1. Nemici amici
p. 15-48
Texte intégral
1. Massiva e spirituale?
1Privilegiando la sensorialità tattile, gli architetti (ma soprattutto i neuroarchitetti) non fanno altro che riformulare in termini attuali alcune antiche questioni, note e affrontate dai pittori tra Quattro e Cinquecento, dai filosofi tra Sei e Settecento e, non ultimi, dai teorici dell’arte (e non solo quelli della cultura tedesca ottocentesca). Tra i problemi fondamentali sullo sfondo della sensorialità – rimasti sul tappeto, perché forse insolubili di natura – è la questione del rapporto tra la forma e il contenuto. A suo modo, circoscrivendolo all’ambito dell’architettura, lo aveva affrontato nel 1886 nella sua dissertazione di laurea il teorico e storico dell’arte Heinrich Wölfflin, il quale si interrogava su come fosse possibile che, trattando di forme tettoniche, l’architettura riuscisse a esprimere «qualcosa di spirituale, come uno stato d’animo», una Stimmung. Non è questa la sede per tornare su un concetto che appassionava filosofi ed estetologi di fine Ottocento. Più semplicemente, per Wölfflin quel termine indicava uno stato che avesse concomitante un’espressione specifica, una «manifestazione fisica di un processo mentale», non un qualcosa che potrebbe esserci o no, e che non si trova soltanto nella tensione dei muscoli facciali o delle estremità, ma si estende all’intero organismo.
2La risposta di Wölfflin era che vi fosse una corrispondenza tra l’esterno dell’architettura e l’interno del nostro corpo, un interno fisico che si ripercuote sul mentale. Le forme architettoniche sono masse, che in quanto forme fisiche e non semplicemente geometriche possono «risultare caratteristiche solo nella misura in cui noi stessi possediamo un corpo».1 Anzi, «la nostra organizzazione di corpi fisici è la forma con cui comprendiamo tutto ciò che è fisico».2 Si tratterà allora di capire i corpi fisici con le categorie della natura inorganica, senza pretenderne le forme, domandandosi quali organi del nostro corpo abbiano analogie con le “morte pietre”. Sono i rapporti di peso, equilibrio, durezza ad avere per noi un valore espressivo, fermo restando che l’architettura non potrà mai esprimere i singoli sentimenti (riconducibili a organi specifici), ma vi riuscirà con le atmosfere, «i grandi sentimenti dell’esistenza».3 La materia di cui è fatta l’architettura è sottoposta alla forza di gravità e tende verso il basso, ma le si contrappone un’altra forza che, se filosoficamente può essere interpretata come vita o volontà (e qui è d’obbligo il rinvio a Schopenhauer),4 è una forza formale che vince il peso della materia, la libera, tanto che quando non si realizza, sopraggiunge in noi un malessere fisico, dacché il vivente si oppone alla mancanza di forma. Confine nello spazio, misura, regolarità (anzi: necessità di regolarità per tutto ciò che ha vita),5 simmetria, proporzione, armonia erano le condizioni esterne e interne che già Vischer padre, Friedrich Theodor, aveva posto a condizione della forma. Si trattava di un ambito di studi che, qualche anno più tardi, suo figlio Robert avrebbe ripreso e approfondito nel saggio nel quale introdusse il concetto di Einfühlung. Di qui, avrebbe preso consistenza un tema attrattivo per Wölfflin, che vi si accostò almeno un decennio prima di Theodor Lipps6 – segno dello spirito dei tempi – a conferma che si era già diffusa dans l’air quella nozione, che nel primo Novecento sarebbe decollata sul piano dell’estetica psicologica. Tradotta poi come “empathy” in ambito anglo-americano (e, di qui, “empatia” nella cultura nostrana), le si sarebbe prospettato un futuro ancor più denso di sviluppi nelle neuroscienze contemporanee, sotto forma di embodiment e di “simulazione incarnata”.
3Nei Prolegomena, anche se l’Einfühlung non figurava esplicitamente, Wölfflin rinviava a Lotze e a Vischer figlio, del quale riconosceva che, nel saggio sul sentimento ottico della forma, aveva scoperto la «meravigliosa capacità di annettere e incorporare nella nostra forma fisica una forma oggettiva».7 Ma sebbene Lotze e soprattutto Robert Vischer avessero compreso l’importanza dell’esperienza fisica, la correlavano soprattutto alla Phantasie, all’immaginazione, che con le sue operazioni sarebbe la sola in grado di “penetrare” nella forma. La questione del rapporto tra la fantasia e la forma era “lecita” in architettura, un ambito nel quale però non si potevano negare le sensazioni consistenti nello sforzo che il nostro corpo fa per imitare le forme esterne.
Colonne potenti ci fanno l’effetto di potenti innervazioni, la respirazione viene determinata dall’ampiezza o dalla strettezza degli ambienti, la nostra muscolatura si irrigidisce, come se noi stessi fossimo queste colonne portanti, e respiriamo profondamente come se il nostro petto fosse ampio come queste volte, l’asimmetria spesso provoca una sorta di dolore fisico, come se a noi stessi mancasse un organo, o fosse ferito, ed ognuno conosce il senso di disagio provocato dalla visione di un equilibrio sbilanciato. Ognuno ritroverà fatti simili nella propria esperienza.8
4Per Wölfflin l’architettura era il territorio privilegiato, nel quale formulare una teoria rispettosa della legge del rapporto tra la costituzione fisica e le proporzioni (senza che però occorresse indagare se fosse la storia fisica del corpo umano a condizionare le forme dell’architettura o viceversa, una posizione che in seguito da alcuni commentatori sarà giudicata alla stregua di un suo limite teoretico).9 L’idea antropomorfica che abbiamo dello spazio ci porta ad attribuire a ogni corpo una testa e dei piedi, un davanti e un didietro, dei movimenti, ai quali collaboriamo con la nostra organizzazione fisica, distendendo il nostro corpo (e trasponendolo nella distribuzione delle masse).10 Dall’insieme di questi elementi dipendono altresì effetti psichici, sensazioni di benessere o disturbi, provocati dalla “mancanza di forma”, e compito della psicologia dell’architettura sarà di descrivere e spiegare questi effetti emozionali, dacché movimento fisico e sentire fisico sono sempre espressivi di emozioni. La proiezione del proprio corpo sull’oggetto è alla base di ogni percezione, e Wölfflin mirava a istituire un’analogia corporale tra la forma tettonica e il soggetto interpretante:11 «giudichiamo con la nostra costituzione fisica l’essenza dell’architettura», con cui entriamo in rapporto. Addirittura sarebbero proprio gli organi interni a esser toccati da una sorta di simpatia, e il primo a variare è il ritmo della respirazione. La corrispondenza tra le proporzioni di un edificio e il ritmo del respiro emerge, secondo Wölfflin, in particolare dal gotico, che dissolve la massa: uno stile caratterizzato da proporzioni con un effetto soffocante, tanto che nelle cattedrali gotiche, dove le forme spingono verso l’alto, non sembra esservi quasi spazio per respirare «in una tensione autodistruttiva».12 Altrove, è condizionata la circolazione sanguigna, mentre lo stato di equilibrio denota ciò che in architettura e nello studio degli ornamenti Gottfried Semper aveva definito euritmia o “regolarità della sequenza”.13 La forza formale agisce specialmente nella composizione verticale, alleggerita da aperture e finestre paragonabili ai nostri occhi, capaci di spiritualizzare gli edifici: caratteristiche queste, anch’esse tipiche del gotico, il cui arco a sesto acuto esprime sforzo, tensione, volontà di puntare verso l’alto, contrapponendosi alla placida tranquillità di quello romanico a tutto sesto, che non lascia intravedere alcuna volontà di sforzo. Laddove manchino le aperture, l’edificio è una massa materica compatta, omogenea, appare cieco e chiuso «in un’ottusa esistenza».14 Ovunque, nelle composizioni orizzontali e verticali, Wölfflin ricercava ritmi, movimenti, dinamismo delle forme architettoniche per soggiogare la materia, la forma vinceva sul bugnato rustico, il cubo era una forma goffa e ottusa, ma la stabilità del centro di gravitazione alla lunga diventava noiosa, come dimostrava la ricerca dell’asimmetria che si configurava nella passione dei tempi moderni per l’alta montagna, per le masse irregolari. Seguendo l’evoluzione degli stili, Wölfflin rilevava che le “culture mature” non solo rimarcano la superiorità della forza formale sulla materia, ma non sopportano nemmeno la serenità espressa da quell’omogeneità tipica delle masse murarie. Al contrario, si ricerca il movimento che determina eccitazione, al punto che le stesse decorazioni, ravvivate da nicchie e colonne, provocano nei muscoli una “vita pulsante”.15
5Con uno sguardo sulla storia dell’architettura, Wölfflin riconosceva che, nel corso del tempo, questa “grande arte” si era sempre proposta di imitare l’ideale del corpo umano, ma che non si era mai indagato come l’architettura venisse “vissuta”, come un edificio potesse provocare una certa impressione, di allegria o oppressione. Di qui discendevano le ragioni del titolo della sua dissertazione inaugurale all’università di Monaco, ché si trattava di un’esposizione preliminare di “psicologia” dell’architettura, una disciplina che non si era ancora ancora istituita, a differenza di quanto era avvenuto per la musica. Egli notava che l’intento ideale di «lavorare con esattezza» era perseguibile specialmente nelle discipline storiche; nel caso dell’architettura, questo ideale era raggiungibile soltanto con la possibilità di fermare il flusso dei fenomeni «in solide forme», quelle che per la fisica sono di provenienza meccanica. Alle scienze dello spirito mancavano però questi fondamenti, che invece si potevano riscontrare nella psicologia, una disciplina che, per quanto lungi dalla raffinatezza che contraddistingue le discipline storiche, avrebbe consentito alla storia dell’arte di ricondurre i casi individuali a un principio generale, a leggi precise.
6In un’epoca come quella attuale, in cui si afferma il primato della multisensorialità, si è osservato che Wölfflin si fosse rivolto a un oggetto “puramente visivo”, e che la sua relazione con l’architettura fosse quella di un osservatore che, per l’appunto, è solo occhio, che si indirizza esclusivamente alle parti visibili dell’oggetto architettonico. Questo si spiegherebbe, tra le altre cose, inquadrando la sua impostazione in un periodo, nel quale si ponevano le basi di una psicologia della percezione, una disciplina che si era appropriata dei fondamenti fisiologici della visione.16 Come vedremo, la constatazione che «sono gli occhi soli a toccare, a sentire il peso»17 avrebbe avuto di lì a breve importanti implicazioni nella teoria e nella psicologia dell’arte e, con il riconoscimento dei “valori tattili” nelle immagini retiniche, si sarebbe sostenuto che, senza il tatto, l’occhio potrebbe fare ben poco.
7Né sembrava bastare quel richiamo all’imitazione nella fantasia che consentirebbe al corpo di sapere che cosa accade al prodotto architettonico, che è al tempo stesso oggetto di forze gravitazionali e origine di amorosi sensi. E siccome non è neppure dato all’osservatore di sentirsi «corpo semovente e attivo», lo iato tra spettatore e oggetto non sarebbe colmato se non attraverso l’interpretazione, ma
[t]occare con le mani, entrare davvero, sentire lo spazio di una sala a partire dalla pelle – tutto ciò sarebbe la fine dell’interpretazione.18
8Così anche Wölfflin è stato messo sul banco degli imputati, “accusato” di non aver mai pensato a un oggetto reale, concreto, a una casa dove si potesse vivere; quello che aveva in mente era soltanto un “oggetto ridotto”, non la casa nel suo insieme, bensì unicamente la sua facciata estetica. Chi, come Dieter Hoffmann-Axthelm si è dedicato, da architetto urbanista, alla riqualificazione di Berlino dopo la caduta del Muro, ma altresì allo studio della percezione intesa come prodotto dell’evoluzione culturale e sociale, si è domandato se potesse bastare la dottrina dell’empatia per interpretare quell’“oggetto ridotto”, e per colmare quel vuoto; ma quella era una teoria, che – a suo parere – diceva ben poco sulla percezione spaziale e sulle forme, sulle figure e persino sui sentimenti evocati dall’oggetto d’arte. Si limitava piuttosto a spiegare, semplicemente, come fosse possibile riconoscere il contenuto psichico dell’opera d’arte e che cosa fosse il bello. I tempi non erano maturi per interrogarsi su “quale psicologia” occorresse per gettar luce sull’“uso concreto” della casa. Wölfflin non arrivò a porsi questa domanda, e se pure se la fosse posta, quella psicologia era ancora di là da venire.19
2. Forme e figure, corpi e vesti
9Che l’architettura, come l’aveva concepita Wölfflin, si limitasse alla pura facciata, e non alla casa dove si abita e mangia, o al salone dove si balla, o allo spazio dove si discute di politica, svelava la contraddizione su cui si fondava la sua idea di “architettura”. E non era soltanto questione della natura massiva di quest’arte, che per quanto spirituale aspiri a essere, è fatta di materia, ma perché Wölfflin discuteva di stile, non di che cosa fosse la casa “concreta”; veniva a mancare l’aspetto antropologico della casa, che a Wölfflin sfuggiva, perché con l’architettura aveva una relazione più visiva che tattile, tipica del formalismo purovisibilista dell’epoca. Del resto, più tardi, nel formulare i «concetti fondamentali di storia dell’arte», distinguendo tra visione “pittorica” e visione “lineare”, Wölfflin si sarebbe servito dell’esempio della ruota in movimento, che l’occhio vede deformata dalla velocità, non individuando più i raggi, ma semmai un cerchio semovente. Con questo esempio, attestava il passaggio della pittura da arte nella quale l’occhio segue i contorni del corpo, come farebbe la mano, a un’arte delle apparenze, dove l’occhio è svincolato dalla tattilità.20 Il legame (e il destino) della pittura con la visione era segnato. Questo era stato un tema caldo della letteratura settecentesca, e Wölfflin, come altri teorici della sua epoca, lo aveva ereditato da quella tradizione, nella quale si era accesa una discussione, che aveva visto Herder tra i protagonisti. Nei riguardi di “vista e pittura” Herder aveva idee chiare: la vista si limitava a mostrare figure, superfici, al contrario di ciò che avviene col tatto, che ha a che fare con i corpi:
L’ampia contrada che vedo davanti a me cos’è altro, in tutti i suoi aspetti, se non immagine, superficie? […] Ogni oggetto mostra tanto di sé quanto lo specchio di me stesso, e cioè figura, facciata; che io sono più di questo, lo debbio scoprire attraverso gli altri sensi, o inferirlo da idee.21
10Così è possibile dipingere solo immagini, e la luce nei nostri occhi può disegnare solo ciò che è lì davanti, “in coesistenza” di oggetti visibili uno accanto all’altro, ma non cose una dietro l’altra o oggetti solidi come tali, così come non si può dipingere l’amante nascosto dietro a un tendaggio o il contadino all’interno del mulino. Gli stessi ciechi rientrati in possesso della vista dichiaravano che, all’inizio, potevano vedere solo immagini colorate, cosa che capita a tutti noi quando, al risveglio da un lungo sonno, prima di essere del tutto coscienti, è come se vedessimo ancora in una penombra notturna, su un unico piano, tutto quanto, vicino o lontano che sia. Soltanto quando torniamo in noi, vediamo «a partire da altri sensi, in particolare dal sentire tattile».22
11Tattili sono le azioni che compie il bambino fin dall’inizio delle proprie esperienze: prende, afferra, soppesa, misura, palpa. E senza il tatto come si potrebbe parlare delle note proprietà dei corpi quali la levigatezza, la morbidezza, la durezza, la forma, la rotondità ecc.? Nella sua scimmiottatura delle forme attraverso il disegno, il bambino non sa neppure che cosa siano “luce e ombra”, ché il suo occhio vede soltanto ciò che la mano tocca:
La natura procede con ogni singolo uomo come essa fa nella specie intera, dal tatto alla vista, dalla plastica alla pittura.23
12In seguito, associando di continuo vista e tatto, prende forma il giudizio: questi due sensi «sono stati educati assieme come sorelle», aiutandosi a vicenda e talvolta inducendo l’un l’altro in errore. Il senso della vista agisce in modo piatto, giocando e scivolando sulle superfici, senza poter mai arrivare “al fondamento”, e per questo deve prendere a prestito ciò che gli proviene dagli altri sensi, i loro concetti ausiliari.
13La vista prende in prestito dal tatto e crede di vedere ciò che essa in realtà ha solo toccato. Vista e udito si decifrano reciprocamente l’un l’altro: l’olfatto sembra lo spirito del gusto, o ne è comunque un fratello stretto. Attingendo a ogni cosa dunque l’anima si tesse e produce il suo vestito, il suo universo sensibile24.
14Fu l’anima, dunque, a congiungere le due cose che avvennero in contemporanea: la mano che incontrò il corpo e la sua immagine proiettata simultaneamente agli occhi. Da quel momento, «l’idea del rapido vedere corre avanti al concetto del lento toccare»25 al punto che si arriva a vedere tante cose e così velocemente da non sentir più nulla, anzi senza riuscire a sentire, sviando la “contemplazione”, mentre invece il tatto è «garante e fondamento» della vista e, se questa è sogno, il tatto è verità. Herder sentiva l’esigenza di penetrare nei concetti non solo di vista e tatto, ma anche degli altri sensi al fine di comprendere “figura e forma”, affinché la sua teoria del bello non rimanesse “sospesa”, e per non cadere nel difetto dei trattati di estetica ove «si passa da un senso all’altro», creando confusione. Con Baumgarten l’estetica era diventata “teoria della sensibilità”, o meglio “scienza della conoscenza sensibile”.26 Limitandola però a una “gnoseologia inferiore” come conoscenza delle qualità sensibili, essa poteva aspirare alla chiarezza, ma non alla conoscenza concettuale. Inoltre, definendo questa nuova scienza come logica della facoltà inferiore, Baumgarten mostrava di intenderla ancora legata alla logica, «sua sorella maggiore», una sistemazione che avrebbe avuto una ricaduta anche sull’organizzazione delle arti. L’operazione condotta da Herder, vòlta a liberare l’estetica dalla logica, comportava anche una diversa priorità nella gerarchia dei sensi, che a sua volta ampliava il novero delle belle arti. Tradizionalmente queste venivano classificate in base ai due sensi principali. Ora si trattava di dare rilevanza anche agli altri sensi, in primis al tatto, un riconoscimento che trainava la considerazione della scultura, che nel campo delle arti si aggiungeva alla pittura, alla musica, alla danza e all’architettura.27 Pittura e scultura erano sempre state confuse insieme, mentre – sottolineava Herder – non esistono leggi o osservazioni che si attaglino all’una e all’altra. Con la separazione tra le due arti emergeva il ruolo del tatto, in quanto senso di riferimento dell’arte scultorea, quella che maggiormente esprimeva il bello congiunto con la corporeità. Herder lamentava che alla vista, classificatrice delle belle arti insieme con l’udito (i cosiddetti sensi sottili), non si fosse mai fatto mancar nulla, consentendo che le venissero attribuiti come oggetto non solo figure e superfici, ma anche statue, rilievi e vestiti. Nessuno metteva in dubbio che le statue fossero visibili, ma angoli, forme, rotondità nella loro “verità corporea” non potevano essere appresi dalla vista. La vista «distrugge la statua» riducendola al piano, a mera superficie. Essa è il più filosofico e artificiale tra i sensi, procedendo per astrazione dai corpi, tant’è che Herder ironizzava sul fatto che se fosse inventata una lingua filosofica universale, questa sarebbe opera di un sordomuto dalla nascita «tutto vista, tutto segno di astrazione».28 E l’amatore che gira intorno alla statua non trova requie e, se potesse, trasformerebbe la sua vista in tatto. Non gli basta un’unica veduta, gliene occorrerebbero mille per non smembrare quella bella rotonda figura in un piatto poligono!29 Pur osservando da tutte le parti, senza poter toccare con le mani, una creatura “dello sguardo”, con cento occhi come il cane Argo o l’oftalmita, finirebbe per essere un occhio d’uccello, tutto becco, e non arriverebbe a conoscere forma, rotondità, spazio ecc.30
15In questa presa d’atto del legame tra tatto e scultura, Herder aveva seguito le tracce di Winckelmann. Ereditandone l’amore per la scultura greca, il passo era stato breve per arrivare a due conclusioni: che il tatto fosse il “vero organo” della percezione, superiore alla vista, ché si tratta di percezione dei corpi belli, e che scultura e corpo fossero entità indissolubili, tanto che l’ammirazione per l’uno, ricadeva anche sull’altra. Tra i sensi, ce n’è uno che coglie le parti di un insieme una accanto all’altra, ed è la vista, che tratta di superfici; è il senso della distinzione e del “mettere insieme”, ma l’occhio è freddo e le sue percezioni non ci toccano in modo intimo. Un altro, l’udito, coglie le parti una dopo l’altra, e si tratta di suoni, còlti in successione. Il tatto, infine, coglie le parti «una nell’altra», procede con lentezza, ma in intimità. I suoi oggetti sono forme, corpi, soprattutto quelli raffigurati nelle opere scultoree.31 Soltanto la scultura lavora opere che sono piene di anima, viventi, con parti l’una nell’altra, creando forme belle e compenetrate, ché in essa tutto è uno, e uno è tutto, e se la pittura al pari della vista è sogno, la scultura che si fa e apprezza con la mano e il tatto, è verità, oltre che origine del bello e del buono.32
16La trattazione di questi temi non era una novità nel secondo Settecento, né la discussione poteva considerarsi avviata da Herder. Qualche anno prima di lui, nel 1766, vi era già intervenuto Lessing, il quale – prendendo le mosse dal gruppo scultoreo del Laocoonte – aveva dato il suo contributo a un confronto che risaliva agli antichi. Originata dalle somiglianze o piuttosto dal “limitato accordo” tra poesia e pittura, quella disamina si era ampliata fino a comprendere la scultura. Mentre la poesia presenta i fatti in successione, l’azione in movimento, gli oggetti della pittura (o le loro parti) esistono gli uni accanto agli altri, e la pittura imita le azioni attraverso i corpi con le loro qualità visibili, ma utilizzando soltanto un momento, il più pregnante, dell’azione, “fissandolo” per di più da un unico punto di vista. Ancora diverso è il caso della scultura. Infatti, contemplando una statua è possibile ruotare intorno a essa, goderne da più punti vista – anche questo un argomento che non ebbe origine nel Settecento, ma che era già ben noto a teorici e a scultori dei secoli precedenti e che, come vedremo, avrebbe infiammato la discussione nei secoli a venire. Con la poesia, la scultura condivide l’imitazione dei corpi, i quali esistono non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Il tempo invece è precluso alla pittura, un’arte che non può rappresentare azioni progressive, ma solo statiche.
17Il destino delle discussioni è quasi sempre di non vederne la fine. Pertanto, anche i contenuti e i toni di questa seconda controversia non rimasero confinati all’epoca che vide Lessing e Herder protagonisti, ma arrivarono fino al Novecento. Se ne occupò finanche Ernst Gombrich, il quale fece risalire l’origine della questione a un passo di Shaftesbury in cui il filosofo morale sosteneva:
È palese che ogni Maestro di Pittura, scelto che abbia il preciso Istante o Punto del Tempo secondo il quale egli intende rappresentare la propria Storia, non potrà, successivamente trarre partito da altra Azione, se non da quella immediatamente presente, e legata al singolo Istante ch’egli descrive.33
18Secondo Gombrich, le idee di Shaftesbury dovettero esercitare un influsso su James Harris, il quale nel suo Discourse on Music, Painting and Poetry, nell’intento di stabilire quale delle tre arti (poesia, musica e pittura) fosse la più eccellente, notava a proposito della pittura che essa si limita a raffigurare «di necessità un punctum temporis, ovvero un istante»,34 e che lo spettatore dovrebbe far ricorso alla memoria per avere notizie sugli antecedenti e sugli ulteriori sviluppi dell’azione rappresentata nel dipinto. Questi concetti sarebbero stati ripresi da Lessing, per il quale, come si è detto, la pittura poteva utilizzare un unico momento d’azione, quello ritenuto il più essenziale, che consentiva di capire ciò che precede e ciò che segue. Gombrich, però, ci teneva a precisare che, a parer suo, Lessing scrisse il Laocoonte, “provocato” dall’idea che poesia e teatro dovessero «adeguarsi ai limiti delle arti visive», imposti dal restringersi a un solo attimo temporale. Pertanto, dovendo scegliere un istante o un aspetto da consegnare all’eternità, questo non avrebbe dovuto essere troppo brutto o negativo, e questo spiegherebbe la “famosa disquisizione” del perché il Laocoonte statua non potesse avere la bocca spalancata nell’urlare. Gombrich liquidava questa posizione alla stregua di un “sofisma”, che comunque avrebbe avuto ricadute fastidiose nella storia dell’arte, e che ancor prima aveva fatto danni. Ne aveva subito l’influenza Winckelmann, e ne aveva fatto le spese il Bernini, giudicato lontano dall’ideale di classicità e pertanto incapace «di fare il bello» e «conoscere la grazia», come si poteva notare in opere quali il David e l’Anima dannata, nelle quali – a parere di Winckelmann – vi era un eccesso di passione e di movimento.35
19Gombrich aveva toccato un altro punto dolente. Infatti, nel Settecento, la figura di Laocoonte era stata all’origine di discussioni sul non meno impegnativo argomento della raffigurazione della bruttezza, derivante dalla convinzione che la scultura dovesse godere di un’ulteriore peculiare caratteristica rispetto alla pittura, in quanto rispondente a criteri estetici che non ammettono bruttezza e disarmonia. Alla poesia difatti sarebbe concesso di rappresentare il brutto al fine di suscitare emozioni e, in particolare, la compassione: sentimenti la cui espressione in scultura abbruttirebbe e deformerebbe volti e corpi, che invece l’arte deve rendere esteticamente accettabili (ma si ricordi che, per Gombrich, Lessing avrebbe fatto a Winckelmann quella concessione “restrittiva” sulle arti visive, purché le arti letterarie del suo tempo fossero lasciate libere di rappresentare anche gli estremi passionali).
20Stimolati dalle sapide osservazioni di uno studioso che fu, oltre che teorico, anche psicologo dell’arte, occorre fare un passo indietro. Nel 1755, nei Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura, Winckelmann si era espresso su quel gruppo scultoreo probabile copia marmorea (oggi conservata nei Musei Vaticani) di un originale bronzeo risalente al I-II secolo a.C., rivolgendo la sua attenzione proprio sul dolore che si scorge in ogni tendine e muscolo del corpo dell’anziano ma ancor vigoroso sacerdote. Quantunque dal viso possa trapelare sofferenza, dalla sua bocca non esce però alcun grido, a differenza di come quel dolore fisico veniva descritto da Virgilio. Quel grido, il modo in cui è descritto nel poema latino – le urla che si levano al cielo, strazianti come il muggito di un toro ferito che fugge dall’altare dove stava per essere sacrificato – non lo avrebbe consentito l’apertura della bocca di Laocoonte-statua.
21Anche Lessing si era soffermato a descrivere i nervi sofferenti, i muscoli in travaglio, il ventre dolorosamente contratto, ma non rigonfio né oppresso dal viluppo delle spire dei serpenti marini, che erano nei posti giusti, e non violavano la proporzione dell’insieme.36 Se le spire fossero state avvinghiate al corpo e al collo, si sarebbero trasmesse solo freddezza e morte. E lo stesso valeva per Herder, secondo il quale «la tripla cerchia delle serpi attorno al collo, il petto e le gambe lo fa apparire come un orribile corpo d’uomo e serpente, concresciuti l’uno nell’altro per il senso del tatto di chi non vede».37
22Se con la bocca socchiusa, il sacerdote ispira compassione, perché esprime bellezza e dolore insieme, con la bocca spalancata per urlare sarebbe diventato una figura brutta e orribile, da cui distogliere lo sguardo, perché quella vista del dolore suscita ripugnanza.
La sola ampia apertura della bocca […] nella pittura è una macchia e nella scultura è un incavo che fa l’effetto più sgradevole del mondo.38
23Nella loro riproduzione gli artisti del I secolo d.C. si erano dimostrati accorti nel mitigare la rappresentazione del dolore, limitandosi a un “gemito soffocato”. Insieme con la tensione muscolare, in particolare del ventre, la figura contorta del sacerdote troiano esprime lo sforzo immane e fa presagire la fine funesta sua e dei suoi figli, stritolati dalle spire dei serpenti marini,39 e per Lessing questo doveva essere l’unico atteggiamento “fruttuoso” per rappresentare lo svolgimento dell’azione e del dolore, nelle fasi incoativa, durativa e conclusiva.40
24Quegli artisti si erano sapientemente discostati dalla descrizione nell’Eneide virgiliana, dove il veggente sacerdote portava le bende sacre e aveva collo e vita doppiamente avvinghiati dalle spire dei serpenti: il drappo infatti non avrebbe aggiunto nulla alla bellezza di un corpo organizzato e il collo avvolto dalle spire avrebbe rovinato l’ascensione piramidale del gruppo. Addirittura Herder trovava «attributo repellente» una fascia che avvolgesse la bocca, poiché il tatto troverebbe al suo posto un drappo,41 e persino “il senso più oscuro” nelle statue scolpite dai greci, nel modo in cui si ergono, non troverebbe nulla di «incerto, confuso o mutilo». Che i corpi nella scultura non dovessero portare vestiti, e che il panneggio costituisse un ostacolo alla forma del corpo, anche questa era un’idea ispirata da Winckelmann, che aveva avuto origine proprio dalla disamina del Laocoonte,42 a proposito del quale Herder osservava che gli abiti nella scultura nasconderebbero non già corpi umani, bensì blocchi di marmo o di pietra, e inoltre abiti di pietra, marmo o metallo sarebbero oltremodo opprimenti. Anche qui emergeva il caso differente della pittura, dove le vesti con i loro colori cangianti, il fluttuare dei veli e la luce che incanta apportano grazia e leggiadria, ché la pittura è rappresentazione, un mondo destinato all’occhio, solo fantasia, raffigurazione, ma non «presentazione corporea» tale che la statua è tutta qui, la scultura la crea e presenta, ma non la ritrae, «ogni statua è in sé uno e tutto, e sta per sé sola».43 Per questo motivo, in quel gruppo scultoreo, i figli di Laocoonte figurano piccoli, nonostante fossero già uomini fatti: se gli scultori lo avessero diviso in tre parti, la presenza di tre figure grandi avrebbe dissolto lo spirito “sublime” della sofferenza della figura centrale e principale del padre.
25Parimenti il colore rende brutta la scultura, poiché non essendo forma, non è riconoscibile al tatto. La statua invece che «di per sé non ha luce alcuna», ma si erge sempre nella luce, crea la sua luce, così come crea il suo spazio.44
3. Bellezza e bruttezza
26Che l’idea del bello fosse consentita solo a vista e udito era un principio che non trovava Herder d’accordo. Senza il sussidio dei sensi “più essenziali” la vista si limiterebbe a offrire una tavola45 – quindi qualcosa di piatto – ancorché fatta di luci e colori. Delle forme, neppure il “senso più chiaro” potrebbe fare a meno, ma queste provengono da un senso diverso, che quindi dovrà esser altrettanto “ricettivo” al bello, con tutto il rispetto per i teorici delle belle arti e pure per Diderot, che al tatto aveva negato la percezione della bella forma46. Ma «solo la mano dà forme», a essa “che tocca” si offre immediatamente e con naturalezza ogni forma o membra del corpo,47 mentre l’occhio non è che un indice, e se nella pittura lo scultore cieco non potrà ovviamente eccellere, nella scultura non sarà sfavorito rispetto a chi è dotato della vista. Herder non aveva remore ad asserire che gli occhi fossero da lui considerati solo «in rapporto col tatto»; sebbene fonte di luce e vita, essi sono anche «vetri dell’anima». Dopo aver decantato la bellezza del profilo greco, riconosceva che «il cieco senso del tatto» apprezzava degli occhi la forma allungata, il taglio, la grandezza, il modo in cui si incastonano tra le sopracciglia.48 Passava poi a elogiare la forza delle braccia e dei muscoli, organi di senso e motori, fino alla mano, che oltre all’esercizio organico, possiede un sentimento non meno sottile di quello dei cosiddetti sensi nobili. Infine, descriveva la figura umana, modellata come creta e ricoperta di pelle, quale forma di forze vitali, opera di Dio, paragonato al più alto scultore.49
27Oltre a Winckelmann, alle spalle di Lessing e di Herder sull’apporto della scultura alla definizione del bello stava l’influenza dell’inchiesta sul bello e sul sublime di cui da anni si discuteva, e non solo in Inghilterra.50 Con una visione “energetista” Herder sottolineava che “bello e sublime” nel corpo umano erano segno di salute, vita, forza e benessere. Nell’Enquiry Edmund Burke aveva elencato le caratteristiche della bellezza, annoverando tra le sue qualità l’essere relativamente piccoli e di forma delicata, lisci e senza parti angolose, osservando di non ricordare alcuna cosa bella che non fosse anche liscia, come il pelo o le piume negli animali, e la pelle levigata nelle donne.51 Elegante è non solo la figura regolare, ma altresì il corpo liscio e levigato, le cui parti non premano le une sulle altre e non siano né ruvide né confuse come lo sono certe opere d’arte quali le costruzioni eleganti e i mobili.52 Corpi lisci e morbidi rispettivamente al movimento e alla pressione della mano procurano piacere, e il piacere sarà ancora maggiore quando i corpi variano la loro superficie producendo qualcosa di nuovo, ma senza che questo mutamento sia improvviso, come accade quando si è toccati da una mano troppo calda o troppo fredda. Queste sono le caratteristiche del bello nel tatto, che provoca un piacere simile a quello che si prova con la vista, al punto che sentire col tatto e vedere, secondo Burke, differiscono poco tra di loro, per quanto la morbidezza non sia una qualità visibile, né il colore sia oggetto del tatto.
28La levigatezza che procura piacere al tatto, il contatto con un corpo liscio che suscita rilassamento non sono soltanto le qualità che potremmo attribuire a un letto preparato con cura e raffinatezza, che disponga a un languido abbandono del corpo, conciliandolo con il sonno,53 ma si trovano anche nei corpi scolpiti. Corpi rozzi e angolosi ingenerano dolore e tensione nelle fibre muscolari. Dolore, tensione, contrazione sono fenomeni che hanno luogo nelle fibre di chi osserva o palpa con la pelle, ma traspaiono anche nel gioco di corpi nudi di gruppi scultorei, e queste osservazioni Lessing le avrebbe proiettate sul Laocoonte. La descrizione del gruppo scultoreo era anche un modo per introdurre la trattazione del disgusto, un altro argomento ereditato da Burke, mediato da un commento nella recensione all’indagine sul sublime di Moses Mendelssohn,54 il quale aveva osservato che di fronte a un oggetto che suscita disgusto, sia esso reale o imitazione, il sentimento sgradevole segue alla rappresentazione nell’anima, ma i sentimenti di disgusto sono pur sempre “natura”, mai rappresentazione, mai imitazione.55 Lessing commentava che lo stesso vale per la bruttezza delle forme, che offende la nostra vista, «contrasta con il nostro gusto per l’ordine e l’armonia e suscita ripugnanza, senza che si tenga conto dell’esistenza reale dell’oggetto sul quale la percepiamo». Ripugnanza e disgusto sono della stessa natura, e tra i sentimenti affini al disgusto vi è quello del brutto nelle forme, nel quale non vi è la minima mescolanza di piacere, e dalle cui rappresentazioni l’anima si ritrae. Mendelssohn era però convinto che esposti al disgusto fossero soprattutto i sensi minori, i più oscuri, il gusto, l’odorato e il tatto, e che solo per associazione di idee certi oggetti divengano ripugnanti anche alla vista, dacché «propriamente non esistono oggetti disgustosi per la vista».56 Odorato e gusto sarebbero esposti al disgusto per l’eccessiva dolcezza, il tatto invece per un’eccessiva mollezza dei corpi, che «non reggono abbastanza alle fibre che li toccano». Non era dello stesso avviso Lessing, che giudicava ripugnanti anche oggetti esposti alla vista, quali una voglia di vino, un naso schiacciato, il labbro leporino, la totale assenza di sopracciglia: queste sono bruttezze che non disgustano quei sensi; viceversa, nel vederle, si prova qualcosa che è più disgustoso di qualunque altra deformità del corpo, tanto che chi è particolarmente sensibile avverte i tremiti che precedono i conati di vomito, anche se questo poi non si verifica quasi mai. Non si verifica, perché alla vista, insieme con quegli oggetti sgradevoli, si presenta anche una quantità di realtà che con la sua rappresentazione piacevole affievolisce quelle disgustose, al punto che queste non hanno quasi più alcuna influenza sul corpo. La stessa cosa non avviene invece con i sensi oscuri, che allorquando vengono a contatto con qualcosa di ripugnante, non sono in grado di percepire quelle realtà piacevoli, e di conseguenza il ripugnante agisce con tutta la sua potenza, tanto da provocare le più violente convulsioni.
29A Lessing faceva eco Herder, per il quale ogni cosa brutta era deformità, «oppressione dello spirito, forma imperfetta rispetto al suo fine», mentre ogni parte del corpo sarà tanto più perfetta quanto più risponderà al suo fine, quanto più «significa quel che deve significare», e questo ideale si concretizza nella statua, che è «uomo e corpo vissuto» insieme. A questo punto Herder faceva appello alla simpatia interiore, che consente la trasposizione del nostro io nella figura percepita, e soprattutto toccata, «[N]oi diventiamo un corpo solo con la statua», alla quale ci rapportiamo non già come superficie, ma con il «dito del senso interno e dell’armonica simpatia» che la tocca,57 anche se non si deve credere che basti la “misura” per ottenere la bellezza della figura: l’essenza dell’arte, con la quale lo scultore dà “carne e ossa” al modello di spirito, carattere e anima che ha in mente, non si riduce di certo a proporzione, rapporti, ordine, simmetria.
4. Il tatto e i filosofi
30La polemica avviata a fine Novecento a favore del tatto contro il cosiddetto “potere” dell’occhio e della vista riecheggia le rimostranze che Herder aveva sollevato nei confronti dei “suoi” Tedeschi a proposito dell’estetica, un campo a cui lui stesso aveva dato un contributo, ma dove tutto era ridotto a “sistema” («Una prova ne è l’estetica: quanto sembra che abbiamo pensato! quanto poco pensiamo!»).58 Da parte sua, aveva già in mente un progetto, che avrebbe dovuto essere ravvivato con la frequentazione di ciechi, muti e sordi, anche se a proposito delle idee di Diderot espresse nella Lettre sur les sourds et le muets, asseriva che potevano essere prese come modello per le ricerche, ma non per creare sistemi in base a esse soltanto.
31Formulando la tesi secondo la quale tutta la pelle che ricopre il corpo è organo del tatto, oggi si ripropone un altro pensiero del letterato-filosofo, che aveva concepito il tatto come esteso su tutta la superficie del corpo, tanto che l’anima in esso racchiusa, a sua volta, “si appoggia” al mondo fondamentalmente grazie al tatto, e attraverso il tatto costruisce il suo corpo.59 Non a caso gli studiosi che si sono interessati alla sua estetica hanno sottolineato che Herder non solo mirava a liberare lo studio dell’arte dalla sudditanza rispetto agli altri ambiti della filosofia, ma soprattutto che, invece di ricercare principi primi, puntava a mettere in rilievo il ruolo degli elementi più naturali del corpo, fatto di muscoli, nervi, tendini ecc., fino a dedicare massima importanza al tatto, rivisitato attraverso il corpo nella sua concretezza. Anzi, la rivalutazione del senso tattile metteva capo a un rovesciamento rispetto alla tradizione, ché vista e udito non costituivano più l’unica porta di accesso alla conoscenza, come era dimostrato dal caso dell’illusione ottico-geometrica dell’asta immersa nell’acqua, che appare spezzata. Al contrario, quella del sentire con il tatto è una vera e propria necessità per gli umani, cui viene spontaneo il toccare (e lo si intuisce da quei cartelli che avvertono il visitatore di una mostra o il cliente al banco della frutta che è “vietato toccare”).60
32A onor del vero, a fronte della posizione polemica sostenuta da coloro i quali lamentano i privilegi della vista a danno della tattilità, sarebbe però inesatto, perlomeno sul piano storico, condividere in toto quella critica. Non risponde al vero che, del tatto, i filosofi abbiano sempre parlato poco o in subordine rispetto alla vista. Non tutti i pensatori hanno manifestato un atteggiamento di indifferenza o addirittura di avversione nei confronti dei sensi minori, e in particolar modo verso il tatto, e neppure hanno avuto verso la mano e la pelle un atteggiamento di minor riguardo rispetto agli occhi o finanche all’organo dell’udito. Semmai, in più di un caso, come vedremo, mano e pelle sono stati presi in esame nel loro rapporto con gli occhi, raramente di per sé, e forse questo è l’unico punto debole che inficia le teorie sia dei razionalisti sia degli empiristi.
33Per l’abate Condillac il tatto era addirittura l’unico senso che «da se stesso giudica degli oggetti esteriori»,61 l’unico a essere in grado di ammaestrare gli altri sensi a giudicare del mondo esterno. Data la sua rilevanza, gli dedicò le due parti centrali del Trattato sulle sensazioni. Con le sole sensazioni degli altri quattro sensi, l’uomo “si crederebbe” lui stesso odore, suono, sapore, colore, ma non avrebbe alcuna conoscenza degli oggetti esteriori. E se rimanesse immobile, lo stesso accadrebbe a proposito del tatto: «non sentirebbe che se stesso».62 Per fortuna, alla famosa Statua protagonista del Trattato è concesso l’uso delle membra per conoscere le parti del suo corpo; inoltre, ubbidendo alla natura, essa impara a muoversi, e la sua mano, organo principale del tatto, le fa provare una duplicità di sensazioni, facendola avvertire di essere nel contempo soggetto e oggetto, mentre questa duplicità viene a mancare quando tocca un oggetto esterno. Quando la mano comincia a toccare, paragonandosi agli oggetti che tocca, la Statua si abitua a rapportare tutte le sensazioni all’estensione. Fra tutte le sensazioni, l’attivazione del tatto le fa scoprire tramite la solidità anche quella dei corpi intorno a lei.63 Di qui, nel toccare gli oggetti circostanti, nascono nella Statua meraviglia e inquietudine, ma le si formano anche «idee più esatte».64 Il tatto guida gli altri sensi. In un primo momento, la vista ha ancora bisogno della mano, che orienta gli occhi a fissarsi sugli oggetti che tocca, facendo acquisire l’abitudine dei movimenti oculari. Trasferendo le sue capacità alla vista, il tatto la rende capace di acquisire la figura, la grandezza, la distanza, senza che poi abbia più bisogno del suo soccorso. Così anche tutti gli altri sensi diventano autonomi. Ma non si deve cadere nell’errore di credere che la Statua sia capace di “ragionare” per passare da sé agli altri corpi; è la natura a ragionare per lei, a organizzarla per farla muovere, toccare, avere sensazioni, al fine di renderla capace di giudicare dell’estensione e dei continui formati dalla “contiguità di continui”.
34La Statua allora preferirà i corpi che le danno piacere, quelli morbidi e levigati, o che, date le circostanze, le infonderanno calore o frescura. Grazie al ricordo di sensazioni precedenti, si formerà idee, e potrà fare comparazioni tra gli oggetti toccati, secondo la distinzione tra due specie di sensazioni tattili, quelle che hanno a che fare con l’estensione, la figura, lo spazio, la fluidità, la durezza o mollezza, la quiete o il movimento e hanno tra loro rapporti ben determinati e conosciuti esattamente, ragion per cui si associano più facilmente nella memoria; e quelle che riguardano il caldo e il freddo, il piacere e il dolore, che hanno rapporti più indeterminati e si conservano nella memoria, perché se ne è avuta impressione più volte.65
35Un giudizio pacato e obiettivo sul tatto rispetto agli altri sensi era anche quello di Kant, per il quale tatto, vista e udito erano i sensi “più oggettivi” della sensazione esterna (mentre gli altri due erano considerati più soggettivi). Il tatto risiede nelle papille della punta delle dita e, grazie al toccamento di una superficie, consente di farsi «il concetto della forma di un corpo», cosa che non avviene negli insetti, che avvertono solo la presenza degli oggetti. Pur essendo la forma di percezione più immediata e diretta, è però anche la più grossolana e limitata, perché la materia deve essere ferma, affinché si possa avere il concetto della forma di un oggetto. Il tatto, inoltre, comprende una minor quantità di oggetti (per esempio, non basta quando si tratta della percezione di una casa) mentre la più nobile vista (giudicata però non più indispensabile dell’udito) «abbraccia la più grande sfera di percezioni nello spazio», avvertendo tuttavia meno degli altri sensi “l’affezione dell’organo” e portandoci più di tutti gli altri sensi «vicino all’intuizione pura (rappresentazione immediata dell’oggetto senza mescolanza di sensazioni)». Nondimeno, Kant ammetteva che alla percezione tattile dovessero essere riferiti gli altri due sensi esterni perché fosse possibile la conoscenza empirica.66
36Pur elaborando una vera e propria “filosofia del tatto”, lo stesso Herder ammetteva che la vista fosse più fine, chiara e distinta rispetto al più grossolano tatto, ma subito correggeva il tiro, facendo notare che la prima si limita a cogliere il mondo come appare, alla superficie, è illusione, non vera conoscenza; questa pertiene solo al tatto, tanto che l’occhio impara a vedere sotto la guida delle mani, e il bambino ha esperienza del mondo intorno a lui a partire dalle cose che tocca. E queste idee avevano una ricaduta sulle arti: mentre la pittura si limitava a descrivere, la plastica era modellazione, creazione e/o imitazione di forme corporee.
37È pur vero che non di rado, tra i filosofi moderni, la disamina dei due sensi è andata di pari passo, e il tatto è stato considerato un precursore essenziale o un fondamentale agevolatore della vista e, talvolta, persino un aiutante, prezioso o gregario. Nell’Essay Locke annoverava le idee del caldo e del freddo, e soprattutto della solidità, tra quelle che si ottengono per mezzo di “un solo senso”, e al tatto riconduceva le qualità della levigatezza e ruvidità, la texture, la fragilità e la durezza, nonché l’idea della mutua dipendenza tra le parti di un oggetto. Sulla scia di una tesi già avanzata da Cartesio,67 anche per Locke il tatto contribuiva alle idee che si ottengono per mezzo di più sensi, come l’estensione, lo spazio, la forma, gli stati di moto e di quiete, che si ricevono con vista e tatto, cosicché “vedendo e toccando” le inviamo alla mente.68 A proposito dello spazio, il tatto ci fa capire che, se non ci fosse spazio tra essi, due corpi dovrebbero toccarsi.69 E lo stesso avviene per l’estensione, che è “sospinta” (forced) in noi tramite vista e tatto.
38Per altri, invece, la vista era senza dubbio il senso “più esteso” o “il più perfetto”.70 Oltre che essere il più esteso, per Malebranche era anche il più nobile ma, come tutti gli altri sensi – intesi come facoltà passiva dell’anima – deputati non a «insegnarci la verità», bensì alla conservazione del corpo (e, di conseguenza, a ingannarci su tutto), poteva commettere errori. Questo accade, in quanto la vista ci rappresenta l’estensione non in se stessa, ma in rapporto col corpo: gli occhi sono stati dati all’uomo non per fargli conoscere la verità, ma solo per fargli distinguere le cose utili da quelle dannose attraverso le vibrazioni delle fibre che arrivano al cervello, e pertanto si possono commettere errori sulle figure, le grandezze, le velocità. Ma l’errore non sta nella sensazione, bensì nei giudizi che se ne traggono.
39Equiparare la vista al “senso più perfetto” valeva anche per Christian Wolff, il quale, fedele alla convinzione di un’utilità pratica della filosofia unita all’esigenza di chiarezza e precisione logica, aveva posto nella gerarchia dei sensi l’udito al di sopra del tatto (per quanto concerne l’uso ordinario), riservando gli ultimi posti a gusto e olfatto, giudicati i sensi più imperfetti.71 Sebbene le figure si percepiscano al tatto “distintamente”, le qualità tattili sarebbero, secondo Wolff, per la maggior parte confuse, anche se al tatto resta comunque l’ufficio di “vicario” della vista, giacché quando e dove si vede una cosa è possibile anche toccarla. Nondimeno, il filosofo ammetteva che con il beneficio del tatto si possano acquisire le idee della linea, e sia possibile distinguere una superficie curva da una piana, le figure piane, rettilinee, curvilinee e miste, il concavo dal convesso, l’ampiezza di una convessità, e decidere in presenza di un angolo retto se una linea sia perpendicolare a un’altra, ma anche enumerare le cose, distinguendone genere e specie. Palpando con la mano, si scopre inoltre se un corpo è integro o suddiviso in parti72. A Wolff, infine, risale un pensiero che avrebbe fatto scuola nel Settecento, e cioè l’idea che, quando si distingue una figura o una grandezza, l’uso del tatto abest da quello dell’occhio, separato un lungo intervallo temporale, cosicché il suo impiego risulterà molto più limitato e lento rispetto alla vista (minor & restrictus). Anche Herder alludeva a un umile sentire tattile che «tasta lentamente», così come, insieme con Diderot, considerava la vista il senso della distanza,73 che però significava una dispersione della realtà. Lo stesso era per Wolff, ma inteso con una connotazione favorevole: la vista arriva a comprendere le cose distanti, mentre il tatto si limita a quelle vicine, che si possano toccare, ma non quelle piccolissime, come la struttura di una foglia o di un fiore, che sono distinguibili alla vista, grazie all’anatomia, ma non al tatto. Pertanto, sono molto più numerosi gli oggetti riconoscibili con la vista che non quelli di pertinenza del tatto, e la vista li comprende anche con un solo sguardo e con mirabile celerità, mentre al tatto occorre perlustrare con il movimento delle dita e della mano, con un’attenzione non comune e impiegando un tempo lungo, ciò che gli occhi farebbero in un attimo.74
40Chi invece, prima di Wolff, si era mantenuto equidistante nella considerazione dei due sensi era stato Berkeley, che aveva affrontato il tema nel saggio giovanile del 1709 dedicato a una “nuova teoria della visione”.75 Proponendosi di trattare la percezione mediante la vista di “distanza, grandezza e posizione” degli oggetti, aveva però sottolineato fin da subito che questi aspetti non possono essere percepiti direttamente dalla vista, e soprattutto che le idee della vista e quelle del tatto sono ben differenti tra loro, appartenendo a due serie distinte. Ciò non impedisce che siano associabili, poiché la mente passa “immediatamente” dall’oggetto visibile ad alcune idee del tatto, giacché l’esperienza maturata ci ha fatto conoscere la connessione tra essi. Anche se non esiste alcuna connessione necessaria, le idee cosiddette tangibili relative alla distanza, alla solidità e alla figura possono essere connesse “abitualmente” con quelle della vista.
Noi non possiamo aprire gli occhi, senza che le idee di distanza, di corpi e di figure tangibili ci vengano suggerite da essi. Tanto è rapido, subitaneo e inavvertito il passaggio dalle idee visibili a quelle tangibili, che noi possiamo a mala pena trattenerci dal credere ch’esse sono del pari oggetti immediati della visione.76
41E questo pregiudizio, secondo Berkeley, è così radicato, che non possiamo sbarazzarcene se non con uno sforzo tenace e un lavorio della mente. L’associazione abituale dà luogo a una tale mescolanza e confusione che, sebbene le proprietà di figura ed estensione tangibili non siano la stessa cosa di quelle visibili e «gli oggetti della vista e del tatto siano due cose distinte», possono però esser presi per una sola e stessa cosa.77 Che gli oggetti che vediamo non siano gli stessi che tocchiamo, è dimostrato anche dal rapporto tra gli oggetti del tatto e dell’udito: il rumore della carrozza che udiamo non è la stessa cosa della carrozza che tocchiamo, e quel che si ode è il rumore, non la carrozza tangibile, e dunque non si capisce perché tra la vista e il tatto dovrebbe instaurarsi un rapporto diverso da quello esistente tra il tatto e l’udito.78
42La disamina del tatto permetteva a Berkeley di raggiungere alcuni obiettivi che gli stavano a cuore, e cioè che il mondo visibile non raffigura quello tangibile ché le percezioni visive e quelle tattili non si rassomigliano; che tra esse non vi è alcun nesso causale, e il loro collegamento non dipende da una funzione logica, bensì da una connessione abituale sulla quale il filosofo insiste e ritorna più volte nel saggio, impiegando i concetti di customary, habitual, close connexion. È in conseguenza del linguaggio che non viene rispettata la separazione percettiva tra i due sensi, in quanto si adotta lo stesso nome per riferirsi agli oggetti visti e a quelli toccati: la difficoltà a concepire correttamente questa distinzione è vieppiù accresciuta «per il fatto che un complesso di idee visibili porta lo stesso nome del complesso di idee tangibili col quale è associato – il che deriva necessariamente dall’uso e dal fine del linguaggio».
43La discussione sul tatto rivestiva per Berkeley un peculiare interesse in quanto la sua teoria della separazione tra le due specie di oggetti e relative percezioni (visibili e tangibili) gli serviva per opporsi alla teoria (di ascendenza aristotelica) di un sensorium e di una funzione comuni, cui ricondurre tutte le caratteristiche degli oggetti, dalla figura al movimento, dallo stato di quiete alla grandezza:
Le estensioni, le figure e i movimenti percepiti dalla vista sono specificamente distinti dalle idee del tatto, chiamate con lo stesso nome; e nessuna cosa che sia un’idea, o una categoria d’idee, è comune ai due sensi.79
44Il tatto era altresì importante ai fini della capacità di comprensione della geometria (piana e solida), come dimostra l’esperimento mentale di uno spirito incorporeo che ne fosse privo, ma in grado di vedere perfettamente: una tale intelligenza non potrebbe avere idea né della distanza, né dell’esteriorità o della profondità, né di spazio e di corpo, e di conseguenza di quelle parti della geometria che comprendono i solidi. Ma non potrebbe neanche capire quella piana, né la descrizione di una linea retta o di una curva, non saprebbe che cosa sono riga e compasso, né capirebbe la sovrapposizione dei piani o il confronto tra gli angoli. Con la sola vista, una tale intelligenza si limiterebbe ai colori e alle loro sfumature, e alle variazioni di luci e ombre. Berkeley ammetteva che non fosse facile “penetrare” nei pensieri di uno spirito siffatto, perché per noi è impossibile districare nella nostra mente gli oggetti della vista da quelli del tatto, così come è impossibile separare i suoni delle parole dai loro significati.
45Oltrepassa i limiti del presente lavoro seguire gli ulteriori sviluppi e rettifiche della teoria della visione che Berkeley avrebbe affrontato nei Principles e nell’edizione del 1733. I suoi argomenti sono stati oggetto di una storiografia che ha sottolineato come, in quell’opera d’esordio, Berkeley sostenesse la concezione che gli oggetti tangibili esistono nello spazio (esterno alla mente), a differenza delle percezioni visibili che sono mentali.80 Qui basterà sottolineare che quella distinzione (tra idee tattili e visive) era stata il punto d’avvio che avrebbe messo capo al ruolo dello Spirito unificatore e ordinatore: le idee della vista non ci informano che gli oggetti esistono a una certa distanza, ma solo che certe idee tattili saranno impresse nella nostra mente a una certa distanza di tempo e in base a certe azioni.81 (Con quelle idee visibili, lo Spirito ci avverte che, in conseguenza di un tale o tal altro movimento del nostro corpo, imprimerà in noi certe idee tangibili. E soprattutto sarà chiaro che sono queste ultime ad arrecare danni o vantaggi, mentre le idee anticipatrici della visione dovrebbero consentirci di prevedere tutto ciò che si opponga al benessere e alla conservazione dei nostri corpi, evitando ciò che invece li può danneggiare o distruggere.) Ma che le idee tratte dalla vista non siano poi così necessarie era comprovato anche dai sempre più numerosi casi dei ciechi nati, che si affacciavano alla considerazione dei filosofi, i quali vi dedicavano elaborate riflessioni, interrogandosi se si potesse vivere bene anche col solo senso del tatto, per oscuro e minore che fosse. Anzi, come avvertiva Herder nell’incipit della sua Plastica a proposito del primo cieco dalla nascita citato da Diderot nella sua lunga rassegna di casi,82 costui non invidiava affatto, a chi lo possedeva, il senso della vista ma, se avesse potuto accrescere i suoi sensi, avrebbe desiderato avere braccia lunghissime per capire che cosa succede sulla luna, e non occhi, che come i telescopi, sulla luna non dicono granché.
5. Il tatto e il contributo dei ciechi nati
46In principio era stato il caso presentato a Locke nel marzo del 1692 dal suo corrispondente dottor William Molyneux, studioso di ottica e astronomia, membro della Royal Society dublinese nonché traduttore di Cartesio. Si trattava del problema – jocose per il suo proponente, ma denso di implicazioni filosofiche, e destinato a diventare un caso di studio ampiamente dibattuto nel corso del Settecento83 – di un cieco nato, che avesse imparato a distinguere col tatto un cubo da una sfera dello stesso metallo e suppergiù della stessa grandezza. Se ne era occupato anche Berkeley, il quale rinviava al trattato sulla diottrica di Molyneux e descriveva il problema secondo quanto esposto da Locke nella seconda edizione del suo Saggio. Acquistata la vista da adulto, quell’uomo sarebbe stato in grado di distinguere i due solidi ancor prima di toccarli? Quantunque il cieco potesse far tesoro dell’esperienza in cui il globo e il cubo impressionano il suo tatto, non avendo ancora acquisito l’esperienza del modo in cui impressionano la vista, la conclusione non poteva che essere negativa. Locke si era dichiarato d’accordo con Molyneux che, “al primo vedere”, il cieco non sarebbe stato in grado di dire quale fosse il globo e quale il cubo. Sebbene avesse avuto esperienza di come una sfera tocchi il senso del tatto, così come lo stesso faccia il cubo, non avrebbe però avuto esperienza che una cosa che agisce su uno del due sensi deve “toccare” (affect) nello stesso modo anche l’altro.84
Sono d’accordo con il pensiero di questo signore, che sono orgoglioso di chiamare un amico, nella risposta che dà al problema e credo che il cieco, al momento di vederli per la prima volta, non sarebbe in grado di dire con certezza quale fosse il globo e quale il cubo, finché li vede soltanto, anche se poteva senza fallo nominarli e distinguerli mediante il tatto, per la differenza delle loro figure percepita dalle mani.
47Dello stesso avviso Berkeley, il quale però motivava diversamente la sua risposta, e giudicava senza senso la domanda se fosse stata posta al cieco. Per Berkeley le idee della vista sono percezioni nuove, a cui è impossibile associare i due nomi (cubo e sfera) applicati a cose percepite col tatto. Per di più, riacquistata la vista, ma non avendo potuto correlare in precedenza percezioni tattili a percezioni visive, il cieco non sarebbe neppure in grado di associare i concetti di distanza, di posizione e di dimensione degli oggetti.
48Sul problema posto da Molyneux, che per molti esperti avrebbe dato impulso allo sviluppo della teoria della visione, Condillac forniva una risposta diversa da quella degli empiristi inglesi,85 dei quali non intendeva abbracciare fino in fondo le conseguenti tesi materialistiche. Intanto, le condizioni che i due solidi fossero della stessa grandezza e dello stesso metallo gli sembravano superflue. Anzi, il fatto che si specificasse che fossero della stessa grandezza poteva insinuare che la sola vista riuscirebbe a distinguere grandezze differenti senza l’aiuto del tatto e quindi, «stando così le cose», non si capiva perché, riacquistata la vista, venisse negato che con la sola vista il cieco potesse distinguere le figure. Per di più, Molyneux e Locke avrebbero dovuto formulare questo problema (che avevano posto per la figura) anche a proposito delle grandezze, delle situazioni e delle distanze, arrivando alla conclusione che il cieco non sarebbe in condizione di giudicare su nessuna di esse. Berkeley per primo aveva pensato giustamente che la vista, da sola, non arriverebbe a giudicare su nessuna caratteristica. Senza esperienza, gli occhi vedrebbero i colori e la luce in se stessi, mentre è il tatto a insegnare «a veder di fuori».
49Il successo di questa discussione, e il fatto che vi partecipassero studiosi di svariati ambiti e nazionalità, era un effetto, tra le altre cose, anche dell’avanzamento in campo oculistico nelle operazioni di cataratta congenita bilaterale, che avevano restituito la vista in più di un caso di ciechi nati. Nel 1728 era apparso sulle Philosophical Transactions della Royal Society il resoconto di William Cheselden,86 definito da Voltaire uno di quei chirurghi che univano la luce dello spirito all’abilità della mano.87 L’asciutto report descriveva l’esito di un suo intervento di cataratta, eseguito – prima su un occhio e l’anno seguente sull’altro – su un ragazzo tredicenne, il quale però, nonostante il successo dell’operazione, incontrava enormi difficoltà visive e non riusciva a esprimere giudizi sulle distanze, sulla grandezza e sulla forma degli oggetti. Il giovinetto pensava che gli oggetti “toccassero” i suoi occhi così come gli oggetti del tatto facevano sulla pelle, e riteneva che i più piacevoli fossero quelli levigati e regolari, benché non fosse in grado di distinguerne la forma né la grandezza e, avendo molti oggetti da riconoscere, finiva per dimenticarseli.88 (D’altronde, anche Herder non sosteneva che gli occhi cercano di sostituire il tatto, come se toccassero o afferrassero?) Nell’Histoire naturelle de l’homme, nel paragrafo dedicato alla vista, Buffon aveva riportato un resoconto dettagliato dell’esperienza descritta dal giovane, il quale tra l’altro non riusciva a capacitarsi di come la stanza in cui si trovava facesse parte della casa e perciò la casa fosse più grande della stanza.89 La stessa difficoltà incontrava per il ritratto di suo padre, a proposito del quale non capiva come una faccia così larga potesse essere contenuta nella cassa di un orologio. La percezione della grandezza riusciva ancora più difficoltosa quando non si aveva una precisa idea della distanza, e questa valutazione era ancor più difficile nell’oscurità, quando gli oggetti appaiono molto più grandi di quanto non siano in realtà, ma – commentava Buffon – questo vale per chiunque, e non solo per chi avesse riacquistato la vista, come i pazienti descritti da Cheselden.
50Grazie all’interesse di filosofi e naturalisti intervenuti a dire la loro – tra i quali non mancarono Voltaire e D’Alembert – i casi di ciechi nati divennero una fonte di elementi preziosi per discutere sui sensi, e sui rapporti tra i sensi, dacché nelle loro narrazioni i ciechi descrivevano per lo più la vista come una specie di tatto per conoscere gli oggetti, cui il tatto aggiunge l’idea del rilievo.90 Alla discussione non si era sottratto Herder, che nella Plastica citava esempi di scultori ciechi che lavoravano la cera, ed erano ancor «più capaci di quelli dotati della vista», come nel caso di un artista menzionato dal teorico francese Roger De Piles. Nelle sue opere, il Dialogue sur le coloris e il Cours de peinture par principes, il rubenista De Piles riportava una battuta di questo scultore cieco, toscano di Gambassi, autore di ritratti in cera, il quale gli aveva confidato che i suoi occhi erano «sulla punta delle dita». L’artista diceva di “palpare” l’originale, tastandone le protuberanze e le cavità col proposito di conservarle nella memoria, dopo di che metteva la mano nella cera, e per mezzo di un lavorio di confronto, portava a termine la sua opera.91
51In ambito medico, chiarificatori erano gli esiti dell’operazione condotta da Cheselden, che concretizzava sul piano anatomico il problema posto da Molyneux. Voltaire riteneva che l’esperienza del giovinetto confermasse le tesi di Locke e Berkeley: una prova era il grande stupore del ragazzo quando, dopo due mesi, ebbe contezza che i dipinti rappresentassero corpi solidi e non superfici diversificate secondo i colori, e si sforzava di toccarli con le mani sulla tela, domandandosi quale senso sbagliasse, se il tatto o la vista. Nel Saggio sull’origine delle conoscenze umane Condillac rinviava alla fisiologia dell’occhio e al loro esercizio in presenza della luce, un’esperienza che al ragazzo ovviamente difettava, e alla quale andava riabituato con lentezza, posto che le regole dell’ottica non bastano per spiegare che cosa avviene nel fondo dell’occhio.92 Tra i più impressionati da quel caso fu certamente Diderot, il quale arrivò ad affermare – per quanto riguardava la teoria dei sensi – di «aver meno fiducia» in una persona che avesse recuperato di recente la vista e vedesse «per la prima volta» piuttosto che in un filosofo che avesse meditato a lungo nelle tenebre.93 Anzi, qualsiasi cieco operato di recente avrebbe dovuto esser tenuto ancora per qualche tempo nell’oscurità e poi, al momento opportuno, interrogato in accademia da scienziati e filosofi. Il caso proposto da Molyneux, in fondo, riguardava proprio questo problema, se un cieco nato, operato di cataratta, fosse in grado di servirsi degli occhi subito dopo l’intervento, un fatto che i sostenitori di entrambe le tesi, cioè che il soggetto potesse o meno riconoscere il cubo dalla sfera, davano per scontato. E a proposito di un altro caso di studio, quello di Nicholas Saunderson, professore cieco di matematica a Cambridge, stimato persino da Newton, Diderot ne era rimasto così colpito da arrivare persino a leggerne i lavori di algebra e geometria, oltre che ad approfondirne la conoscenza della vita privata, ricavandone la convinzione che quel caso umano, data la sua eccezionalità, meritasse di esser presentato ai filosofi, idealisti ed empiristi. Per di più la lettura delle sue opere faceva capire come l’idealismo avrebbe potuto originarsi come sistema proprio a partire dai ciechi. Anzi, tutta la filosofia, soprattutto per quanto concerne la teoria della percezione sensibile e, in particolare, quella “ingarbugliata” della visione, avrebbe tratto grande giovamento dai quesiti posti a un cieco di buon senso.
52Per Diderot la cecità fu oggetto di «longue méditation», alimentata dalla casistica passata in rassegna nella sua Lettre, il cui riassunto a sua volta costituì il corpo centrale della voce “Aveugle” redatta da d’Alembert. Diderot non faceva mistero che il suo interesse avesse avuto origine a partire proprio da Saunderson, morto dieci anni prima della pubblicazione della Lettre. Saunderson, che era rimasto cieco fin dalla prima infanzia a causa del vaiolo, avrebbe avuto certamente un vantaggio potendo disporre di un’aritmetica tattile già pronta, invece di doversene creare una a 25 anni! I suoi progressi conseguiti nelle “belle lettere” e in matematica avevano avuto avvio a partire da un ingegnoso apparato da lui escogitato per i calcoli algebrici e per la descrizione di figure rettilinee. Si trattava di una tavola quadrata suddivisa da perpendicolari in 4 parti uguali in modo tale da formare nove punti, numerati dall’1 al 9, segnati con fori, nei quali venivano inseriti spilli con capocchie più o meno grandi. Gli spilli erano posti in modo tale (quelli a capocchia grande sempre al centro del quadrato e quelli piccoli ai lati) da rappresentare i numeri attraverso una precisa corrispondenza: per determinare un numero, occorrevano le “espressioni del tatto”,94 cosicché bastava conoscere il punto in cui era inserito lo spillo che denotava il numero precedente a quello richiesto, con capocchia sempre grande e posto al centro, ponendo a lato quello a capocchia piccola, che rappresentava l’avanzamento di un’unità, cioè il numero richiesto. Questo sistema gli consentiva anche di distinguere le figure piane rettilinee, dimostrandone le proprietà e permettendo di calcolarne le superfici con l’agile movimento delle dita. Pur potendo comprendere solo la metà delle idee associate alle parole che usava (avendo a disposizione solo la metà delle idee provenienti dai sensi), Saunderson diede prova di essere eccellente anche come docente di ottica e di teoria della visione e, pur senza aver mai visto un raggio di luce, la cecità non gli impedì di trattarlo alla stregua di un filo elastico.
53Questa sorta di “allenamento” sui casi di cecità aveva il pregio di dimostrare che il tatto poteva persino «diventare un senso più raffinato della vista»:95 Saunderson infatti era in grado col tatto di distinguere le monete vere da quelle false, un fenomeno che ricordava quello menzionato da Winckelmann a proposito del cardinale Albani, il quale arrivava addirittura a riconoscere chi fosse l’imperatore effigiato su una delle due facce. La minorazione visiva gli acuiva gli altri sensi al punto che il matematico era in grado di riconoscere i luoghi che aveva visitato anche una sola volta dalla risonanza che ne davano i muri e il pavimento, e si accorgeva dei cambiamenti atmosferici intorno a lui, come se “vedesse” con la pelle, organo diventato di sensibilità eccezionalmente delicata tanto che, se sulla sua mano si fosse tracciato il ritratto di un suo amico, sarebbe stato capace di riconoscerlo. Quindi non solo il matematico cieco riusciva a stabilire la somiglianza di un busto con l’originale (e di qui Diderot deduceva che «un popolo di ciechi poteva avere degli scultori»)96, ma poteva persino esistere una pittura per ciechi, e la pelle fungere da tela.
54Se con l’esperienza il bambino apprende l’idea della continuità dell’esistenza degli oggetti (anche quando spariscono alla sua vista) e con il tatto la nozione della loro distanza e dell’esistenza degli oggetti esterni, e se pure «non si può dubitare che il tatto sia decisivo nel fornire all’occhio una conoscenza precisa della conformità dell’oggetto con la rappresentazione ricevuta da tale organo»,97 nondimeno Diderot riteneva l’occhio autosufficiente, in grado di esercitarsi anche da solo: se per accertarsi circa l’esistenza e la figura degli oggetti basta il tatto e non occorre la vista, lo stesso potrebbe dirsi della vista, cui non necessita l’aiuto del tatto. Quali che siano i suoi vantaggi (ampiamenti riconosciuti nel caso dei ciechi nati), Diderot non era disposto però a concedergli alcun privilegio:
È facile concepire che l’uso di un senso possa essere perfezionato e accelerato grazie alle osservazioni di un altro senso; ma non che per questo deve esserci una dipendenza essenziale tra le loro funzioni.
55I “servigi” di entrambi i sensi sono reciproci, e anzi la vista – più delicata – può suggerire al tatto sottigliezze e modificazioni che gli sfuggirebbero. Anche se un cieco potrebbe difficilmente ingannarsi al riguardo, ma
[s]e, a vostra insaputa, vi si ponesse tra il pollice e l’indice un foglio di carta, o qualche altra sostanza liscia e uniforme, sottile e flessibile, soltanto il vostro occhio potrebbe informarvi che il contatto delle dita non sarebbe immediato.
56Il tatto non insegna all’occhio a distinguere i colori (sebbene Diderot citasse il fenomeno di un cieco che riconosceva al tatto i colori dei tessuti), così come non dà alcun contributo alle condizioni necessarie affinché si metta in moto la visione, e se pure all’occhio occorre esercizio, il tatto non gli è necessario per fare esperienza, per istruirsi, nemmeno per discernere, oltre ai colori, i contorni degli oggetti. Anzi, quando si tratterà di distinguere il cubo dalla sfera, una volta riacquistata la vista, alla lunga il cieco vi riuscirà grazie ai contorni resi possibili dai colori, tanto più se il cubo è nero e la sfera rossa. Tuttavia, a proposito del quesito più spinoso, se chi avendo riacquistato la vista possa attribuire i nomi appropriati agli oggetti familiari al tatto, Diderot proponeva di distinguere i ciechi a seconda che fossero persone rozze, persone comuni, filosofi o addirittura matematici e fisici come Saunderson, e aveva in mente un esperimento simile al caso di Molyneux, ma con le figure piane, cerchio e quadrato, perché chi vede per la prima volta, vede solo superfici. Lo scienziato cieco ci sarebbe riuscito, poiché avrebbe inserito spilli e fili per delineare le figure così come faceva per insegnare ai vedenti la geometria, senza che questi toccassero l’abaco con i fili e gli spilli. Ma quel che era possibile alla vista recuperata trattandosi di figure piane o di solidi, non lo era probabilmente con gli oggetti più complessi della vita reale, quali cuffie, vestaglie, guanti ecc.
57Alla fine, il problema del cieco nato ne suggeriva altri due affini: uno era il caso specularmente opposto di un vedente privato dal tatto: qualora lo avesse recuperato, sarebbe stato in grado da bendato di riconoscere i corpi toccandoli? Probabilmente sì, ma solo con l’aiuto della geometria. L’altro era il fenomeno di chi avesse sensazioni visive e tattili tra di loro contraddittorie, tali che a proposito di una certa forma, questa non sarebbe stata né quella che il tatto sentiva, né quella che vedevano gli occhi. È probabile che questo tale finisse per prendersela più col tatto che non con la vista, anche se la diversa durezza dei corpi gli avrebbe creato qualche dubbio in proposito. Si capisce che per Diderot, e non solo per lui dacché questo discorso valeva per gran parte degli illuministi, la disamina del tatto non era fine a se stessa, bensì serviva per argomentare sul senso della vista, innato o acquisito che fosse e, nel panorama della sensorialità, a quale senso toccasse il primato ai fini della conoscenza. Quantunque al tatto fossero riservate le dovute attenzioni, la sua funzione appare comunque subalterna a quella degli occhi, con l’udito intermediario nella gerarchia, laddove anche Herder aveva sistemato il secondo senso “fine”.98 Diversamente da Diderot, tuttavia, Herder – pervicacemente convinto che il tatto fosse il senso principe – altrettanto polemicamente si domandava se dovesse «divenire un cieco ridotto al solo tatto per indagare la filosofia di questo senso»,99 ma poi pensava di essere sulla buona strada, non limitandosi ad affermazioni risapute del tipo «la pittura è per gli occhi» e «la scultura è per il tatto» o «gli occhi vedono superfici» e «il tatto tocca le forme», tutte scoperte povere, per non dire risibili, considerando come siamo abituati a usare la vista più del tatto, anzi, persino al suo posto. Nell’Antropologia pragmatica, Kant riassumeva l’intera storia laddove trattava dell’immaginazione, arrivando alla conclusione che:
[q]uando la mancanza di un senso (per esempio della vista) viene dalla nascita, allora il disgraziato coltiva come può un altro senso, che fa le veci di quello, esercita in gran misura l’immaginazione produttiva; egli cerca di rendersi comprensibili le forme dei corpi per mezzo del tatto e, quando questo non basta (come nel caso di una casa), cerca di rendersi comprensibile la spazialità per mezzo di un altro senso, come l’udito, cioè con la risonanza delle voci in una camera; ma alla fine, se una felice operazione rende l’organo libero per la sensazione, allora egli deve anzitutto imparare a vedere e udire, cioè a cercar di portare le sue percezioni sotto i concetti di questa specie di oggetti.100
58Verso la fine del secolo, la questione dei ciechi poteva ritenersi, se non risolta, comunque esaurita, e venne ricostruita in una serie di Mémoires “sul problema di Molyneux”, presentati all’Accademia berlinese dall’erudito Johann-Bernhard Merian, che ne fu segretario dal 1797. Nel quarto Mémoire, del 1774, Merian riconosceva che non vi fosse senso che potesse interessare quanto il tatto, da cui «dipendono la salute o la distruzione del nostro corpo», mentre tutti gli altri sensi avrebbero solo la funzione di avvertirlo di ciò che gli può piacere o nuocere. Dopo il tatto, la vista è «il senso di cui facciamo uso più frequente», ma anche quello che fa nascere più questioni, insinua dubbi ed esige esperimenti filosofici. E Merian aveva avuto fiuto, poiché, ancora anche nei secoli successivi al quesito posto da Molyneux, quel senso portatore di ambiguità avrebbe continuato a creare problemi. Aveva colto nel segno quando commentava:
Il senso del tatto è per noi di tutt’altra importanza rispetto a quello della vista. Senza dubbio, privato della vista, l’uomo perde uno spettacolo affascinante; ma i sensi che gli restano bastano alla sua conservazione.101
59Oltretutto non si può desiderare ciò che non si è mai provato, un fatto incontrovertibile per i ciechi nati, a proposito della vista. Ben più miserevole sarebbe la condizione dell’uomo privato del tatto, ammesso che un uomo simile possa esistere; per lui lo spettacolo dell’universo all’inizio avrebbe scarsa attrattiva, perché quella bellezza è data dalla mescolanza tra le qualità tattili e visive; ma presto, le cose peggiorerebbero, perché quell’uomo sarebbe destinato a essere mutilato o a fratturarsi. È certamente più conveniente essere avvisati dalla vista degli effetti che ci farebbero le cose che tocchiamo piuttosto che sapere dal tatto quali sono gli effetti delle cose che vediamo!
Notes de bas de page
1H. Wölfflin, Prolegomena zu einer Psychologie der Architektur (1886), tr. it. a cura di L. Scarpa con introduzione di D. Hoffmann-Axthelm, Psicologia della architettura, Cluva, Venezia 1985, p. 28 (in corsivo nel testo).
2Ivi, p. 37 (in corsivo nel testo).
3Ivi, p. 30 (nell’originale: «die grossen Daseingefühle, die Stimmungen»)
4Tuttavia, a proposito della “pur ammirevole” teoria di Schopenhauer, Wölfflin commentava che neppure il filosofo stesso avrebbe potuto credere a ciò che sosteneva, e cioè che pesantezza e rigidezza sarebbero l’unico oggetto dell’architettura! Ivi, p. 39.
5Ivi, p. 61.
6Sul rapporto con Lipps, di cui si tratterà più avanti, si veda il bel saggio di Maria Rosaria De Rosa, Theodor Lipps. Estetica e critica delle arti, Guida, Napoli 1990, p. 84 e sgg. Cfr. inoltre M. Jarzombek, De-Scribing the Language of Looking: Wölfflin and the History of Aesthetic Experientialism, “Assemblage”, 23, 1994, pp. 8-69, spec. pp. 32-44.
7Wölfflin, Psicologia della architettura cit., p. 32. Cfr. R. Vischer, Über das optische Formgefühl: Ein Beitrag zur Aesthetik, Credner, Leipzig 1873, p. 20.
8Wölfflin, Psicologia della architettura cit., p. 33.
9A questo riguardo, Tonino Griffero (ma non è il solo!) imputa a Wölfflin il permanere di una qualche timidezza teoretica, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 102.
10Wölfflin, Psicologia della architettura cit., p. 31 e cfr. p. 54.
11Cfr. Hoffmann-Axthelm, “Introduzione”, ivi, pp. 7-22, p. 15. In alcuni luoghi Wölfflin si serviva del concetto di autotrasposizione, riprendendolo da Johann Völkelt, anche se a questo riguardo ne sottolineava il carattere di “imprecisabile”. Sull’idea dell’“analogia” doveva aver influito l’“analogia della percezione” cui alludeva Wundt, che la individuava tra i rapporti di parentela delle sensazioni dei diversi organi di senso.
12Wölfflin, Psicologia della architettura cit., p. 55.
13Tra le proprietà estetiche della bellezza formale anche Semper includeva armonia, proporzione, simmetria, euritmia. A proposito di quest’ultima, rilevata nella natura organica, vegetale e nei cristalli e nei fiocchi di neve, osservava che è una simmetria chiusa, o una serie chiusa di sezioni spaziali di forma identica, non in rapporto diretto con lo spettatore, ma solo con il centro, attorno al quale sono allineati perifericamente gli elementi della forma naturale. Cfr. Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten oder praktische Aesthetik, I pt., Bruckmann, München 18782, pp. 31, 32 e passim.
14Wölfflin, Psicologia della architettura cit., p. 64.
15Ivi, p. 72.
16Si veda a questo riguardo la prefazione di D. Fornari a una nuova edizione della traduzione italiana dei Prolegomena, uscita per i tipi di et al., Milano 2010, p. 6.
17Hoffmann-Axthelm, “Introduzione”, in Psicologia della architettura cit., p. 18.
18Ibidem.
19Non tutti però concorderebbero con questo giudizio su Wölfflin, al quale si riconosce il merito di una trasformazione del discorso sull’architettura da un’indagine sulle forme tettoniche a un approccio basato sull’esperienza dello spazio inteso come “esperienza vissuta”, che il corpo sente attraverso i suoi movimenti, in un’attività cinestetica. Pertanto, per Wölfflin la bellezza di uno spazio architettonico non è quella percepita sulla retina, bensì il sentire una relazione tra le forme e le sensazioni vitali del corpo in movimento. Cfr. V. Ionescu, Architectural Symbolism: Body and Space in Heinrich Wölfflin and Wilhelm Worringer, “Architectural Histories”, 4(1) 10, 2016, pp. 1-9, p. 3 e sgg.
20Su questo tema e questi rapporti, si veda il bel saggio di G. Maragliano, La visione che tocca. Una metafora assoluta da Herder a Wölfflin, in La polifonia estetica: specificità e raccordi, a cura di M. Venturi Ferriolo, Guerini, Milano 1996, pp. 129-138.
21J.G. Herder, Plastik (1778), tr. it. Plastica, a cura di G. Maragliano, Aesthetica, Palermo 1994, p. 41.
22Ivi, p. 42.
23Ivi, p. 86.
24J. G. Herder, Vom Erkennen und Empfinden der menschlichen Seele (1778), tr. it. di F. Marelli, Saggio sul conoscere e il sentire dell’anima umana. Osservazioni e sogni, “Aisthesis”, 2, 2009, pp. 99-129, p. 118.
25Herder, Plastica cit., p. 43.
26A. G. Baumgarten, Aesthetica (1750), § 1.
27Il fatto che, secondo una tesi consolidata, pittura e scultura avessero origine entrambe dal disegno, sembrava aver avuto una ricaduta negativa sulla seconda, al punto che il poliedrico conte Caylus riconosceva che alla scultura non fosse riservato lo stesso interesse di cui godeva la pittura.
28Herder, Saggio sul conoscere e il sentire dell’anima umana cit., p. 117.
29Id., Plastica cit., p. 46.
30Ibid.
31Ivi, pp. 48-49.
32Ivi, p. 50.
33E.H. Gombrich, Moment and Movement in Art (1964), tr. it. di A. Cane, Momento e movimento nell’arte, in L’immagine e l’occhio. Altri studi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Einaudi, Torino 1985, pp. 37-63, pp. 38-40. Cfr. Shaftesbury, A Notion of the Historical Draught Or Tablature of the Judgment of Hercules ...(1713), § 7, p. 9.
34J. Harris, A Discourse on Music, Painting and Poetry (1744), in The Works of James Harris, Tegg, Oxford 1841, nota p. 30.
35In Von der Grazie in den Werken der Kunst (1759) osservò che a Bernini la grazia non era apparsa neppure “nei suoi sogni”..
36G.E. Lessing, Laocoon (1766), tr. it. Laocoonte, a cura di M. Cometa, Aesthetica, Palermo 2020, p. 40.
37Herder, Plastica cit., p. 50.
38Lessing, Laocoonte cit., p. 28.
39Si noti che nella poesia greca prima di Virgilio i serpenti marini attaccavano soltanto i figli di Laocoonte. Quindi la scultura segue il suo testo, benché non manchino le differenze riguardanti l’avvolgimento delle spire.
40G. Pucci, Il Laocoonte e l’estetica del sublime, in Munera amicitiae. Miscellanea di studi archeologici per Enzo Catani, a cura di E. Stortoni, EUM, Macerata 2020, pp. 411-424, p. 416.
41Herder, Plastica cit., p. 65.
42«La necessità inventò i vestiti, ma che cosa ha a che fare l’arte con la necessità?»
43Herder, Plastica cit., p. 56 e p. 105.
44Ivi, p. 96.
45A proposito delle amate statue greche, Herder notava che nei loro corpi, «ogni muscolo si solleva, […] nulla diventa tavola», ivi, p. 94.
46Per Diderot però la simmetria è benissimo percepita dal tatto, che nel caso dei ciechi consente di avere idee meno belle, ma più precise di quelle dei filosofi veggenti.
47Herder, Plastica cit., p. 67 e p. 82.
48Sull’“elenco” di come «l’aspetto plastico della carne» e «l’espressione dello spirito» dovessero esser resi nella statua – dall’abbigliamento alle vene e cartilagini, dai sopraccigli alla fronte, al petto ecc., si veda il suo Journal meiner Reise im Jahr 1769, tr. it. Giornale di viaggio 1769, a cura di M. Guzzi, Spirali, Milano 1984, p.141.
49Si deve a Maragliano (Plastica cit., nota 143, p. 128) il riferimento al libro di Giobbe 33, 6 nell’Antico Testamento: «Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch’io fui tratto dall’argilla».
50Sul “percorso” e la fortuna del concetto di “sublime”, cfr. E. Franzini, Il sublime come idea estetica, “Studi di estetica”, 43, 2015, pp. 45-67; Id., Un corpo da toccare. Riflessioni sulla tattilità da Burke a Herder, in Il romantico nel Classicismo/Il classico nel Romanticismo, a cura di A. Costazza, LED, Milano 2017, pp. 73-86, https://www.ledonline.it/ledonline/815/romanticismo-classicismo-Franzini.pdf.
51E. Burke, Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of The Sublime and Beautiful (1757; 1759), tr. it. Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Aesthetica, Palermo 1985, pt. III, § xiv, p. 130.
52Ivi, pt. III, § xxiii, p. 135.
53Ivi, pt. IV, § xx, p. 159.
54Lessing, Laocoonte cit., p. 92.
55Nella Bibliothek der schönen Wissenschaften und der freyen K¨unste del 1758 uscì questa estesa recensione della prima edizione della Philosophical inquiry into the origin of our ideas of the sublime and beautiful apparsa a Londra l’anno prima. Ora si trova tradotta ne I luoghi del sublime moderno, a cura di P. Giordanetti e M. Mazzocut-Mis, Led OnLine, Milano 2005. Su questo commento, cfr. M. Mazzocut-Mis, Il disgusto nel secolo dei Lumi, “Lebenswelt”, 3, 2013, pp. 156-174, spec. § 3.
56Lessing, Laocoonte cit., p. 94.
57Herder, Plastica cit., pp. 81, 82 e 85.
58Cfr. Id. Giornale di viaggio cit., p. 140.
59Questo punto è sviluppato nella densa tesi di dottorato discussa nell’Università di Palermo da R. Paoletti, Arti, corpo e linguaggio: l’esperienza estetica in Johann Gottfried Herder, p. 142.
60Cfr. la recensione di D. Orphée alla Plastica di Herder, “Critica Letteraria”, https://www.criticaletteraria.org/2011/07/criticarte-plastica-la-necessita-del.html. Su questo aspetto interverrà a gamba tesa Derrida, il quale osserverà che «Non si immagina affatto che cosa sarebbe una legge senza qualcosa come il tatto. Bisogna toccare, senza toccare. Toccando, è proibito toccare: non toccare la cosa stessa, ciò che si deve toccare». Oltre al voto di astinenza, per cui la legge ordina di toccare senza toccare, come ci si comporta nei confronti di un amico? Toccare o non toccare? E se non lo si tocca abbastanza, non sarebbe mancanza di tatto? J. Derrida, Le Toucher, Jean-Luc Nancy (2000), tr. it. di A. Calzolari, Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova-Milano 2007, p. 91.
61Condillac, Traité des sensations (1754; 17982), tr. it. a cura di P. Salvucci, Trattato delle sensazioni, Laterza, Bari 1979, p. 15.
62Ivi, p. 26.
63Ivi, pt. II, cap. V, p. 106 sgg.
64Ivi, p. 111.
65Ivi, p. II, cap. XI.
66I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Insicht (1798), I, § 17 e §19.
67«[…] la posizione, la forma, la distanza, la grandezza e altre simili qualità […] non si riferiscono in particolare a uno solo fra i sensi, ma sono comuni al tatto e alla vista e in qualche maniera anche agli altri sensi». Cartesio, L’Homme, tr. it. L’uomo, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 20005, pp. 238-239. Nella Dioptrique Cartesio aveva fatto l’esempio di un cieco che da lontano tocca i corpi con un bastone, mentre i raggi luminosi sono il bastone di chi ha la vista.
68J. Locke, An Essay concerning Human Understanding, II, vii.
69Ivi, xiii.
70N. Malebranche, La recherche de la vérité (1674-1675), Garnier, Paris 1910, Livre I, p. 50.
71C. Wolff, Psychologia rationalis methodo scientifica pertractata… (1734), § 162.
72Ivi, §§ 163-176.
73Herder, Plastica cit., p. 83.
74Wolff, Psychologia rationalis cit., § 177.
75G. Berkeley, Essay Towards a New Theory of Vision, Rhames, Dublin 1709.
76Ivi, § 145.
77Ivi, §§ 49 e 79.
78Ma sul ruolo secondario dell’udito, rispetto a vista e tatto, cfr. G.J. Warnock, Berkeley, Penguin Books, Melbourne-London-Baltimore 1953, p. 33 e sgg.
79Berkeley, Essay Towards a New Theory of Vision cit., § 127 (in corsivo nel testo).
80Cfr. B. Lotti, La luce nella riflessione di Berkeley: filosofia della percezione e filosofia della natura, “Noctua”, 3, 2016, pp. 295-338.
81Berkeley, Essay Towards a New Theory of Vision cit., § 26.
82Herder, Plastica cit., p. 39; D. Diderot, Lettre sur les aveugles (1749), tr. it. cit. a cura di S. Parigi, Lettera sui ciechi per l’utilità dei vedenti, NDF, Palermo 2016, p. 25.
83Sul problema, diventato “di moda” nel corso del secolo, e sugli “errori” che i filosofi hanno talvolta commesso nelle loro disamine e spiegazioni, si vedano, tra i molti interventi, quelli di S. Parigi, che ha curato anche l’edizione italiana della Lettre sur les aveugles di Diderot, Teoria e storia del problema di Molyneux, “Laboratorio dell’ISPF”, I, 2004, ISSN 1824-9817, e di J.W. Davis, The Molyneux Problem, “The Journal of History of Ideas”, 21, 1960, pp. 392-408. Cfr. inoltre M. Chottin, L’aveugle aux bâtons face à l’aveugle de Molyneux, Éditions de la Sorbonne, Paris 2009, https://0-books-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/psorbonne/17775?lang=it, e sull’influenza in Francia della discussione sui ciechi, M. Paterson, Seeing with the Hands. Blindness, Vision, and Touch after Descartes, Edinburgh University Press, Edinburgh 2016, spec. cap. IV, “Voltaire, Buffon, and Blindness in France”, pp. 57-70.
84Locke, Essay cit., II, ix, § 8 e § 132.
85Condillac, Trattato delle sensazioni cit., p. 172. Sulla critica di Condillac alla “confusione” lockiana delle sensazioni visive con le immagini retiniche, e la conseguente necessità di ricorrere a una correzione con giudizi inconsci, cfr. Parigi, Teoria e storia del problema di Molyneux cit., p. 13.
86W. Cheselden, An Account of some Observations made by a young Gentleman, who was born blind, or lost his Sight so early, that he had no Remembrance of ever having seen, and was couch’d between 13 and 14 Years of Age, “Philosophical Transactions of the Royal Society of London”, 1728, 35 (402), pp. 447-450.
87Voltaire, Elemens de la philosophie de Neuton, Ledet, Amsterdam 1738, p. 80.
88Ivi, p. 448.
89G.-L. Buffon, Histoire de l’homme (1749), in Histoire Naturelle, t. III, Hacquart, Paris 1801, p. 207 sgg.
90Cfr. J.-B. d’Alembert, “Aveugle”, in Encyclopédie, sous la direction de D. Diderot et J.-B. L. R. d’Alembert, I, De l’Imprimerie des Éditeurs, Livourne 1770, pp. 830-833.
91Herder, Plastica cit., p. 43 e nota 8, p. 109. R. De Piles, Cours de peinture par principes (1708), Jombert, Paris 1766, p. 260.
92Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines (1746), I, I, §§ 14-16.
93Diderot, Lettera sui ciechi cit., p. 75.
94Ivi, p. 45.
95Ivi, p. 62.
96Ivi, p. 61.
97Ivi, p. 87.
98Sull’interazione tra il sentire tattile e l’udito, si veda S. Tedesco, Herder e la questione dell’Einfühlung. Estetica e teoria della conoscenza tra Mitfühlen e Familiengefühl, “Rivista di Estetica”, 48, 2011, pp. 203-215.
99Herder, Giornale cit., p. 140.
100Kant, Anthropologie cit., I, § 30.
101J.-B. Merian, Sur le problème de Molyneux, Quatrième Mémoire, “Nouveaux Mémoires de l’Académie des Sciences et des Belles-Lettres, 1774, pp. 439-452, p. 447.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Che fare, quando fare, se fare
Un’indagine sui processi reconditi dell’atto volontario
Germana Pareti et Antonio G. Zippo
2016
Filosofie della natura dopo Schelling
Iain Hamilton Grant Emilio Carlo Corriero (éd.) Emilio Carlo Corriero (trad.)
2017
Vertigini della ragione
Schelling e Nietzsche. (Nuova edizione riveduta e ampliata)
Emilio Carlo Corriero
2018
Cristalli di storicità
Saggi in onore di Remo Bodei
Emilio Carlo Corriero et Federico Vercellone (dir.)
2019