2. Il tatto e la forma
p. 49-80
Texte intégral
1. Dal Gefühl alla visibilità
1Herder si era servito del termine Gefühl per riferirsi al tatto. Ma quella stessa parola significava, più in generale, tutta la sensibilità e finanche il sentimento.1 Sebbene meno fine e meno chiaro della vista, definito senso dell’oscurità e della distanza, il Gefühl – come Tastsinn e non solo – rappresentava il sentire di tutto il corpo, il senso interno, il senso dell’esistenza vitale, dell’anima degli altri, oltre che della concretezza del corpo. Era stato escluso dalle arti del bello, ma ora l’estetica filosofica in quanto teoria della sensibilità era di fatto una Philosophie des Gefühls, con il tatto che assumeva il ruolo di «fondamento ontologico di tutti gli altri sensi che si avvalgono del suo giudizio»,2 poiché il sentire tattile è la «terza via d‘accesso principale della bellezza», il suo terzo valore, e questa non era da intendersi come una semplice metafora.3
2Sulla scultura come imitazione del corpo per offrire forme al tatto (e sull’idea che la bellezza sia data alla tattilità sotto forma di un corpo ben modellato) Herder era tornato con molte riflessioni nella Plastica e in un’opera a essa concettualmente vicina, la quarta selvetta critica del 1769. La sua estetica come filosofia della sensazione aveva contribuito a rafforzare nell’ultimo quarto del secolo un’idea del corpo come mediatore tra sensazione e conoscenza, e di una percezione tanto più forte e intensa quanto più accresciuta dal valore del tatto. Come si spiegava, allora, nell’adulto l’oblio di questo senso? Perché nella gerarchia dei sensi passava in second’ordine l’apporto delle sensazioni tattili? Se il tatto è il primo senso che si sviluppa, quello che ci mette in relazione con la realtà esterna intervenendo fin da subito, nella prima infanzia, tale da creare un’intima, continua relazione con la vista, e se è vero che nei bambini «il loro occhio vede ciò che la mano tocca»,4 per quale ragione, crescendo e maturando, si attribuisce principalmente alla vista ciò che invece è frutto del tatto, o semmai di una collaborazione tra i due sensi? Perché «[l]’apporto tattile si nasconde per così dire sul fondo dell’anima, nell’area oscura delle percezioni inavvertite», sulle quali già Leibniz aveva richiamato l’attenzione?5 Era una conseguenza inevitabile della decadenza dei tempi, come lamentava Herder, quando si tormentava: «Scolpire cosa? […] Statue greche perché ogni cane vi possa orinare?» O, come si sospettava a fine Ottocento, si trattava di un esito del progresso nell’ottica fisiologica, che si era andata sviluppando grazie alle ricerche di Wundt e di Helmholtz? O era un effetto del progresso legato allo sviluppo storico, come argomentavano i teorici dell’arte post-hegeliani?
3Konrad Fiedler, colui che persino per Croce era stato il più grande teorico dell’arte tedesco, non aveva dubbi che fosse “erroneo” il modo di pensare secondo il quale sarebbe possibile «accertare l’esistenza di qualcosa che percepiamo per mezzo dell’occhio anche con altri sensi». Questo vale secondo l’opinione diffusa, per la quale ciò che vediamo si può anche toccare, gustare ecc. Al contrario, l’esistenza di un oggetto visibile consiste solo nell’esser veduto, e le altre sensazioni non coincidono con la percezione visiva, quantunque noi talvolta esigiamo il loro concorso.6 Ciò avviene nella vita abituale, nella quale la nostra conoscenza oscilla tra i dati della vista e del tatto. Tuttavia, sebbene ai fini di una conoscenza esatta talora ci si affidi più al tatto che non alla vista, e benché i dati della vista si possano applicare alla forma tattile e corporea, e quelli del tatto alla forma visibile, tra le due rappresentazioni non esiste alcuna somiglianza, e neppure avrebbe senso affermare che la vista non è in grado di render conto della forma delle cose. Si sostiene che i sensi superiori, a proposito dei quali si ravvisa un più elevato stadio di sviluppo, mettano capo a una percezione differenziata, impossibile per il tatto. Ma non si tratta soltanto di una maggiore o minore differenziazione del materiale sensibile. Il tatto non permette alcun ulteriore sviluppo del materiale tattile, cosa che invece è possibile al senso visivo per il materiale di sua pertinenza, che giunge a una “forma espressiva”, resa possibile dal materiale visivo stesso, in cui è insita. E quando parliamo di qualità tattili quali la ruvidezza, la levigatezza ecc. o di forme (curve, piatte ecc.), quelle che sembrano rappresentazioni tattili sono invece concesse dal linguaggio, ché solo l’espressione linguistica permette di elevarsi al di sopra della sfera sensoriale, ed è «un pregiudizio che sia una rappresentazione tattile quella che si presenta come parola o concetto».7 Non così per la vista, che sviluppa il materiale sensibile «in un’espressione di sé stesso», in oggetto di una rappresentazione autonoma. Quello che non è possibile per il tatto, lo è per la vista, e in quell’oggetto, da cui non si può estrarre la tattilità, la visibilità si configura invece come elemento autonomo, che si presenta alla coscienza senza intermediari: anzi, all’immediata percezione si accompagna il decadimento della coscienza, il suo ridursi a uno stato di “torpida contemplazione”.8 Alla visione, una sfera sensoriale nella quale si compie ciò che agli altri sensi è precluso, si deve anche il movimento esterno del corpo, che a partire dalle sensazioni e percezioni mette capo a un moto espressivo, dacché con la mano «nasce qualcosa di nuovo», la mano prosegue dove e quando l’occhio ha portato a termine il suo compito, fermo restando che all’occhio tocca la parte principale della rappresentazione del mondo.
4Eppure, nonostante questo riconoscimento, Fiedler insisteva a sottolineare che, pur portando a compimento ciò che l’occhio ha cominciato, ma che va oltre la percezione ottica («l’occhio ci pianta in asso»), la mano svolge il proprio lavoro in modo maldestro, faticoso, a confronto con la magnificenza dell’occhio, capace di evocare «come in un incantesimo» una miriade di immagini. E, al tempo stesso, veniva messo in risalto il nesso inscindibile, e lo sviluppo parallelo, tra l’attività spirituale, resa possibile grazie alla complicità dell’occhio,9 e quella corporea, senza dimenticare che qualsiasi progresso è impensabile, se si suppone di poter svincolare il processo spirituale da quello fisico.
5Assumendo questa posizione, Fiedler metteva insieme il distillato delle sue conoscenze in ambito fisiologico con le idee sulle prestazioni dell’attività artistica. L’interazione che avviene nel pensiero tra il materiale sensibile e l’attività spirituale era resa ancor più chiara dai progressi ottenuti nella moderna psicologia fisiologica, completamente rinnovata rispetto a quella dei tempi passati. Nel Nachlaß vi sono appunti che rinviano alla psicofisiologia di Wundt, e nel primo frammento di Realtà e arte compaiono rimandi alla teoria empiristica della percezione visiva, con particolare riferimento all’Ottica fisiologica di Helmholtz, che aiutano a comprendere il meccanismo dell’attività oculare. Da questi approfondimenti scientifici Fiedler ricavava la tesi che, se l’occhio ha talento, o meglio, se vi è un talento artistico, è perché, alla base, vi sono delle condizioni fisiologiche che lo rendono possibile. Ma il vedere non è innato, deve essere imparato, è un qualcosa che si apprende con la pratica, si tramanda e dipende dalla tradizione: il bambino impara a formare gradualmente l’immagine delle cose che lo circondano. Alla sua conoscenza concorrono tutti gli organi di senso, che possono “soccorrersi” a vicenda, e il primo tra essi sarà il tatto, che verrà in aiuto alla percezione ottica e si rivelerà indispensabile per «una corretta rappresentazione visiva». Lo stesso albero visto da due soggetti metterà capo a immagini differenti: uno si limiterà a un’immagine povera, l’altro ne avrà una ricca di forme e colori, mettendo a frutto formule intuitive sviluppate dall’organo della visione. E quando l’attività del vedere sarà completata, subentreranno altre attività psichiche, di modo che la conoscenza sarà il prodotto dell’attività visiva corredata dalle percezioni degli altri organi sensoriali.10 Qui si avverte la lezione helmholtziana, secondo la quale anche la più semplice rappresentazione sensibile è l’esito di processi psichici complessi e inconsci. Anche secondo Fiedler il processo che, partendo dall’organo sensoriale, si svolge nell’intelletto è così rapido che l’intuizione sensibile si forma immediatamente, di colpo, all’opposto di ciò che ha luogo nella conoscenza concettuale, che si sviluppa gradatamente, con consapevolezza e intenzione. Non a caso, secondo Helmholtz, proprio i campi dell’arte e della poesia dimostravano che, dopo aver ricevuto impressioni sensoriali, si possono sviluppare idee senza che sia stabilita alcuna connessione naturale tra idee e sensazioni. Si tratterebbe di “conclusioni inconsce” (unbewusste Schl¨usse) poiché in questo tipo di connessione di idee, non necessariamente la premessa maggiore appare sotto forma di una proposizione, ma è formata «da una serie di esperienze che singolarmente sono da lungo tempo scomparse dalla memoria e hanno fatto ingresso nella nostra coscienza solo sotto forma di impressioni sensoriali».11 Alcune, “fresche” e recenti, costituiscono la premessa minore dell’inferenza, cui si applica la regola impressa dalle osservazioni precedenti. Le tracce della memoria rivestono così un ruolo importante nelle osservazioni visive, e lo spazio diventa il campo in cui, con il movimento degli occhi e del corpo, vengono a essere collocati gli oggetti.
6Il ruolo dell’occhio nell’“officina” del lavoro spirituale era così essenziale che Fiedler arrivava a rimarcare l’assoluta dipendenza dell’arte figurativa dal vedere: la pittura non conosce altro mezzo espressivo fuorché l’occhio, da dove essa ha origine e, portando a compimento il processo visivo, perviene alla “visibilità del mondo”, costituendosi in forme visibili.12 Era naturale per Fiedler stabilire il primato della vista nel novero delle modalità sensoriali: richiamandosi alla distinzione tra «la conoscenza intuitiva, sensibile, artistica del reale, e la conoscenza logica»,13 l’idea che il processo di elaborazione delle immagini si configurasse in termini di visibilità gli consentiva di svincolare l’espressione del materiale visibile dalle forme espressive linguistiche, e di dimostrare l’assoluto affrancamento dell’arte figurativa dal linguaggio verbale. A un certo punto, nella sfera della visione non esisterà altro che la rappresentazione visiva, ma nel preciso momento in cui «la cosa vista, viene espressa con le parole, essa non è più una cosa vista».14
7Con la teoria della visibilità, e la riduzione della bellezza a pura forma, il kantiano Fiedler rivendicava l’autonomia dell’arte rispetto sia alla filosofia e all’estetica, sia alla storia dell’arte, e la liberava anche da ogni influenza naturalistica: produttrice di forme aventi in se stesse la loro ragion d’essere, l’arte non ha bisogno di rifarsi alla natura, imitandola. Anzi, l’arte segue le proprie regole e i propri principi, li impone al mondo.15 Pur riconoscendo l’importanza del rapporto tra arte e natura, egli concepiva l’arte come qualcosa di completamente differente dalla natura. Questa è il regno del visibile, un regno nel quale un’infinità di oggetti si offre al nostro occhio in infinite diverse combinazioni. Ma le forme visibili che nascono dall’artista non sono da paragonarsi a quelle dell’individuo normale, il quale al termine del processo visivo si limita a una contemplazione passiva della natura, mentre l’artista dà inizio a un nuovo rapporto. In quanto arte, questo rapporto costituisce un “sollevamento”, una liberazione dalle circostanze alle quali è in qualche modo legata la coscienza del mondo visibile. Per giungere a creare il “puro visibile” l’artista necessita però della materia meccanica, un impiego che tuttavia non va inteso come uno scadimento, ché la materia è solo un mezzo con cui si esprime la pura visibilità, alla quale si giunge pur sempre tramite la vista. Assumendo questa posizione, Fiedler sanciva il definitivo allontanamento (la “dissoluzione”) dal naturalismo ottocentesco, un processo che sarebbe stato proseguito e perfezionato da Alois Riegl e da Heinrich Wölfflin. Giungendo a vedere lo “stile” come una costituzione di realtà, Riegl stava affilando le armi per reinterpretare la natura nei termini di un processo storico.
2. Il senso tattile nella storia dell’arte
8Nel 1901, in un’opera dedicata all’industria tardoromana, Riegl sviluppò una serie di concetti fondamentali già introdotti alcuni anni prima in un lavoro, elaborato in due versioni tra il 1897 e il 1899, che avrebbe visto la luce postumo.16 In queste note, che dovevano servirgli anche per l’insegnamento, partiva dalla premessa che tutte le creazioni artistiche figurative umane «non sono che emulazioni della natura» e che la mano dell’uomo crea le sue opere a partire dalla materia inerte «esattamente secondo le stesse regole formali con cui la natura crea le proprie». Tutte le cose naturali hanno una forma e si estendono nelle tre dimensioni, «ma soltanto il tatto ci permette di verificare immediatamente questo dato di fatto».17 L’occhio non permette di penetrare in profondità e coglie tutto in superficie. Nondimeno, l’uomo è più propenso a servirsi della vista, che pure è incline a ingannarci per quanto riguarda la profondità, non riuscendo che a farci vedere solo una parte dei corpi in una superficie bidimensionale. Ma prima di servirsi del tatto, nella mente si tende a completare la superficie a due dimensioni secondo una forma in profondità, e questo processo avverrà tanto più celermente quanto più si avranno a disposizione degli elementi tattili, dei ricordi, che richiamano le precedenti esperienze col tatto. In questo modo «lo spettatore non è più conscio dell’inganno della vista».18 Queste riflessioni avevano una ricaduta sul processo della visione: a una distanza molto ravvicinata, si ha l’impressione di una superficie soltanto bidimensionale; se l’occhio si allontana un po’ dall’oggetto osservato, si notano fenomeni che richiamano le esperienze tattili; aumentando ancora la distanza, nella visione normale, si avrà l’impressione della profondità, ma se si va ancora più lontano, si torna all’inizio, con la percezione di un’immagine colorata o luminosa. La visione da lontano è prova dell’illusorietà dei sensi: laddove si vede solo una superficie al posto di un oggetto modellato si ha la prova dell’inadeguatezza dell’apparato visivo, che ci dà l’impressione di una superficie, che essendo illusoria, è definita soggettiva. All’opposto, nelle cose naturali esiste una superficie oggettiva che, insieme alla forma, pertiene all’oggetto in quanto tale ed è percepita dal tatto, mentre quella soggettiva dipende dall’osservatore in una relazione ottica. Pur avendo un raggio d’azione limitato, il tatto può soccorrere alla vista, nel qual caso si avrà una visione ravvicinata, mentre nella visione a distanza l’occhio deve fare tutto da solo. Pertanto, alla domanda se l’uomo primitivo considerasse le cose dal punto di vista ottico o tattile, Riegl rispondeva che il punto di vista ottico mostra soltanto il caos, mentre solo quello tattile «offre una traduzione soddisfacente dell’individualità delle cose», quindi l’arte figurativa antica doveva basarsi sulla superficie tattile, con una percezione tattile e una visione ravvicinata.19
9Riprendendo queste idee all’inizio del secolo, Riegl si poneva tre obiettivi: riservare alle arti minori lo stesso interesse che aveva contraddistinto le maggiori, eliminando il giudizio di valore; spezzare il pregiudizio che vedeva una decadenza nell’arte tardoromana; prendere posizione contro i “semperiani”, colpevoli di concepire l’arte in chiave materialistica come esito meccanico condizionato da scopi utilitaristici, materiali impiegati e tecnica.20 Proprio al fine di attribuire il giusto rilievo all’arte tardoromana, e traendo spunto dal legame tra le ombre proiettate e lo spazio, Riegl coglieva l’occasione per tornare a esporre le proprie idee circa il rapporto degli antichi con lo spazio. L’arte antica infatti conosceva la tridimensionalità e la profondità non nello spazio, bensì solo nel piano,21 come mostravano gli esiti dell’architettura, il genere artistico che insieme alle arti industriali esprimeva in modo più puro l’essenza del Kunstwollen, cioè di quella volontà artistica determinata e cosciente del proprio scopo che Riegl contrapponeva alla metafisica materialistica.22 È soprattutto l’architettura un’arte utilitaristica progettata per offrire all’uomo spazi limitati, all’interno dei quali potersi muovere. Ma a proposito del rapporto con lo spazio sorgeva il problema che, non essendo materialmente individuabile, lo spazio non poteva essere oggetto di creazione presso gli antichi, laddove invece la caratteristica della loro arte figurativa era quella di rendere le cose esterne nella loro «chiara individualità materiale».23 Ora, sebbene l’occhio sia tra tutti i sensi quello più usato per avere esperienza del mondo esterno, tuttavia esso ci mostra le cose come colorate e in una mescolanza caotica, ma non nella loro individualità materiale impenetrabile. Al contrario, noi «possediamo solo attraverso il tatto sicure nozioni della chiusa unità individuale delle cose».24 Esclusivamente il tatto ci fa conoscere i contorni che racchiudono le cose, e queste sono superfici. Ma con la mano, in effetti, noi tocchiamo i singoli punti che, uno dietro l’altro, formano le superfici, la rappresentazione delle quali in altezza e larghezza viene ottenuta con la combinazione di molte di queste singole percezioni, e non con una sola diretta percezione del tatto, e questa combinazione è la porta d’accesso all’attività del pensiero, ragion per cui senza attività mentale non si avrebbe la rappresentazione dell’individualità materiale. Pur indispensabile per avere coscienza dell’impenetrabilità dei corpi, il tatto non ci dice nulla sulla loro estensione nel piano, un limite sicuramente superato dalla vista, il cui organo, l’occhio, è più veloce del tatto nel completare la moltiplicazione delle singole percezioni. Quindi, laddove ci sia una superficie colorata, coerente e unitaria, allora si tratterà anche di una superficie impenetrabile, unitaria e materialmente chiusa nella sua individualità. Per avere coscienza di quell’unità materiale, gli antichi ritennero di per sé sufficiente la percezione ottica, senza il concorso della percezione diretta del tatto, e così l’estensione del piano restò limitata alle due dimensioni e, per un certo periodo di tempo, la profondità, la dimensione più tipica dello spazio, venne negata. Anche se l’occhio riesce a cogliere mutamenti di profondità dalle ombre e dai contorni abbreviati di un oggetto, può farlo però solo per oggetti di cui si ha precedente esperienza. Avendo “organi diramati” che arrivano nei diversi punti, è solo il tatto che invece può darci «la prima certa nozione dell’esistenza dei mutamenti di profondità».25 Ma sarà pur sempre la “riflessione soggettiva” a farci avere coscienza di superfici ricurve, curvilinee a partire da quelle più semplici.
10Agli occhi degli antichi non solo la terza dimensione non appariva “imprescindibilmente necessaria”, ma essa sembrò loro «atta a turbare la chiara impressione dell’individualità corporea», e per questa ragione l’arte antica fece in modo di eliminarla.26 A questo punto, Riegl poteva distinguere le fasi principali del processo di sviluppo storico dell’arte antica. Una prima fase “prensile”, caratterizzata dal piano tattile, in cui si ha la consapevolezza dell’impenetrabilità e dell’individualità corporea, è caratterizzata da una concezione ottica che si configura in una visione “da vicino”. In questo periodo, che Riegl associava all’arte degli egizi, venivano accuratamente evitate le ombre, perché queste evocano la tridimensionalità, cioè lo spazio, mentre l’accento era posto sui contorni, il più possibile simmetrici, che consentivano la delimitazione individuale e bidimensionale. Riegl osservava che il contorno è qualcosa che appartiene alla superficie ottica, mentre gli egiziani ricercavano quella tattile, ragion per cui tracciavano contorni netti per ottenere una delimitazione tattile di altezza e larghezza e le figure così ottenute appaiono rigide, senza alcuna morbidezza, e senza nemmeno alcun modellato (che sarebbe ottico) al loro interno, dove le parti sono distinte solo dal colore. Qualche anno più tardi, motivato da un altro intento (dimostrare che non si sarebbe dovuto vedere nella nozione emergente di “empatia” l’unico presupposto della creazione artistica!) Wilhem Worringer avrebbe ripreso le idee riegliane. Ora egli vedeva nella spinta all’astrazione (contrapposta all’empatia, effetto di un felice rapporto di fiducia “panteistica” tra l’uomo e il mondo) l’esito di una grande inquietudine interiore, provocata nell’uomo dai fenomeni del mondo esterno, uno stato che poteva essere descritto come un’immensa paura spirituale dello spazio.27 Il confronto con la paura fisica dello spazio aperto, che era una condizione patologica di molti popoli, poteva aiutare a spiegare il timore spirituale dello spazio. Worringer vedeva nella prima un residuo di una fase dello sviluppo umano, allorquando l’uomo non aveva ancora la fiducia nelle impressioni visive per famigliarizzarsi con lo spazio circostante, nel confronti del quale invece dipendeva dall‘«assicurazione del suo senso tattile». Come divenne bipede, e potendo contare sugli occhi, quel senso di insicurezza sarebbe venuto meno, l‘uomo si sarebbe liberato dalla paura dello spazio esteso, e si sarebbe impadronito della riflessione intellettuale. In una nota, rimandando a Riegl, Worringer portava come esempio della paura dello spazio proprio l’architettura egiziana, nella quale si cercava di distruggere l’impressione di spazio libero col ricorso a colonne, che pur prive di una funzione costruttiva, conferivano allo sguardo indifeso una garanzia di sostegno.
11Questo terror vacui si manifestava non solo nell’edificazione all’interno degli spazi. Mostrandosi cauti nel maneggiare l’apparenza visibile, «considerata un male necessario», gli antichi egizi concepirono rilievi e pitture solo per la visione ravvicinata, al punto che le loro pitture parietali antiche, prive di qualsiasi modellatura, ridotte a semplici silhouettes, delimitate da linee di contorno, apparivano isolate e poste su uno sfondo, anch’esso ritenuto “un male necessario” ma “inevitabile”, forse solo al fine di riempire il vuoto.28 Altrettanto problematico il rapporto con il colore, che gli egizi giudicavano basato su un’illusione ottica, ma che non poteva essere esperito con il tatto. L’esempio più tipico di quell’arte, la piramide, fu un genere di architettura «puramente cristallina», chiara, priva di colore, simmetrica, elementare nelle proporzioni, un’«unità tattile nel mondo», che l’occhio percepisce come “piano unitario” di un triangolo equilatero da qualunque dei quattro lati la si guardi, senza alcun richiamo alla profondità che sta dietro: una vera superficie tettonica che coincide con quella ottica! Più opera plastica che non costruzione, la piramide rivelava il conflitto caratteristico del tempo tra l’esigenza pratica di usufruire dello spazio e la paura nei suoi confronti, una lotta che trovava espressione nell’assenza di finestre, che costituendo un passaggio tra l’interno e l’esterno, sarebbero state viste quali veri e propri «fori disturbatori nella forma tattile chiusa».29 Allo stesso modo venivano evitate accuratamente le rientranze e le sporgenze, che avrebbero obbligato a riconoscere lo sfondo, ammessa solo la porta in quanto necessaria. Persino nelle statue, da osservare con la visione frontale, l’egiziano trasformava i capelli in una superficie tattile, “articolata tattilmente” in solchi sottili, che si rilevano ad una visione ravvicinata.30
12Nonostante l’impenetrabilità tattile rimanesse la condizione fondamentale, a un certo punto, per quanto fossero soggettivi, si dovettero riconoscere spazio e tempo, e pure la corporeità, che venne introdotta dall’arte orientale. Non furono esclusi gli aggetti, collegati tra di loro e con il piano di sfondo, tali da essere percepiti con una visione non da vicino, ma nemmeno da lontano, bensì intermedia, normale. In questa fase, pur non perdendo importanza il nesso tattile unitario, anche l’occhio voleva la sua parte, specialmente laddove si trattava di percepire non tanto le ombre degli oggetti, quanto piuttosto le mezze ombre, quelle che non disturbavano la continuità tattile della superficie, visibili con una visione normale, né vicina né lontana, tale da poter riconoscere il nesso tattile tra le parti. Questo secondo stadio, tattile-ottico, era ascritto all’arte classica greca dove, a differenza del tempio egizio, la casa – pur essendo costituita da locali interni e da portici a colonne – era sì un’unità, ma “dominabile dall’occhio” in una serie di forme sciolte, la cui visione si conseguiva da una vicinanza moderata, che consentiva di cogliere il dettaglio tattile senza escludere il colpo d’occhio sull’insieme.
13Infine, seguiva un terzo stadio, in cui a pieno titolo erano riconosciute le tre dimensioni complete e, con esse, persino un’idea di spazio, che lungi dall’essere quello infinito, si limitava a essere uno spazio cubico, circoscritto ai corpi e altrettanto impenetrabile. Pur persistendo nel piano, i corpi singoli si isolano tra di loro e stanno l’uno di fronte all’altro nella propria individualità. È questo un piano totalmente ottico, che ha perso le caratteristiche del piano tattile, attraversato com’è da ombre profonde, che agiscono come divisori sulla superficie: è un piano ottico-cromatico, dove persino gli aggetti appaiono confusi in lontananza, come li si vede in una visione da lontano. In questa fase, tipica dell’arte tardoromana, non erano sufficienti le percezioni sensibili, e Riegl assegnava all’intervento della coscienza soggettiva la rappresentazione dell’unità individuale, e lo stesso valeva per lo spazio che, essendo stato concepito come negazione di materia e di individualità, poteva essere solo «una forma di visione dell’intelletto umano».31 Il Pantheon fu il primo interno del tutto conchiuso, senza le superfici esterne lisce e tali da assicurare la più completa rifrazione cristallina della luce come invece avveniva sulle superfici delle piramidi. Pur mantenendo l’unità tattile centrale della forma, il Pantheon rappresentava l’estremo opposto della piramide: in esso la superficie “calma” era sostituita dalla «curva inquieta che cerca profondità»;32 lo spazio veniva risolto come corpo cubico in modo da rispettarne i limiti corporei e da rappresentare pur sempre l’individualità materiale unitaria.
14Tuttavia, nell’arte monumentale le finestre si sarebbero ammesse solo con il presupposto di una visione da lontano: da quel momento la forma singola unitaria non si sarebbe più raffigurata come isolata, bensì in rapporto con lo spazio esterno e infinito, e questa forma Riegl la trovava realizzata nella costruzione a pianta centrale, avendo però come elemento “propulsore” la pianta longitudinale che consentiva al suo interno il movimento degli uomini. A proposito della basilica paleocristiana, osservando i rapporti tra le sue parti, Riegl sottolineava l’operazione di “sfrondamento” di ogni collegamento tattile: vi era un’«aspirazione all’isolamento», e il muro che si interponeva tra le colonne e il tetto costituiva già di per sé una lacerazione del legame tra sostegni e copertura, come se si fosse cercato a bella posta di eliminare ogni rapporto causale materiale tra le parti, con la conseguenza di smarrire quel senso di intima coesione tra le parti che aveva contrassegnato l’arte classica. Nelle pareti lisce delle superfici esterne non compaiono aggetti tattili, ma aperture di finestre, quindi elementi ottici, che fanno ombra. Pur non riconoscendo lo spazio infinito, la basilica longitudinale avrebbe aperto la strada allo spazio libero, tipico dell’architettura medievale e gotica, in cui collocare gli elementi individuali.
15Nella sua rassegna storica, laddove commentava la posizione che l’architettura tardoromana e, in particolare, la basilica a pianta longitudinale avevano assunto nei confronti dello spazio, Riegl tra le righe manifestava anche la personale ammirazione per quell’arte, che non riconoscendo lo spazio come grandezza infinita, ricercava l’unità individuale in sé stessa più che nello spazio circostante. Dacché la concezione dell’arte moderna si avvale della visione da lontano, giocoforza al gusto moderno potevano risultare “duri e urtanti” i contorni di quelle costruzioni. Ma nonostante le stigme di innaturalità e rozzezza, l’arte paleocristiana serbava elementi che sarebbero stati valorizzati dall’arte moderna.
3. Il giuoco delle coppie
16Alla disamina dell’arte e delle fasi della sua storia, Riegl era arrivato al culmine di un percorso individuale che lo aveva visto dapprima come esperto nel campo dei manufatti e, più in generale, di lavori, tessuti e tappeti, prodotti per mezzo dell’abilità manuale. Interessandosi alla tessitura, prima di approdare all’università di Vienna, era stato conservatore della sezione dedicata ai tessuti nel Museo austriaco per l’arte e l’industria. A partire dai saggi dedicati ai tappeti orientali e ai principi finalizzati a una storia dell’arte ornamentale,33 Riegl sottolineava che ogni forma d’arte ha un legame indissolubile con la natura e cerca di imitarla nelle sue opere. Fin dai primordi dell’umanità, la scultura fu l’arte imitatrice della natura nelle tre dimensioni. Il tentativo di staccarsi dai modelli naturali avvenne quando si abbandonò la dimensione della profondità, e «sacrificando la pienezza dell’apparenza fisica» si passò a raffigurare i soggetti su superfici piane. Di qui si sono stabilite le due categorie di arti decorative, le plastiche e, più recenti nella storia dell’umanità, le raffigurazioni su un solo piano, secondo una gamma di fasi di sviluppo che va dalla statuaria, all’alto e bassorilievo più o meno sbalzato, fino all’incisione (perché si guarda ai soggetti naturali «sempre da una stessa parte»).34 Anche se a un certo punto venne abbandonato il volume, per qualche tempo ancora la natura rimase un modello, ma geometrizzato, e quando si trattò di incidere o dipingere un animale su una superficie piana, ciò richiese una capacità creativa notevole, perché non si imitava più un corpo, ma si tracciava una sagoma, un contorno, e l’introduzione della linea di contorno rappresentò una svolta significativa nella storia dell’arte. Alle questioni sulle origini e la priorità degli intrecci e della tessitura poste da Gottfried Semper e dagli archeologi come Reinhard Kekulé, Riegl rispondeva che all’inizio dovette sempre esservi un atto psichico determinato da un impulso imitativo, e che quelle pratiche non erano derivate dalla tecnica o dai materiali, ma erano prodotto di una creazione artistica.35
17In ogni caso, nella produzione dei loro lavori, i primitivi erano sempre partiti da qualcosa di tangibile, intrecciando fili per ottenere manufatti di uso quotidiano. E persino quei popoli, come i trogloditi dell’Aquitania, che lavoravano solo di intaglio e incisione, scolpendo la pietra senza essersi precedentemente impadroniti di una tecnica di tessitura, dovevano esser partiti da un’ispirazione artistica, come dimostravano le impugnature dei coltelli ispirate alla forma degli animali. Nelle arti plastiche era più facile imitare gli organismi della natura, animali e figure umane; i motivi geometrici invece ricorrevano nelle decorazioni delle superfici piane, negli intrecci e sui vasi, perché specialmente nell’arte della tessitura era difficile uscire dallo schema di linee e angoli, e solo in un secondo tempo seguirono le imitazioni della natura vegetale, ma sempre geometrizzata, e infine quei motivi assursero a elementi simbolici. Ma la convinzione di Riegl era che è più facile plasmare a mano libera una coppa in argilla che non intrecciare un canestro, che è sempre qualcosa di raffinato e complicato.
18Da Riegl, oltre che dal suo maestro Jacob Burckhardt a Basilea, nei primi anni del Novecento, lo svizzero Heinrich Wölfflin avrebbe mutuato sia l’uso di categorie formali, sviluppate sotto forma di coppie antinomiche, sia il progetto di una storia sistematica dell’arte, cui applicare quelle categorie concettuali secondo i diversi periodi storici. Ancora più a monte stava, come si ricorderà, il suo interesse per l’architettura, oggetto della sua dissertazione di laurea, un interesse che lo faceva reagire alle tesi tecnico-materialiste semperiane, secondo le quali, più che espressione artistica, l’opera architettonica dipende dai materiali e dalle innovazioni tecnologiche. Fin da Rinascimento e Barocco del 1888 Wölfflin rimarcava che il compito dello storico dell’arte doveva essere di descrivere i gradi dello sviluppo “in sé”, indipendentemente dagli aspetti qualitativi e materiali, ché il fare artistico è un processo regolare, che rientra nella sfera psicologico-razionale. Già allora Wölfflin aveva introdotto il concetto di stile pittorico, a proposito del quale – avendo come riferimento l’architettura nella pittura – osservava che per quanto grande potesse essere quell’effetto (architettonico), nella pittura la costruzione risulta monotona, mentre il pittore deve ricorrere a effetti di luce, aria, paesaggio e solo «in linea secondarissima» all’elemento architettonico.36 Nondimeno anche nell’architettura barocca era possibile ottenere un effetto pittorico, più sciolto e libero, con maggior movimento e giochi di luci e ombre: tutti elementi in contrasto con la severità delle leggi della costruzione, ché l’architettura severa «si impone per quello che è», quella pittorica per quello che appare. Con un linguaggio che evoca quello impiegato da Riegl a proposito delle curve, anche Wölfflin alludeva a forme irrequiete, saltellanti, contrapposte alla più «compassata struttura del corpo», si richiamava a centri di gravità spostati di lato e a una tensione compositiva che mal si adatta all’ordine simmetrico. Al gusto plastico invece ripugna tutto quanto è indeterminato, ciò che si perde nell’infinito (l’Inafferrabile). Ma, a un certo punto, l’ambiente tettonicamente chiuso del Rinascimento si aprì all’illimitato, nel Barocco la materia si fece “succosa e molle” e la massa, pur massiccia, perse in articolazione, in essa si spezzarono le forme, che da armoniche divennero dissonanti, prive di proporzionalità. Insomma, tutto il perfetto, l’armonioso, il ben conformato e delimitato dell’epoca di Leon Battista Alberti lasciò posto a “informità stimolanti”, ma non tanto perché era venuto a noia il senso della forma, o per l’influsso dei materiali e delle tecniche o perché ogni stile debba esser visto come espressione del proprio tempo: la necessità di trasformazione di uno stile non viene dall’esterno e, nel caso del Barocco, una spiegazione poteva provenire dalla riduzione delle forme dello stile alla figura umana, che è piena, massiccia, turgida, fatta di “masse impenetrate”, ma altresì movimentate.
19Da Fiedler derivava l’idea che, lungi dall’essere espressione del mondo, dei sentimenti o delle usanze di un’epoca, ogni opera d’arte si dovesse leggere nel linguaggio stesso in cui era scritta. Con lui Wölfflin condivideva la tesi che il primo compito dello storico dell’arte si concretasse in un’analisi delle forme visive, e sebbene “kantianamente” ammettesse l’insufficienza della conoscenza sensibile, nell’indagare il processo di attività spirituale creatrice di forme, riconosceva il primato delle sensazioni visive, ché quelle tattili sono incapaci di uno sviluppo originale. Dalla vista inoltre derivano prodotti che possono essere conosciuti senza l’intervento dell’intelletto: sono le arti visive che si esprimono attraverso immagini “parlanti” all’occhio, quindi arti figurative, della cui coerenza Wölfflin si proponeva di ricercare le leggi. Nella Kunstwissenschaft a cavallo tra i due secoli ebbe luogo quella che, mezzo secolo dopo, Ernst Gombrich avrebbe definito una «proliferazione delle polarità», di cui l’“ottico/tattile” fu la punta avanzata, un fenomeno che avrebbe dovuto mettere in guardia chi vi si fosse accostato, poiché quelle antitesi davano l’illusione che fossero categorie naturali, stabilite una volta per tutte come avviene per le specie animali.37
20A ogni modo, pur partendo dallo studio della struttura a priori dell’occhio produttore di immagini, Wölfflin non intendeva commettere il passo falso di cadere in una fisiologia della visione, che avrebbe ostacolato il passaggio all’arte.38 A questo fine, introduceva ben cinque coppie antinomiche, strumenti per delineare la successione degli stili nella storia dell’arte, concepita come sviluppo delle forme. La prima coppia di concetti, “lineare-pittorico”, rappresentava due modi diversi di vedere la vita, e in essa il “lineare” esprimeva la valorizzazione del contorno: la volontà di rappresentare le cose come sono, attribuendo a esse una forma oggettiva, concreta, che presuppone una percezione tattile, ravvicinata e analitica.
Vedere linearmente vuol dire che il significato e la bellezza delle cose si cercano prima di tutto nel contorno […]; vuol dire che l’occhio viene guidato lungo i limiti di un oggetto e quasi condotto a palparne gli orli.39
21Lo stile lineare è quello della «determinatezza sentita plasticamente»: la «delimitazione chiara e regolare» dei corpi infonde una grande sicurezza in chi guarda, come se li si «potesse toccare con le dita», tanto che le ombre aderiscono con il modellato alla forma in un modo così completo da far «quasi naturalmente appello al senso tattile», e oggetto e rappresentazione sono, «per così dire», identici.40
22Il passaggio dal lineare al pittorico equivaleva al passaggio dalla considerazione della linea come “guida dell’occhio” alla sua graduale svalutazione, da un sentire gli oggetti nei loro elementi tattili, nei contorni e nelle superfici a un percepirli affidandosi completamente all’apparenza sensibile e rinunciando al disegno tangibile;41 è il contrasto tra Dürer e Rembrandt, tra i contorni forti e accentuati dell’uno, e gli oggetti sentiti come macchie, di colore o di chiaroscuro dell’altro. Educato pittoricamente, l’occhio mira al movimento, che trascina con sé «tutto l’insieme delle cose». Lo stile è più libero, “svincolato” dall’oggetto, ora non esiste più un contorno continuo, le superfici tattili sono scomparse, ma vi sono solo macchie, una accanto all’altra. Il vedere per masse comporta il distogliere la visione dal bordo, dai margini, e il contorno stesso è diventato indifferente, non funziona più come guida dell’occhio. Il suo ruolo, sia pur in modi diversi, è assunto dalle macchie colorate o anche soltanto dalle masse in chiaroscuro. «Il disegno slegato e il modellato non coincidono più, geometricamente, con la forma corporea del modello, ma riproducono soltanto l’‘apparenza ottica degli oggetti’».42
23Così si può dire che anche per Wölfflin vi fossero due tipi di visione. La prima è quella che «isola le cose», un “vedere linearmente”, tale che l’occhio è guidato lungo i margini di un oggetto. Affidandosi al contorno, l’occhio si rivolge alla comprensione dei singoli oggetti, «come valori precisi, tangibili».
24Il segnare il contorno di una figura con una linea sempre ugualmente determinata ha in sé qualcosa che ricorda il materiale contatto della mano. L’operazione compiuta dall’occhio somiglia a quella della mano che palpa un corpo in tutta la sua estensione, e il modellato che riproduce la realtà, nella gradazione delle luci, si richiama ugualmente al tatto.43
25Il lineare è costruito «sui limiti delle cose», è uno stile di carattere oggettivo che rappresenta le cose nel loro valore concreto, in esso la forma è durevole, misurabile, delimitata: «la mano si è impadronita del mondo corporeo col suo senso tattile nel suo contenuto plastico».44 Svalutando il contorno, lo stile pittorico scopre la bellezza dell’incorporeo e la varietà della materia; superato l’elemento oggettivo e palpabile, lo stile si fa più soggettivo, ed è illusionistico in quanto si richiama all’immagine così come appare, ma con scarsa somiglianza con l’oggetto reale. L’occhio passa a collegare gli oggetti nel senso dello spazio in profondità, un modo di figurazione che comunque per Wölfflin non stava a significare una migliore capacità di rappresentazione. All’occhio che vede pittoricamente le cose appaiono come raggruppate insieme, vengono còlte nel loro complesso, «come un’apparenza ondeggiante». La figurazione pittorica formata esclusivamente da macchie parte dall’occhio e a esso fa ritorno, «e come il bambino perde l’abitudine di toccare tutte le cose, così l’umanità ha smesso di saggiare col tatto l’opera d’arte figurativa»:
il quadro tattile è diventato quadro ottico
un mutamento tra i più radicali nella storia dell’arte, anzi, il più radicale!
26Sebbene avesse in mente una percezione essenzialmente ottica, sintetica e distante, nondimeno Wölfflin non escludeva che anche nel pittorico vi fosse una sensibilità ottica alimentata «da un altro senso tattile», un senso «che saggia la qualità della superficie, la diversa epidermide, per così dire, delle cose».45
27Allontanandosi dalla forma plastica, l’attenzione si volge alle superfici, a «come si fanno sentire i corpi». La figurazione spaziale avente come principio la concatenazione delle forme ordinatamente disposte nel piano si realizza nel “desiderio di superficie” che traspare perfettamente dal Cenacolo, dove gli strati si susseguono in parallelo alla linea esterna della scena. A questo modo di visione si contrappone quella della profondità, che si esprime nella tendenza a sottrarre all’occhio la superficie, svalutandola fino a renderla invisibile. Con la libera dislocazione degli elementi e dei rapporti spaziali in ogni direzione, l’osservatore è costretto a “impostare la visione” nel senso della terza dimensione, come accade osservando i dipinti di Vermeer o di Rembrandt e la scultura matura di Bernini o l’architettura, in specie di quella barocca, che segna l’“evasione” dalla superficie, avendo scoperto il fascino della profondità. Soprattutto nell’architettura si avverte il contrasto espresso dalla terza coppia, forma chiusa e forma aperta, e dalla quinta, chiarezza e non chiarezza. Pur avendo sempre presenti elementi di tettonica, tattilità e chiarezza, anche nell’architettura più sciolta del Barocco si registrava un cambiamento verso forme più aperte e libere, figurazioni meno circoscritte e senza effetti di limitazione. All’impressione di appagamento, alla propensione “calma e piena” indotta dalla distribuzione regolata nel piano secondo un ordine preciso, espressione della classicità rinascimentale, si opponeva un «rilassamento delle regole», la distensione del rigore architettonico, in una parola: lo stile che apre la forma chiusa, creatore di figure incompiute generatrici di tensione e incertezza, ma altresì di un aumento della grazia.46 La chiarezza che connotava l’architettura classica nelle sue forme definitive e permanenti secondo uno schema di ripartizione, colonne e trabeazione, a un certo punto, fu sentita come qualcosa di costrittivo, imposto da formule morte. Vi si contrappose la non chiarezza, o chiarezza relativa, delle forme, misteriose, mutevoli e in continuo divenire, tipiche del Barocco, che per mezzo dell’intersecazione realizzava forme meno chiare, fuggevoli e non pienamente visibili.
28Nella quarta coppia, molteplicità e unità, era la coordinazione di elementi aventi di per sé un proprio rilievo e una propria autonomia a contrastare il subordinarsi dei singoli elementi raccolti intorno a un motivo o a un ritmo unitario: anche se condizionati dal tutto, gli elementi nelle composizioni classiche restavano pur sempre “una cosa a sé”, mentre col passaggio alla visione integrale del Seicento, non si trattava solo dell’armonia raggiunta dalle singole parti indipendenti, ma del predominare di una soltanto, a cui le altre erano ridotte, raccogliendovisi intorno. Quantunque lo svolgimento storico dell’arte seguisse il percorso (che è un processo “razionale”) da una concezione tattile-plastica a una ottico-pittorica, casomai si fosse verificata un’inversione di tendenza (da non escludersi), ciò equivaleva per Wölfflin a un nuovo inizio. E sebbene innegabili fossero i progressi nell’imitazione della realtà, la storia dell’arte sbagliava ad applicare il “vuoto concetto” di imitazione della natura come prova di un continuo perfezionamento. Wölfflin non aveva dubbi che la concezione dell’artista deriva nell’un caso o nell’altro da uno schema ottico differente, uno schema che ha radici ben più profonde «di quel che non sien quelle che toccano semplicemente i problemi della imitazione naturalistica».47
4. … si vede ciò che si tasta
29Tornando a Fiedler, a proposito del successo della teoria della pura visibilità legata al suo nome, gli studiosi concordano nel rilevare che gran parte di quella fortuna fu conseguenza, tra le altre cose, delle sue personali amicizie e frequentazioni nel mondo degli artisti. In particolare di due, conosciuti a Roma, Hans von Marées e Adolf Hildebrand.48 Alla memoria del primo, Fiedler avrebbe dedicato un saggio di grande coinvolgimento emotivo,49 e Marées stesso – come mostrano le sue idee raccolte dall’amico Karl von Pidoll e il carteggio intrattenuto con lo stesso Fiedler50 – non dovette essere estraneo all’elaborazione della teoria della visibilità e alle tesi fiedleriane sul rapporto tra vista e tatto, dacché pare che fosse solito rivolgersi agli allievi con l’esortazione “Sehen lernen ist alles”.51 Allo scultore e pittore Hildebrand, di dieci anni più giovane di Marées, ma che con lui collaborò, negli anni Settanta dell’Ottocento, nell’esecuzione degli affreschi della sala di musica della neonata Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli,52 si deve un saggio, non esteso ma intenso, dedicato al “problema della forma” nelle arti figurative, che continua a essere tutt’oggi un punto di riferimento fondamentale non soltanto per gli storici e i teorici dell’arte, e per gli estetologi, ma finanche per i neuroscienziati.53 Quel lavoro, definito «una pioggia ristoratrice su una terra riarsa»,54 dovette costituire una sorta di bibbia anche per Riegl, ma soprattutto per Wölfflin, che nell’Autobiografia del 1942 ci tenne a ricordare che il contatto con Hildebrand era stato per lui «di grandissimo significato» per farlo accostare alla bellezza, alla forma, al sentimento delle arti figurative.55
30L’opera di Hildebrand si apre con l’affermazione che il mondo esterno esiste per l’occhio, e la sua conoscenza avviene con la rappresentazione di spazio e forma, intendendo per quest’ultima la delimitazione dello spazio.56 I problemi della forma, cui allude il titolo, sono quelli posti dalla natura e sentiti attraverso la percezione. Questo non vuol dire però che plastica e pittura siano arti imitative della natura, ché il contenuto imitativo deve essere elaborato in una «regione artistica superiore», un punto di vista “architettonico”, inteso come «costruzione di una totalità formale» a prescindere dal linguaggio formale impiegato. I problemi della forma, dunque, sono squisitamente artistici. Sarebbe parimenti in errore chi credesse di trovare in quel libro un’esposizione della teoria della visibilità incentrata sul meccanismo della visione secondo la teoria di Helmholtz, che pure lo scultore doveva aver bene approfondito – e assimilato ancor più di quanto non avesse fatto Fiedler – con la lettura di una serie di saggi apparsi nel decennio tra il 1868 e il 1878.57
31Trattando dell’avvicinarsi del punto di vista dell’osservatore a un oggetto, Hildebrand introduceva il tema dell’accomodamento e dei movimenti oculari necessari all’impressione visiva, e osservava che, alla fine, la relazione spaziale tra le singole apparenze che formano l’apparenza complessiva dell’oggetto viene esperita sotto forma di un atto motorio e «a questo punto il guardare si è trasformato in un effettivo toccare e in un atto motorio» tanto che non si avrà più a che fare con impressioni visive, bensì si tratterà di rappresentazioni motorie che costituiscono il materiale della visione e della forma.
Tutte le nostre esperienze sulla forma plastica degli oggetti sono realizzate originariamente tramite il toccare, sia pure un toccare con la mano o con l’occhio. Toccando eseguiamo movimenti corrispondenti alla forma e la rappresentazione di determinati movimenti, ovvero un complesso di determinate rappresentazioni motorie, si chiama rappresentazione plastica.58
32In una lettera a Fiedler del 1876 Hildebrand scriveva che fino a che elabora soltanto percezioni visive, il bambino vede erroneamente; la visione corretta avviene solo quando si fa ricorso al tatto. «Insieme si vede ciò che si tasta – le proprie esperienze tattili – e si giunge alla rappresentazione della forma o alla rappresentazione spaziale»,59 e la rappresentazione spaziale è giusta se «l’immagine corrisponde al senso tattile». In un frammento non datato riportato nelle Gesammelte Schriften, Hildebrand impostava una linea di sviluppo del processo percettivo, ipotizzando che il senso corporeo, muscolare e degli arti sia il più generale e l’occhio stesso sia un arto mobile. Soltanto attraverso il movimento e le sensazioni motorie il bambino fa esperienza, e questi sono i presupposti di un’ordinata rappresentazione spaziale, che si ritrova anche nei ciechi. Per via delle molteplici sensazioni visive, per di più a colori e ripetute, il neonato sarebbe in grado di distinguere con gli occhi ancor prima di imparare a toccare, pur trattandosi di sole rappresentazioni bidimensionali. Al movimento di testa e occhi segue quello dell’intero corpo e solo in un terzo momento si avrà l’accordo delle esperienze oculari con quelle tattili. Poiché solo «[l’]’occhio ci mette nella condizione di dare contemporaneamente ciò che il tatto ci dà in successione», si capisce che il tatto è costretto a sacrificare una percezione alla seguente. Ma «solo nel tastare contemporaneamente vediamo e riconcepiamo il tatto come movimento nel nostro campo visivo», ragion per cui Hildebrand faceva assumere alla vista il ruolo di “camera di custodia” per la successione delle percezioni tattili, in quanto il senso della visione «fissa le impronte del mio toccare come qualcosa di visibile».60 Due sono le caratteristiche che fanno primeggiare la vista sugli altri sensi: la sua capacità di economizzare, riunendo in una sola volta – uno accanto all’altro – elementi che si potrebbero avere separatamente, in successione; la possibilità di percepire in un colpo solo uno spazio più ampio di quello riservato al tatto, che è sì tridimensionale ma piccolo, e di cogliere gli oggetti in rapporto allo spazio generale, quella caratteristica che nel Problema della forma è definita con il concetto di Wirkungsform, cioè la forma attiva o effettuale di un oggetto nel suo contesto e nel rapporto con gli altri oggetti, i colori, la luce ecc.
33È la capacità motoria dell’occhio che rende possibile toccare la tridimensionalità da un punto di osservazione vicino, consentendo così di conoscere la forma a partire da una successione temporale di percezioni. Lo stesso non avviene con l’occhio in quiete, che riceve la tridimensionalità solo con contrassegni su una superficie. Pertanto la rappresentazione plastica per Hildebrand si compone di rappresentazioni visive di linee e superfici collegate da rappresentazioni motorie. Di esse, in particolare, si serve lo scultore che, avvalendosi del materiale concreto, per mezzo dell’esecuzione della mano, elabora il materiale spirituale ottenuto a partire dalle sue rappresentazioni visive insieme con l’attività motoria dell’occhio, mettendo capo a una forma lontana come immagine unitaria. Anche se la nostra rappresentazione dello spazio «tende alla profondità» e si porta verso di essa con un movimento, una sorta di forza di attrazione, gli oggetti che si percepiscono da lontano appaiono come apparenza piana unitaria, impressioni sentite come puramente bidimensionali,61 un effetto cui concorrono le due direzioni fondamentali (e congenite) della verticalità e della orizzontalità, conseguenti rispettivamente alla posizione, eretta, del nostro corpo sulla terra e dei nostri occhi che guardano in orizzontale. Sebbene in natura sia preponderante l’orizzontale, ciò che cresce e si muove dà una spinta verticale: due tendenze che rispondono alla nostra organizzazione e impalcatura sensoriale.
34Si capisce che per Hildebrand, non solo teorico, ma egli stesso artista – scultore e anche pittore, fin dall’aiuto che diede a Marées negli affreschi napoletani – il problema fondamentale fosse quello di ottenere una «rappresentazione figurativa unitaria», mettendo d’accordo la rappresentazione di profondità e l’effetto di superficie dell’oggetto. Per risolverlo aveva in mente una rappresentazione in cui la figura apparisse compresa tra due lastre di vetro parallele, che consentono di ottenere l’unificazione in un piano unitario della figura e del suo volume. Non si fa fatica ad ammettere quindi che, per Hildebrand, la rappresentazione artistica per eccellenza dovesse essere quella a rilievo, tipica dell’arte greca, in grado di rendere il rapporto tra superficie e profondità e di porre l’osservatore in una condizione sicura con la natura. Diverso il caso della figura a tutto tondo, che per Hildebrand era rappresentativa del problema della costruzione plastica della totalità. Infatti, a differenza di quanto accade con “l’unico punto di vista” che si rapporta “naturalmente” a una “chiara immagine piana” di ciò che è raffigurato,62 la figura a tutto tondo costringe l’osservatore a diversificare i punti di vista, scegliendo «il proprio punto di vista rispetto ai piani». È la disposizione della figura stessa a determinare il punto di vista da cui «vuole essere guardata» o i diversi punti di vista, secondo il numero delle immagini piane da cui è formata.63 Ma alla fine una sola veduta dovrà prevalere, dimostrando di essere quella che aggrega l’intera natura plastica dell’insieme come impressione piana unitaria. Ogni forma plastica deve «unificarsi in una maggiore», all’interno di un movimento complessivo che, circoscrivendo e unificando la figura da ogni parte, la inquadri come superficie: trovando in essa alloggio la figura, lo spazio in cui la figura è pensato diverrà chiaro e tangibile, e la superficie stessa formerà uno spazio ideale.
35Laddove questo procedimento di andamento di superficie non avesse luogo, all’osservatore toccherebbe «girare intorno alla figura», senza mai potersene impadronire come di un qualcosa di “propriamente visibile”, anzi cercherebbe di chiarire ogni veduta con la successiva, senza mai poterla vedere “chiusa”. E qui si fa chiaro il compito che Hildebrand aveva in mente a proposito della plastica: non lasciare chi osserva «nello stato incompleto e sgradevole davanti alla tridimensionalità o alla cubicità dell’impressione naturale», affaticandosi per ottenere una chiara rappresentazione visiva. Al contrario, alla plastica spetta di dare quella chiara rappresentazione di cui si è parlato, «sottraendo così al cubico il carattere angoscioso».64
36La “curva inquieta” che cerca profondità, lo spazio che «non si fa materialmente individuare», lo spazio “svantaggioso” per la chiara visione dell’individualità dell’oggetto, il conseguente rifiuto e la dissimulazione della sua rappresentazione, lo sfondo che non va riconosciuto, bensì evitato il più possibile e riempito con fregi decorativi, perché «come l’ombra è il nulla», il vuoto che non deve essere creato da nessuna superficie esterna, la dimensione della profondità che appare «atta a turbare» la chiara impressione dell’individualità corporea, l’idea che scorci e ombre in quanto rivelatori della profondità spaziale si debbano eludere come espressioni di affetti spirituali, la suddivisione dello spazio in camere oscure e anguste per scopi utilitaristici, il timore verso tutto ciò che può disturbare le forme tattili chiuse, e infine lo sforzo di ridimensionare lo spazio che da libero e infinito si trasforma in corpo cubico e dominabile, libero spazio individualizzato: questi elementi formano l’insieme (il catalogo!) delle prove della “paura” dello spazio e del vuoto manifestata dagli antichi, che Riegl aveva ereditato e raccolto, mettendo a confronto l’architettura egiziana e greca con quella del periodo tardoromano. Allora era lo spazio infinito a incutere spavento, ammissibile era soltanto la sua delimitazione cubica. Per Hildebrand invece era proprio la forma cubica a insinuare angoscia, perché – come commentava Wölfflin negli scritti su Hildebrand65 – obbligava a mutare di continuo il punto di vista, costringendo l’osservatore a girare intorno alla statua, come tastandola e quindi “abbassandosi” a un grossolano stato di natura.
37Può darsi che anche questa angoscia del cubico fosse un esito di quell’inquietudine verso lo spazio infinito che, secondo Riegl pervadeva gli antichi, e lo stesso Hildebrand prendeva in esame il tempio greco che rappresenta una unità spaziale chiusa, a formare la quale concorrono le colonne attraversate dal movimento, e le costruzioni romaniche, dove ogni apertura è uno sforamento degli strati di spazio allineati uno dietro l’altro. Compito dell’architettura di tutti i tempi è quello di trasformare un corpo cubico in un’impressione visiva unitaria delle forme come “effetto a rilievo”, e questo valeva per le costruzioni così come per i mobili. Nella plastica, per Hildebrand la questione era risolta con il prevalere della rappresentazione a rilievo, che agisce come «qualcosa di piano» ed è la sola in cui si riconosce il rapporto artistico con la natura. Quando una figura plastica è cubica, ciò vuol dire che è ancora a uno stato iniziale della sua conformazione, un’evidenza che per Hildebrand, malauguratamente, non trovava riscontro nella sua epoca, che concepiva la plastica «in modo barbarico» come figure a tutto tondo che stanno al centro di una piazza: quei “monumenti infelici” rappresentavano l’“unico palcoscenico” sul quale lo scultore poteva sfogare la propria fantasia. Laddove tutte le direzioni si equivalgono, dove non c’è un davanti e un dietro, «l’osservatore deve sorbirsi quattro visuali, il che è un vantaggio solo per pochissime statue e può essere un godimento sempre solo nel caso di figure nude».66 Un esempio di tale “traviamento” era il gruppo del cosiddetto Toro farnese conservato a Napoli, dal quale non si ricava alcuna impressione di “conchiusa unità spaziale”. Wölfflin avrebbe riaffermato questo principio con un’osservazione sul David di Bernini, a proposito del quale «‘si è spinti a girare intorno alla figura’ perché manca sempre un non so che e si è continuamente invogliati a scoprirlo». Ma Wölfflin in questo caso “perdonava” l’artista, ché si trattava di un’opera giovanile, e dell’errore Bernini stesso dovette accorgersi in quanto, nella maturità, avrebbe creato lavori di «atteggiamento più composto», da potersi cogliere “prevalentemente” con un solo colpo d’occhio.67
38Per Hildebrand la plastica, nata dal disegno, aveva messo capo al rilievo, vivificando la superficie; ma anche nella scultura a tutto tondo, la figura è inscritta in uno spazio unitario, come si può osservare nelle sculture rannicchiate nella pietra degli antichi egizi. Il cubo di pietra si trasformò così in figura, sentita dall’occhio come unità spaziale, e a sua volta l’architettura, un’arte nella quale il rapporto con lo spazio «trova la sua espressione diretta», non mera rappresentazione motoria, ma “sentimento” dello spazio, trasformò le immagini geometriche in elementi costruttivi, plasticamente vivificati. Fu così che l’architettura «ebbe un influsso molto salutare sulla rappresentazione plastica».68 Col passare del tempo, però, la scultura si liberò dagli scopi prettamente architettonici, e le venne a mancare l’obbligo della forma conchiusa. E siccome non è possibile stabilire fin dall’inizio, nella pietra, quale figura si debba trovare per ciascuna veduta, l’unica via consisterebbe nel partire da una veduta e creare le altre come sue conseguenze: lo scultore fonda la sua rappresentazione cubica (motoria) su una rappresentazione visiva, dell’immagine, disegnandola sulla superficie della pietra, la più piana e principale, come se dovesse dar di mano a un rilievo, tenendo però conto della profondità che spetta alla figura a tutto tondo. Così operando
io soccorro il mio sentimento dell’occhio con l’osservazione delle forme divenute libere anche dalla veduta laterale, potendo così controllare le misure di profondità come misure di superficie.69
39Al di là dell’esperienza e della maestria dell’artista, ciò che deve essere tenuto a mente è che si deve sempre «rappresentare e scolpire nella pietra ciò che al contempo appare all’occhio su una superficie», precisamente come descriveva Michelangelo il suo lavoro graduale sul marmo: l’immagine gli appariva come emergente a poco a poco dall’acqua che si fa lentamente defluire, fino a che la figura non ne era fuori del tutto. Come commentava il Vasari, Michelangelo non era di quelli che per la fretta levavano la pietra davanti e di dietro, non sapendo poi dove ritirarsi. In questo modo, le forme singole pensate come appartenenti a una stessa superficie realizzavano omogeneità e unità, tanto più fondamentali per l’occhio, se si pensa che l’organo visivo acquisisce l’immagine per tappe: è la “quieta omogeneità”, rappresentazione artistica della forma, che conferisce all’immagine la forma adatta all’occhio e la fa divenire rappresentazione. Questo processo si evince chiaramente se alla scultura si contrappone la modellazione dell’argilla, dove si parte da un’armatura, e la manipolazione sviluppa per gradi la forma verso l’esterno «e verso di me», senza che sia imposto un unico punto di vista. E al tempo stesso questo esempio mostra la differenza, per la fantasia, tra lo scolpire su pietra e il modellare in argilla: qui è necessaria l’illusione, mentre nel lavoro su pietra, è dalla pietra stessa che sale in superficie la raffigurazione che appare di fronte ai nostri occhi. Nella modellazione in argilla, lo spazio è solo quello modellato, sulla pietra invece l’immagine si va formando a partire dallo spazio, e lo sfondo in pietra è conservato nel corso della lavorazione, anzi sarebbe bene che l’immagine continuasse a riposare il più a lungo possibile nella massa di pietra fino a che non sarà liberata. Differente è il lavoro di chi plasma l’argilla rispetto a quello dello scultore. Costui prende l’avvio da una rappresentazione formale che viene tradotta in una motoria effettuale, mentre nella modellazione avviene il processo inverso: sono portate a raffigurazione le rappresentazioni motorie, che solo in seguito agiscono come impressioni visive, senza che però sia mai raggiunta «l’unificazione artistica della totalità come rappresentazione dell’immagine». Michelangelo fu colui che dopo i greci realizzò più compiutamente l’identità tra raffigurazione e rappresentazione, con lo sfruttamento dello spazio lapideo ai fini di una più “conchiusa apparenza”: nelle sue opere i movimenti dei corpi sono trattenuti, ogni sporgenza è abolita, null’altro che flessioni e torsioni delle articolazioni per occupare il minor spazio possibile intorno al torso. Nelle sue figure e posizioni egli ottenne «la massima ricchezza nello spazio più conciso». Ma allora questo effetto fu possibile, perché «la plastica non era calcolata per lo spazio libero», per i cieli aperti e le grandi distanze. Quando i movimenti furono liberati, sciolti e sfruttati in senso drammatico, l’unità spaziale andò perduta e i gesti divennero affettati e esagerati. Dissolvendosi in una pura apparenza dell’immagine, nella sua Madonna della Cappella Medicea, il contenuto cubico materiale non ebbe più nulla di angoscioso.
5. Una o infinite: la querelle sulle vedute
40Hildebrand risolveva la questione del rapporto tra il numero delle vedute e la figura a tutto tondo, la totalità, con il ricorso allo spazio ideale rappresentato dalla superficie in cui la figura è alloggiata, costituito da un rettangolo più o meno profondo. Solo per l’apparenza è importante l’immagine complessiva della figura osservata da ogni punto di vista; le cose non stanno così, se si considera il problema partendo dalla forma plastica, che si inquadra in un felice andamento di superficie, ché essa
solo agendo come qualcosa di piano, nonostante sia cubica, ottiene una forma artistica.
41Il dibattito sui diversi “punti di vista” da cui guardare una statua non era una novità per i teorici e gli scultori del diciannovesimo secolo, ma riguardava una questione che doveva esser tanto antica quanto la scultura, se lo storico Rudolf Wittkower ne faceva cenno addirittura a proposito delle figure femminili corrispettive dei kouroi, delle quali osservava che non richiedevano un numero infinito di punti di vista, ma solo quattro vedute.70 E la questione rimase aperta per tutta la storia dell’arte scultorea con esisti contrastanti, come si può notare a proposito del Bernini che, solo in età matura, si risolse a «guidare l’approccio dell’osservatore e fissare il punto di vista esatto».71
42Non è questo il luogo per insistere su un argomento, che pure dovette stare a cuore a Hildebrand, e non solo a lui tra i suoi coevi, come dimostra l’interesse manifestato pure da Emanuel Loewy. Se si considerano gli svariati interventi di artisti e teorici di tutti i tempi, si capisce che quello della pluri-faccialità era sì un problema della forma, ma di fatto era un problema dello spazio, oltre che del tatto. Tuttavia, la tesi che una scultura si possa vedere da più angolazioni è sempre stata un’arma a doppio taglio, sfruttata nella storia dell’arte secondo i casi, a favore o contro la scultura.72 Nel Cinquecento, per il Bronzino, era una tra le ragioni addotte dagli scultori per vantare la superiorità della propria arte sulla pittura: essa dà maggior piacere, perché una figura si può ammirare da più lati. La tesi che la pluri-faccialità fosse un pregio, come sottolineavano molti scultori, si evince dalle lettere raccolte da Benedetto Varchi, che furono poi organizzate in una lezione all’Accademia Fiorentina a metà Cinquecento, dedicata proprio al tema della superiorità tra pittura e scultura. In una di queste lettere, lo scultore Francesco da Sangallo ribadiva che un pittore che dovesse dipingere un nudo, lo rappresenterebbe in una veduta soltanto, «la più graziata vista», poiché si tratta di un soggetto che non presenta mai buone vedute laterali o da dietro. Quindi il suo lavoro rispetto allo scultore sarà meno difficile e meno impegnativo.73 Il Sangallo aveva in mente soprattutto il marmo, ché quando si trattava di scultura nessun altro materiale doveva esser preso in considerazione. Osserva Wittkower che l’insistenza sul numero addirittura infinito di vedute rappresentò un problema nuovo nella storia della scultura, posto in parte proprio dall’impiego del marmo, da come l’artista maneggiava il blocco, e questa era una questione che andava risolta sul piano intellettuale, conferendo maggiore importanza al modello, come aveva fatto Michelangelo. Al suo riguardo, era noto il continuo movimento che l’artista eseguiva intorno alla figura, girandovi attorno, alzandosi, abbassandosi, per accordare tutte le vedute, che non erano solo otto, ma «le sono più di quaranta». Da Michelangelo avrebbe tratto ispirazione Benvenuto Cellini, il quale – con quel temperamento! – non perse occasione di prender parte alla disputa, dimostrando il personale coinvolgimento,74 con interventi nelle lettere e in diversi sonetti, di cui il più famoso recita «Ha solo una veduta la Pittura/L’altra è soggetta a più di mille parte».75 Anzi, la scultura era di ben sette volte superiore alla pittura, poiché «una statua di Scultura deve avere otto vedute» tutte di “egual bontà”: così aveva sentenziato Cellini in una lettera a Varchi nel gennaio 1546 (s.f.).
43Wittkower era del parere che, benché venisse perfezionata da tutti i punti di vista, persino la scultura di Michelangelo esigeva l’osservatore stazionario, che potesse rimirare la statua dalla veduta principale. Ma che l’osservatore sia statico è un postulato ideale, e lo dimostra il fatto che ogni osservatore sente l’esigenza di muoversi intorno alla statua, anche se poi ritorna alla posizione ritenuta più soddisfacente. Il numero infinito di vedute lo trasforma da stazionario in cinetico, una tendenza ancor più accentuata nel Manierismo, il cui gusto per il movimento e quindi per le figure dinamiche si conciliava perfettamente con la propensione per le numerose vedute. Ne sono prova le opere del Giambologna: la sinuosità della Venere al bagno e la torsione, il movimento e il contro-movimento delle figure, l’incrocio e la sovrapposizione dei corpi e delle membra nel gruppo del Ratto delle Sabine “obbligano” lo spettatore a girarvi intorno.
44Ma quella caratteristica che tra Cinque e Seicento vedeva vittoriosa la scultura perse smalto col passare del tempo. Baudelaire, per esempio, non ebbe remore a sostenere che la multi-faccialità costituisse un inconveniente della scultura, declassata a “art de Caraïbes”: troppe facce mostrate in una sola volta. Girando intorno alla figura, lo spettatore poteva scegliere qualunque punto di vista, tutti tranne che quello ottimale, un’umiliazione per l’artista! Pertanto, «invano lo scultore si sforza di mettersi da un punto di vista unico».76 Di Rodin era noto che girasse continuamente intorno alle sue opere in modo da ottenere una «serie di vedute collegate in cerchio», e che desiderava che una statua potesse erigersi liberamente e che la si potesse guardare da qualsiasi parte con eguale successo.77 Il “punto di vista unico” sarebbe stato invece un chiodo fisso per Medardo Rosso, che si propose strenuamente di realizzarlo. «Non si gira intorno a una statua come non si gira intorno a un quadro, perché non si gira torno torno a una forma per concepirne l’impressione», dacché «non si possono afferrare due effetti in una volta», per esempio un cavallo al galoppo con tutte le quattro gambe in una volta: «solo i mestieranti sono capaci di compiere questo inimmaginabile tour de force». Con queste parole lo scultore rispondeva a un’inchiesta sull’impressionismo in scultura, promossa da Edmond Claris78.
45Che un oggetto si debba guardare da uno solo o da più punti di vista per averne una visione completa è dunque una questione che si ripresenta ciclicamente nella storia della scultura e, dal canto suo, Hildebrand sosteneva che, benché una figura possa essere guardata da più vedute, ve ne sarà sempre una principale, che riassumerà tutto il potenziale plastico. Che una statua stia dove tutti i punti di vista si equivalgono come avviene in una piazza era per Hildebrand una soluzione che non dà piacere e peggiora l’effetto figurativo. Una delle sue opere più significative, la Fontana Wittelsbach a Monaco, lungi dall’essere posta in una piazza, era inserita in un ambiente naturalistico e realizzava perfettamente l’intento teorico dello scultore: “dilatandosi” su un piano orizzontale, in modo simmetrico, vista da lontano, dà la sensazione di un pacato equilibrio.
46Alla tesi che «solo agendo come un qualcosa di piano» una figura possa aspirare alla forma artistica si opponeva il convincimento di un Rodin mémore dell’insegnamento che, in gioventù, gli aveva impartito lo scultore Constant Simon: per fare le opere di scultura non bisogna «mai percepire le forme in piano, ma sempre in profondità…». Questo principio fu da lui applicato in modo fruttuoso dacché le sue figure sembravano crescere come “la vita stessa”, dall’interno verso l’esterno. E siccome il corpo può essere costruito come un’architettura, una statua o un gruppo debbono essere contenuti in un cubo, in una piramide, cosa che, secondo Rodin – a differenza degli olandesi – i pittori del suo tempo non erano in grado di fare, mentre per lui, che era e restava scultore, «la verità cubica, e non l’aspetto, è la padrona delle cose».79 Completamente contrastante era la concezione hildebrandiana, secondo la quale la percezione nello spazio è facilitata se gli oggetti sono disposti su piani distinti in un ordinamento tridimensionale, e questo si riflette sulla scultura, che procede per intaglio, partendo dal disegno per arrivare al rilievo, operando su una serie di piani o strati di spessore uniforme.
47Piano o cubico, ottico o tattile, visione da lontano o visione da vicino, una o più vedute: senza voler contrariare Gombrich, si può dire che la stagione delle polarità nella scienza dell’arte – tedesca, francese o italiana che fosse – era lungi dall’esser conclusa. Limitandosi alla questione delle vedute e alle tesi contrapposte degli scultori di inizio Novecento, certamente la fine era di là da venire, se ancora nel 1947, nell’edizione ampliata del suo saggio sull’educare al “saper vedere”, il critico e storico dell’arte Matteo Marangoni faceva appello persino all’aiuto degli archeologi per stabilire se il Discobolo di Mirone fosse da guardare di fianco o di faccia per poterne apprezzare il movimento. E a proposito del David bronzeo di Donatello, consigliava di osservarlo anche “da tergo” per ammirarne la forza plastica, e lo stesso valeva per il San Giovannino.80
Notes de bas de page
1Derrida avrebbe proposto di mettere alla prova i sensi della parola “senso” (e di “sentire”) che tende a “rifluire”, senza ridurvisi, nella parola “toccare”. J. Derrida, Le Toucher, Jean-Luc Nancy (2000), tr. it. di A. Calzolari, Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova-Milano 2007, p. 93.
2Cfr. R. Simon, Rhetorik und Philosophie in der Frühgeschichte der philosophischen Ästhetik, in Handbuch der Rhetorik und Philosophie, a cura di G. Posselt e A. Hetzel, cap. 8, De Gruyter, Berlin-Boston 2017, pp. 189-215, p. 201.
3J. G. Herder, Viertes Wäldchen (1769), in Sämmtliche Werke, a cura di B. Suphan, Weidmann, Berlin 1878, pp. 3-198, p. 53.
4J.G. Herder, Plastik (1778), tr. it. Plastica, a cura di G. Maragliano, Aesthetica, Palermo 1994, p. 86.
5G. Maragliano, Tangibili lontananze. Filosofia ed estetica del tatto, in Estetiche della percezione, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Firenze University Press, Firenze 2007, pp. 25-36, p. 30.
6K. Fiedler, Über den Ursprung der künstlerischen Tätigkeit (1887), tr. it. Sull’origine dell’attività artistica, in Scritti sull’arte figurativa, a cura di A. Pinotti e F. Scrivano, Aesthetica, Palermo 2006, pp. 69-151, pp. 94-95.
7Ivi, p. 104.
8Ivi, p. 107.
9K. Fiedler, Frammenti. Realtà e arte, ivi, p. 153.
10Ivi, p. 191.
11H. von Helmholtz, Die Tatsachen in der Wahrnehmung. Rede zu Gedächtnissfeier der Stiftung der Friedrich-Wilhelms-Universität zu Berlin gehalten am 3. August 1878, p. 27.
12Fiedler, Frammenti cit., p. 215.
13Cfr. la Prefazione di C.L. Ragghianti a K. Fiedler. L’attività artistica. Tre saggi di estetica e la teoria della “pura visibilità”, tr. it. di C. Sgorlon, Neri Pozza, Vicenza 1963.
14Ivi, p. 100.
15Cfr. A. Pinotti, Stile e verità. Una prospettiva riegliana, “Engramma”, 64, 2008, pp. 43-59.
16A. Riegl, Historische Grammatik der bildenden Künste (1897, 1899) tr. it. Grammatica storica delle arti figurative, a cura di F. Diano, Cappelli, Bologna 1983. (Di questo saggio esiste una traduzione più recente, a cura di A. Pinotti, pubblicata nel 2008 per i tipi di Quodlibet.) D’ora innanzi si citerà dalla prima traduzione.
17Riegl, Grammatica storica cit., p. 43 e p. 168.
18Ibidem.
19Ivi, p. 366.
20Costoro erano i seguaci di Gottfried Semper, per il quale l’opera d’arte era “un risultato meccanico”, condizionato da scopo, materia prima e tecnica. Ma i semperiani avevano accentuato le idee del maestro, arrivando a sostenere “semplicisticamente”, come rilevava Riegl, che «ogni forma artistica è il prodotto di materia e tecnica», imponendo la tecnica alla stregua di una parola d’ordine obbligata.
21A. Riegl, Die spätrömische Kunst-Industrie: nach den Funden in Österreich-Ungarn (1901), tr. it. di B. Forlati Tamaro e M.T. Ronga Leoni, Industria artistica tardoromana, Sansoni, Firenze 1981, p. 12.
22Ivi, p. 8 e p. 17.
23Ivi, p. 24.
24Ivi, p. 25.
25Ivi, p. 27.
26Ivi, p. 28.
27W. Worringer, Abstraktion und Einfühlung (1908), Piper, München 19213, p. 20.
28Cfr. Riegl, Grammatica storica cit., pp. 173-178. Nella seconda versione Riegl osservava che «sfondo e spazio sono originariamente opposti inconciliabili», e che lo sfondo veniva introdotto per evitare lo spazio, entrambi mali necessari. Nello sfondo si annidava già il seme dello spazio futuro, ed era trattato in modo da ricordare lo spazio «il meno possibile» (ivi, pp. 374-375).
29Riegl, Industria artistica tardoromana cit., p. 35.
30Riegl, Grammatica storica cit., p. 369. Per Worringer, anche nella scultura gli egizi seguivano il principio dell’astrazione, con figure cubiche e stilizzate, forme semplici che dessero l’impressione di superfici piane.
31Riegl, Industria artistica tardoromana cit., p. 28 e cfr. p. 33.
32Ivi, p. 38.
33A. Riegl, Altorientalische Teppische (1891), tr. it. Antichi tappeti orientali, a cura di A. Manai, Quodlibet, Macerata 1998; Id., Stilfragen (1893), tr. it. di M. Pacor, Problemi di stile, Feltrinelli, Milano 1963.
34Ivi, p. 31.
35Tracce darwiniane sulla teoria della “creazione artistica” sono individuate da M. Morton, Art’s ‘Contest with Nature’: Darwin, Haeckel, and the Scientific Art History of Alois Riegl, in Darwin and Aesthetic Theory, a cura di B. Larson e S. Fach, Ashgate, Farnham 2013, pp. 53-68.
36H. Wölfflin, in Renaissance und Barock: eine Untersuchung über Wesen und Entstehung des Barockstils in Italien (1888), tr. it. di L. Filippi, Rinascimento e Barocco: ricerche intorno all’origine e all’essenza dello stile barocco in Italia, Vallecchi, Firenze 1988, p. 125.
37Ernst H. Gombrich, Norm and Form (1963), tr. it. di V. Borea, Norma e forma. Studi sull’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino, pp. 118-144, p. 121.
38H. Wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe. Das Problem der Stilentwicklung in der neueren Kunst (1915), tr. it. di R. Paoli, Concetti fondamentali della storia dell’arte, a cura di G. Nicco Fasola, Longanesi, Milano 1984, p. 14.
39Ibidem.
40Ivi, p. 79.
41Ivi, p. 62.
42Ivi, p. 79.
43Ivi, p. 80.
44Ivi, p. 95.
45Ibidem.
46Ivi, p. 63.
47Ivi, p. 58.
48Su questa amicizia e le idee condivise, cfr. S. Gallo, Fiedler, Marées, Hildebrand: La questione dell’antico e del moderno, il rapporto con l’Impressionismo, in Scritti in memoria di Roberto Pretagostini, a cura di C. Braidotti, E. Dettori, E. Lanzilotta, Grafiche Trusiane, Roma 2009, pp. 619-640.
49A proposito di Marées, nel saggio commemorativo pubblicato due anni dopo la sua morte avvenuta nel 1887, Fiedler osservò che «portò l’arte a una espressione del tutto chiara della realtà visibile e la pose con ciò come qualcosa di autonomo, sufficiente a se stesso accanto alle altre grandi forme di attività dello spirito umano». Cfr. K. Fiedler, Hans von Marées (1889), in Id., Schriften zur Kunst, a cura di H. Marbach, Hirzel, Leipzig 1896, pp. 369-431, p. 430.
50Karl von Pidoll in Aus der Werkstatt eines Künstlers. Erinnerungen an den Maler Hans von Marées aus den Jahren 1880-81 und 1884-85, Bück, Luxenburg 1890 (e 1908, e Filser, Augsburg 1930). Su Marées si veda anche M.R. De Rosa, Hans von Marées (1837-1887), Paparo, Napoli 2000.
51Sulla pittura di Marées, le sue idee innovative e le difficoltà incontrate nel corso della sua vita, cfr. L.D. Ettlinger, Hans von Marées and the Academic Tradition, “Yale University Art Gallery Bulletin”, 33(3), 1972, pp. 66-84.
52Sul frutto di questa collaborazione si veda il suggestivo volume di C. Groeben, La Sala degli Affreschi nella Stazione Zoologica Anton Dohrn. Ideatori ed Artefici, Macchiaroli, Napoli 1995.
53Lo storico della scultura e dell’architettura Rudolf Wittkower ricorda che, allo scoppio della I Guerra Mondiale, nel 1914 il libro era giunto alla nona edizione e che nei vent’anni trascorsi tra la data della sua prima pubblicazione e l’inizio della guerra era stato il libro d’arte più letto, nonostante fosse scritto non in un bello stile, ma stringato, persino arido; la sua fortuna probabilmente stava nella sua solida affidabilità, espressivo di una “verità senza abbellimenti”. A paragone di quelle del coevo Rodin, le sue sculture erano mediocri, ma Hildebrand trionfava in un altro ambito: quello della parola scritta. R. Wittkower, Sculpture. Processes and Images (1977), tr. it. di R. Pedio, La scultura raccontata da Rudolf Wittkower. Dall’antichità al Novecento, a cura di M. Wittkower, Einaudi, Torino 1985, p. 281. Tra gli hildebrandiani doc (oltre a quelli della scuola viennese) va annoverato Roberto Longhi, secondo il giudizio dell’amico e collaboratore Emilio Cecchi e come dimostrano le copie da lui possedute (e annotate) del libro sul problema della forma, non solo l’edizione del 1913, ma anche una precedente versione francese. Cfr. G. Previtali, Roberto Longhi, in “Belfagor”, 36, 1981, pp. 159-186, p. 166. Che Hildebrand “colpisca” ancora, persino in ambito neuroscientifico, è provato dall’interesse recente che gli tributa Vittorio Gallese, il quale accosta il ruolo dell’esperienza motoria e soprattutto della “ricreazione” dell’atto di creazione dell’opera d’arte da parte dello spettatore ai processi empatici e di incarnazione che sono condizione della fruizione artistica.
54Questo commento, relativamente all’influenza che il libro esercitò su Wölfflin, è riportato da Gombrich, Norma e forma cit., pp. 133-134.
55Wölfflin, “Autobiografia”, in Rinascimento e Barocco cit., pp. 99-102, p. 100.
56A. von Hildebrand, Das Problem der Form in der bildenden Kunst (19033), tr. it. Il problema della forma nell’arte figurativa, a cura di A. Pinotti e F. Scrivano, Aesthetica, Palermo 2001. La prima edizione di quest’opera risale al 1893; la traduzione citata è della terza edizione, quella con le più significative variazioni nel testo. Per un approfondimento della lettura si rinvia alle corpose note dei due curatori. Dell’edizione del 1913 esiste anche una traduzione “storica”, risalente agli anni Quaranta, di S. Samek Lodovici (D’Anna, Messina-Firenze 1949).
57Hildebrand, Il problema della forma cit., in particolare le note 9 e 18, pp. 117 e 120.
58Ivi, p. 41.
59Cfr. ivi, nota 17, p. 119-120.
60Ivi, p. 105.
61Ivi, p. 59 e p. 62.
62Ivi, p. 71.
63Ivi, p. 72.
64Ivi, p. 73.
65Su questo aspetto, si veda il commento dei curatori, ivi, nota 55, pp. 127-128.
66Ivi, p. 82. A proposito dell’erotismo nelle figure di Hildebrand, Pinotti e Scrivano citano un saggio di D.J. Getsy della Northwestern University. Di Getsy alcuni contributi sono: Encountering the Male Nude at the Origins of Modern Sculpture. Rodin, Leighton, Hildebrand, and the Negotiation of Physicality and Temporality, in The Enduring Instant: Time and the Spectator in the Visual Arts, a cura di A. Roesler-Friedenthal e J. Nathan, Mann, Berlin 2003, pp. 296-313, e la voce Adolf von Hildebrand, in The Encyclopedia of Sculpture, a cura di A. Boström, 3 voll., FitzroyDearborn, New York 2004), 2, pp. 751-53. Molto più accentuato l’omoeroticismo nelle opere di Marées. Si veda G. Blum, Hans von Marées a Napoli: Arte e Autobiografia, in Arte come Autobiografia / Die Kunst als Autobiographie. Hans von Marées, a cura di L. Ritter Santini e C. Groeben, Macchiaroli, Napoli 2005, pp. 217-236.
67Wölfflin, Concetti fondamentali cit., p. 225.
68Hildebrand, Il problema della forma cit., p. 88.
69Ivi, p. 89.
70Wittkower, La scultura cit., p. 14.
71Ivi, p. 207.
72A tal fine si veda il bel saggio di E. Di Stefano, Dal Medioevo al Seicento, in Estetica della scultura, a cura di L. Russo, Aesthetica, Palermo 2003, pp. 47-90.
73Ivi, p. 61 e note 67 e 71, p. 84. Cfr. Wittkower, La scultura cit., p. 171.
74Tra le sue varie intemperanze, non ultima la rottura con il comitato fiorentino che presiedeva alla creazione del catafalco in onore di Michelangelo, cfr. Wittkower, La scultura cit., p. 176.
75I Sonetti sulla disputa circa la “precedenza” tra pittura e scultura si trovano ne I trattati dell’oreficeria e della scultura di Benvenuto Cellini, a cura di C. Milanesi, Le Monnier, Firenze 1857. Per una ricostruzione di una questione che era divenuta ormai un rovello centrale per Cellini, cfr. la Prefazione al volume, p. xxvii, e p. 218, nonché la citata lettera a Varchi del 1546, p. 273.
76C. Baudelaire Dufaÿs, Pourquoi la sculpture est ennuyeuse, in Salon de 1846, Lévy, Paris 1846, cap. XVI, pp. 115-119, p. 116.
77Queste impressioni di Camille Mauclair, amico di Rodin nonché fautore dell’Impressionismo, sono raccolte in Auguste Rodin, l’homme e l’oeuvre, la Renaissance du Livre, Paris 1918 e riportate da Wittkower, La scultura cit., p. 286. Sul continuo «cambiare la posizione» e «fare un giro completo del corpo», poiché il corpo umano ha un numero infinito di profili – testimonianza secondo Wittkower che Rodin pensava e operava in una tradizione “sopravvivente” – si veda la nota di un altro amico di Rodin, ivi, p. 288.
78L’intervista apparve nel 1901 ne “La Nouvelle Revue” (10, pp. 321-336), e fu ripubblicata in maniera più estesa l’anno seguente in E. Claris, De l’Impressionisme en sculpture. Lettres et opinions de Rodin, Rosso…, Éditions de “La Nouvelle Revue”, Paris 1902, pp. 49-55, p. 55; la versione italiana, apparsa nel volume di A. Soffici, Il caso Medardo Rosso, Seeber, Firenze 1909, pp. 93-96, si trova ora in M. Rosso, Scritti sulla scultura, a cura di L. Giudici, Abscondita, Milano 2003, pp. 11-13, p. 13. La querelle è ricostruita da L. Caramel, La prima attività di Medardo Rosso e i suoi rapporti con l’ambiente milanese, in “Arte lombarda”, 6, n. 2, 1961, pp. 265-276.
79L’espressione francese è: “J’en viens a dire que la raison cubique est la maîtresse des choses, et non pas l’apparence”. Cfr. Mauclair, Auguste Rodin cit., p. 62 e cfr. Wittkower, La scultura cit., p. 289. Su questo tema, si veda F. Bayro-Corrochano, La plasticité psychique: une figuration “cubique” en extension vers l’objet, “Topique”, 3 (104), 2008, pp. 47-66.
80M. Marangoni, Saper vedere. Come si guarda un’opera d’arte (1933, 1947), vol. 2, Garzanti, Milano 1971, pp. 224 e 229.
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2017
Vertigini della ragione
Schelling e Nietzsche. (Nuova edizione riveduta e ampliata)
Emilio Carlo Corriero
2018
Cristalli di storicità
Saggi in onore di Remo Bodei
Emilio Carlo Corriero et Federico Vercellone (dir.)
2019