaa si fondono in un’unica sensazione:
25C’è una forte identità tra la pelle e la nostra sensazione di casa
accentuata dal tocco dell’occhio, dello sguardo, per il piacere del quale la grande architettura offre forme e superfici.41
26Tornando all’esperimento del gruppo di ricerca genovese, al fine di indagare le sensazioni aventi origine dall’esperienza di atmosfera domestica, il sense of home, si è individuato un ambiente che avesse le caratteristiche descritte da Zumthor. Il luogo prescelto è stato l’Appennino tra Liguria ed Emilia, in Val Trebbia, e l’ambiente interno era costituito da una cabina Hermitage, un parallepipedo in legno di 12 metri quadri immerso nella natura, che rappresentava la tipica casa-nido rustica (shell-house) ispirata alle case da tè giapponesi o alle baite nordiche. Dagli esiti raggiunti, emergeva che il primo generatore di atmosfera indicato da Zumthor, cioè il corpo dell’architettura sollecitava risposte da parte di tutti gli organi di senso, per il senso di protezione e sicurezza che emanava, cui si aggiungevano il silenzio, il profumo del legno, la possibilità di movimento e il senso della gravità favorito dai montanti che ancoravano la cabina al suolo. Osservazioni analoghe si ricavavano dal secondo generatore, i materiali, in questo caso l’okumè marino, scelto per la sua resistenza alle intemperie. Questo legno di provenienza africana, idrorepellente, infondeva un senso di calore, contatto e affinità con la pelle e il corpo, e finanche si prestava a essere un indicatore del trascorrere del tempo, col mutamento graduale del suo colore e profumo. Le esperienze uditive, provocate tra le altre cose dalle vibrazioni dei pannelli, erano percepite persino con la pelle e conferivano intimità e calore. I rari oggetti, essenziali, all’interno della cabina, erano però sufficienti a instillare il senso di presenza, così come non c’era tensione, bensì equilibrio, tra l’interno e l’esterno, in modo da assicurare la libertà di movimento all’interno, ma anche una corrispondenza, addirittura una risonanza empatica e un’intima connessione, con l’ambiente circostante, attraverso un insieme di sensazioni olfattive, visive e acustiche. Per quanto concerne la sensibilità tattile e aptica, risultava che era particolarmente sollecitata dai materiali naturali (si sottolineava il ruolo cruciale del legno nell’esperienza somatica), dalla trama porosa del pavimento, dalla presenza degli oggetti affording memorie, emozioni e impressioni, e persino dagli effetti della luce e del calore del sole sulle superfici della cabina:
Materiali, composizione spaziale e delle aperture risuonano con il panorama e stringono un forte legame tra il nostro sistema aptico e il senso di casa.42
27Dall’insieme dei dati raccolti si poteva concludere che il “senso di casa” agisce e influisce sul nostro intero corpo, al punto che, se la casa stessa è un «generatore di significato e identità», il nostro corpo non è da meno ed è uno strumento atto a misurare il mondo esterno. Con la sua centralità, proporzione e geometria, il corpo dell’uomo era per Vitruvio (e poi per Leonardo) metro di paragone e di progettazione del mondo,43 e nel suo piccolo la cabina Hermitage realizzava questo ideale.
Tra il neuro, l’atmo e l’archi
28La strada praticata dalla recente collaborazione tra l’architettura e le neuroscienze sembra destinata a diventare sempre più movimentata (ma anche accidentata), aperta a molteplici suggestioni, tanto più complesse in quanto si tratta – pur senza far “decadere” l’ineffabile a cosa – di identificare quali siano i correlati neurali del percepire un’atmosfera, che può essere domestica, paesaggistica, di un notturno marino e di un frastagliato profilo montuoso. Se è già di per sé complicato individuare le basi neurali della percezione visiva, ricercare i correlati della percezione di un’architettura atmosferica rappresenta un’impresa ancor più ardua, per lo meno pari alle indagini sulla coscienza (ammesso che i correlati fisici della coscienza esistano e si possano scoprire). Quindi s’impone fare chiarezza sulla metodologia impiegata per misurare gli stati affettivi e, specialmente, le emozioni generate dalle atmosfere. Oltre a un’analisi linguistica, che si basa sulle parole, sui nomi delle qualità attribuite alle atmosfere, e sugli enunciati associati alle varie emozioni correlate alle atmosfere, non guasterebbe un approccio più tecnico, che consentisse di metter capo a misurazioni precise di questi stati. Una classificazione dei vari metodi parte dai self-reports (come nel caso dell’esperimento che ebbe luogo nella cabina box) per arrivare all’osservazione della modulazione della voce (intonazione, volume, prosodia) espressa in un determinato spazio, a un’analisi delle espressioni facciali, della gestualità e dei movimenti, e quindi del corpo nel suo complesso, fino a misure elettrofisiologiche come la temperatura della pelle, l’elettroencefalogramma, la frequenza cardiaca, le variazioni in millisecondi tra un battito cardiaco e il successivo ecc.: tutto un insieme di fattori che, sul piano psichico, si estrinsecano in un mood, che non è soltanto l’umore, ma il “come ci si sente”. Ora, per decodificare le espressioni facciali esistono algoritmi di machine learning e modelli di deep learning che associano i movimenti dei muscoli facciali alle rispettive emozioni (basti pensare alle ricerche di Paul Ekman). Ritmo, volume, tono dei segnali vocali possono essere studiati tramite l’analisi spettrografica della voce, consentendo di identificare la felicità, l’eccitazione ecc., che si manifestano in un dato ambiente. Sul piano psicologico, il linguaggio del corpo è analizzato secondo la gestualità, la postura, il movimento, esattamente come avviene per il comportamento linguistico.44
29Tuttavia, nell’ambito della neuroarchitettura non si manca di rilevare alcuni limiti metodologici oggettivi, alla luce del fatto che gli studi finora condotti riguardano specialmente agli aspetti estetici dell’architettura (per esempio, è accertato che si prediligono gli spazi curvilinei rispetto a quelli rettilinei, così come si apprezzano gli edifici religiosi che evocano il sublime piuttosto che quelli privati o gli anonimi uffici, gli spazi aperti o con alti soffitti al posto delle stanze anguste ecc.). Anche se vi sono studi che rivelano il coinvolgimento della corteccia orbitofrontale e prefrontale, del giro cingolato e dei lobi temporali nell’esperienza percettiva architettonica, il più delle volte però si tratta di sperimentazioni psicofisiche, condotte sulla base dei potenziali “evocati dagli stimoli”, cioè le variazioni dei potenziali elettrici registrate dall’elettroencefalogramma, che originano da eventi esterni. Mancano ancora studi importanti, che esplorino sul piano neurofisiologico aspetti quali l’ergonomia nella progettazione architettonica e dell’arredamento, la funzionalità e le affordances delle edificazioni e, tra le cause di queste restrizioni, si allude alla limitata mobilità dei partecipanti, che sono costretti in posizione stazionaria, mentre dovrebbero essere liberi di ispezionare l’ambiente, muovendosi.45 Oggi, nell’ambito della cosiddetta psicologia ecologica, si ricorre a un’Imaging mobile corpo/cervello, che concede ai partecipanti di passeggiare liberamente e in maniera naturale nello spazio architettonico, offrendo, al tempo stesso, la possibilità di indagare la dinamica neurale concomitante con i processi cognitivi e con le esperienze emozionali che si provano nell’ambiente. Lo spazio in questi esperimenti è organizzato in modo tale da consentire affordances e movimenti specifici del corpo, come avviene, per esempio, quando si cammina su un pavimento erboso con pavé e cemento, che “intenzionalmente” altera il ritmo della camminata o sia predisposto per sedersi. Ma sembrano ancora lontani i tempi in cui si potrà correlare il sorgere dell’emozione suscitata da un’atmosfera architettonica con l’attivazione di una regione corticale o del sistema limbico.
30In attesa dei progressi che verranno, si studia la neurobiologia dei “luoghi” (che viviamo, abitiamo, frequentiamo, esploriamo), un tema heideggeriano rivisitato per mezzo delle registrazioni dell’attività neuronale. A questo riguardo, sembra dimostrato il coinvolgimento dell’ippocampo nella “memoria dei luoghi”,46 che non sono lo spazio, bensì lo spazio vissuto e interiore (l’erlebter Raum), circoscritto entro limiti umani e quotidiani, laddove “navighiamo” e ci orientiamo, percependo quel “senso” del luogo (e del centro) che già Minkowski e Otto F. Bollnow avevano colorato di tonalità emotive.47 E qui si torna al punto di partenza, ché si tratta di un’atmosfera emozionale. Altrove si fa strada l’esigenza di correlare la realizzazione di un’architettura sostenibile ai dettami di una progettazione biofilica, che tenga presenti addirittura le istanze della mindfulness.48 In qualunque direzione si vada, si riconosce l’importanza della materia destinata alla sensorialità tattile, a pari merito con gli effetti della luce e del colore. Al di là di tutto, «l’architettura è sempre una materia concreta». E, come tale, deve essere messa in atto in modo concreto, poiché il suo corpo è sensuoso, e ogni progettazione che si rispetti parte dalla premessa della sua sensualità fisica, oggettiva, e dai suoi materiali, che sono cose concrete.49 Alla fine, ricordava Zumthor, quando un lavoro riesce bene in architettura, i materiali sono fatti risplendere e vibrare. Che poi risultino più gradevoli al tatto se sono di provenienza naturale, non è una gran novità, ma è un fatto che mette tutti d’accordo, tanto i buddhisti quanto i frequentatori di Instagram.
Notes de bas de page
1G. Bachelard, La poétique de l’espace (1957), tr. it. di E. Catalano, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2006, p. 27.
2Ivi, p. 28.
3S. Robinson, Nesting (2012), tr. it. Fare il nido, Safarà, Pordenone 2011.
4Non passi inosservato che lo stesso Bachelard ha dedicato al “nido” (e poi al guscio, «vita universale che evolve secondo la sua forma a spirale») un capitolo del suo libro, proponendosi di elaborarne una “fenomenologia”, ricca di tutte le immagini che la casa-nido suggerisce. In quel capitolo cita svariati poeti e letterati che hanno paragonato la casa a una persona e, nel caso del nido di animali, non manca chi ha osservato che lo sforzo che essi compiono per costruirlo si ripercuote nel loro petto e la loro stessa forma assume quella del nido. Cfr. La poetica dello spazio cit., p. 130.
5Cfr. S. Catucci, Un passato che non passa. Bachelard e la fine dell’abitare, “Atque”, 1, 2006, pp. 219-234.
6Bachelard, La poetica dello spazio cit., p. 56.
7Ivi, p. 61, p. 62 e p. 167.
8Ivi, p. 73 e p. 161.
9G. Bachelard, L’eau et les rêves. Essai sur l’imagination de la matière, Corti, Paris 1964, p. 2.
10Ivi, p. 145.
11Ivi, p. 146.
12J. Pallasmaa, The Thinking Hand. Existential and Embodied Wisdom in Architecture (2009), tr. it. di M. Zambelli, La mano che pensa: saggezza esistenziale e incarnata nell’architettura, Safarà, Pordenone 2014, p. 81.
13Cfr. J. Berger, Berger on Drawing (2007), tr. it. di M. Nadotti, Sul disegnare, il Saggiatore, Milano 2017.
14Pallasmaa, La mano che pensa cit., p. 63.
15Ivi, p. 64 e p. 127.
16Pallasmaa, Matter, Hapticity and Time cit., p. 172 e p. 181 e sgg.
17G. Bachelard, La poétique de la rêverie (1960), Presses Universitaires de France, Paris 19684, p. 14.
18Id., La poetica dello spazio cit., p. 6 e passim.
19In queste righe riporto, parafrasandoli, alcuni passi salienti tratti da Atmosferologia di Tonino Griffero, lo studioso che, nel panorama italiano, si è fatto carico dello strenuo, se non impossibile, compito di offrire in maniera chiara ed esaustiva il ventaglio di concezioni attuali e passate su un concetto che per natura rifugge da qualsivoglia definizione (Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 12-20).
20E. Canepa, Architecture is Atmosphere. Notes on Empathy, Emotions, Body, Brain, and Space, Mimesis International, Milano 2022, p. 26 e sgg.
21Griffero, Atmosferologia cit., p. 116 e sgg.
22H. Schmitz, Neue Grundlagen der Erkenntnistheorie, Bouvier, Bonn 1994, p. 80. Su questo tema, cfr. J. Hasse, Atmosfere e tonalità emotive. I sentimenti come mezzi di comunicazione, “Rivista di Estetica”, 33, 2006, pp. 95-115.
23Canepa, Architecture is Atmosphere cit., p. 125 e sgg.
24Griffero, Atmosferologia cit., p. 126 e sgg.
25Pallasmaa, Space, Place and Atmosphere. Emotion and Peripheral Perception in Architectural Experience, “Lebenswelt”, 4(1), 2014, pp. 230-245, p. 233.
26R. Neutra, Survival Through Design, Oxford University Press, New York 1954, p. 70.
27Considerazioni critiche sull’impiego del concetto di genius loci da parte di Norberg-Schulz, il quale vi ha dedicato un intero saggio (1979), tradotto per i tipi di Electa nel 1992, sono formulate in T. Griffero, Trovato o creato? Il Genius loci come esperienza (atmosferica), in Sensibilia 9 2015. Genius Loci, a cura di S. Pedone e M. Tedeschini, Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 155-182.
28J. Pallasmaa, Hapticity and Time: Notes on Fragile Architecture, “The Architectural Review”, 207, 2000, pp. 78-84, p. 80. Una sorta di mappa connettomica delle connessioni tra i due ambiti dell’atmosfera e dell’architettura in 11 nodi, che si dipanano tra il polo fisico e quello spirituale, è delineata da Canepa, Architecture is Atmosphere cit., pp. 63-106.
29Pallasmaa, Hapticity and Time: Notes on Fragile Architecture cit., p. 79.
30W. James, Principles of Psychology, vol. I, Holt, New York 1890, cap. IX, p. 243.
31Anche a questo proposito, la letteratura è copiosa. Oltre ai contributi che si possono trovare in “Ambiances”, rivista che coniuga architettura e ambiente sensoriale, cfr. la raccolta di saggi in M.A. Arbib, E. Canepa et al., Atmosphere(s) for Architects: Between Phenomenolgy and Cognition, Npp eBooks.51. https://newprairiepress.org/ebooks/51/.
32G. Böhme, Architektur und Atmosphäre (2013), tr. ingl. Architecture and Atmosphere, Bloomsbury, London-New York 2017, p. 70.
33P. Zumthor, Atmospheres. Architectural Environments. Surrounding Objects, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin 2006, p. 23.
34M.A. Arbib e T. Griffero, A Dialogue on Affordances, Atmospheres, and Architecture, in Arbib, Canepa et al., Atmosphere(s) for Architects cit., pp. 44-46.
35W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1935-1936), tr. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Desideri e M. Montanelli, Donzelli, Roma 2019, p. 104 (si cita dalla terza stesura, 1935-1936).
36G. Böhme, Encountering Atmoshperes. A Reflection on the Concept of Atmosphere in the Work of Juhani Pallasmaa and Peter Zumthor, https://www.oasejournal.nl/en/Issues/91
37E. Canepa, A. Fassio et al., Atmospheres: Feeling Architecture by Emotions…, “Ambiances”, 5, 2019, pp. 1-29, pp. 5-6, https://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/ambiances/2907. Ma si veda anche E. Canepa e A. Fassio, Architettura e neuroscienze: un nuovo equinozio disciplinare, “pH”, 1, 2021, pp. 28-36.
38In entrambi i casi, si tratta del frutto di una promettente collaborazione avviata tra studiosi del Dipartimento di Architettura e Design e neurofisiologi del Dipartimento di Medicina sperimentale dell’ateneo genovese.
39E. Canepa, B. Condia, On Generating Domestic Atmospheres Which Nurture Our Bodies and Moods, in Transforming Issues in Housing Design, a cura di K. Guler, cap. 14, Wiley, Hoboken 2023, pp. 187-204, p. 190. Ai “generatori di atmosfere architettoniche” è dedicato un intero fascicolo di “Interfaces”, 3, 2022.
40P. Zumthor, The Hard Core of Beauty, in Thinking Architecture, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin 1999, pp. 27-34.
41J. Pallasmaa, An Architecture for the Seven Senses, in Questions of Perception, a cura di S. Holl, J. Pallasmaa e A. Pérez-Gómez, a+u. Architecture and Urbanism, Tokyo 1993, pp. 27-37, p. 33.
42Canepa, B. Condia, On Generating Domestic Atmospheres cit., p. 199.
43Cfr. V. Riavis, A misura d’uomo. Disegno e proporzione della figura vitruviana, “diségno”, 7, 2020, pp. 43-54, p. 52.
44D. Kirsh, Atmosphere, Mood, and Scientific Explanation, “Frontiers in Computer Science”, 2023, doi. 103389/fcomp.20231154737.
45S. Wang, G. Sanches de Oliveira et al., The Embodiment of Architectural Experience: A Methodological Perspective on Neuro-Architecture, “Frontiers in Human Neuroscience”, 16, 2022, art. 833528.
46E.M. Sternberg, M.A. Wilson, Neuroscience and Architecture: Seeking Common Ground, “Cell”, 127, 2006, pp. 239-242.
47O.F. Bollnow, Lived-Space, “Philosophy Today”, 5(1), pp. 31-39.
48C. Thampanichwat, S. Bunyarittikit et al., A Content Analysis of Architectural Atmosphere Influencing Mindfulness through the Lens of Instagram, “Sustainability”, 15, 2023, pp. 1-19, https: //doi.org/10.3390/su151310053
49P. Zumthor, “The Body of Architecture”, in Thinking Architecture, cit., p. 58.
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