4. Tocco e corpo
p. 113-148
Texte intégral
Verso un’“altra” visione
1Dalla discussione tra gli scultori avviata nel Rinascimento e tuttora perdurante, emerge il ruolo insostituibile della mano e del tatto nel formare, come pretendeva Cellini, vedute «tutte di egual bontà»: anche se lo scultore partiva da una veduta, la principale, facendo ruotare in tutte le direzioni il modello con la mano, poi foggiava le altre. In quanto arte che richiede sforzo fisico, a partire da Leonardo, la scultura era stata vista fondamentalmente come meccanica, realizzata con strumenti quali scalpello, mazza, trapano ecc., che ponevano problemi meccanici, soprattutto quando si trattava di passare dal modello al marmo. Benché il neoplatonico Michelangelo per illustrare il rapporto tra il concetto e l’immagine avesse fatto riferimento a una mano che ubbidisce all’intelletto, la fatica era giudicata avvilente, e di conseguenza gli artisti si ingegnavano per non essere ritenuti alla stregua di semplici operai. Sempre Leonardo aveva osservato che lo scultore impiega «maggior fatica di corpo», mentre il pittore opera con maggior fatica di “intelletto”. Nel dibattito se fosse nata prima la scultura o la pittura, o se la scultura fosse da considerarsi inferiore alla pittura, una via d’uscita era stata di richiamarsi alla fiducia nel maggior piacere che dà l’arte scultorea con la pluralità delle vedute. E se ancora ai tempi di Donatello gli scultori erano considerati al pari di scalpellini, con l’avvento del modello, del bozzetto in cera o in argilla, tra Cinque e Seicento, il modellatore fu il vero scultore, l’artista, mentre colui che lavorava con fatica il marmo o la pietra era ritenuto un artigiano o tutt’al più un tecnico.
2Confrontandole con le arti mobili quali il cinema e la danza, Arnheim era arrivato a concludere che scultura e pittura nell’atto percettivo perdono entrambe una parte cospicua della loro indipendenza, fondendosi in un tutto unitario tale che l’osservatore e la cosa osservata arrivano a conseguire un’unità funzionale, un fenomeno che non in tutti i campi del visibile si realizza tanto facilmente. E non sempre questo rapporto è indolore, da una parte, perché l’osservatore si situa al centro del mondo, dall’altra parte poiché non è facile che si crei un equilibrio tra il suo centro visivo e il centro o i centri del piano pittorico. Nel caso della scultura, Arnheim sosteneva che, proiettandosi verso l’alto e l’esterno, e muovendosi attivamente, l’opera «risponde passivamente a intrusioni provenienti dal di fuori», e blocca sia l’azione eseguita sia l’osservatore. L’operazione che lo scultore compie giocando con lo spazio, perforando, premendo, creando concavità, fa sì che abbia luogo un’interazione con lo spazio circostante, ma nello stesso tempo un rapporto molto meno stretto con l’osservatore: «nulla vi è nella composizione della scultura che tragga il proprio significato dalla presenza dell’osservatore».1
3Se pure con la scultura lo spettatore potrebbe intrattenere un legame che non incide sulla sua creazione (il che poi è tutto da dimostrare, considerando il coinvolgimento a proposito della questione delle vedute) poiché – come sosteneva Arnheim – ciò che importa è la relazione spaziale, neppure il rapporto dell’osservatore con la pittura sembra essere stato, nel corso della storia, tutto rose e fiori. Anzi, il caso sarebbe ancora più complicato, a causa della discrepanza percettiva che si si viene a creare tra l’osservazione di un quadro e quella del mondo reale. La questione appare così insolubile che Gombrich si domandava: «Perché […] così spesso si è detto che la prospettiva è una convenzione che fa violenza al nostro modo di vedere il mondo?»,2 ed era arrivato a chiamare in causa il “principio del testimone oculare”, che è quello a cui si sono attenuti i pittori di svariate culture dai Greci in poi, e cioè che si resti immobili, che si guardi in un’unica direzione, e che si tenga un occhio chiuso se l’oggetto osservato è così vicino da rendere sensibile la parallasse binoculare. Ma che cosa accade se, come avviene normalmente, ci spostiamo? Nuove prospettive appaiono alla vista. E se muoviamo solo gli occhi, ma non la testa? Nonostante tutto, anche se il mondo reale non si presenta come un’immagine piatta, è possibile che un’immagine piatta gli assomigli, concludeva Gombrich. In definitiva, tra le doléances a carico della prospettiva elencate da Panofsky, vi erano il continuo movimento dell’occhio e dello spettatore (che produce un cambiamento di ciò che si vede), la reazione psicologica individuale di chi guarda, che varia da persona a persona, e il fatto che la realtà viene proiettata sul bulbo oculare, e quindi su una superficie curva, non piatta.
4È pur vero che, avendo le forme proprietà spaziali solo nel mondo reale – ché in pittura semmai sono illusorie in quanto meramente percettive – sono gli indici fisiologici di profondità – la parallasse di movimento prodotta dagli spostamenti della testa e dell’osservatore, le contrazioni muscolari che regolano la curvatura del cristallino, la visione stereoscopica – a metterci sull’avviso che nel quadro non esiste la profondità reale. Alla “mente ragionante” non sfugge la contraddizione che si origina quando lo spazio percepito come dotato di profondità manchi di realtà fisica, anche se fenomenologicamente tale contraddizione non si avverte e, anzi, a proposito della visione pittorica la legge della Gestalt era arrivata a postulare che la struttura dello schema bidimensionale o proiettivo prevale, quando risulta più semplice di quella tridimensionale. (Ma in una discussione intrattenuta con Gibson, con il quale – al di là delle polemiche – i punti in comune erano forse più numerosi di quanto i due studiosi ammettessero, Gombrich riconosceva la mancanza di chiarezza e il carattere sibillino della risposta da lui formulata, quando asseriva che la fiducia che il mondo si dissolva in un mosaico di macchie colorate si fonderebbe su un’illusione collegata alla stessa “ricerca di semplicità” che ci spinge a vedere il cielo infinito come la volta celeste.)3
5Con buona pace di chi ne contesta il predominio sugli altri sensi, l’occhio non ha mai goduto di vita facile, se si considerano i problemi di cui lo ritengono responsabile filosofi, artisti e teorici dell’arte con le loro discussioni sulla visione del mondo reale, sulla distinzione tra realtà e apparenze, sulla percezione artistica o sulla pittura naturalistica. Eppure su quest’organo e sulla modalità sensoriale della vista si sono concentrati gli strali di un’attenzione talora malevola, particolarmente accesa negli ultimi decenni. Non avendo perso il contrassegno di organo di senso nobile, l’occhio viene negativamente connotato da coloro i quali lo considerano un prevaricatore a danno delle altre modalità sensoriali. Gli accusatori provengono da svariati ambiti e comprendono anche artisti ed estetologi ma, tra i più baldanzosi, come si è anticipato, vi sono i teorici dell’architettura e gli architetti, i quali dispongono di una buona formazione filosofica e psicologica, aggiornata con gli approfondimenti delle neuroscienze. La battaglia contro la presunta egemonia oculare è rinfocolata dalle munizioni che, in maniera sempre più cospicua e articolata, sono fornite in dotazione alla pelle, organo di senso apparentemente più rozzo e trascurato. Tra i più strenui oppositori della presupposta manifestazione di autoritarismo oculare, Juhani Pallasmaa non ha mai smesso, nell’arco all’incirca di trent’anni, di denunciare quel potere oculocentrico non solo in architettura, ma più in generale nell’arte e nella maggior parte delle manifestazioni della vita contemporanea, privata e sociale. La tendenza della cultura occidentale a privilegiare la vista e a rimarcare il carattere “visivo” persino del pensiero e di tutte le forme di conoscenza,4 era stata, per Pallasmaa, una costante della filosofia greca e della riflessione filosofica moderna, ma aveva raggiunto il suo apice con il paradigma prospettico enunciato dall’Alberti, simbolo di una concezione dell’architettura mirante a conseguire armonia e proporzione. Secondo l’architetto finlandese, però, nel corso della storia l’occhio non rimase legato «alla costruzione fissa e monoculare» delle teorie rinascimentali sulla prospettiva e giunse a conquistare nuovi spazi, come si evince dai dipinti di Bosch e di Pieter Bruegel, nei quali l’occhio poté viaggiare su scene di eventi multipli. La “liberazione” è continuata sulle tele barocche dello Still leven fiammingo e olandese, dove nature morte e oggetti di uso quotidiano figurano variamente disposti sulle tavole imbandite e negli angoli di cucina a formare scene di genere che non rientravano nella finestra albertiana. La «forte impronta tattile»5 del Barocco si sviluppò successivamente nella pittura di William Turner, i cui paesaggi “oltrepassavano” la cornice. Un impulso ulteriore si ebbe con Cézanne, che nelle parole di Merleau-Ponty mirava a rendere visibile il mondo «come esso ci tocca» e con i cubisti, che ripresero a rivalutare la visione periferica. Secondo Pallasmaa, infatti, tattilità e visione periferica non focalizzata assicurano l’espressione più autentica dell’esperienza vissuta, a differenza della visione focalizzata che ci “contrappone” al mondo.6 Lo spazio prospettico che domina l’architettura della visione lascia “al di fuori” l’osservatore, mentre lo spazio atmosferico e multiprospettico (simultaneo) e la visione periferica lo «avvolgono in un abbraccio», facendogli provare l’esperienza dell’interiorità, una sensazione di incorporamento favorita dalla resa impressionista e cubista dello spazio.7 Alla base di questa rivalutazione della tattilità e della visione periferica da parte di Pallasmaa vi erano alcune fonti importanti rappresentate dai lavori del neurolinguista Mark Johnson e del neuroscienziato-psichiatra scozzese Iain McGilchrist, nonché dagli studi di prossemica sulla comunicazione “esterna” delle ghiandole endocrine, inaugurati dall’antropologo culturale Edward T. Hall.8 Nel suo contributo sul “significato del corpo” Johnson aveva sviluppato il discorso avviato con George Lakoff sulle metafore e proseguito sulla “mente incorporata”, dal quale emergeva il ruolo dell’incarnazione in tutte le esperienze di vita, arte compresa. La corporeità sarebbe all’origine del pensiero e del linguaggio: «siamo nati nel mondo come creature della carne» e i significati “crescono” con le percezioni corporee, le emozioni, i movimenti ecc., per mezzo delle connessioni viscerali che ci legano alla vita e agli stati corporei della vita.9 Con il saggio sul “padrone e il suo emissario”,10 McGilchrist aveva conferito una rinnovata importanza al ruolo dell’emisfero destro, cui spetterebbe l’esperienza complessa del mondo nella sua interezza, mentre al sinistro toccherebbe l’analisi dei dettagli: dalla lotta tra i due, prevedibilmente, deriverebbero gli inquietanti effetti visibili nelle società del mondo occidentale, dove la cultura – espressiva del predominio dell’emisfero sinistro – è incanalata sulla via del sopravvento tecnologico.
6Oltre all’impatto sulla teoria dell’architettura, il recupero della visione periferica insieme alla visione inconscia – entrambe caratterizzate dagli attributi della vaghezza, della polifonia, della sfocatura – apriva due strade a Pallasmaa: una lo indirizzava alla riscoperta del corpo e della multisensorialità, e alla valorizzazione, in particolare, della tattilità: un campo dove avrebbe trovato già alloggiata una nutrita brigata; l’altra lo introduceva nel mondo diafano e ineffabile dell’atmosfera, un ambiente apparentemente “trasparente” e curiosamente allettante per i filosofi. Al mulino di entrambe le concezioni avrebbero portato acqua le proposte della non meno variegata compagine di architetti, artisti ed estetologi.
Il potere dei sensi “minori”
7Il punto di vista di Pallasmaa è quello dell’architetto che si propone di realizzare opere che rispondano all’esigenza di un’esperienza incarnata dell’ambiente edificato attraverso tutte le modalità sensoriali del corpo. Pallasmaa ha attinto al bagaglio concettuale dei filosofi e, fin dal suo esordio con Gli occhi della pelle, ha compilato una sorta di registro di buoni e cattivi, secondo le preferenze “sensoriali” espresse nel corso della storia dai vari pensatori. Lasciando da parte gli antichi, tra i primi sostenitori del primato della vista annovera Cartesio, anche se a un certo punto il filosofo si salvò sulla via di Damasco, riconoscendo che il tatto era più sicuro della vista. Intellettuali e filosofi stanno quasi tutti dalla parte dei cattivi, dacché sembrerebbero essere i più accaniti fautori della vista o quanto meno del tatto come semplice aiutante dell’occhio, con alcune debite eccezioni, tra cui Maurice Merleau-Ponty e Gaston Bachelard.
8Lasciando per ora da parte il rapporto con la filosofia, va ricordato il contributo di un altro saggio, che dovette fare presa su Pallasmaa alla fine degli anni Settanta. Si tratta di un lavoro dedicato interamente alla pelle e al suo linguaggio, nel quale l’antropologo inglese Ashley Montagu dimostrava, con importanti rimandi alla fisiologia, che la pelle è il più sensibile, il più antico e il più esteso tra i nostri organi, primo mezzo di comunicazione e protezione, e che dal tatto sono generati occhio, orecchie, naso, bocca tanto da doverlo considerare il “padre di tutti i sensi”.11 Con osservazioni condotte sui ratti e su altri animali da laboratorio, Montagu non mancava di riportare i benefici della stimolazione tattile e, in particolare, dei trattamenti delicati sulla pelle, oltre che del leccarsi e dello spulciamento, ai fini di un equilibrato sviluppo comportamentale. La comunicazione tattile si rivela fondamentale nei primati, che sono sostanzialmente “animali da contatto”, come si nota osservando l’attaccamento dei piccoli (bambini compresi) alla madre e i segnali tattili, che hanno una funzione basilare nelle tribù dei primati a fini di pace e coesione sociale. Con un approccio psicosomatico, l’intento dell’antropologo era di dimostrare gli effetti che l’esperienza tattile o la sua mancanza possono avere sul comportamento, al punto di ipotizzare l’esistenza di una vera e propria “mente della pelle”, alla luce dei disordini di origine psichica che si palesano su di essa, come dimostrano le varie patologie dermatologiche di natura psicosomatica.12
9In tutte queste prese di posizione che rivendicano il ruolo del tatto, raramente si trova un rinvio ad Aristotele, il quale invece nel De anima era stato tra i primi – se non il primo – a formulare, sul toccare, riflessioni tanto ovvie quanto fondamentali, evidenziandone il carattere di sensazione primaria, senza la quale non esisterebbe nessun altro senso, come si evince nel caso degli animali. Neppure la qualità degli alimenti si apprezzerebbe senza il tatto, che è il senso degli alimenti e, privato del tatto, l’animale morirebbe, ché il mangiare dipende dal toccare, in un’indissociabilità che non si trova in nessun’altra modalità sensoriale. Anche per Pallasmaa tutti i sensi sono un’estensione del tatto, il senso che rappresenta l’“inconsapevolezza” della vista e dell’udito, che media i nostri atteggiamenti con il mondo esterno e le persone, formulando messaggi di invito o di rifiuto, di cortesia o di ostilità. Mentre la visione ci pone in un eterno presente, che si configura nella giovinezza senza tempo tipica dell’architettura moderna (i cui danni “patologici” di impoverimento sensoriale conseguono all’uso di superfici “mute”, di volumi dai contorni astratti e di materiali “piatti”, di un’illuminazione uniforme che elimina le variazioni microclimatiche), il tatto e l’architettura aptica preserverebbero l’esperienza del continuum temporale, dacché non si abita solo nello spazio, ma nel tempo, nella cultura e nella memoria, e una prova è il gusto per l’erosione e le rovine,13 simbolo di un’architettura che non teme il trascorrere del tempo, ma ne esalta il potere curativo, promuovendo lentezza e intimità, qualità che si contrappongono alla velocità e al controllo, sintomi del pregiudizio oculare.
10Chi, tra gli eredi di Hildebrand, a fine Ottocento, aveva inquadrato in architettura il problema dello spazio riconducendolo al corpo era stato August Schmarsow, il quale nella sua lettura inaugurale all’università di Lipsia del 1893, se pure aveva osservato che «psicologicamente, la forma intuita dello spazio tridimensionale ha origine attraverso le nostre esperienze del senso della vista, assistito o no da altri fattori fisiologici», aveva però aggiunto che «la forma intuita dello spazio […] consiste dei residui dell’esperienza sensoriale a cui contribuiscono le sensazioni muscolari del nostro corpo, la sensibilità della nostra pelle e la struttura di tutto il nostro corpo».14 Riconoscendo alla mano effetti di ordinamento e creazione nei confronti dello spazio circostante, Schmarsow sottolineava il ruolo del sistema assiale, che non soltanto regola la creazione dello spazio, ma che – nella linea verticale – dalla testa ai piedi, costituisce la coordinata dominante nel corpo umano. Il costrutto spaziale pertanto diventava un’emanazione dell’essere umano presente, una proiezione dall’interno del soggetto, indipendentemente dal fatto che ci si trovi fisicamente all’interno dello spazio o proiettati in esso mentalmente. Oltre alla linea verticale, che consente i movimenti corporei sopra e sotto, avanti e indietro, a destra e a sinistra, contano le direzioni del movimento libero, in avanti, e della visione, che definisce la profondità. Per Schmarsow, a proposito del quale Harry Mallgrave osservò che rappresentava la transizione verso la fenomenologia, l’intera costruzione spaziale era un corpo “fuori di sé” nello spazio generale al punto che i principi sottostanti alla creazione dell’edificio esterno “slittano” nella direzione dei principi dello spazio interiore.15 Il legame con la terra «come solida base per l’uomo», se da una parte rendeva “l’arte dello spazio” rispettosa delle leggi dell’universo relative alla materia, dall’altra parte la dotava della più svariata relazione proprio con l’esperienza umana e con la vita “sulla terra”, tanto che lo spazio stesso si arricchisce di vita propria per soddisfarci e renderci felici, laddove invece le forme rigide alla lunga risulterebbero oppressive.
11A metà Novecento, altrettanto convinto che occorresse “esperire l’architettura” con tutte le facoltà del nostro corpo era stato l’architetto danese Steen Eiler Rasmussen.16 Poiché ogni edificazione è un composto di elementi come duro e soffice, leggero e pesante, teso e allentato, non basta “vedere” l’architettura, ma occorre sentirla, averne contezza di colori, trame, orientamento della luce solare, acustica ecc., perché le case si abitano e si devono sentire vicine a noi. Non è da meno Pallasmaa nel rivendicare il ruolo di gusto e odorato, tradizionalmente ritenuti sensi insignificanti in architettura. Ogni edificio ha qualità olfattive, gustative, uditive oltre che tattili, che conferiscono alla percezione visiva un senso di completezza, pienezza e vita. Pallasmaa riporta l’esperienza del profumo delle candele, dell’incenso, che ci fa identificare le vecchie cattedrali; ricorda gli odori “subliminali” della pietra, del calcestruzzo, della calce, ma soprattutto del legno, che danno un senso di “luogo”. Ogni casa ha un suo odore, unico, così come le persone e le professioni, e questi caratteri connotano gli ambienti, che siano ospedali, stazioni ferroviarie o biblioteche, mercati, panifici o pasticcerie che evocano “borghesi beatitudini”, laboratori di ebanisti o di calzolai ecc. Per non parlare delle città del mare con il loro tipico odore di salmastro e di alghe. Le sensazioni olfattive interagiscono con quelle del gusto e, se dai banchi del mercato esalano odori e risplendono colori, nei ristoranti ancor prima di gustare le portate di un pranzo, i caratteri visivi del menu si tramutano in sensazioni orali.17 Tra i poeti e i letterati più amati ( e citati) non solo dall’architetto ma anche dai filosofi (Heidegger in testa), Rainer Maria Rilke è colui il quale ha particolarmente esaltato le sensazioni olfattive: nei Quaderni di Malte Laurids Brigge l’io narrante indugia a descrivere gli odori che permangono in una casa andata in rovina, quello dolciastro del latte dei bambini piccoli, il puzzo dell’urina e del sudore, dei piedi sporchi e di una grappa scadente, delle patate e il lezzo dello strutto rancido.18
12Se la vita, anche quella passata, è rappresentata dagli odori, la pietra non manca di sapore, o comunque ha delle qualità visive che fanno venir voglia di addentarla. Lo storico e critico dell’arte di origine oxoniense Adrian Stokes citava John Ruskin, il quale in una lettera datata 2 giugno 1852 confessava al padre che si sarebbe mangiato Verona «pezzo per pezzo», alludendo ai suoi marmi rossi. E a proposito delle pietre di San Marco, ammetteva che gli sarebbe piaciuto disegnarle pietra per pietra, per potersele mangiare nella mente, “tocco dopo tocco”.19 Altrettanto sensibile al fascino dei marmi rossi veronesi dovette essere lo stesso Stokes, “post-freudiano” influenzato dalla teoria di Melanie Klein, che si dichiarava attratto dal loro «invito orale»: marmo a pezzi, commestibile, dai bagliori scuri che gli ricordavano il cioccolato.20 La visione dei marmi colorati e lucidati farebbe nascere in chi li osserva e li tocca il desiderio di leccarli con la lingua, un’esperienza che non deve stupire, perché come si è visto, il primo contatto con il mondo da bambini avviene per mezzo della bocca, un fenomeno definito in psicanalisi con il concetto di “introiezione”.21 Tra le più notevoli fonti di esperienze orali personalmente provate, Pallasmaa menzionava i materiali sensuali dell’architetto veneziano Carlo Scarpa, di cui sarebbero note la predilezione per i manufatti artigianali, la precisione e la cura dei dettagli; i colori vivaci che dominano le pareti delle case progettate dal messicano Luis Barrágan; e, non ultima, la celebre dimora californiana di inizio Novecento definita D.L. James House dal nome del committente, dove l’architetto Charles Greene aveva fatto grande uso di pietra, marmo, arenaria, oltre che di legno, in particolare di sequoia. Pallasmaa si soffermava sul ricordo di quando l’aveva visitata e aveva provato l’impulso di inginocchiarsi e di toccare con la lingua proprio uno di quei marmi. Nella descrizione suggestiva del giapponese Junichiro Tanizaki, tatto e gusto si mescolano e scaturiscono nella sensazione “mistica” che si prova dinnanzi a una ciotola di brodo: la tazza però è di legno laccato, ché se fosse di fredda porcellana, non si otterrebbe la stessa magia. Nel suo Libro d’ombra Tanizaki si addentrava nei luoghi del quieto vivere giapponese; difensore delle antiche tradizioni, esaltava le coppe di legno decorate d’oro, gli oggetti vissuti, ricoperti di patina, e le tonalità scure, annerite, brunite o percorse da venature, che si apprezzano per lo più nella penombra. La stessa aria si respira nella stanza dedicata alla cerimonia del tè secondo Kakuzo Okakura, dove compaiono immagini richiamate dalle sensazioni uditive: l’acqua che bolle, il “canto” della teiera, sul fondo della quale sono disposti pezzetti di ferro che generano una melodia evocatrice di altre sonorità, la cascata, l’infrangersi delle onde, il sospirare dei pini su una collina.
13All’“udire l’architettura” il summenzionato Rasmussen aveva dedicato un intero capitolo del suo libro, con lo scopo di mettere in luce «la grande differenza» che le sensazioni acustiche fanno relativamente allo spazio. Si era soffermato sul modo in cui i suoni “agiscono” all’interno delle ampie cattedrali, con echi e riverberazioni di toni lunghi ben diversi da quelli che si percepiscono in una stanza piccola rivestita di pannelli, imbottita da tappeti, tendaggi e cuscini. Negli anni Sessanta (ma ora le cose sono migliorate)22 Rasmussen rilevava che la musica religiosa ascoltata a casa proveniente da un disco registrato in studio aveva un suono molto più povero rispetto a quello della stessa musica udita in una cattedrale, dove i suoni possono riverberarsi in toni lunghi grazie ai muri, agli alti soffitti, alle volte a cupola, alle gallerie, alle cappelle private disposte lungo le navate, al materiale ligneo e di pietra. Basiliche cristiane, chiese luterane, chiese del periodo Rococò: tutte erano state progettate e create con caratteristiche di forma e dimensioni che producevano distinti effetti acustici. In più luoghi del suo libro, egli citava l’opera di Hope Bagenal, l’esperto di acustica che aveva studiato la riverberazione e l’assorbimento dei suoni e applicato i principi di questa scienza alla teoria dell’architettura, spaziando dalle chiese ai teatri e ai musei, dalle sale da concerto a quelle civiche. In Planning for Good Acoustic si era persino avventurato a spiegare come dovesse essere l’intonazione dei sermoni in chiesa, affinché la voce dell’officiante – non quella del suo parlare ordinario, ma la voce solenne, grave e ritmica, intonata nel recitare i salmi latini – potesse raggiungere l’intera congregazione dei fedeli con un buon esito, con l’intonazione che lui definiva di una sympathetic note.23
14Alla serie canonica dei cinque sensi, e a quella steineriana che ne includeva dodici, comprensiva dei sensi del movimento, dell’equilibrio, del calore, del linguaggio, della vita, del pensiero e finanche dell’io, Pallasmaa ha aggiunto il senso esistenziale, quello di derivazione heideggeriana dell’essere-nel-mondo, il più importante in architettura, cui fanno da corollario il senso della proporzione, della scala, le relazioni spaziali, il ritmo, i materiali con le loro tessiture, consistenza e colori, i valori tattili e, come si è appena detto, la risonanza acustica.24 Riprende queste idee il già citato teorico e storico dell’architettura Mallgrave, per il quale le nostre esperienze di architettura sono radicate negli strati profondi e inconsci della nostra vita mentale. Pur riconoscendo che l’uomo possiede una gamma di comportamenti e modalità sensoriali «biologicamente determinati», e che l’arte è un’estensione delle funzioni cerebrali, non si tratta del coinvolgimento del solo cervello visivo, ma di una gamma di funzioni: della coscienza, della memoria, delle emozioni. Pallasmaa è paladino di una tesi fondata sull’espansione delle capacità immaginative e empatiche del progettista, che oltrepassi l’ambito del visuale, in un’«identificazione e comprensione empatiche, incarnate e immersive» al fine di completare un quadro biologico, ma soprattutto storico, di noi stessi.
15Non è un caso che gran parte dei fautori della ruolo della multisensorialità siano architetti e neuroscienziati che fanno capo all’Academy of Neuroscience for Architecture (ANFA), istituita nel 2003 grazie alla collaborazione tra studiosi del cervello e “archistar” (anche se in molti non gradiscono questa etichetta) con l’obiettivo di trovare conferme alla tesi dell’influenza che lo spazio circostante (naturale e architettonico) e le sue variazioni esercitano sul nostro sistema nervoso, e quindi dimostrare come il contesto ambientale e, in particolar modo, l’architettura possano avere una ricaduta, positiva o negativa, sulla struttura cerebrale e addirittura sui geni, e di conseguenza sulla salute psicofisica, sulle capacità cognitive, sulle abilità motorie, sul comportamento e sull’esperienza emotiva di chi “vive” un determinato ambiente.25 Il genetista Fred Gage del Salk Institute di La Jolla, tra i primi organizzatori del progetto, aveva conciliato le sue ricerche nell’ambito della neurogenesi e della plasticità cerebrale con un’impostazione cognitivistica che si rifletteva sull’architettura, arrivando a sostenere che l’ambiente in cui si vive, specialmente quello edificato, possa esercitare un’azione favorevole o dannosa sul cervello, sulla sua plasticità e quindi sui suoi cambiamenti, e sul comportamento. Fin dalle fasi iniziali, a questa impresa aveva partecipato il neuroscienziato di impostazione cognitivista Michael Arbib il quale, provenendo dall’ambito di ricerca su modelli computazionali di meccanismi cerebrali (per studiarne l’evoluzione negli animali e negli umani con particolare riferimento al linguaggio), si proponeva di elaborare un progetto «biologicamente fondato» di “architettura neuromorfica”, convinto che le scoperte delle neuroscienze potessero avere «un impatto sui progetti futuri di costruzioni intelligenti», addirittura incorporando funzioni cerebrali (e non computazioni!) nella progettazione degli edifici. Le case intelligenti sono quelle che regolano luce, temperatura, umidità ecc. secondo il momento della giornata e il clima, tengono sotto controllo l’acustica nel caso di ambienti troppo affollati e rumorosi e, in futuro, potrebbero arrivare a interagire e “comunicare” con chi le abita al fine di fornire servizi migliori, in un ambiente che risulti tonificante (restorative) e consenta il recupero dall’affaticamento attenzionale e dallo stress, e persino aiutare nelle faccende domestiche, per esempio, i pazienti con Alzheimer. Nei suoi scritti Arbib precisa di riservare il termine “cervello” ai soli animali e umani, mentre la “struttura interattiva” denota un sistema analogo al cervello incorporato nell’edificio, di cui ha costituito un primo esempio significativo nel 2002, nel corso di un’esposizione in Svizzera, lo spazio interattivo “Ada”, dotato di sensori, videocamere e reti neurali artificiali che “le” consentono di provare “emozioni” e di interagire con i visitatori.26 La letteratura scientifica su questo argomento riporta gli esiti della risonanza magnetica funzionale che, nel corso di esperienze in ambienti ristorativi resi ancor più attraenti se arricchiti con la vegetazione, registrerebbe attivazioni particolarmente accentuate in aree quali il giro medio-frontale, quello medio e inferiore-temporale, l’insula, il lobo parietale inferiore e il cuneo. Si tratta di un insieme talmente vasto e complesso di aree coinvolte che gli stessi autori della ricerca riconoscono di dover richiedere l’ausilio delle neuroscienze cognitive per attribuire un ruolo a ciascuna regione.27
16Dal canto suo, Mallgrave propone di tradurre sul piano neurofisiologico il modello della continua interazione sensoriale, un incessante “dare-e-avere visuo-tattile”, formulato dall’etologa Ellen Dissanayake, secondo la quale le espressioni artistiche sarebbero forme biologicamente evolute dello scambio reciproco che si crea fin dalla nascita tra madre e bambino, e che si configura in vocalizzazioni ritmiche e in determinate modalità sensori-motorie.28 L’architetto dovrà tener conto di queste «sensazioni intermodali tattili e cinetiche» nell’edificazione di case e nella progettazione urbana, servendosi di materiali, forme, colori, modelli e trame che sollecitino le emozioni di chi le abita. Lamentando che la voce del vittoriano Ruskin abbia costituito un unicum ormai lontano nel tempo nel sottolineare lo stretto legame tra emozioni e architettura, Mallgrave propone di aggiornare e rinfocolare la questione, facendo appello alla neurofisiologia dei neuroni specchio, oltre che ai classici sul cervello emotivo di Joseph LeDoux e Jaak Panksepp. Costituendo un sistema visuo-motorio, quei raggruppamenti di cellule assumono un’importanza fondamentale dal punto di vista degli architetti, i quali non solo “vedono” una costruzione in un modo “ovviamente” differente da come la vedono i non-architetti. Ma da specialisti del settore non si limitano a questa evidenza ché, studiando l’impatto delle edificazioni architettoniche sul cervello umano, si propongono di migliorare l’architettura, rendendola sempre più affine ai bisogni psicofisici dei fruitori. Nella condivisione di intenti con i neuroscienziati che studiano il sistema mirror, l’accoglienza calorosa di Mallgrave non è una voce isolata, e oggigiorno sono sempre più numerosi i contributi di Vittorio Gallese e colleghi che figurano nelle pubblicazioni di neuroarchitettura, particolarmente apprezzati da chi sostiene le ragioni di una architettura aptica e antioculocentrica. Contrapponendosi a un’estetica e a un approccio di stampo cognitivistico, dominati da «una sorta di ‘imperialismo visivo’»,29 la teoria dei neuroni specchio si presenta portatrice di quei “valori” (riconoscimento della relazione tra corporeità, sistema motorio, percezione spaziale degli oggetti e degli altri individui) che costituiscono il fondamento di un’architettura intelligente e sensibile, comprensiva delle esigenze materiali e spirituali dei destinatari. Mallgrave fa notare come sia difficile – per non dire impossibile – eseguire una risonanza magnetica sul cervello di un soggetto mentre sta experiencing architecture (per servirsi di un’espressione che è il titolo dell’iconico saggio di Rasmussen), a differenza dei numerosi casi riportati in neuroestetica di neuroimaging su individui che stanno ascoltando musica o ammirando un dipinto. Questo limite però non impedisce l’applicazione di questa tecnica sul cervello di chi sta osservando una forma architettonica o è a contatto con dei materiali. E a questo proposito emerge di bel nuovo l’importanza della tattilità.
17Sull’interazione tra guardare e toccare hanno gettato nuova luce le registrazioni dell’attivarsi dei neuroni specchio in soggetti che stanno guardando altre persone impegnate a svolgere attività tattili, per esempio un individuo che tocca un’altra persona. L’aspetto straordinario di questa sperimentazione consiste soprattutto nel fatto che si registrerebbe un’attività mirror visuo-tattile anche quando un soggetto guarda due oggetti inanimati che si toccano, un fenomeno che accade sovente in natura, per esempio quando assistiamo al toccarsi dei rami di un albero o vediamo un frutto che cade per terra o le gocce di pioggia che cadono su una foglia. Quindi, affinché si attivi il meccanismo di circuiteria condiviso dal tatto e dalla vista, cioè quando si guarda qualcosa che tocca o è toccato, non sembra rivestire importanza che ciò che è toccato sia animato o no, e nemmeno quanto a lungo duri il contatto. Per i neuroscienziati (anche chi studia il sistema mirror è munito di buona cultura filosofica, in particolar modo della fenomenologia husserliana sull’oggetto che si costituisce come oggetto tattile) è centrale questo aspetto, che ha delle ripercussioni sul toccare intenzionale: fa differenza se quel circuito mirroring si possa attivare alla vista di un “toccare accidentale” e persino nei confronti di qualsiasi tattilità (anche di un oggetto inanimato), e non soltanto in presenza del coinvolgimento umano in un toccare che sia un atto volontario.30 Una bella questione, tanto più appassionante in quanto, come si è detto, in natura si è testimoni di moltissimi fenomeni di cose che si toccano tra di loro, e ciò dimostra che, a differenza della visione e delle emozioni, il tatto non è circoscritto nei confini del dominio sociale e del comportamento motorio.31 La risonanza magnetica mostrerebbe «in tutte le condizioni di tocco», anche in quelle di un “toccare inanimato”, l’attivazione di alcune porzioni del giro e della corteccia somatosensoriale secondaria bilaterale (SII), mentre solo nei casi di un toccare intenzionale sarebbe coinvolta la corteccia somatosensoriale primaria sinistra. Per quanto riguarda SII, alcune sue porzioni si attiverebbero in tre casi: sia in esperimenti in cui i soggetti vedono gambe umane toccate, sia quando vedono oggetti che si toccano gli uni con gli altri, sia quando a essere toccate sono le gambe dei soggetti stessi. Ma degno di nota è il fatto che questa stessa area non si attiverebbe nei casi in cui il movimento osservato non mettesse capo a un toccare.32 Due le possibili spiegazioni di questo fenomeno: che l’accoppiamento tra il tocco visto e il tocco “vissuto” possa essere innato, oppure che si tratti di un caso di apprendimento hebbiano, cioè che l’attivazione dei neuroni della corteccia somatosensoriale coincida temporalmente con quella dei neuroni visivi sollecitati dallo stimolo visivo dell’evento tattile, e che nel corso di esperienze ripetute la vista di un tocco sia sufficiente a innescare l’attività dei neuroni somatosensoriali.
18Condotti nei primi anni Duemila dal gruppo di Gallese, questi esperimenti miravano anche a sollecitare l’attenzione su come il meccanismo neurale sottostante il significato del tatto fosse ancora «scarsamente compreso», mettendo in evidenza che l’attivazione di SII alla vista di qualsiasi forma del toccare sarebbe alla base di una “nozione astratta”, prelinguistica, della tattilità. Che ciò che tocca/è toccato sia materiale o immateriale, animato o privo di vita interiore, che il toccare sia intenzionale o accidentale («dove l’agente toccante è mosso da una forza esterna non biologica»),33 che si tocchi una mano o un oggetto: qualsiasi forma del tatto farebbe sempre registrare un’attivazione di SII. Il fatto che in queste diversificate esperienze siano coinvolte le stesse strutture neurali starebbe a indicare, secondo gli autori della ricerca, il coinvolgimento di un processo di simulazione incarnata, le cui conseguenze si riverberano anche in ambito linguistico. E questa è una conclusione significativa, tanto più che Gallese condivide con Lakoff la tesi che concetti non solo di oggetti o di azioni, ma gli stessi concetti astratti e finanche il pensiero razionale farebbero uso della circuiteria del sistema sensomotorio, in un vero e proprio sfruttamento delle «normali operazioni del nostro corpo».34
19Queste ricerche, tra le altre cose, mostravano che vi era un altro soggetto speciale da tenere sotto osservazione. Si tratta dell’empatia, che – come il tatto – non si limita alla sfera sociale.
Incarnamento, empatia e altri stati
20Le ricerche di risonanza magnetica sulle aree “tattili” della corteccia somatosensoriale suggeriscono che quando veniamo a contatto con una costruzione, «i nostri corpi si muovono in spazi materialmente sensuali» e che le nostre modalità sensoriali sono collegate e integrate l’una con l’altra:
in un atto di simulazione visiva nello stesso tempo simuliamo il toccare della superficie con le nostre mani, inaliamo il suo odore, cogliamo tracce della sua risonanza o durezza acustica35
e, se fossimo bambini, arriveremmo a esplorarla con la lingua. Nel caso dell’architettura, sia nella fase della progettazione sia nel corso della fruizione, l’intervento delle aree corticali non esclude però quello dei sistemi non-centrali, simpatico e parasimpatico, e delle aree subcorticali, in particolare di quelle deputate al sentire emotivo. In più luoghi dei suoi lavori, Mallgrave ha portato come esempio l’opera di due celebri architetti tedeschi che, pur appartenendo al movimento modernista, progettarono costruzioni totalmente “contrapposte”, due strutture che costituiscono “poli opposti” in un’ambientazione ravvicinata, alle spalle di Potsdamer Platz, simbolo della rinascita di Berlino. Tornato negli anni Sessanta dall’America nella sua Germania, Mies van der Rohe aveva concepito la Neue Nationalgalerie come «tettonica e altamente razionale», aspaziale nel suo senso di delimitazione, con grande uso di vetro e di travi d’acciaio a vista, materiali che vengono percepiti come freddi, ma che in questo caso risultano compatibili con il fine di un edificio che doveva assicurare la calma contemplazione di opere d’arte. Ben diversa la Filarmonica di Hans Scharoun, che era stata ideata come un prodotto multisensoriale, una potente orchestrazione di materiali, colori, forme, trame, con piattaforme per il pubblico sotto un soffitto a tenda con pannelli acustici disposti come nuvole, proprio perché si tratta di una sala da concerto destinata a ospitare eventi di ambito musicale a forte impatto emotivo.36 Che questi edifici fossero progettati in maniera così discordante sarebbe prova che noi sperimentiamo gli ambienti edificati in modi diversi perché di fatto «li incorporiamo».
21A Mallgrave non sono passate inosservate le idee dell’originale scrittrice vittoriana Vernon Lee, la quale indagò gli effetti fisiologici delle arti visive sull’esperienza individuale, avendoli personalmente sperimentati, insieme all’amica e collaboratrice Clementina Anstruther-Thomson, specialmente in una città d’arte stimolante come la Firenze di inizio Novecento. La Lee conosceva l’opera sulla “psicologia umana e animale” di Wundt, nonché importanti lavori di neurologia, psicologia ed evoluzionismo, tra cui la teoria dell’emozione di James-Lange; aveva frequentato a Bonn il laboratorio di Külpe ed era persino al corrente degli studi di Giuseppe Sergi.37 Di Bernard Berenson riportava ampi brani, dacché con la sua teoria dei valori tattili era stato tra i primi a legare i processi motori ai fenomeni estetici.38 Nelle sue visite a chiese, musei e gallerie insieme con la fedele collaboratrice, registrava gli effetti sul corpo, in particolare su occhi, muscoli e respirazione, di forme, colori, linee rette e curve, che le servivano ai fini di una nascente impostazione psicologica (e fisiologica) di teoria estetica. Nella tripartizione di un edificio o di una facciata, come quella di Santa Maria Novella progettata dall’Alberti, la percezione della parte mediana, in particolare, impediva al torace di «collassare come di consueto durante l’espirazione»,39 e si poteva arrivare persino a stabilire una corrispondenza tra la frequenza della respirazione e le proporzioni di un edificio. Osservava che, se applicati alle costruzioni, verbi come “elevarsi”, “insinuarsi”, “espandersi”, “estendersi” non si riferiscono alle loro parti materiali, alle pietre, ai mattoni ecc., bensì alle loro forme, che però non agiscono, ma fanno in modo che noi riconosciamo una «presenza di attività» da parte nostra. Le «sensazioni muscolari connesse all’architettura» la inducevano a formulare l’ipotesi che la percezione estetica delle forme visibili dipendesse non da “immagini motorie o idee”, bensì da adattamenti muscolari, interiori o esteriori, quindi da un processo corporeo che, insieme con la sua collaboratrice, aveva definito con il nome conveniente ma per nulla appropriato (disastrous) di “imitazione”,40 un concetto che aveva derivato da uno dei suoi maestri, lo psicologo Karl Groos.
22In un capitolo di “Estetica antropomorfica”, discettando su ciò che volesse significare il “mettersi dentro alle cose”, alle quali attribuiamo modalità di sentimenti e azioni simili ai nostri, la Lee faceva emergere la consonanza tra le sue idee e l’applicazione sul piano estetico del concetto di Einfühlung che, sarebbe stato reso in inglese da Titchener con il termine “empathy”. Ma si trattava di un’idea che apparteneva alla sensibilità dei Romantici e, ancor prima che in Vischer, Lee lo aveva individuato in Lotze e Fechner. Lotze, in particolare, aveva fatto riferimento alle sensazioni con cui trasformiamo le masse inerti di una costruzione negli arti di un corpo vivente. E se quando diciamo di sentirci nella pelle di un nostro simile, è perché gli attribuiamo le sensazioni che proveremmo noi stessi in quelle circostanze, allo stesso modo, quando ammiriamo una colonna dorica, stiamo attribuendo alle sue forme spaziali, alle sue linee e superfici quelle esperienze dinamiche che proveremmo se avessimo posto i nostri corpi in condizioni simili.41 Quando ci mettiamo nei panni di qualcuno o al posto di qualcosa (es. “Mettiti al mio posto!”), ciò che intendiamo per “posto” (place) sono le sensazioni (feelings) caratteristiche di quel posto o di quella situazione, di cui abbiamo avuto esperienza diretta nel nostro passato, e che noi attribuiamo per una qualche ragione a un’altra creatura oltre che a noi stessi.42 Anticipando le osservazioni di Lakoff e Johnson sull’uso di metafore che si rivela molto più frequente, nella vita quotidiana, di quanto noi supponiamo, Vernon Lee osservava a proposito dell’asserzione di Külpe che «una figura è una somma di estensioni», che ciò che è inerte non può estendersi, ma che “estensione” in questo caso è una metafora, che risveglia in noi le memorie dei nostri atti passati di estensione, connessi con le figure spaziali che abbiamo visto, e questa è empatia! Seguendo alcune suggestioni ricavate dall’estetica di Groos, Lee annoverava tra i cambiamenti corporei che accompagnano la percezione delle forme visibili le tensioni muscolari, le sensazioni di direzione (verso l’alto, verso il basso, attraverso, lungo una direzione), le modificazioni nell’apparato dell’equilibrio, le sensazioni alterate della respirazione e della circolazione: tutte condizioni dell’emozione estetica, alla cui formulazione aveva concorso la teoria delle emozioni di James-Lange.
23Lipps aveva goduto del “pericoloso vantaggio” di avere quel termine a disposizione e di poterlo sfruttare, con tutte le ambiguità che si portava dietro. Nondimeno, al di là di alcuni aspetti di disaccordo motivati dal fatto che si sarebbe limitato a esaminare la sola attività psicologica, e non biologica o fisiologica, Lee ne ammirava l’impostazione di un’estetica non metafisica,43 priva di enunciati aprioristici, e scopriva una corrispondenza tra la Einfühlung lippsiana e l’Innere Nachahmung di Groos, un’imitazione interiore, nella quale vi sarebbero tracce non già di idee motorie, bensì di quei movimenti corporei e sensazioni muscolari da lei stessa (e dalla sua collaboratrice) esperiti, provocati dalla visione di linee e piani e, in generale, dalle forme visibili, che sono alla base delle nostre preferenze estetiche.44 Per darne resoconto sperimentale, le due scrittrici e teoriche dell’arte avevano persino approntato un questionario da somministrare a un gruppo di soggetti intervistati, e si erano sottoposte esse stesse a un’auto-osservazione, da cui derivava senza ombra di dubbio la conformità tra le tensioni corporee provate e gli atteggiamenti dinamici di una statua o i movimenti che si potevano cogliere in un monumento rinascimentale o finanche in un calice medievale. La natura di questi processi motori e sensazioni muscolari li faceva accostare a ciò che Lipps aveva descritto con le espressioni di “Einfühlung estetica” o «interpretazione meccanica della forma» nella sua Raumästhetik del 1897, un lavoro nel quale presentava una teoria della dinamica delle forme spaziali: essendo di natura fondamentalmente astratta, geometrica, architettonica, ma attivate da forze e movimento, le forme spaziali diventavano oggetto di un’estetica dello spazio che era “meccanica”, come si poteva notare a proposito della colonna dorica, oggetto di «interpretazione meccanica», in quanto «condizionata da forze meccaniche»: differenziandosi dal pilastro con la rastrematura e le sue tipiche scanalature, nel suo stare eretta non solo rappresentava lo sforzo e la resistenza contro il peso, ma si comportava in modo simile alla postura degli umani, quando stanno ritti e fermi nonostante il peso e l’inerzia naturale del corpo.45
24La riduzione dell’Einfühlung in chiave sensomotoria attuata da Violet Page alias Vernon Lee costituiva uno degli sviluppi, al di fuori dell’area tedesca, del disegno originario di Robert Vischer. Era il 1873 l’anno in cui il filosofo e storico dell’arte tedesco introdusse quel fortunato concetto che sarebbe stato ammantato «dai più reconditi significati», e a proposito del quale si profetizzò che avrebbe cambiato la discussione estetologica a venire ché, muovendo da una base fisiologica, conseguiva un pieno completamento sul piano psicologico.46 Vischer aveva tratto ispirazione dalle idee di Karl Albert Scherner, il quale in un libro dedicato alla “vita dei sogni” (1861) aveva postulato che, nei sogni, il corpo si oggettiva nelle forme spaziali. Così, inconsciamente, il corpo proietterebbe la propria forma in quella dell’oggetto, e di qui Vischer si era servito di quel termine, avvertendo però che «solo in parte» questa nozione poteva spiegare il simbolismo della forma, in quanto si era reso conto che gli effetti della luce e del colore, della linea e dei semplici contorni non potevano essere descritti come empatia.47 Mentre il vedere è un processo sostanzialmente inconsapevole e passivo, che riceve impressioni indifferenziate, il guardare selettivamente (schauen) implica che l’occhio ispezioni, si concentri e non si limiti a registrare: un processo nel quale può contare su quell’«indispensabile Associé e correttore» che è la mano, sensibile e agile.48 Tra i due organi per Vischer vi è un legame intimo e le loro funzioni sono affini: il tatto è un guardare più grossolano a distanza ravvicinata, la vista è un toccare più fine in lontananza, e i due organi non potrebbero stare l’uno senza l’altro: se non vedo mi manca la luce, ma anche il colore e la distanza, ma senza il tatto non conoscerei la forma tangibile. I bambini imparano a vedere toccando, e ciò implica non solo l’attivazione delle funzioni di pelle e nervi, ma anche il movimento muscolare. Il tatto è importante per apprendere a “capire” oggetti lontani, che in termini visuali apparirebbero di scorcio e distorti e, se non fosse per l’esperienza acquisita per mezzo della mano, tutte le parti nel nostro campo visivo piatto ci sembrerebbero equidistanti, mentre al contrario, se lo spingiamo via da noi con la mano, ci rendiamo conto della profondità. Vischer pensava che alla base della sensibilità vi fosse un principio di similarità, che si configurava non tanto nell’armonia tra le parti di un oggetto quanto piuttosto in una relazione armoniosa tra il soggetto e l’oggetto, che si realizza quando la forma armoniosa dell’oggetto corrisponde a quella soggettiva. A questo riguardo, faceva intendere di avere in mente un processo sensomotorio attivo, che riposa su un atto di volontà. Oltre alla correlazione della forma tra oggetto e soggetto, intervengono nel processo anche le forme di movimento, che agiscono con stimoli cinestetici (nascosti o palesi) sull’attività nervo-muscolare. Quindi distingueva le sensazioni immediate (Zuempfindungen), in risposta alle stimolazioni sensoriali, da quelle che vengono dopo, reattive (Nachempfindungen) in risposta agli stimoli motori, che si producono quando le posizioni, direzioni, dimensioni, traiettorie di fenomeni luminosi e di colore possono essere osservati nei movimenti oculari. Tra gli elementi che possono suscitare una risposta empatica, Vischer indicava le impressioni ritmiche della forma e, in generale, tutte le forme che soddisfano un principio di somiglianza con i nostri occhi e con il nostro corpo, che ne rispettano la struttura, vale a dire soprattutto la linea orizzontale (mentre quella verticale potrebbe essere disturbante se percepita isolatamente, in quanto contrastante con la struttura binoculare), la forma circolare omogenea al contorno dell’occhio, quelle simmetriche corrispettive alla simmetria del nostro corpo, mentre quelle irregolari farebbero nascere un senso di «inadempiuta attesa».49
25Anticipando gli esiti della neuroarchitettura contemporanea e delle scoperte sulla sinestesia (un fenomeno che, comunque, nella storia dell’arte e della musica, oltre che della matematica del passato, era già ben documentato), Vischer sottolineava il fatto curioso che uno stimolo visivo potesse essere esperito in una sfera sensoriale completamente diversa, in un’altra parte del corpo: non a caso i “colori squillanti” sono quelli che “stridono” tanto da provocare una sensazione offensiva al nostro nervo acustico, e in una stanza dal soffitto basso «tutto il nostro corpo prova una sensazione di peso e pressione». Indossando occhiali dalle lenti blu, egli avvertiva una sensazione di freddo, sia pure percorrendo una strada assolata. Le pareti di una casa che sono diventate distorte sotto il peso degli anni mettono a rischio il nostro senso di stabilità fisica, e la percezione dei limiti esteriori di una forma si può combinare «in maniera oscura» alla sensazione dei miei limiti fisici, che sento sulla mia pelle.
I movimenti muscolari degli occhi (o della testa) provocano stimoli di movimento anche in altri organi, specialmente in quelli tattili […] Tutto il corpo è coinvolto; è toccato l’intero essere fisico, poiché nel corpo non esiste (strettamente parlando) alcun processo di localizzazione. Così ogni sensazione empatica in definitiva conduce a un rafforzamento o a un indebolimento della sensazione vitale generale.50
26Quando si osserva un oggetto stazionario, è possibile proiettare se stessi nella sua struttura più intima, nel suo centro di gravità, mediare la sua dimensione con la propria, allungarsi o espandersi, incurvarsi o confinarsi all’interno. Nel caso di un oggetto o di un fenomeno piccolo, il mio sentire sarà concentrato, compresso, modesto; se vedo una forma ampia o addirittura sproporzionata, mi si allargheranno la mente, il respiro, proverò una libertà di volere, un sentire espansivo (Ausfühlung). Non a caso, Vischer riferiva queste sensazioni a quelle provate di fronte a un edificio, all’acqua, all’aria, ma anche a un mantello sciolto. L’impressione di un fenomeno che risulti compressa o tendente verso l’alto, ripiegata o spezzata ci riempirà di un senso di oppressione, depressione o aspirazione o di un tono psichico d’umore sottomesso, mite o lacerato.51
27Oggi, sulla base della teoria dei neuroni specchio, più che di “empatia”, i neuroscienziati si servono del concetto di “simulazione incarnata” anche sul piano dell’esperienza estetica e dell’interpretazione dell’arte. Ma già Vischer aveva prefigurato uno sviluppo in questa direzione, quando asseriva che non sempre e non necessariamente uno stimolo potesse portare a un movimento reale, ma a un’idea sì, e l’immaginazione è l’atto mentale con cui affrontiamo e segniamo «in una forma chiaramente sensuale» qualcosa che precedentemente era «un oscuro contenuto di sensazione». Per quanto sia quelle immediate sia quelle reattive-motorie restino all’esterno, le sensazioni potrebbero però penetrare in profondità e dare origine alle sensazioni empatiche nell’immaginazione, che è un mezzo fluido, ibrido, nel quale la confusione, la contraddizione, l’irrazionalità del mondo e della natura si fondono in un “tutto misterioso”. Con la sua concezione della relazione armoniosa tra soggetto e oggetto, Vischer poneva un primo tassello di una visione più ampia, che proiettava quella relazione in un rapporto tra “soggetto e soggetto”, estendendola finanche alla comunità di individui che ci sostengono, simpatizzano con noi, con le situazioni della nostra vita o, all’opposto, agiscono contro di noi, in maniera insensibile e astiosa. Come si può proiettare la propria vita in un oggetto, in una forma priva di vita, a maggior ragione è possibile farlo anche nei riguardi dell’altro, di un altro vivente, verso il quale l’empatia agisce come uno sdoppiamento dell’io.
28Vischer si proponeva di chiarire che cosa facesse nell’oggetto la nostra “volontà di immaginazione” (Phantasiewille). Essa si basa sull’imitazione, da non intendersi mera scimmiottatura, bensì una sorta di mediazione tra il soggetto e l’oggetto, come mostrano la musica e il linguaggio che, in origine, poggiavano sull’espressione imitativa di un’impressione. Questo aspetto è particolarmente evidente nella nostra gestualità, che è una riproduzione arbitraria delle nostre impressioni, come traspare dai casi in cui per indicare qualcosa di srotolato o di magnifico allarghiamo le braccia; per indicare qualcosa di grandioso e maestoso, le alziamo, e, quando si tratta di qualcosa di incerto e dubbioso, scuotiamo testa e mani: «le nostre oscillazioni e la lotta interiore si esprimono esternamente in contrazioni analoghe dei nostri muscoli e dei nostri arti». «Mezzo più nobile dell’istinto pratico»,52 la mano è come se fosse attratta “magneticamente” in movimenti tali che offrono al destinatario una descrizione approssimativa di ciò viene presentato, ed è naturale che, disegnando nell’aria, essa voglia imprimere la sua immagine su un oggetto, che resterà come rappresentazione permanente in una produzione artistica, frutto dell’unificazione nell’artista della forza spirituale con quella sensuale. Come essere empatico, anche l’artista «lavora dall’esterno verso l’interno»,53 un interno che può essere un contenuto da rappresentare, ma anche l’immaginazione dello spettatore. Vischer distingueva tra un lavoro ottuso, di routine, delle mani, una formazione meccanica senz’anima, e quello tecnico dell’artista, che non deve essere svilito come semplice artigianato. Riteneva che «un’immediata empatia spirituale» si generasse di fronte alla raffigurazione delle forme organiche – un comportamento definito come «simbolismo della forma armoniosa»54 – e riconosceva la difficoltà di raffigurare nelle arti visive scene movimentate e conflitti dinamici di forze, che sono lo scopo della poesia.
29Vischer aveva formulato la tesi di un sentire empatico che accomuna spettatore e artista, movendo da varie suggestioni. Oltre a seguire le tracce paterne di un’estetica intesa come “scienza del bello”,55 aveva potuto contare su conoscenze scientifiche, fisiologiche, principalmente quelle relative alla vista e ai movimenti oculari ricavate dalle lezioni wundtiane «sull’anima umana e animale» (1863) e dalla psicologia empirica «come scienza induttiva» (1868) dell’herbartiano Gustav Adolf Lindner. In questo manuale, che ebbe una larga diffusione nella cultura austriaca, il pensiero di Herbart veniva irrobustito dalla psicofisica di Weber-Fechner,56 e di qui Vischer avrebbe tratto le idee sulla stretta relazione tra tatto e vista, che sono complementari nella visione a distanza ravvicinata e lontana.
30Compiendo un salto di oltre un secolo, come si è visto, quell’interazione tra tatto e vista è diventata oggetto di indagine neuroestetica, con ricadute interessanti nell’ambito della percezione delle arti visive. Se, come sembrano dimostrare gli esperimenti condotti con la stimolazione magnetica transcranica, si registrano attivazioni nelle aree corticali di mani e piedi in soggetti che guardano su uno schermo altre persone punzecchiate alle mani e ai piedi, lo stesso fenomeno può risultare nelle aree corticali di chi sta contemplando un dipinto – che si trovi al Louvre o agli Uffizi – col martirio di san Sebastiano. Le aree corticali corrispondenti ai punti trafitti dalle frecce farebbero registrare un’attivazione, come se il soggetto provasse una sofferenza pari a quella vissuta dal martire. E che dire quando vediamo, come avviene nel film “Licenza di uccidere”, una tarantola che striscia sul petto e sul braccio di James Bond, anche se immaginiamo che vi sia un qualche trucco (forse frapposta una lastra di vetro)? Che vi sia un’“empatia tattile” e che la simulazione incarnata non si limiti alla sola visione si è dimostrato con l’esperimento sul rispecchiamento visuo-tattile: «Più di cinquant’anni di ricerca hanno mostrato che i neuroni motori rispondono anche agli stimoli, visivi, tattili e uditivi» e che gli oggetti manipolabili intorno a noi sono classificati dal cervello come «obiettivi potenziali delle interazioni che potremmo stabilire con loro».57 Gallese in più luoghi ha sottolineato che, pur venendo innescato dalla nostra interazione con altri, il meccanismo della simulazione incarnata si attiva anche nei riguardi della spazialità e quando si contemplano oggetti o opere d’arte, ché inconsciamente si imita il gesto che ha prodotto l’opera: avrebbe luogo una simulazione motoria del gesto della mano dell’artista, e questo vale sia che si tratti di un dipinto a olio sia che l’opera d’arte consista in un taglio sulla tela “alla Fontana”.
I corpi e l’architettura
31L’etichetta di “fragilità” che Pallasmaa ha attribuito alla propria concezione di architettura, un’architettura che non sia connotata da un’immagine di potere e di forte impatto, non deve però trarre in inganno. Pallasmaa ha dichiarato di aver preso spunto dal pensiero debole di Gianni Vattimo, ma di aver preferito “fragile” al fine di evitare il senso negativo che il concetto di “debole” porta con sé. Un’altra espressione che si confà alla sua visione di architettura è quella di zarte Empirie di derivazione goethiana, cioè il richiamo a un empirismo delicato, che si identifica «intimamente con l’oggetto», che scopre l’universale e lo “ritrasforma” nel particolare, rendendolo evidente «come proprietà concreta sensibile degli oggetti stessi» e, cogliendo dettagli, ci fa capire che il cielo è ovunque azzurro, anche senza dover fare il giro del mondo.58 Ma, a ben vedere, la sua idea è quella di un’architettura tutt’altro che fragile, perché fondata sull’esperienza multisensoriale delle qualità di “materia, spazio e scala”, su come vengono “misurate” da occhio, naso, lingua, pelle, scheletro e muscoli, tant’è vero che egli rimprovera a gran parte dell’architettura moderna la perdita della “materialità”, che va di pari passo con la perdita dell’esperienza temporale, e le contrappone l’architettura di Alvar Aalto, caratterizzata da un costante coinvolgimento multisensoriale e dalla sensibilità tattile.59
32Che l’architettura esprima come il «mondo ci tocca» e come noi lo tocchiamo – e lo tocchiamo anche con gli occhi, occhi che sentono – è un’idea che l’architetto ha in comune con l’artista della luce James Turrell,60 ma che ha radici ben più lontane, in filosofia. Pallasmaa le aveva scoperte nel pensiero di Merleau-Ponty, il nome del quale, ancor più di quelli di Husserl e Heidegger, compare tra le fonti degli architetti che hanno elaborato le proprie concezioni, ricavando idee dal connubio tra filosofia e neuroscienze. E sì che Husserl aveva tracciato la via, specialmente in Ideen II, laddove era intervenuto sui processi cinestesici, con riflessioni sulla mano e sulle dita, che hanno un ruolo fondamentale nella costituzione del Leib:
Noi abbiamo due mani, l’intera superficie del corpo vivo serve da superficie tattile, l’intero corpo vivo è un sistema di organi del tatto.61
33Husserl riconosceva che nei casi in cui la vista non dà una percezione nitida, mentre il tatto ne offre una più chiara e netta, il secondo prevale sulla prima, ma potrebbe accadere anche il contrario, e che «de facto spesso un senso offre più dell’altro». Siccome forma, dimensione e movimento sono oggetto di percezione di entrambi i sensi, l’uno può correggere gli errori dell’altro. Ma, in ogni caso, come avrebbe commentato Derrida, il carattere riflessivo del tatto circa il corpo proprio vivente, che si concretava nella mano (più che nelle labbra, nella lingua, negli orifizi) ne sanciva il “privilegio” rispetto alla vista, all’udito ecc.
34Al di là del ruolo che il tatto assumeva per Husserl nella conoscenza del mondo esterno e specialmente nei confronti dei corpi solidi, quindi su un piano gnoseologico, e non soltanto ontologico,62 era questo riferimento al soggetto e agli atti soggettivi l’aspetto che avrebbe potuto catturare l’interesse dei teorici dell’architettura, considerando l’ulteriore richiamo esercitato dagli aspetti qualitativi dell’esperienza architettonica. Questo slittamento non era una novità, specialmente in filosofia, dove era avvenuto con i successori di Husserl, i quali non avevano mancato l’occasione di appropriarsi della tattilità per analizzare in tutte le possibili pieghe e sfaccettature l’esperienza fenomenologica, mettendo in evidenza che quell’esperienza è data dalla possibilità di toccare. Husserl infatti aveva ascritto alla mano e al toccarsi reciproco delle mani delle sensazioni non attribuibili ad altre manifestazioni sensoriali, ché si tratta di sensazioni duplici, «un processo raddoppiato nelle due parti del corpo, perché ciascuna di esse è per l’altra una cosa esterna che la tocca, che agisce su di essa, ed è insieme un corpo vivo (Leib)». E lo stesso non avviene «nel caso dell’oggetto che si costituisce in modo puramente visivo», mettendo in rilievo «subito la differenza con l’occhio che, guardando l’oggetto, pure lo palpa».63
35Toccare non è solo della mano, è anche possibile con un dito, un dito – come osserverà Derrida – che non è ostensivamente orientato verso l’esterno, ma rivolto al proprio corpo, ragion per cui il tatto stabilisce col Sé un rapporto («sento dal di dentro, toccante e toccato») che nessun altro senso esprime, nemmeno l’occhio che guarda rispetto alla mano che palpa, poiché rispetto alla vista il tatto ha “quella” marcia in più: l’occhio non si vede immediatamente da sé, se non per mediazione dello specchio, una mediazione subito scartata, perché lo specchio mi lascerebbe percepire come l’occhio è visto, ma «come vede nell’atto di vedere», mentre il dito si sente toccato o dalle altre dita o dall’oggetto che tocca, toccante e toccato.
Naturalmente non si dirà: vedo il mio occhio nello specchio, perché io non percepisco il mio occhio, il qualcosa che vede in quanto tale; io vedo qualcosa di cui giudico indirettamente attraverso l’“entropatia” (Einfühlung), qualcosa di identico con la mia cosa occhio (che per esempio si costituisce attraverso il tatto), così come vedo l’occhio di un altro.64
36Dunque, oltre che dalla sua capacità di esplorare il mondo esterno, la funzione privilegiata del tatto deriva dal suo “esercizio” verso il corpo stesso: il corpo proprio vivente ha la capacità di godere di una duplice serie di sensazioni, toccandosi: quelle che provengono dalla superficie toccata, somiglianti alle sensazioni che si ricevono da un qualsiasi corpo materiale, solido, e quelle cinestesiche, proprie della mano che tocca, e quindi del Leib.
37Sorvolata la fonte diretta husserliana, le idee più attrattive e sfruttate in architettura sono state quelle di Merleau-Ponty, nel periodo della recezione francese di Husserl e Heidegger (al di là delle “infedeltà” che gli sono state da più parti addebitate nei confronti del verbo husserliano). Esula dai limiti del presente lavoro stabilire fino a che punto Merleau-Ponty sia stato un discepolo assiduo e fidato dei filosofi tedeschi, e se li avesse interpretati correttamente. Così come non rientra tra gli obiettivi della presente disamina ripercorrere la storia del “toccante e toccato” e della duplicità della sensazione in riferimento ai movimenti della mano destra verso la sinistra e viceversa, che sono oggetto di un’inesauribile letteratura fenomenologica. Al di là della prevedibile influenza che le osservazioni sulla mano, sulla prensione e, in generale, sulla tattilità potevano avere nel campo dell’architettura, è stato soprattutto il concetto di “corporeità” ad attecchire. Da questo angolo visuale, comprensibilmente, l’interesse si è appuntato non tanto sulla relazione che il corpo intrattiene con se stesso, attraverso le mani, nel toccarsi, quanto piuttosto sul rapporto “vitale”, esterno, con il mondo, un rapporto nel quale l’intero corpo è organo di percezione. A proposito del corpo inteso come schema unitario e globale, Merleau-Ponty aveva rimarcato che tutto il «sentire è sparso» in esso, mentre sarebbe assurdo concepire il tatto come «una colonia di esperienze tattili riunite».65 Per quanto il corpo venisse da lui inteso come un “unico” organo totale prettamente tattile, al tempo stesso già nella Fenomenologia della percezione il filosofo aveva chiarito che le percezioni tattili sono immediatamente tradotte nel «linguaggio di altri organi», e che il corpo va incontro al mondo (e all’esperienza tattile) con tutti i suoi organi, una totalità rivolta al mondo, cui lo schema corporeo partecipa in virtù della sua motricità.66
38Anche se la mano restava «figura esemplare del corpo nella sua globalità»,67 e la totalità del corpo era organizzata a partire dalla mano in un “insieme sinergico”, l’attenzione di Pallasmaa si è focalizzata soprattutto sulla correlazione tra corpo e mondo, come questa veniva descritta nei termini di una simultaneità dell’esperienza sensoriale. Merleau-Ponty era stato esplicito a sostenere che «la mia percezione non è dunque una somma di dati visivi, tattili e uditivi», ma che si percepisce in un modo totale (indivise) con la totalità del proprio essere: un afferrare la struttura unica delle cose, un modo unico di esistere, che parla a tutti i sensi contemporaneamente.68 Uno dei meriti che aveva attribuito a Cézanne era di non aver voluto “suggerire” col colore le sensazioni tattili che darebbero forma e profondità, ché «nella percezione primordiale tali distinzioni tra il tatto e la vista sono ignote. È la scienza del corpo umano che ci insegna a distinguere i nostri sensi». Nel “Tutto indivisibile”, secondo Cézanne, noi vediamo persino gli odori, così come si vedono “il vellutato, la durezza e la mollezza” degli oggetti.69
39Nel corso della riflessione filosofica, il corpo era andato assumendo per Merleau-Ponty un ruolo sempre più essenziale per la comprensione del mondo, con cui esso non rivaleggia, poiché al contrario esso è l’unico mezzo «per andare al cuore delle cose, facendomi mondo e facendole carne». Questo avveniva grazie a una ramificazione del “mio” corpo e del mondo, in una corrispondenza tra la mia interiorità e il suo essere esterno, e tra il mio esterno e il suo interno. Tra il corpo e il mondo non esiste perciò alcun limite, ma vi è un intreccio, un inserimento reciproco, dacché il mondo è carne.70 Corpo e mondo sono della stessa stoffa, carne applicata a una carne, sebbene la carne sia non materia o sostanza, bensì un elemento dell’Essere, che ha la proprietà di irradiarsi ovunque. Merleau-Ponty non vedeva alcuna contraddizione nei due lati, i due “fogli”, del corpo, che sono il suo essere come corpo sensibile e corpo senziente, oggettivo e fenomenico, cosa fra le cose, ma anche cosa che vede le cose e le tocca, esso stesso visibile e tangibile.71 Come vi è una circolarità tra il toccato e il toccante, tra il vedente e il visibile, vi è un’“inscrizione” del toccante nel visibile e del vedente nel tangibile72 e la propagazione di questi scambi, oltre a far comunicare gli organi all’interno del corpo, permette la transitività da un corpo all’altro.
40È difficile non vedere in questa ontologia della carne, e più specificatamente nell’immagine della carne come “avvolgimento” del visibile sul corpo vedente, del tangibile sul toccante, chiasma perfetto di visibile e invisibile, un germe primordiale di quella pelle avvolgente il nostro corpo, rivestimento epidermico che per Pallasmaa è organo primario e fondamento della sensibilità. Si è visto che le mani e il toccare, intenzionale o no, sono oggetto di una ricerca scientifica che verte su un tema centrale in tutta la discussione fenomenologica che si è costruita sul toccare e sul toccarsi. Per Merleau-Ponty, però, affinché entrambe possano “sboccare” nel mondo, non bastava che le mani fossero ricondotte a una sola coscienza, ma occorreva che appartenessero a un medesimo corpo: un unico organo di esperienza, intercorrendo tra le mani la stessa relazione che esiste tra gli occhi, attraverso lo spazio corporeo.
41L’influenza della filosofia continentale non si è limitata al ramo francese del filone fenomenologico. Anche Heidegger reclamava la sua parte. Già alla fine del secolo scorso, Jeff Malpas, lo studioso australiano che ha legato il suo nome quasi esclusivamente alla disamina del concetto di “luogo”, con particolare riguardo all’interpretazione del rapporto spazio-temporale in Heidegger, aveva rilevato che non si era affievolito l’influsso del filosofo negli ambiti più diversificati, nei quali veniva ripresa e argomentata la relazione che poteva essere stabilita tra “l’essere-nel-mondo” e la triade formata da “spazialità, luogo, incarnamento”. Non ultima, tra i vari campi in cui il pensiero di Heidegger aveva attecchito, era proprio la teoria dell’architettura, un terreno a proposito del quale, più di un commentatore ha fatto risalire agli anni Settanta e Ottanta l’impatto heideggeriano (e, più in generale, del pensiero tedesco, comprensivo di Nietzsche e Schopenhauer). A tal fine, si sono portate come esempio le opere del filosofo tedesco Karsten Harries, che aveva dedicato un saggio alla funzione “etica” (e politica) dell’architettura,73 e dei teorici Kenneth Frampton, sostenitore di una poetica della spazialità “tattile e visiva”, “tettonica e scenografica”,74 e Christian Norberg-Schulz (quest’ultimo egli stesso architetto). A monte delle loro concezioni di spazio architettonico era innegabilmente il concetto di “abitare”, che Heidegger aveva esposto nel celebre saggio del 1951,75 e che ora, a fine secolo e in piena età tecnologica, tornava più che mai utile e significativo. Le idee del filosofo alimentavano infatti una visione “nostalgica” del rapporto tra l’uomo e i luoghi, dove per “luogo” non si doveva intendere soltanto lo spazio tra cielo e terra, bensì il contesto del paesaggio e le costruzioni, i luoghi insomma dove l’uomo abita, ché quella era l’idea di Heidegger, quando asseriva che “uomo” si riferisce a quell’ente che «è nel modo dell’uomo, cioè che abita».76 Il filosofo aveva posto l’accento sul modo in cui soggiorniamo «presso luoghi e cose», dove percorriamo gli spazi, “stiamo” in essi, li abbracciamo e li occupiamo. Perciò diventava illuminante la considerazione degli edifici, che imprimono il loro segno sull’abitare e «danno ricetto» all’essenza dell’abitare, che per Heidegger si configurava nel prendersi cura dell’unità originaria della Quadratura tra terra, cielo, divini e mortali, quindi «salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali».77 Questo era lo scenario che stimolava Harries ad aver fiducia nella filosofia, un sapere che poteva salvare l’architettura dalla minaccia della tecnologia, colpevole della “perdita del luogo” e di trasformare il paesaggio in un technoscape.78
42A questo punto, per amore di completezza, non è possibile sorvolare su un’ulteriore fioritura, non meno intensa e fortunata, di quell’eredità che Husserl e Heidegger avevano trasmesso nella cultura francese di metà Novecento. Questo filone, che ha avuto non poche ricadute anche in Italia, si è sviluppato in ambito teoretico e in ontologia estetica, con una serie di contributi, la cui disamina oltrepassa i confini della presente ricerca, ma che meritano più di un cenno. Uno di questi lavori è Corpus, un testo che già fin dal titolo, secondo Derrida, dava “da toccare” l’intraducibile.79 Con Heidegger, il filosofo strasburghese Jean-Luc Nancy aveva condiviso l’insoddisfazione circa il trattamento che il “corpo” subisce nell’ambito delle scienze naturali, e aveva espresso il personale disagio in una serie di saggi dedicati al corpo e alle sue parti, avviata con Ego Sum del 1979 (dove l’obiettivo polemico era soprattutto Cartesio, colpevole di aver spazializzato lo spirito nella ghiandola pineale) e con Être singulier plurel del 1996, nel quale già facevano capolino quelle che Derrida avrebbe definito «le ingiunzioni del tatto». In Corpus Nancy ci teneva a precisare che i corpi che aveva in mente non erano quei «sottoprodotti della teoria della conoscenza» come le sensazioni, la percezione o la cenestesi: «tutti residui gravosi della ‘rappresentazione’ e della ‘significazione’», e aggiungeva che, tra loro, i sensi non si toccano, sono «ciascuno per conto suo» tali che il godere è frammentato in tutti i sensi che non comunicano tra loro.80 Nancy prendeva posizione circa il modo in cui la tradizione occidentale e la religione avevano sacrificato il corpo, sottomettendolo allo spirito e riducendolo a “prigione dell’anima”. Hoc est enim corpus meum: con questa asserzione il mondo occidentale si era appropriato del corpo, un’appropriazione impossibile, dacché per Nancy noi non possediamo un corpo: lo siamo, dal momento che non c’è altra evidenza se non quella del corpo, che non è proprietà di un io, di una coscienza, ma semmai si potrà dire: questo corpo sono io.81
43La sua era un’ontologia del corpo, es-crizione dell’essere,82 e il corpo ontologico «è dove il pensiero tocca l’esteriorità», un “toccare” che è come un’apostrofe, che non è un begreifen, bensì un «rivolgersi a qualcosa che si allontana». Per Nancy non aveva senso parlare separatamente di corpo e pensiero, ché essi non sono che il toccarsi reciprocamente, un contatto che è il limite, lo spaziamento dell’esistenza.83 Laddove non restava che il pensiero nudo – una s-vestizione – il tatto manteneva un ruolo primario, e proprio da lì, dal toccare, aveva inizio la pratica decostruttiva del filosofo, il quale nei suoi esperimenti linguistici con giochi di parole aveva introdotto il neologismo ex-peau-sition, facendo leva su pelle (peau in francese) per dare l’idea di un pensiero (tra le altre cose: un pensiero pesante, un pensiero del toccare: «tutta la gravità, il peso del pensare»), che si presenta attraverso la pelle.84 Nel toccare, per Nancy, si riassume il contrasto tra la psiche e il corpo, ché della prima si può dire che sia estesa e tangibile (è estesa, ma non sa niente, è corpo), ma non nel senso ordinario del toccare, un «toccare che non è toccare». L’interpretazione del Dasein in termini di una corporeità caratterizzata da voci, gesti, comportamenti ecc., ma altresì aperta alla comunità, costituita da corpi non come unità, ma come singolarità che toccano e sono toccate, in contatto tra loro – realizzazione del corpo tramite il corpo dell’altro:85 «questo tratto, questa zona, questo corpo mi tocca (tocca il “mio” corpo)» – consentiva a Nancy di rivolgersi alle questioni sociali e politiche che gli stavano a cuore, non ultima quella di un’altra indebita appropriazione del corpo, questa volta da parte della tecnica. Difatti il mondo è un mondo di corpi, ma anche mondo della tecnica, di un’ecotecnica, che collega i corpi in tutti i modi in una connessione areale, infetta, e li crea come corpi di fabbrica, partes extra partes, corpi mercanteggiati dal capitale, trasportati, rimpiazzati ecc. Al tempo stesso, nonostante l’indubbia influenza che la fenomenologia e Merleau-Ponty dovettero esercitare su di lui, Nancy asseriva che il corpo non è sostanza, non è carne, i corpi non sono “grovigli della carne”, e ne prendeva le distanze, probabilmente perché il rimando a questo concetto aveva pur sempre come riferimento il quadro della civiltà occidentale.86
44La stima verso questo filosofo malato e sofferente, che in un’altra opera (L’intrus, del 1999) non si era risparmiato dal condividere i personali sentimenti suscitati dagli esiti dell’operazione chirurgica di trapianto cardiaco cui si era sottoposto (anche qui: la mano e il tatto, e per di più, a ingarbugliare le cose, la tèchne e il cuore di un estraneo), è stata occasione per dar luogo a una china non meno scivolosa, che si è conclusa nel mirabolante testo dedicato al binomio “toccare-Nancy” dove, tra molte esplorazioni e altrettante digressioni, Derrida finiva per ricostruire la storia filosofica del tatto, da Aristotele al Novecento. Ma il punto focale restava il Corpus di Nancy, sul quale, profetizzava Derrida, intere generazioni di filosofi si sarebbero riversate come su una tavola d’anatomia. Trattandosi del senso più superficiale («il toccare, non bisogna toccarlo») e considerando le infinite questioni sollevate da Nancy, che si congiungevano alle idee di Aristotele, che per primo ne aveva svelato le aporie, Derrida confessava che la scelta di quel filo conduttore non aveva mai cessato di essere inquietante per lui, il che era ancor più occasione per dare sfogo alle sue pirotecniche decostruzioni. Il tatto è solo uno o più sensi? Ha un sensorio? È forse la carne, o è qualcosa di più interno, di cui la carne è solo il mezzo, come era per Aristotele? Gusto e tatto percepiscono le cose tramite contatto, gli altri sensi no, a distanza. Non solo, ma ogni senso ha il proprio sensibile; il tatto no, avendo per oggetto svariate qualità. Il corpus come lo aveva concepito Nancy e il toccare di cui elencava la lista dei verbi che lo connotano (il “Corpus del tatto”), includeva anche vista e udito (guardare, ascoltare), come comprendeva gustare e annusare. Ma figuravano anche azioni come lasciare e scansare, che implicano l’idea del venir meno di un contatto.87 Per finire e intorbidare ancor più le acque, faceva la sua comparsa il concetto di “limite”, al quale Nancy aveva rinviato in più luoghi della sua argomentazione. Come si fa a toccare un limite, se questo è per definizione privo di corpo, astratto, e si toccano semmai pelle e pellicole, superfici, linee che si offrono al contatto nei loro bordi? Sono questi il limite, quello che ci fa passare dalla vista al tatto? Eppure (anche comunemente) si dice “Hai toccato il limite!”, ma «[q]ui non si tocca che per figura». Si tocca allora l’intoccabile?
45In uno stile pre-fenomenologico il “meraviglioso, irrecusabile”88 Berkeley aveva avuto il merito di far capire come, nella percezione, saltiamo di continuo dalla vista al tatto, e se pure la cosa è la stessa, l’oggetto che vediamo non è la stessa cosa dell’oggetto che tocchiamo. Così si arrivava a dimostrare che il tatto è il più irriducibile tra i sensi, e tra le due fenomenologie della percezione, il primato spetta a quella del tatto, tanto più che persino nel processo della visione vi sono meccanismi fisici di natura esclusivamente tangibile, che riguardano la retina, il cristallino, l’azione dei raggi luminosi ecc. Il privilegio dell’aptica sull’ottica, che per Berkeley godeva del fondamento di Dio, era quello che aveva teorizzato anche Riegl, quando faceva notare che, dove la visione è vicina, lo spazio non è visivo e l’occhio stesso ha una visione aptica e non visiva. Il significato di “aptico” era determinato dal valore di prossimità, dal vettore della presenza vicina, che facevano sì che quel concetto ricoprisse «tutti i sensi di una prossimità», e aptico era migliore di tattile, non opponendo i due sensi, ma lasciando supporre che l’occhio abbia anche una funzione non visiva.89
46Derrida riconosceva che concetti di per sé già difficili da decodificare quali corpo e tatto, lo diventavano ancora di più «nella chiusa domesticità occidentale», erede della dicotomia Leib/Körper, cui si era aggiunto il terzo incomodo del body della letteratura anglo-americana. Per non parlare di chair! Eppure, i suoi scheletri nell’armadio, con cui si tormentava a fare i conti, restavano i fenomenologi: Husserl e Merleau-Ponty, con le loro ossessioni della mano e dell’occhio, e con il prevalere della prima sul secondo. Ma ancor più persistente si rivelava l’influenza di Maine de Biran, che al tatto – attivo e passivo –, e non solo alla mano, ma ai muscoli e finanche alla bocca e al naso, organi del tatto in parecchie specie di animali,90 aveva dispensato gran parte delle sue riflessioni su come l’abitudine possa influire sul pensiero, perché era sicuro che il tatto fosse il più mobile e vivace tra i vari sensi, quello che più ci insegna e che insegna a tutti gli altri.
Notes de bas de page
1R. Arnheim, The Power of the Centre (1982), tr. it. di R. Pedio, Il potere del centro. Psicologia della composizione nelle arti visive, Einaudi, Torino 1984, p. 62.
2E.H. Gombrich, Standards of Truth: The Arrested Image and the Moving Eye (1976; 1980), Criteri di verità: l’immagine ferma e l’occhio in movimento, tr. it. di A. Cane, in L’immagine e l’occhio. Altri studi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Einaudi, Torino 1985, pp. 289-328, pp. 305-306.
3Cfr. Gombrich, il capitolo 9, “L’analisi della visione nell’arte”, sez. xiii, di Arte e illusione.
4Non a caso tra le opere più rappresentative di Arnheim vi è proprio Visual Thinking (1972), tr. it. di R. Pedio, Il pensiero visivo, Einaudi, Torino 1974.
5J. Pallasmaa, The Eyes of the Skin. Architecture and the Senses (2005), tr. it. di C. Lombardo, Gli occhi della pelle. L’architettura e i sensi, Jaca Book, Milano 2007, p. 47. Sull’impronta tattile del Barocco, Pallasmaa riportava un giudizio dello storico americano Martin Jay, il quale tra l’altro, a proposito della sensibilità barocca, aveva osservato che «il corpo torna a detronizzare lo sguardo disinteressato del disincarnato spettatore cartesiano» (Scopic Regimes of Modernity, in Vision and Visuality, a cura di H. Foster, Bay Press, Seattle 1988, pp. 3-23, p. 18).
6Pallasmaa, Gli occhi della pelle cit., p. 13.
7J. Pallasmaa, Space, Place and Atmosphere. Emotion and Peripheral Perception in Architectural Experience, “Lebenswelt”, 4(1), 2014, pp. 230-245, p. 243. In Occhi della pelle: «la visione periferica ci involge nelle fibre del mondo» (p. 13). Su questo refrain si veda anche Id., Hapticity and Time: Notes on Fragile Architecture, “The Architectural Review”, 207, 2000, pp. 78-84, passim e Touching the World. Vision, Hearing, Hapticity and Atmospheric Perception, “Invisible Places”, 2017, pp. 15-28
8E.T. Hall, The Silent Language (1959), tr. it. di G. Celati, Il linguaggio silenzioso, Bompiani, Milano 1969; Id., The Hidden Dimension (1966), tr. it. di M. Bonfantini, La dimensione nascosta, Bompiani Milano 1968.
9M. Johnson, The Meaning of the Body: Aesthetics of Human Understanding, Chicago University Press, Chicago 2007, p. ix. Anche secondo il già citato Harry Mallgrave, ai linguisti e cognitivisti Lakoff e Johnson spetta il merito di aver dimostrato che, oltre a essere riflessioni sulla realtà esterna, i concetti umani «sono formati in modo essenziale dai nostri corpi e cervelli, specialmente dal nostro sistema sensori-motorio». H.F. Mallgrave, Should Architects Care about Neuroscience? In Architecture and Neuroscience, a cura di P. Tidwell, Tapio Wirkkala-Rut Bryk Foundation, Espoo 2013, pp. 23-42, p. 30. Lakoff e Johnson avevano introdotto il binomio “corporeità e incarnamento” già in Philosophy in the Flesh. Embodied Mind and the Challenge to Western Thought, Basic Books, New York 1999.
10I. McGilchrist, The Master and his Emissary: The Divided Brain and the Making of the Western World (2009), tr. it. di E. Gallitelli, Il padrone e il suo emissario: I due emisferi del cervello e la formazione dell’Occidente, UTET, Torino 2022.
11A. Montagu, Touching. The Human Significance of the Skin, Harper, New York 19782, p. 1 e p. 7.
12Ivi, p. 10.
13J. Pallasmaa, Matter, Hapticity and Time. Material Imagination and the Voice of Matter, “Building Material”, 20, 2016, pp. 171-189, p. 176. Sul significato e sul fascino dei paesaggi con le rovine, non solo esemplato nella pittura del Settecento, la tradizione è lunga e ne era testimone George Simmel in Die Ruine (1907) tr. it. a cura di M. Sassitelli, Le rovine, in Saggi sul paesaggio, Armando, Roma, 2006, pp. 70-81. Su questo tema nel contesto dell’architettura fenomenologica, cfr. G. Pareti, Il tatto e la profondità perturbante, “GUD”, “Sinapsi/Synapse”, 7, 2023, pp. 43-49.
14A. Schmarsow, Das Wesen der architektonischen Schöpfung (1894) tr. ingl. The Essence of Architectural Creation, in Empathy, Form, and Space. Problems in the German Aesthetics 1873-1893, a cura di H.F. Mallgrave e E. Ikonomou, Getty Center for the History of Art and the Humanities, Santa Monica (CA) 1994, pp. 281-297, p. 286.
15Ivi, pp. 290-291.
16S.E. Rasmussen, Experiencing Architecture, The M.I.T. Press, Cambridge (MA), 19622, p. 33.
17Pallasmaa, Gli occhi della pelle cit., p. 71 e cfr. Id., Design for Sensory Reality: From Visuality to Existential Experience, “Architectural Design. The Identity of Architect: Culture and Communication”, 89(6), 2019, pp. 22-27, p. 25.
18R.M. Rilke, Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge (1910), tr. it. di G. Zampa, Quaderni di Malte Laurids Brigge Adelphi, Milano 1992, p. 40.
19Cfr. J. Ruskin, Complete Works, a cura di E.T. Cook e A. Wedderburn, vol. X, Allen, London 1904, pp. XXVI e XXVII. Cfr. A. Stokes, Smooth and Rough (1951), in The Critical Writings, vol. II, 1937-1858, Latimer, Plymouth 1978, pp. 213-266, nota 2, p. 316.
20Sul “gusto” per i marmi di Ruskin e Stokes, si veda S. Kite, Building Ruskin’s Italy: Watching Architecture, Ashgate, Burlington 2017, pp. 180-182.
21Pallasmaa, Design for Sensory Reality cit., p. 25.
22Oggi la riproduzione del suono in una stanza è più chiara e precisa. I toni lunghi delle chiese (dovuti alla ricircolazione del suono e dalle risonanze delle armoniche) sono riprodotti in modo più soddisfacente dai nuovi metodi di riproduzione digitale ad altissima frequenza di campionamento, magari mescolata a registrazioni magnetiche. Ma quel senso di sospensione del suono che danno i grandi spazi chiusi delle chiese può venir restituito soprattutto da un sistema di casse acustiche, con dinamiche spettacolari, poste ad angolo molto preciso in una stanza ben isolata acusticamente. Attualmente, alcuni metodi di riproduzione analogico-digitali consentono una raffinatissima generazione di suoni, al punto di simulare i timbri degli strumenti. Permane invece ancora qualcosa che ha l’impronta dell’irriproducibile: esistono organi con canne a 4 Hz, che emettono suoni inudibili, ma che hanno la caratteristica di attivare il ganglio celiaco, inducendo nell’ascoltatore un senso di tranquillità, facilitando la meditazione. Ringrazio G.E.M. Biella, musicologo oltre che neuroscienziato e scultore, per queste dotte e stimolanti informazioni.
23H. Bagenal, A. Wood, Planning for Good Acoustics, Methuen, London 1931, pp. 216-218.
24Mallgrave, Should Architects Care about Neuroscience? cit., p. 30.
25Cfr. E. Canepa e A. Fassio, Architettura e neuroscienze: un nuovo equinozio disciplinare, “pH”, 1, 2001, pp. 28-36, p. 30.
26Ci permettiamo di usare il genere femminile, in quanto Arbib aveva dichiarato di chiamare “Ada” il sistema da lui progettato, in onore della figlia di Byron, Ada Lovelace, che era stata aiutante-programmatrice di Charles Babbage nell’elaborazione di quella “macchina analitica”, che può essere considerata l’antesignana del computer. M.A. Arbib, Brains, Machines and Buildings: Towards a Neuromorphic Architecture, “Intelligent Buildings International”, 1, 2012, pp. 1-22, p. 7.
27Cfr. B. O. Dougherty, M.A. Arbib, The Evolution of Neuroscience for Architecture: Introducing the Special Issue, ivi, 5, 2013 DOI:10.1080/17508975.2013.818763
28E. Dissanayake, Art and Intimacy. How the Arts Began, University of Washington Press, Seattle 2012.
29V. Gallese e A. Gattara, Simulazione incarnata, estetica e architettura: un approccio estetico sperimentale in La mente in architettura, a cura di S. Robinson, J. Pallasmaa, M. Zambelli, Firenze University Press, Firenze, 2021, pp. 160-175, p. 162. Nella nota 1 di p. 160 è compresa una sommaria bibliografia su questo argomento.
30S.J.H. Ebisch, M.G. Perrucci, A. Ferretti et al., The Sense of Touch: Embodied Simulation in a Visuotactile Mechanism for Observed Animate or Inanimate Touch, “Journal of Cognitive Neuroscience”, 20(9), 2008, pp. 1611-1623.
31C. Keysers, B. Wicker, V. Gazzola et al., A Touching Sight: SII/PV Activation during the Observation and Experience, “Neuron”, 42, 2004, pp. 335-346, p. 335.
32Ivi, p. 341.
33Ebisch et al., The Sense of Touch cit., p. 1612.
34Cfr. V. Gallese, G. Lakoff, The Brain’s Concepts: The Role of the Sensory-motor System in Reason and Language, “Cognitive Neuropsychology”, 22, 2005, pp. 455-479, p. 473.
35Mallgrave, Should Architects Care about Neuroscience? cit., p. 39.
36Id., Architecture and Embodiment. The Implications of the New Sciences and Humanities for Design (2013), tr. it. L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, Raffaello Cortina, Milano 2015, pp. 121-122. Sul rapporto tra i due edifici berlinesi, si veda la bella tesi di D. Betti, Tra Mies e Scharoun. Il Nuovo Museo del XX secolo a Berlino, Didapress, Firenze 2020.
37La Lee precisava che la distinzione tra le sensazioni muscolari e i fenomeni cardiaco-respiratori concomitanti con la percezione estetica era dovuta alla sua lettura di Dolore e piacere (1894) del Sergi.
38V. Lee, C. Anstruther-Thomson, Beauty and Ugliness and Other Studies in Psychological Aesthetics (1897), Lane, London 1912, p. 112. Non passi inosservato che il libro era dedicato a Théodule-Armand Ribot.
39Ivi, p. 187.
40Ivi, p. 91.
41Ivi, p. 20.
42Ivi, pp. 46-47.
43Su questo aspetto, cioè che la fondazione dell’oggetto fosse vista da Lipps dalla parte della soggettività e sul piano della psicologia, e non della logica, cfr. il saggio già citato di Maria Rosaria De Rosa, Theodor Lipps. Estetica e critica delle arti, Guida, Napoli 1990, p. 27 e sgg.
44V. Lee, C. Anstruther-Thomson, Beauty and Ugliness cit., p. 82 e passim.
45T. Lipps, Raumästhetik und geometrisch-optische Täuschungen (1897) in Schriften der Gesellschaft für psychologische Forschung, II, Barth, Leipzig 1897, p. 7 e sgg.
46Su questi esiti si veda la ricca introduzione di H.F. Mallgrave e E. Ikonomou a Empathy, Form, and Space cit., pp. 3-88, spec. p. 18 e sgg.
47Vischer, Über das optische Formgefühl: Ein Beitrag zur Aesthetik, Credner, Leipzig 1873, p. vii.
48Ivi, p. 3.
49Ivi, pp. 8-9.
50Ivi, p. 11.
51Ivi, p. 21.
52Ivi, p. 37.
53Ivi, p. 43.
54Ivi, p. 42.
55Il padre Friedrich Theodor Vischer fu, tra le altre cose, autore di una Ästhetik oder Wissenschaft des Schönen pubblicata tra il 1846 e il 1857, comprensiva di diverse parti: una metafisica del bello, una fisica estetica che del bello indaga la forma immediata, un’estetica psicologica, che lo esamina dal punto di vista dell’immaginazione, e una teoria delle arti. Questo lavoro fu criticato dal nostro Francesco De Sanctis, che tra l’altro fu suo collega a Zurigo. In una successiva Kritik meiner Ästhetik del 1866, Friedrich Theodor approfondì il discorso sull’architettura intesa come “arte simbolica” e sulla natura simbolica della forma.
56Su questo influsso, cfr. R. Pettoello, Herbart in Kakania, “Materiali di Estetica”, 4(2), 2017, pp. 177-184.
57Gallese e Gattara, Simulazione incarnata, estetica e architettura cit., pp. 163-164.
58Su questo concetto espresso da Goethe nelle Maximen und Reflexionen (massima 565), si veda G. Lukács, Allegoria e simbolo, “Belfagor”, 24, 1969, pp. 126-166, p. 127; cfr. inoltre la Prefazione di A. Pinotti e S. Tedesco a Estetica e scienze della vita, Cortina, Milano 2017, p. 10.
59Cfr. Pallasmaa, Hapticity and Time cit., e sul rapporto tra i due architetti, si veda G. Quah, [Perceiving Touch] exploring the work of Alvar Aalto through Juhani Pallasmaa (2013), https://www.academia.edu/4153595/_PERCEIVING_TOUCH_exploring_the_work_of_Alvar_Aalto_through_Juhani_Pallasmaa.
60Su Turrell, cfr. G. Pareti, Bordi. Un confronto tra arte, filosofia e psicologia, “Rivista di Estetica”, 80, 2022, pp. 130-151.
61E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologische Philosophie (1913) tr. it. di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, II, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 70. D’ora innanzi citato come Idee II.
62Su questo aspetto si veda la parte conclusiva della tesi di dottorato, La “cosa materiale”. Tra esperienza e conoscenza nel secondo volume delle Idee di Husserl, discussa nell’Università di Parma da C. Colombo, 2008-2009.
63Husserl, Idee II cit., p. 145 e p. 150. Derrida si domandava “Quale differenza?”. Quella di un difetto, qualcosa che manca alla vista.
64Ivi, e nota 1.
65M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible (1964) tr. it. a cura di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1969, p. 172,
66Id., Phénoménologie de la perception (1945), tr. it. a cura di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 414.
67Sui temi legati al toccare e toccarsi si veda R. Frauenfelder, Tra le mani la carne. Maurice Merleau-Ponty, Mimesis, Milano 2017. Dello stesso autore è disponibile online la tesi di dottorato sulle “aporie del tatto” in Merleau-Ponty, nella quale è presentata esaustivamente la riflessione sul tatto, ripercorrendo tutta l’opera merleau-pontiana.
68M. Merleau-Ponty, Le cinéma et la nouvelle psychologie (1945), tr. it. di P. Caruso, Il cinema e la nuova psicologia, in Senso e non senso. Percezione e significato della realtà, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 69-81, p. 70.
69Ibid., e Id., Le doute de Cézanne (1945), Il dubbio di Cézanne, ivi, pp. 27-44.
70Si può facilmente immaginare che la discussione non abbia risparmiato la differenza di significato tra i concetti di Leib e chair, un altro tema che qui non viene neppure sfiorato.
71Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile cit., p. 103.
72Ivi, p. 169.
73K. Harries, The Ethical Function of Architecture, The MIT Press, Cambridge (MA) 1997.
74K. Frampton, Studies in Tectonic Culture: The Poetics of Constructions in Nineteenth and Twentieth Architecture (1995), tr. it. a cura di M. De Benedetti, Tettonica e Architettura: Poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo, Skira, Milano 2007.
75J. Malpas, Place and Experience: A Philosophical Topography, Cambridge University Press, Cambridge 1999. Per una più ampia bibliografia su Malpas e sull’influsso heideggeriano in architettura, si veda G. Pareti, Il paesaggio tra l’ordine e il corpo, ETS, Pisa 2021.
76M. Heidegger, Bauen Wohnen Denken (1951), tr. it. di G. Vattimo, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1986, pp. 96-108, p. 104.
77Ivi, p. 106.
78Harries, The Ethical Function of Architecture cit., p. 5 e pp. 168-172.
79J. Derrida, Le Toucher, Jean-Luc Nancy (2000), tr. it. di A. Calzolari, Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova-Milano 2007, p. 77.
80J.-L. Nancy, Corpus (1992), tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1995, p. 81 e p. 96.
81Ivi, p. 27. A questo riguardo, cfr. la concisa ma intensa Post-fazione della curatrice Antonella Moscati.
82Sull’uso del prefisso es- in relazione al corpo, si veda Derrida, Toccare cit., laddove il filosofo commentava che il corpo mantiene in vita la sillaba es- e portando degli esempi: es-pulsione (la nascita è la prima!), es-pansione, es-pressione, es-crezione ecc., denotanti un “al di fuori” che condiziona il senso del mondo.
83Nancy, Corpus, p. 32.
84Ivi, p. 34. Anche qui il gioco di parole (e di significati): pesare/ponderare a proposito del pensiero.
85Cfr. M. Komel, “Un meno che tocco”: La filosofia del tocco di Jean-Luc Nancy, “Etica&Politica”, 22, 2020, pp. 769-782, p. 773 e sgg. In questo saggio, tra i tanti che si sono occupati di Nancy e che non è possibile qui citare, vi sono rinvii a una serie di haptic studies, specialmente di marca angloamericana, che hanno avviato una filosofia del tatto non solo di impostazione fenomenologica, ma anche linguistica.
86Non sarà un caso, ma i fenomenologi, e lo strascico di idee che hanno lasciato sul tappeto, sono stati oggetto, negli ultimi anni, di tesi di dottorato molto accurate. Su Nancy, si veda l’esaustivo contributo, presentato nell’Università di Palermo, da C. Recupito, Jean-Luc Nancy: Rappresentazione, esposizione, nudità.
87Derrida, Toccare cit., p. 97 e sgg.
88Ivi, Tangente I, p. 177.
89Ivi, pp. 159-161.
90P. Maine de Biran, L’influence de l’habitude sur la faculté de penser (1799), Presses Universitaires de France, Paris 1954, p. 85.
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