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3. Soggettività come principio

p. 69-104

Note de l’éditeur

L’introduzione è di Francesca Michelini.


Texte intégral

Fra ciò che l’io è e ciò tramite cui esso deve essere
spiegato esiste una differenza, un vero e
proprio abisso. È compito della filosofia il misurarlo.

D. Henrich (Fichtes Ich)

1Il tema della soggettività, dopo un lungo offuscamento, è prepotentemente tornato alla ribalta nella filosofia contemporanea, anche in virtù delle scoperte e dei progressi che sono stati compiuti nel campo delle neuroscienze. Per questa ragione, diventa tanto più utile confrontarsi con il pensiero di un filosofo come Dieter Henrich, che della soggettività, in assoluta controtendenza, ha fatto il centro delle sue riflessioni già a partire dagli anni Sessanta del Novecento.

2Soggettività come principio – che riprende la lezione inaugurale tenuta per la nomina a professore onorario presso la Humboldt-Universität di Berlino (1997)23 – è un vero e proprio condensato delle idee sviluppate dal filosofo nel corso di una quarantina d’anni, e presenta nel contempo un carattere programmatico. Molti e controversi sono i nodi teoretici collegati al tema della soggettività che questo saggio porta all’attenzione, ma tre in particolare appaiono centrali per comprendere la struttura e lo sviluppo della teoria henrichiana: (1) l’idea di principio – e della soggettività come principio – sia nella sua continuità che nella distanza rispetto alle teorie idealistiche; (2) la nozione di autorelazione conoscitiva e il suo legame con quella di fondamento (Grund); (3) il rapporto che la soggettività detiene con altre dimensioni – e in primis con l’intersoggettività – così come viene abbozzato nel finale del saggio.

Partiamo dall’assunzione della soggettività come principio. Che cosa s’intenda con principio, se la soggettività possa costituire un principio, e perché la soggettività debba ancora essere considerata principio, sono alcune delle questioni che sorgono già a partire dal titolo stesso del saggio.

3Per Henrich la soggettività può costituire ancora un principio a patto di intendere principio in una maniera completamente differente rispetto a come era stato concepito dai tre idealisti – considerati in questa sede astraendo dalle loro reciproche differenze – senza tuttavia dover rinunciare a prendere le mosse dalla loro filosofia. Henrich non si propone tuttavia di confutarli alla maniera in cui, per esempio, Hegel intendeva confutare una dottrina filosofica. Nella filosofia hegeliana, la confutazione comporta anzitutto il riconoscimento del fatto che una determinata prospettiva è «essenziale e necessaria» (e su questo Henrich potrebbe in un certo senso anche essere d’accordo) per poi, in un secondo momento, innalzare «questa prospettiva, da se stessa, alla prospettiva superiore, più elevata»24. Piuttosto, nel caso di Henrich, si tratta di partire dalle “intenzioni” dei filosofi, non solo senza operare un innalzamento del loro punto di vista, ma senza neppure seguirli nelle loro «deduzioni e conseguenze». Bisogna, cioè, venire in chiaro delle intenzioni che stanno alla base del loro assunto, per costituire un programma inverso, di segno completamente opposto al loro. L’intento di questo scritto sta appunto nella costituzione di un Kontrastprogramm, da intendersi nell’ottica che il filosofo delinea in alcuni dei suoi principali contributi, a partire almeno da Die Grundstruktur der modernen Philosophie25: rimanere fedeli al programma della modernità, liberandolo dalle contraddizioni di fronte a cui si è arrestata la sua articolazione. Bisogna certamente oltrepassare la filosofia moderna, ma senza tuttavia che venga perduto l’impulso che ne sta alla base, che anzi deve essere proseguito senza configurarsi nel contempo come una semplice riproposizione e ripetizione dei classici della modernità. L’aspetto che sembrerebbe più “storiografico” – come e dove collocare il tema della soggettività in relazione ai tre idealisti – diviene così un tema centrale dal punto di vista teorico. Detto altrimenti, viene ripreso e affermato il motivo principale, la “preoccupazione” che sta alla base del progetto idealista, senza tuttavia che le configurazioni sistematiche – in cui quel progetto si è di fatto realizzato – vengano riproposte o riformulate.

4Ma in che modo è allora lecito, partendo da tali premesse, parlare ancora oggi della soggettività come di un principio? Si potrebbe cercare di esplicitare in questo modo la risposta di Henrich alla questione che fa da sfondo all’intero saggio: la soggettività può considerarsi tale, se essa, a livello sia teorico sia esistenziale, “funziona” meglio, se ha cioè un potere esplicativo maggiore ed è più convincente rispetto a un qualsivoglia altro punto di partenza. Soggettività può essere principio solo in questo senso depotenziato e non nel senso di un principio per sé evidente e autoesplicativo, come un qualcosa che già contiene in sé tutto ciò che da esso deve essere dedotto. Soggettività è principio non nel senso di un saldo fondamento epistemologico e ontologico, ma di un necessario punto di partenza, dalla cui chiarificazione dipendono molte altre aree della filosofia, anche se, necessariamente e inesorabilmente, la stessa chiarificazione dell’autocoscienza può essere solo incompleta e piena di contraddizioni.

5Dunque “principio” va inteso anzitutto nel senso di un criterio metodologico-ermeneutico. Non lo si può designare attraverso caratteristiche intrinseche; “essere principio” significa avere una funzione esplicativa, nel senso della “miglior spiegazione possibile”, per quanto non assoluta, ma del tutto determinata. In virtù di questa stessa funzione esplicativa, il principio sorge ed emerge ex post – e non ex ante – e dunque assume anche una valenza che potremmo definire operativa: è un concetto dinamico e procedurale. Ma principio viene utilizzato da Henrich anche in un’ottica più propriamente ontologico-metafisica, per quanto anti-realistica e anti-essenzialistica: esso è in relazione a una struttura che deve essere spiegata: l’autocoscienza. Infine, si potrebbe anche sottolineare come il principio rivesta un valore strategico: nel momento in cui da esso si prendono le mosse e viene esplicitato, evidenzia non solo la sua “potenza”, ma la mancanza e la limitatezza che necessariamente gli sono inerenti: mostra di raggiungere una dimensione nella quale deve venire sospeso o eliminato (la dimensione del fondamento). Per tutte queste ragioni, il principio non deve e non può essere ipostatizzato.

6Sia l’assunzione della soggettività come principio, sia lo stesso rapporto di continuità che Henrich pone tra il suo programma e la filosofia idealistica, si presentano dunque come questioni di grande interesse in un dibattito. Ci si potrebbe anzitutto chiedere perché non utilizzare un termine differente da principio, dal momento che sembra difficilmente separabile dall’ipoteca metafisica che porta a intenderlo come principio fondante, e non solo quale punto di partenza, soprattutto quando lo si mette in relazione all’idealismo. Un problema che, come accenneremo con riguardo al finale del saggio, pare ripercuotersi anche sul rapporto della soggettività con l’intersoggettività. Ma, contemporaneamente, e proprio in virtù del senso differente conferito al principio, il Konstrastprogramm propugnato da Henrich appare ormai distante da quello degli idealisti, tanto che sorge la questione su quale rapporto ancora sussista tra la soggettività dell’idealismo e quella proposta da Henrich. Un rapporto tanto più problematico dal momento che Henrich prende le mosse non tanto dalle concrete teorie di Fichte, Schelling e Hegel, ma dal “problema nascosto”, dalla “preoccupazione” che a esse è sottesa, e questo pone l’ulteriore questione di come sia possibile ricostruirlo come un punto comune, nonostante non sia storicamente esistente, nonostante sia solo, per così dire, un focus imaginarius.

7Con autorelazione conoscitiva (wissende Selbstbeziehung) Henrich intende quel tipo di conoscenza immediata ed elementare che noi abbiamo di noi stessi come soggetti capaci di autocoscienza. In base alla delineazione che qui ne viene offerta, due sono le caratteristiche di questo sapere che paiono emergere e fare da connettivo tra i suoi differenti aspetti: la peculiarità e l’enigmaticità. L’autorelazione conoscitiva è peculiare anzitutto perché non è possibile comprenderla nella maniera in cui si comprendono gli altri oggetti. Secondo Henrich, merito di Descartes è stato quello di aver capito che nella nostra autocoscienza siamo di fronte a una conoscenza molto particolare, che non può essere affatto paragonata ad altre. Nel momento in cui soltanto rifletto sul concetto “io esisto”, già lo intuisco come vero. Si tratta inoltre di una conoscenza che appartiene solo all’essere umano – ed è questo un secondo motivo di peculiarità. L’autorelazione conoscitiva è infatti del tutto differente da tutti i casi di autorelazione che troviamo in natura: «Gli uccelli lanciano se stessi nell’aria, i fiumi si bloccano a causa dei loro stessi detriti; le foglie si orientano secondo la cangiante incidenza della luce […] In molti di questi casi responsabile dell’attribuzione del rapporto a sé è unicamente il nostro modo di descrivere; nei fatti tale rapporto non sussiste. Comunque in nessuno di questi casi si tratta di una autorelazione conoscitiva. Il solo pensiero di una tale ipotesi ci pone in particolare imbarazzo»26.

8Sembra quasi scontato – e Henrich certo non lo ignora – rimarcare tuttavia la differenza, tralasciata in questo passaggio, tra la maniera in cui i fiumi si bloccano per via dei detriti e la modalità i cui gli uccelli si lanciano nell’aria e le foglie crescono, ovvero la differenza tra la natura inorganica e quella organica. Cioè: accanto a strutture che non possono essere descritte come se esistesse un rapporto a sé a esse intrinseco, ma in cui il rapporto è solo una proiezione dell’osservatore, vi sono strutture in cui vige un riferimento a sé in un senso autodirezionale proprio. Per esempio, in tutti i casi in cui vediamo una struttura biologica che cresce (una foglia, per restare all’esempio), siamo di fronte a un complesso processo autoreferenziale (di particolare importanza sono i casi di autorelazione in processi autocatalitici). Ci si potrebbe chiedere se questo tipo di rapporto a sé, pur non definibile come un’autorelazione conoscitiva nel senso henrichiano, non sia un modello comunque utile in una teoria dell’autocoscienza, da tenere presente anche per cercare di evitare alcune delle aporie in cui necessariamente ci si imbatte nella sua costituzione.

9La peculiarità dell’autorelazione consiste inoltre nel fatto che essa precede una serie di caratteristiche e realizzazioni che vengono appunto considerate a essa successive: per esempio l’idea della continuità della nostra vita nel tempo, la nozione di persona, la descrizione e la determinazione di se stessi. Tutti concetti che sono di altrettanta importanza quanto lo è l’autocoscienza. Ma, appunto, l’autorelazione conoscitiva è a essi presupposta. Sta a fondamento sia dell’uso dei pronomi personali sia di qualsiasi pratica linguistica capace di comprensione: caso emblematico qui menzionato è l’utilizzo della parola io, che è appunto posteriore all’autocoscienza stessa27. Non è pertanto possibile, per Henrich, derivare la soggettività per via linguistica, secondo il tipo di procedimento che caratterizza l’analisi della filosofia analitica.

10La peculiarità e l’originarietà dell’autocoscienza non devono tuttavia indurre a credere che sia qualcosa di semplice, che si possa descrivere tramite un’intuizione. Essa è invece del tutto complessa. Il rapporto a sé non può essere infatti costruito a partire da nessuna delle componenti che entrano in gioco nella sua costituzione, né può essere compreso attraverso un procedimento esclusivamente ricostruttivo. È un fatto, ma con una sua complessità interna, e dunque non affatto privo di struttura: un plesso in sé variamente articolato. Ciò non significa che sia una struttura composta: la struttura è contemporaneamente complessa e irriducibile.

11Questo ci porta direttamente a quella che abbiamo definito la sua fondamentale enigmaticità: la sua costituzione non è affatto semplice, né comprensibile in se stessa, e il tentativo di spiegarla tramite la riflessione conduce a quei circoli e paradossi – già delineati in Fichtes ursprüngliche Ein-sicht (1966) e che sono ora indicati con i nomi di circolo di Münchhausen e circolo dell’istrice: essi dimostrano che «la filosofia non può non fallire volendo fare piena luce su questa forma di sapere, come accade ogni qualvolta nelle comuni analisi si concepisce il complesso a partire dal semplice»28. I circoli infatti sono «il sintomo di un progetto mal impostato e mal orientato dal punto di vista metodico». Cioè: non si può comprendere l’autorelazione a partire dagli elementi che la compongono, ma si tratta di qualcosa che si può spiegare in maniera soltanto approssimativa. Per questo si tratta di un sapere enigmatico: perché l’autocoscienza non può essere delucidata completamente e in maniera definitiva a partire da se stessa29.

12Proprio a questo livello si inserisce il problema del fondamento (Grund) dell’autorelazione conoscitiva, che costituisce un ulteriore sviluppo nell’analisi della soggettività rispetto a quella elaborata negli anni Settanta. Anche in quella fase della riflessione henrichiana era in verità, come si è visto, già presente la riflessione sul fondamento, ma ne costituiva una sorta di sottofondo, un ambito non ancora reso del tutto esplicito né apertamente teorizzato. A partire dagli anni Novanta, anche in risposta alle obiezioni che gli erano state formulate sulla sua teoria dell’autocoscienza30, diviene sempre più chiara la convinzione che sia necessario presupporre all’autorelazione epistemica un fondamento che la renda possibile, senza tuttavia che essa sia da questo deducibile.

13Come nel caso del principio, anche per quanto concerne il fondamento ci troviamo confrontati con alcune difficoltà che derivano ugualmente anche dal rapporto con la filosofia idealistica. Ma a differenza di quello dell’idealismo, il fondamento henrichiano non costituisce un assoluto che ci deve orientare nella vita, né va ricollegato immediatamente a nozioni come eternità e permanenza. È soltanto un’“ipotesi” che non può essere trasformata in una conoscenza dimostrativa. Inoltre, per quanto presenti una stretta comunanza metodologica con il principio, il fondamento non va con questo confuso. Il principio ha infatti una funzione esplicativa e giustificativa che il fondamento non ha: rivelare appunto che la struttura della soggettività poggia su un fondamento inaccessibile. È il processo di esplicazione del principio che ci segnala necessariamente la presenza di un fondamento sottratto. E dunque, a differenza di quanto accade nel caso del principio, il riferimento al fondamento è un riferimento mediato, per quanto necessario.

14La difficoltà – ma anche la ricchezza – della nozione di fondamento derivano dunque forse proprio dal fatto che di esso non si può dire quasi nulla, ma si può solo affermare che è sistematicamente nascosto e sottratto: è “der entzogene Grund”. Per Henrich è un segno o un sintomo della nostra condizionatezza, del fatto che non siamo esseri autocreati, e che non siamo dipendenti da noi stessi, ma dipendiamo da una realtà che trascende quella indagata dalla scienza naturale e che sostiene e legittima la nostra “vita cosciente”. Se ne potrebbe parlare, kantianamente, come del vero e proprio suggello della nostra finitezza: «la definizione dei limiti delle possibilità della conoscenza, e in particolare della conoscenza di sé, è una delle operazioni più importanti della nostra razionalità»31.

15L’ultima parte del saggio di Henrich pone le premesse dell’analisi di quel rapporto tra soggettività e intersoggettività che il filosofo ha sviluppato, in particolare, negli scritti degli ultimi anni32. Il tentativo di risposta di Henrich, qui soltanto accennato, pare seguire direttamente dalla sua maniera di concepire la soggettività. Nell’ampio spettro di proposte avanzate per comprendere la complessa questione – se la soggettività possa e debba essere dedotta dall’intersoggettività o viceversa, oppure se non si debba assumere una co-originarietà dei due principi, o, ancora, se la stessa intersoggettività possa essere ridotta a qualcosa di più primitivo – l’intento di Henrich è anzitutto quello di non ridurre l’intersoggettività (e il linguaggio) alla soggettività prelinguistica. L’intersoggettività appare come “momento costitutivo” della soggettività stessa: soggettività e intersoggettività vanno cioè intese in una sorta di co-originarietà, in cui la soggettività riveste tuttavia un primato, non perché da essa si possa derivare, dedurre, o far discendere l’intersoggettività, ma perché si rivela come strutturalmente dominante nei riguardi di quest’ultima. In questo senso, non sembrerebbe, secondo ­Henrich, che sussista nessun «buon motivo per affermare l’esistenza di un insolubile antagonismo tra la filosofia della soggettività e la comprensione dell’intersoggettività»33. Diventa allora tanto più interessante la questione sul senso in cui la soggettività, a preferenza dell’intersoggettività, debba essere intesa come principio. Non è forse possibile attribuire anche a quest’ultima lo statuto di principio, almeno in alcuni dei significati messi precedentemente in luce? Inoltre, se la non derivabilità e non deducibilità dell’intersoggettività dalla soggettività si fonda (come tutto lascerebbe supporre) proprio nella distinzione tra fondamento e principio (Grund e Prinzip), la co-originarietà di soggettività e intersoggettività che affiora a livello di Prinzip, non è già forse riscontrabile a livello del Grund? Riemergono, anche nel finale del saggio, e in stretta connessione alla questione dell’intersoggettività, alcuni dei problemi legati al senso stesso attribuito a Grund e Prinzip. E proprio con un nuovo riferimento alla soggettività come principio, che si riallaccia, ma nel contempo si distacca dall’idealismo, si conclude questo saggio programmatico.

3.2. Soggettività come principio34

1.

Sono trascorsi ben duecento anni da quando un intero movimento filosofico si concentrò sul sapere, in virtù del quale siamo originariamente in rapporto con noi stessi. Se ne può parlare come dell’autocoscienza. Poiché tuttavia questa parola viene usata anche per designare una propensione a porre in risalto le proprie realizzazioni e qualità o anche per indicare un atteggiamento riflessivo su ogni proprio comportamento, cose che presuppongono già l’autocoscienza così come viene intesa dai filosofi, ci furono dei buoni motivi per denominare questo sapere di sé con il pronome personale “io” e quindi, parlando dell’“io”, per porre come tema della filosofia il sapere elementare di noi stessi.

16Una tale concentrazione sull’io tuttavia ebbe luogo non solo perché l’auto­coscienza è un fatto importante che affascina, la sua spiegazione richiedendo mezzi concettuali affatto particolari che vanno ricavati in modo del tutto nuovo. Due ulteriori motivi fecero sì che questo movimento filosofico si costituisse come la filosofia del soggetto: il pensiero che noi abbiamo di noi stessi si presentava come un punto di partenza evidente e intrascendibile di tutto il sapere e inoltre la particolare costituzione, che gli si poteva attribuire, apriva la prospettiva che, muovendo da tale sapere, attraverso una ben serrata concatenazione di deduzioni si potesse ricavare l’intero ambito del conoscibile. Si delineò così una nuova scienza che avrebbe potuto vantare una forma sistematica superiore anche a quella della conoscenza matematica.

17Ora, poiché nel sapere di sé l’autorelazione era ritenuta autosufficiente e ade­guatamente esplicitabile a partire da se stessa, sorse l’ulteriore speranza di poter trovare, guardando a essa come caso esemplare a noi accessibile, la migliore e forse l’unica spiegazione possibile del nostro pensiero dell’assoluto.

18Nell’università, che è oggi la Humboldt-Universität, tale movimento filosofico assurse a filosofia del mondo – come Marx, che aveva tentato invano di sottrarvisi, la denominò in una lettera a suo padre. Fichte, primo rettore di questa università, fu anche il primo a conferire al movimento una forma. Nelle sue lezioni berlinesi Hegel si espresse al riguardo in questo modo: «Fichte, partendo dall’io, non procede come Kant in modo narrativo; questa è la sua grandezza. Dall’io si deve dedurre tutto»35. Schelling diede al secondo dei suoi scritti giovanili, con cui entrò a far parte di questo movimento, il titolo Dell’io come principio della filosofia. Un’eco di tale scritto deve risuonare nel tema di questa lezione. È necessario, infatti, riprendere in forma nuova il discorso sul modo in cui la filosofia nel suo complesso si caratterizza e ottiene una prospettiva per il fatto di iniziare dal nostro sapere di noi stessi.

19Se dunque il tema indica una ripresa delle intenzioni che guidarono l’opera dei tre filosofi più significativi di questa Università, la sua attuazione intende invece illustrare i tratti essenziali di un opposto programma. Se, duecento anni dopo l’inizio della filosofia del soggetto di Fichte, si ritiene possibile prendere nuovamente le mosse dalla soggettività come principio, questo significa che vi sono motivi che possono inserirsi nella problematica filosofica del nostro tempo e corrispondervi in modo convincente. In ogni caso una nuova filosofia del soggetto non deve esporsi al sospetto fondamentale, formulato nel modo più eloquente da Heidegger, che l’atto di violenza teoretico, di cui fu accusata sin dal principio l’opera di Fichte, sia dovuto a una profonda confusione: alla persuasione, cioè, che la vita umana possa realizzarsi solo mediante gli atti di po­tenza di un universale processo di oggettivizzazione di tutto ciò che è, e in ultima analisi a partire da un atto di autoaffermazione. Ma per il modo in cui formula il suo principio, e lo concepisce in quanto principio, la nuova filosofia del soggetto s’accorda piuttosto con quelle esperienze di limitatezza e di ambivalenza, in ragione delle quali la vita consapevole di sé che, nel senso di Platone, ha cura di se stessa, è spinta realmente a filosofare.

20Dando in anticipo uno sguardo all’attuazione di questo opposto programma si possono fare anzitutto due considerazioni di diverso tipo: la soggettività può farsi valere e operare in quanto principio, solo se al nostro sapere elementare di noi stessi si possono connettere molteplici conseguenze, in grado di spiegare meglio le fondamentali relazioni fattuali e di risolvere i problemi in modo più convincente che muovendo da qualsiasi altro principio. Ciò però non vuol dire che nel corso di tali deduzioni si venga a costituire un sistema del tipo di quelli nella cui elaborazione i filosofi del soggetto di un tempo mostrarono certamente la loro maestria ma anche si avventurarono in promesse rivelatesi alla fine impossibili da mantenere. Il tipo di connessione tra il principio e le conseguenze deve, e quindi può, essere altro da quello per cui si dimostra che tutte le relazioni fattuali fondamentali, in riferimento a cui qualcosa deve essere dedotto, sono già contenute nel principio stesso e pertanto sono completamente deducibili da esso. Ma anche il principio come tale va compreso in un’altra maniera. I grandi filosofi di Berlino partirono dalla considerazione che questo principio, seppure non semplice, fosse di per sé evidente e autoesplicativo. Questa seconda proprietà era il presupposto tanto del loro assunto che i filosofi potessero comprendere tale principio in modo adeguato e completo, quanto del fatto che essi scorsero in esso il modello di un ben preciso pensiero di un assoluto, e cioè di un fondamento autoesplicativo di tutto ciò che in generale è. Mostreremo che non li si può seguire neppure in questo loro assunto. Ma altresì che, nonostante questo e, forse, proprio per questo, la soggettività può ben fungere da principio in filosofia.

21Contro questa tesi stanno però le opinioni e gli argomenti esposti da molte voci autorevoli, le quali sostengono che la filosofia del soggetto è un progetto di pensiero che appartiene al passato. La filosofia del nostro tempo ha un’altra impostazione, dicono, e segue altro orientamento, per cui si occupa dell’intersoggettività e del linguaggio – e cioè di ambiti di fondazione e esplicazione, con cui la filosofia del soggetto non può mai porsi in adeguato rapporto. Anche questo pregiudizio dovremo confutare nel seguito del discorso.

22È chiaro che il profilo di una filosofia del soggetto, capace di affermarsi nel presente, può essere oggi tracciato solo in pochi tratti e, in parte, soltanto in forma di tesi. Ma, in filosofia come in architettura, anche l’abbozzo ha significato e importanza, accanto al progetto compiutamente elaborato e alla sua effettiva attuazione. Si deve soltanto poter riconoscere che la stabilità dell’edificio e la solidità delle fondazioni erano costantemente sott’occhio anche durante la fase progettuale.

23Per oltre cinquant’anni la filosofia del soggetto, di qualunque tipo, si è tro­vata certo in diretta opposizione con le tendenze dominanti nel pensiero del tempo. Per quanto queste tendenze fossero in conflitto tra loro, esse furono concordi nel dichiarare che i problemi della filosofia del soggetto erano o facilmente risolvibili, o obsoleti, e quindi nello sbarazzarsi del suo orientamento fondamentale, ritenuto incompatibile con le conoscenze più importanti e affatto privo d’utilità riguardo alla formulazione delle questioni più interessanti. Il positivismo logico, la filosofia analitica dei linguaggio, il pragmatismo e interi settori della più recente fenomenologia e della filosofia della società si trovarono d’accordo in questo rigetto. Era perciò necessario non temere il ruolo dell’outsider e inoltre del retrogrado, quando si trattò di chiarire di nuovo e in modo nuovo la possibilità e l’irrinunciabilità di una filosofia del soggetto o, meglio, di una filosofia della soggettività come principio.

24Tuttavia negli ultimi due decenni per una filosofia del soggetto di questo tipo e intenzione si è di nuovo prodotta una condizione più favorevole. Ciò non si deve soltanto al fatto che alcuni filosofi americani hanno cominciato a portare argomenti a suo favore. Da almeno due versanti, che in un primo tempo avrebbero potuto essere considerati come i più ostili alla filosofia del soggetto, è stato riconosciuto nuovamente un significato fondamentale al suo tema: dall’analisi del linguaggio e dai filosofi che riflettono sulle ricerche delle scienze neurologiche. Senza inoltrarci ulteriormente in questi sviluppi, si può constatare che non ci si deve più sentire fuori gioco quando ci si impegna perché una filosofia della soggettività come principio riacquisti ascolto e credito.

25Mi occuperò ora, in modo un po’ più approfondito, delle difficoltà e dei risultati che si presentano, quando il nostro sapere elementare di noi stessi viene concepito come principio, per passare poi, in un secondo momento, a esporre in forma di tesi le conseguenze e le applicazioni che da tale sapere si possono ricavare.

2.

Non poche sono le difficoltà che si incontrano nel parlare di quel sapere per il quale noi, nel sapere, siamo in rapporto con noi stessi. Perché il campo problematico che qui si apre non si trova sotto quella luce oggettivante che favorisce la ricerca di ambiti oggettuali osservabili, o di sistemi formali. Bisogna entrare in un campo problematico sui generis, se nella ricerca vogliamo padroneggiare anche ciò da cui muove l’intero nostro comprendere, sì che esso continui ad accompagnarci e a sostenerci in ogni risvolto di questo comprendere. Una ricerca orientata su tale inizio deve costantemente tener conto del pericolo di imboccare strade sbagliate o di ritrovarsi su un terreno non percorribile. Perciò nello sforzo di orientarci le domande sul metodo adeguato alla filosofia entrano in gioco in misura anche maggiore di quanto di solito accade, quando si indagano problemi filosofici fondamentali. Tutto ciò produce insicurezze, che uno stile assertorio nella comunicazione può solo rimuovere, ma non eliminare. Queste insicurezze vengono tuttavia controbilanciate dalla prospettiva di giungere a conoscere sia le condizioni del filosofare sia la situazione fondamentale della vita cosciente.

26I chiarimenti, che l’analisi del linguaggio ha fornito alla filosofia del nostro tempo, inducono a prestare attenzione anzitutto al sistema dei pronomi personali e possessivi impiegati nel nostro linguaggio, quando si voglia intraprendere una ricerca sul primo e più elementare sapere che noi abbiamo di noi stessi. La filosofia del soggetto ha fatto uso di tali pronomi da tempo – e in particolare dal “cogito” di Descartes, dall’“io penso” di Kant e dal cosiddetto Io assoluto di Fichte –, e vi dovrà sempre ricorrere. In questo sistema pronominale si può facilmente riconoscere il ruolo chiave dell’“io”, a cui noi riserviamo, nelle propo­sizioni, la posizione di soggetto, per esprimere il sapere che abbiamo di noi stessi. Poiché le espressioni dimostrative primarie “qui” e “ora” presuppongono a loro volta che la posizione di chi parla, di chi usa “io” in relazione a se stesso, sia fissa. Anche “tu” e “noi” implicano che dei singoli abbiano un sapere di se stessi e che possano rimandare a se stessi. Certo anche l’“io” è inserito in tale sistema. Ma già soltanto la sua preminenza nella determinazione del significato di “qui” e “ora” mostra che il rimando reciproco dei pronomi non comporta che abbiano tutti egual peso all’interno del sistema.

27Una tale considerazione non deve tuttavia portare alla conclusione che la capacità di usare correttamente il pronome personale “io” sia il presupposto del fatto che noi possiamo sapere di noi, o che il nostro sapere di noi stessi consista proprio nell’uso di quel pronome in una sorta di dialogo con se stessi. Che questo sia del tutto errato lo si può riconoscere già da ciò, che, nello sviluppo linguistico dei bambini, quella capacità viene raggiunta soltanto tardi. La sua tarda acquisizione si spiega non soltanto col fatto che essa esige un particolare lavoro di astrazione, il quale consiste nel comprendere che si esprime qualcosa su se stessi con la stessa parola che anche altri utilizzano nelle proprie asserzioni su se stessi. Operazioni di questo tipo si richiedono frequentemente nelle prime acquisizioni linguistiche. La tarda appropriazione dell’uso dell’io si spiega ancor più chiaramente se si tiene conto del fatto che, con l’uso del pronome “io”, segnaliamo agli altri che stiamo parlando di noi a partire dalla no­stra relazione con noi stessi. L’uso della parola presuppone quindi già una relazione riflessa nel nostro rapporto con noi stessi, e non soltanto questo rapporto. L’analisi semantica dell’uso dell’io può dunque mostrare che questo può esser compreso solo in base alla previa autocoscienza di colui che parla.

28Ne consegue che nelle analisi sull’autorelazione conoscitiva per un verso non possiamo dismettere l’uso dei pronomi “io” e “me”, e per l’altro dobbiamo avere sempre chiaro che quella relazione non si esaurisce in quest’uso. Il fatto che la relazione preceda l’uso e se ne serva, giustifica la necessità di chiarirla, non senza riserva critica, mediante l’uso dei pronomi. Che la relazione non si esaurisca in tale uso, rende la riserva persino necessaria. La sua indispensabilità contribuisce a far comprendere che l’indagine sull’autorelazione nel sapere non può essere portata su un terreno al riparo da ogni rischio. Nel contempo, però, questa riserva impedisce quelle soluzioni sbrigative, delle quali si è potuto pensare che metterebbero a nudo il senso profondo della problematica dell’autorelazione conoscitiva mostrandone l’insostenibilità. Un esempio di tali sbrigative soluzioni è l’osservazione che, una volta chiarito che con il pronome “io” chi volta a volta parla rimanda a se stesso come al parlante, non si è ancora contribuito in niente alla comprensione dell’autorelazione conoscitiva.

29Difficoltà di altro tipo sorgono quando, con lo sguardo critico affinato dai procedimenti dell’analisi linguistica, cerchiamo di spiegare la costituzione del sa­pere di noi stessi che sta a fondamento sia dell’uso dei pronomi personali sia, come si può mostrare, di qualsiasi comprensione linguistica e di qualunque pra­tica linguistica capace di compren­sione. I “classici” della filosofia del soggetto hanno solo in parte osservato e prestato attenzione a tali difficoltà, che è possibile risolvere solo mediante un lungo ininterrotto andirivieni tra proposte di soluzione e perplessità, e attraverso un costante approfondimento tanto della problematica quanto delle proprie prospettive. Concentreremo la nostra attenzione su due ordini di difficoltà. Da quanto se ne potrà apprendere, si ricaveranno conseguenze importanti per lo stato di una filosofia del soggetto, e anche per le conclusioni che sul piano del contenuto essa può conseguire.

30Non abbiamo difficoltà alcuna a descrivere molti accadimenti naturali con un concetto di relazione nient’affatto problematico: quello del “rapporto a sé”. Gli uccelli lanciano se stessi nell’aria, i fiumi si bloccano a causa dei loro stessi detriti, le foglie si orientano secondo la cangiante incidenza della luce. In molti di questi casi responsabile dell’attribuzione del rapporto a sé è unicamente il nostro modo di descrivere; nei fatti tale rapporto non sussiste. Comunque in nessuno di questi casi si tratta di un’autorelazione conoscitiva. Il solo pensiero di una tale ipotesi ci pone in particolare imbarazzo.

31È altresì ben nota l’altra difficoltà, derivante dal fatto che un sapere di se stessi si realizza non solo quando ciò di cui si sa qualcosa attiene de facto a colui che sa, ma anche quando compare il sapere del fatto che esiste un sapere di sé. Riguardo a quest’ultimo sembra debba valere la stessa difficoltà. Perché, se ci si chiede in virtù di che cosa alla fin fine esiste un sapere di sé, si cade in un circolo del tipo “Münchhausen”: ciò che deve innalzare il sapere a sapere di se stesso, ha bisogno pur esso di tale innalzamento, ma questo non può in­nalzare se stesso. E all’inverso ci si può parimenti chiedere in che cosa consista il sapere nel sapere di sé. Compare allora il circolo, complementare al precedente, del tipo dell’istrice per la volpe36: se uno attribuisce qualcosa a se stesso, deve già conoscere colui a cui intende attribuire qualcosa, come colui che attribuisce qualcosa a se stesso, di modo che tale attribuzione del rapporto a sé sopraggiunge a un rapporto a sé già esistente. Da entrambi i punti di vista, cade sul sapere di sé il sospetto di essere una cosa impossibile, in quanto è costituito in forma proposizionale: nessun sapere di sé, che non si sappia come tale, e cioè che è sapere di sé.

32Questa diagnosi sull’origine dei due circoli spinge a metter da parte il so­spetto dell’impossibilità dell’autocoscienza per un’altra ipotesi di soluzione, se­condo la quale il sapere di sé ha la capacità di disporre del predicato “sa di sé” e di utilizzarlo in riferimento a se stesso. Ma sebbene non rimangano più molte vie capaci di aprirci altre prospettive, sorgono anche in questo caso nuove difficoltà. Perché deve essere sin da principio chiaro che non è possibile spiegare la rappresentazione di sé a partire da un’autorelazione conoscitiva in base a cui quella risulti vera. Bisogna tener presente che la rappresentazione di sé deve costituire e non presupporre tale autorelazione. Ma allora, di nuovo, non s’intende in che modo si possa in generale disporre di tale predicato. Perché, come si è detto, è chiaro che esso non va compreso a partire dal fatto che si conosce un sapere che ha la proprietà di essere sapere di sé. Per l’uso del predicato si dovrebbe già presupporre nella sua globalità quel fatto che deve invece essere costituito come sapere di sé proprio attraverso l’uso del predicato. Si sarebbe dunque, per altro verso, ricaduti nuovamente nel circolo dell’istrice.

33La tesi – secondo la quale il disporre del predicato, che consente l’espres­sione del riferimento a sé, costituisce l’autorelazione conoscitiva – implica quindi che ciò di cui si sa in questa relazione sussista in generale soltanto per questo, che di esso si sa. È impensabile che colui, che ha un sapere di sé, sia all’inizio senza quel sapere di sé, a prescindere dal suo possibile contenuto, per divenire in seguito, attraverso un ulteriore atto di acquisizione di sapere, anche sapere di se stesso. Colui che ha un sapere di sé e questo fatto, che egli ha un sapere di sé, sono indissolubilmente legati l’un l’altro. Certo nel sapere di sé è presupposto qualcuno di cui si sa, poiché altrimenti in questo sapere non si saprebbe un bel niente. Questa presupposizione va intesa però nel senso di una necessaria implicazione, non quindi geneticamente e neppure come relazione tra due unità in qualche modo indipendenti, per loro costituzione, l’una dall’altra. I due – colui che sa e il fatto del sapere – possono comparire soltanto in un sol colpo e in una indissolubile implicazione reciproca.

34Anche quest’ultima considerazione ci fa capire che è inevitabile parlare di un soggetto, ma che allo stesso tempo tale discorso s’imbatte sempre di nuovo nel sospetto ch’esso introduca in filosofia uno spirito o uno spettro. I soggetti sorgono spontaneamente e unitamente al sapere di sé e non vanno perciò tematizzati come contenuti o oggetti particolari. Il che però non costringe a concludere che essi facciano la loro comparsa privi di relazione e in uno spazio vuoto. Questa tesi concorda invece, come prova a favore, con la concezione secondo cui l’autorelazione, che definisce i soggetti, sorge in una già costituita compagine e in essa si inserisce. A questa compagine appartengono i campi percettivi, le immagini del corpo, gli schemi di comportamento, gli affetti e tanti altri fatti, insieme al loro multiforme coordinamento. Un tempo venivano assegnati al cosiddetto “senso interno”; in realtà, con un significato particolare, potrebbero essere designati anche come “soggettivi”. Tuttavia non possono essere spiegati con il concetto di soggetto che è proprio dell’autorelazione conoscitiva – così come, inversamente, non è possibile ricavare da questi fatti una spiegazione del sapere, in virtù del quale dei soggetti si costituiscono in pensieri.

35Un ulteriore ordine di difficoltà riguardo alla comprensione dell’autorelazione conoscitiva emerge quando si affronta espressamente un aspetto del sapere di sé che già in precedenza era de facto costantemente in gioco: il sapere non è un processo anonimo che attrae e include in sé i singoli, quelli che sanno, quali occasionali partecipanti. Soltanto parlando in modo altamente metaforico è possibile dire che nel sapere come tale è saputo qualcosa del sapere. Il sapere appartiene sempre a colui che sa qualcosa, e cioè a qualcuno che dev’essere pertanto definito il “soggetto” del sapere. Se dunque si dà un sapere di sé, allora esso è sempre un sapere in cui questo soggetto sa di sé e del suo sapere, cosicché lo si può indicare con la paroletta “io”. L’autorelazione nel sapere è in tal modo sempre unita all’autorelazione di colui che conosce sé come conoscente, senza che si possa dire che colui che sa sia qualcosa che appartiene al sapere come tale, così come vi appartengono i modi del sapere e ogni cosa che è saputa. Se ne può già concludere che non esiste neppure un anonimo o generale, e come tale affatto singolare, soggetto del sapere. Per il momento non vogliamo ancora prendere in considerazione quest’ultima conseguenza, che ci porta a dissentire ulteriormente dalla filosofia del soggetto di un tempo.

36Ci si deve allora nuovamente chiedere: come può un soggetto pervenire al sapere di sé e in particolare al sapere di ciò che costituisce il sapere di sé? Chi cerca di spiegarlo in base a una lontana analogia con ciò che accade nella descrizione del volo degli uccelli o del ristagno del fiume, si viene a trovare in una situazione senza sbocco, simile a quella emersa nel precedente tentativo di spiegazione. Egli dovrebbe fare almeno questo: ricavare dai differenti fatti osservati un concetto generale dell’autorelazione epistemica, a quei fatti corrispondente, per poi applicarlo al caso particolare di uno che sa del sapere che ha e di se stesso. Ma che cosa in generale significhi il sapere di sé che viene attribuito ai soggetti, non lo si può comprendere indipendentemente dal fatto che si ha di fronte un caso di sapere, che è per ognuno dei soggetti volta a volta il proprio. Per questo caso, e per il sapere di sé in generale, importa solo che, nel sapere, il concetto del “di sé” deve essere già impiegato nella sua versione epistemica. Poiché il sapere non è anonimo, ma è il suo sapere, il pensiero del­l’autorelazione dev’essere espresso linguisticamente non soltanto mediante “l’esser-per-”, ma più precisamente come un “esser-per-me” del sapere. Qualsiasi cosa si possa escogitare per spiegare come si pervenga a tale pensiero – questo per la sua forma non può valere come un concetto generale che deve es­sere formato in base ad alcuni casi e poi essere applicato al mio. Poiché esso ha in generale il suo significato soltanto nell’uso attuale di un soggetto in rela­zione a se stesso. In quanto dunque il pensiero dell’autorelazione risulta imprescindibile per la possibilità di ogni sapere di sé, esso appartiene già alla costituzione propria del sapere, al cui interno viene usato e già da sempre applicato, per cui non si può propriamente parlare di una sua applicazione. Il pensiero astratto di un “esser-per-me” universale sorge soltanto quando, a partire dalla nozione dell’“esser-per-me” che è sempre proprio, venga attribuita anche ad altri soggetti l’autorelazione epistemica. In ragione della funzione esercitata da tale pensiero dell’esser-per-me sempre proprio, si può quindi ben parlare della sua costituzione in modo tale che l’idea dell’autorelazione conoscitiva non divenga, a causa di circoli di tipo “istrice” e ­“Münchhausen”, impossibile. Questo però non significa che tale costituzione e il possesso del sapere di sé possano essere in qualche modo spiegati.

37Quest’ultima considerazione ci costringe a tirare delle conclusioni che hanno conseguenze di portata fondamentale: se non si vuol negare che in generale si dia qualcosa come il sapere di sé, in cui i soggetti comprendono immediatamente se stessi in relazione al loro sapere, allora bisogna accettare tre diverse conseguenze che sono in contrasto diretto sia con molti pregiudizi sia con alcune dottrine tramandate dalla originaria filosofia del soggetto.

381. Il sapere di sé è sicuramente un sapere sui generis, perché in riferimento a esso non si può distinguere alcun semplice opinare che non sia ancora giunto al sapere di sé – così come vorrebbe il senso comune quando discorre del sapere. Ciò ha indotto occasionalmente a ritenerlo un caso particolarmente semplice di sapere, e a descriverlo per analogia come un’intuizione. Bisogna invece accettare il fatto che si tratta di un plesso in sé variamente articolato. Poiché in esso esercita già da sempre una funzione il pensiero del “di me stesso”, che già per parte sua è molto complesso.

392. Si deve pertanto convenire su quanto segue: l’autorelazione conoscitiva non può essere costruita a partire da nessuna delle componenti che entrano nella sua costituzione, né può essere compresa attraverso un procedimento di ricostruzione. Le sue componenti debbono realizzarsi tutte allo stesso tempo e determinarsi e modificarsi nel loro rapporto reciproco. Questo comporta delle conseguenze anche per la considerazione storico-evolutiva della vita cosciente: l’autorelazione conoscitiva può passare attraverso molti gradi ed evolversi sino a raggiungere una piena chiarezza espressiva e un’autentica vita razionale. Essa deve avere delle condizioni e può avere anche delle forme preliminari, ma in quanto sapere di sé deve sorgere in modo affatto spontaneo – nonostante tutte le condizioni a cui va riferita. Fondamentalmente deve sin da principio essere un’unica e medesima forma complessa di sapere. È possibile e, come si può mostrare, persino necessario, che l’evoluzione da cui emerge l’autorelazione conoscitiva venga stimolata dall’esterno. A questo aspetto si limita la considerazione della genesi “sociale” del sapere di sé. Il suo autentico fondamento è però completamente endogeno. Con quest’affermazione la filosofia del soggetto si trova addirittura d’accordo con la scienza neurologica, certo ove si prescinda dalle abissali differenze di metodo e di contenuto.

403. Tutto quanto s’è detto riguarda direttamente la comprensione che la filosofia ha del suo processo e della sua situazione. I circoli, in cui la filosofia s’imbatte per spiegare il sapere di sé, le insegnano che essa non può non fallire volendo far piena luce su questa forma di sapere, come sempre accade ogni qualvolta nelle comuni analisi si concepisce il complesso a partire dal semplice. Il sapere di sé si sottrae a una analisi del genere, anche a prescindere dal fatto che esso non è nulla di semplice, che i suoi aspetti, nonostante la loro relazione reciproca, possono essere messi in risalto ognuno per sé e che esso va designato, nella proposizione che l’esprime, in modo univoco come sapere di sé o meglio “di me”. L’esplicazione del sapere di sé come di un intero può essere tuttavia solo approssimativa. Non appena la filosofia cerca non solo di prendere le mosse dal complesso, ma anche di padroneggiarlo mediante il metodo ricostruttivo, ricade nei circoli viziosi. Bisogna allora prendere questi circoli come sintomi di un progetto metodicamente mal orientato e mal impostato.

41Forse è naturale che, volendo sottrarsi a una tale situazione e insieme conservare il metodo e il programma di una spiegazione analitica, si trasponga il sorgere dell’autorelazione in una più originaria dimensione dell’esperienza che precede le operazioni e quindi anche i problemi della conoscenza articolata in concetti. Può sembrare che si raggiunga un’effettiva comprensione dove si distinguano i diversi momenti l’uno dall’altro, ma questo chiarisce che in realtà essi non debbono essere separati, essendo legati l’un l’altro in una sorta di arcaica unità. Con ciò invero non si modifica lo stato del problema, mentre nel contempo l’effettiva connessione tra sapere di sé e intelligenza viene spiegata in modo contrario alla realtà e con una soluzione solo apparente. È possibile sapere di sé in quanto se stessi solo in un pensiero pienamente articolato, quantunque non prodotto teoricamente. Sicché il soggetto, per quanto sa di sé in forma di discorso o proposizione, è effettivamente niente senza i suoi pensieri. Si può addirittura dire che egli è nulla fuori dai suoi pensieri. Questa coincidenza, quantunque come sempre solo parziale, con Descartes, e anche con Hegel, può essere completata e resa più plausibile dicendo che io posso sapere qualcosa di me, solo quando – anche se in forma inespressa – dispongo del pensiero di quel singolo, che io stesso sono. Io debbo definirlo unicamente in base al fatto che esso è quello in relazione al quale e a partire dal quale si hanno tutti i pensieri che sono i miei pensieri. Quale che sia la spiegazione che possa darsi di questo singolo – già in questa minimale definizione è presente il contrasto con un certo numero di altri singoli che fondamentalmente hanno la medesima costituzione.

42Ma non solo riguardo al singolo che io sono, sì anche riguardo alla costituzione del sapere di sé, la domanda su un fondamento (Grund) dell’autorelazione conoscitiva è ineludibile. Perché questa costituzione è complessa e nient’affatto comprensibile in se stessa. Non ha l’autosufficienza di un’idea platonica, né possiamo scomporla nelle sue autonome componenti per poi ricostruire sinteticamente l’intero muovendo da una delle parti che lo compongono. In questi casi bisogna sempre ricercare un precedente fondamento e insieme porre la domanda sul “da dove?”, dalla quale il vivere consapevole è sempre, per la sua stessa natura, attratto. Gli atti della creazione non possono essere una risposta a tale domanda, giacché essi presupporrebbero un soggetto la cui forma di sapere non è diversa dalla nostra.

43Giunti a questo punto, si apre innanzi a noi un’ampia cerchia di opzioni. Quanto si è detto potrebbe essere utilizzato persino da neurofilosofi come argomento a favore della genesi di tutto il sapere dalla natura materiale. Ma è parimenti possibile collegarlo alla tradizione della metafisica speculativa: l’autorelazione conoscitiva viene infatti ricondotta a un principio fondante (auf ein Grün­dendes) che non è certo un sapere della specie a noi nota, ma a cui si attribuisce un qualche rapporto a sé e la proprietà di avere, nel suo rapporto a sé e nel suo sviluppo, una costituzione più complessa di quella della soggettività, che noi dobbiamo prendere come punto di partenza, a prescindere dagli argomenti a favore dell’una o dell’altra di queste opzioni. Ma in entrambi i casi vale parimenti quanto segue: noi non possiamo, nel descrivere i fatti, andare oltre ciò che il nostro sapere per la sua stessa costituzione ci pone innanzi. Ora, in tale costituzione l’autorelazione conoscitiva riveste un significato preminente. Ma quali che siano gli argomenti che ci inducano a ritenere vera l’una o l’altra genesi dell’autorelazione conoscitiva, non possiamo attenderci che essi siano in grado di dedurla passo passo dal fondamento che le presupponiamo. Possiamo descriverla – com’è provato – in base alla sua stessa costituzione soltanto in maniera approssimativa. Un fondamento del sapere di me, comunque lo si intenda, può essere pensato solamente come un’ipotesi, che nessuna verificazione può tuttavia trasformare in conoscenza dimostrativa.

44Non si tema che tale ammissione minacci lo spirito scientifico o addirittura favorisca l’oscurantismo. La definizione dei limiti delle possibilità della conoscenza, e in particolare della conoscenza di sé, è una delle operazioni più importanti della nostra razionalità. Del resto quanto abbiamo appreso sull’autorelazione conoscitiva vale anche in altri ambiti non meno fondamentali nell’ordinamento complessivo delle nostre facoltà epistemiche. Vale per la forma dell’enunciato veritativo, e in particolare per la comprensione della verità come tale. Anche il nostro rapporto con la verità è complesso e fondamentale. Per decenni i filosofi anglosassoni hanno compiuto ogni sforzo per ridurre questo rapporto a una comune e banale relazione, o per formulare una teoria della verità quanto più possibile conforme all’immagine naturalistica del mondo; nel frattempo è divenuto palese che le nostre ricerche non possono che muovere dalla nostra comprensione della verità come di un fatto. Chi vuole spiegare la verità in base agli elementi che la compongono, si sorprende poi a presupporre la verità come già compresa e a essere prigioniero di circoli viziosi. Vero è che nel nostro sapere il rapporto con la verità è variamente e strettamente legato al rapporto con se stessi. Quanto è risultato dall’indagine sull’autorelazione conoscitiva concorda dunque completamente con le conoscenze conseguite in campi limitrofi.

45Queste conoscenze hanno contribuito notevolmente al mutamento d’orien­tamento della filosofia riguardo a ciò a cui essa può mirare: ciò che è fondamentale può da noi essere spiegato soltanto in modo approssimativo. Ma anche questa limitata spiegazione può far luce sulla connessione generale del nostro sapere e della nostra relazione al mondo. Il fatto che anche nella dottrina filosofica fondamentale non possiamo giungere a fondamenti ultimi o affatto semplici, ma che, sulla base di quanto ci è dato comprendere, possiamo comunque avere una conoscenza delle connessioni generali del sapere, permette di chiarire anche il significato che la filosofia ha per la vita che dobbiamo condurre: la filosofia non ci può mostrare in maniera stringente fondamenti ultimi o verità assolute che ci orientino nella vita. Ci può però illuminare riguardo alla costituzione del nostro vivere e legittimarci nell’impresa di giungere, nel corso della nostra vita e a partire da essa, ad accertare qualcosa di veramente fondante. La filosofia, infine, ci può anche chiarire le possibilità di un orientamento generale della vita e, nel contempo, farci intendere gli errori in cui sempre di nuovo cadiamo, anche nei nostri progetti teorici, nella ricerca di quell’orientamento e in conseguenza di essa. Così anche la dottrina filosofica fondamentale per la sua stessa costituzione e con i suoi limiti è compresa nella vita e in accordo con la vita, che, a partire dal suo rapporto a sé, deve cercare di giungere a una comprensione di sé. Da ciò risulta anche che quello, con cui la dottrina filosofica fondamentale inizia e da cui procede per spiegare le correlazioni che costituiscono la nostra vita, non va scambiato con ciò che per questa vita nel suo impegno a conoscere se stessa è la cosa più importante, quella che davvero la riempie. La filosofia del soggetto non è per questo motivo a servizio dell’innalzamento di sé o della definizione di un’immagine autistica della potenza di sé. Essa è invece il presupposto per comprendere che la vita diviene più profonda se, distaccandosi dal proprio interesse, si realizza avendo di mira la ragione del vivere e cioè subordinandosi al compito che questa pone e mettendosi in relazione con il contesto della vita.

3.

Dopo queste considerazioni propedeutiche e generali sulla filosofia nel suo complesso, possiamo ora passare a illustrare la soggettività come principio, attraverso alcune conseguenze che se ne possono trarre. Dobbiamo in particolare concentrarci su quelle che si possono far derivare dalle proprietà dell’autorelazione conoscitiva, che sono emerse nel contesto della precedente analisi della domanda sul modo in cui la filosofia può avere a tema l’autorelazione. Ad altre sue proprietà – quali la sua costante identità e la sua latente presenza nella formazione di ogni pensiero – possono collegarsi conseguenze di.altro genere. Tra queste ultime vi sono quelle che hanno dato un’impronta particolare alla teoria kantiana dell’oggettività del conoscere. Ma non di queste dobbiamo qui discutere, bensì di quelle a cui conduce il pensiero ineludibile del fondamento dell’autorelazione. Neppure potremo soffermarci sulle questioni metodologiche sollevate dai concetti qui in gioco. Dovremo inoltre limitarci alle semplici tesi. Tale limitazione è però tollerabile, in quanto in questo caso l’interesse vero e proprio verte solo sulla possibilità e sul modo di trarre delle conseguenze, e non sull’ambito tematico che si può volta a volta aprire. D’altra parte, trattando del problema della conoscenza anche in relazione all’intersoggettività e al linguaggio, non potremo non affrontare problemi attuali e controversi quali ambiti tematici relativi a quelle conseguenze.

461. Il risultato dell’indagine sul sapere di noi stessi concerne in modo diretto l’antica domanda sul fondamento della nostra convinzione che noi con i nostri pensieri cogliamo la realtà. Si è visto che noi in tanto possiamo essere gli esseri che siamo, in quanto realizziamo Io-pensieri (Ich-Gedanken). Ora, distinguere in questi pensieri ciò che è pensato da ciò che è reale, non ha senso. Non possono esserci Io-pensieri che siano “meri” pensieri, se è in virtù di singoli Io-pensieri che in generale un essere, che esiste al modo dell’“esser-per-me”, è reale.

47Ad alcuni questa argomentazione potrà apparire come il ripresentarsi della famosa prova ontologica dell’esistenza di Dio, applicata non all’infinito, bensì a quell’essere finito che esiste nel modo dell’esser-per-sé. La qualcosa non va neppure contraddetta, purché nel contempo si rifletta che non si ricava nulla dal puro pensiero, ma si mostra soltanto come, in questo caso anomalo, e pertanto eccezionale, il reale si forma proprio nel pensiero.

48Nel contempo si deve anche riconoscere che la realtà nel modo dell’“esser-per-me” non spiega se stessa, se le si deve presupporre un fondamento, da cui deriva. Sebbene questo fondamento si sottragga al conoscere oggettivante, esso definisce un reale d’altro tipo, un reale a cui la vita consapevole di sé può rapportarsi solo comprendendo che non ha su se stessa potere alcuno.

49Colui, la cui realtà più propria si mostra nell’Io-pensiero, ha sempre nel con­tempo pensieri in rapporto al mondo da lui distinto, al quale egli attribuisce una realtà a esso propria. Che il suo quasi predicato “reale” non sia soltanto un predicato che serva unicamente a connettere contenuti di pensiero, egli lo sa proprio in base a ciò che la sua autorelazione gli ha appreso. Di qui il suo diritto a porre in quella dimensione del reale, che per lui è fuori d’ogni dubbio, tutto ciò a cui si riferisce con i suoi pensieri. Il che spiega e legittima anche il saldo realismo dei nostri convincimenti quotidiani.

50Abbiamo certamente a nostra disposizione molteplici descrizioni del mondo, che sorgono fondatamente, ma che si trovano l’una contro l’altra in un conflitto che nessun compromesso è in grado di dirimere. Se è la descrizione del mondo della fisica matematica ovvero quella quotidiana con la sua ontologia aristotelica che corrisponde meglio a ciò che è reale non soltanto all’interno di un sistema descrittivo – questo va deciso in altre ricerche, che non quella riguardante la soggettività come tale. Poiché, tuttavia, è a partire da questa ricerca che si giustifica l’uso del predicato “reale” in senso assoluto, e poiché sappiamo che il fondamento della soggettività non può essere colto da una conoscenza oggettivante, è indubbio che tutte le nostre descrizioni del mondo, in cui vengono compresi oggetti come tali, sono soggette a una limitazione. Risulta pertanto evidente che la filosofia del soggetto, per il realismo che la distingue, può e deve tanto respingere l’accusa di soggettivismo, quanto opporsi al programma di uno scientismo senza limiti – e invero per una ragione che è la medesima in entrambi i casi.

512. Si è condotti all’intersoggettività attraverso un altro momento costitutivo della soggettività, dal cui “esser-per-me” si parte. In quanto non l’universale “Per-sé”, in sé sussistente, della formale autorelazione costituisce la soggettività, ma il “Per-me” dell’Io-pensiero, il soggetto comprende sempre se stesso necessariamente come un singolo. Questo implica, come s’è detto, il pensiero di altri possibili soggetti e conseguentemente di un ordine, nel quale i soggetti sono diversi l’uno dall’altro. Di tale ordine o dimensione non è necessario che si abbia concetto alcuno nella propria autorelazione. Ma a entrambi, all’Io-pensiero e al pensiero dell’ordine a esso connesso, si associa senz’altro il pensiero di una relazione, che i soggetti possano intraprendere l’uno con l’altro a partire dal loro esser-per-me. Con ciò è conseguita la determinazione minimale dell’intersoggettività.

52Da questa si può subito trarre un’ulteriore conseguenza: è impossibile che un singolo soggetto divenga presente a un altro nel modo dell’“esser-per-me” proprio di questo altro, in quanto ciò comporterebbe la sua inclusione nell’“esser-per-me” dell’altro e, quindi, la scomparsa della loro differenza. I soggetti, allora, in tanto possono aprirsi l’un l’altro, in quanto in qualche modo si fanno corpo (Verkörperung). Ed è corpo un soggetto quando esiste anche come quel singolo che non è costituito dal “per-me” dell’autorelazione conoscitiva, ma che appartiene comunque al soggetto e può immediatamente intervenire su di esso con le sue intenzioni.

53Con il farsi-corpo, tuttavia, non ha fatto ancora il suo ingresso l’interazione intenzionale. Perché ciò accada è necessario che un soggetto-­corpo possa farsi presente a un altro nel suo “esser-per-sé”, senza però attrarlo in sé. E questa è l’opera del linguaggio. Il linguaggio comune non è con ciò affatto definito in modo esauriente nella pluralità delle sue funzioni. Si desume, tuttavia, dall’insieme della nostra argomentazione che il linguaggio può essere compreso come medio e non come strumento d’intesa. I soggetti non si possono accordare sul suo uso, perché l’accordo stesso ne presupporrebbe già l’uso. Conseguentemente, può esserci comunicazione solo sul presupposto di una reale comunanza tra soggetti che si rapportano reciprocamente tra loro. La comunicazione appartiene alle radici della comunità culturale; così come l’“esser-per-sé” dei soggetti, imprescindibile per il parlare capace di comprensione.

54Questo “esser-per-sé” non può venire assolutamente dedotto dalla comunicazione. Eppure, come mostra l’analisi dell’autorelazione conoscitiva, non si produce da sé. Deve sorgere spontaneamente da un fondamento di cui non si può disporre. Ma bisogna capire e anzi aspettarsi che dei soggetti, che hanno un’esistenza temporale e mortale, abbiano bisogno della guida, del sostegno e della compagnia di altri soggetti. Questo spiega perché i loro pensieri possano ma­turare solo attraverso l’assimilazione del comune linguaggio di quella cultura con cui s’immedesimano. S’intende altresì perché la possibilità della vita, che a essi si dischiude nel loro “esser-per-sé”, può pienamente realizzarsi nella relazione con altri soggetti. La filosofia della soggettività, una volta inteso correttamente l’“esser-per-sé”, non deve incorrere nell’errore di dare un’identificazione al suo fondamento (das Grundlegende), ed è questa una cosa essenziale, in quanto la vita trova in esso l’ultimo significato e la sua piena realizzazione.

55Dovrebbe essere ormai chiaro che non c’è alcun buon motivo per affermare l’esistenza di un insolubile antagonismo tra la filosofia della soggettività e la comprensione dell’intersoggettività. Anche nella storia della modernità i due temi sono stati sviluppati all’incirca nello stesso periodo. La teoria linguistica del nostro secolo ha certamente offerto alla comprensione dell’intersoggettività problemi e prospettive del tutto nuovi. Chi però fa seguire a un’epoca della filosofia della coscienza un’epoca della teoria della comunicazione, per procacciare a quest’ultima una documentazione storicizzante della sua superiorità, non solo non intende il reale sviluppo della modernità, ma anche si sottopone a un impegno impossibile, quello di derivare geneticamente l’autorelazione conoscitiva dalla comunicazione.

56Considerando retrospettivamente il cammino percorso, rimane soltanto da dire in che modo la soggettività debba valere come principio e secondo quale procedimento debba essere utilizzata, in filosofia, come principio. La soggettività non è autoesplicativa ed è in sé una compagine di momenti irriducibili gli uni agli altri, ma che si modificano gli uni con gli altri e che pertanto sono tra loro legati. Inoltre la soggettività non è chiusa in sé, ma rimanda in duplice modo oltre se stessa: al suo fondamento e al mondo. Eppure questa molteplicità costituisce una pregnante unità, perché essa si mostra nel suo complesso nell’autorelazione conoscitiva in quanto tale.

57I grandi fílosofi dei primordi dell’università di Berlino partirono da quest’unità. Non la confusero certo con qualcosa di semplice e di indifferenziato. Ma sottovalutarono la differenza sua propria, perché considerarono l’autorelazione del sapere autoesplicativa e ritennero che essa si sarebbe costituita come principio seguendo il suo proprio movimento di esplicazione, mediante il quale il sa­pere di sé si trasforma in sapere del fondamento e del mondo, portando così la filosofia a costituirsi in sistema.

58In questo senso per noi la soggettività non può più essere principio. La molteplicità che si può mostrare in essa, non può essere padroneggiata neppure in un’adeguata analisi dell’autorelazione conoscitiva. Ma si possono collegare ai suoi momenti processi di fondazione, nei quali si deve tener conto del “per me” di quest’autorelazione onde mettere in luce le connessioni dell’“esser-per-me” – così come sì è fatto per i diversi problemi della conoscenza e dell’intersoggettività.

59Siccome in questa dimostrazione non si presume che la soggettività si sviluppi in un sistema, non c’è possibilità, né ragione alcuna, che nel procedimento esplicativo e dimostrativo si formi e si impieghi una forma concettuale speculativa per dar forma e svolgimento all’autorelazione. La logica speculativa entra in gioco in maniera legittima, là dove la soggettività e il suo mondo siano pensati a partire dal loro fondamento e pertanto debba essere esplicitato il concetto di un assoluto.

60In conclusione noi dobbiamo, sia nella spiegazione del principio sia nel modo di procedere, allontanarci quasi in tutto da coloro che per primi elaborarono una filosofia della soggettività. Tuttavia, pur distanziandocene, seguiamo gli au­tentici motivi che diedero impulso al loro pensiero – e questo vogliamo dirlo con una citazione tratta dalla lezione inaugurale tenuta da Hegel all’incirca centottanta anni fa, in questa stessa università di Berlino: alla filosofia come scienza è affidata la custodia di una luce «ed è nostro compito averne cura e alimentarla, e provvedere a che la cosa più alta che l’uomo può possedere, l’autoco­scienza della sua essenza, non si estingua e tramonti».

3.3. Discussione

Vorrei iniziare subito – cercando di porre in un ordine strategico le obiezioni e le domande che mi sono state rivolte – da quanto è stato notato alla fine dell’intervento di Francesca Michelini, con un’integrazione riguardo al tema dell’intersoggettività. È un punto che ritengo assolutamente importante e che esige di essere dibattuto.

61Tutta la mia indagine filosofica parte dal presupposto che nell’autocoscienza sia posta sempre la coscienza di un soggetto singolo. E questo va rimarcato per diverse ragioni. Anzitutto per differenziare la mia prospettiva rispetto a ciò che gli idealisti intendevano con “principio”. Fichte, per esempio, considerava il sapere originario di sé anonimo e sovraindividuale, presupposto che io naturalmente non accetto. Si può ovviamente cercare di motivare perché Fichte fosse di questa opinione e prendesse quel sapere come punto di partenza, e cercare di offrire motivazioni sul perché non lo si dovrebbe fare. In ogni caso, va posto l’accento su quanto mi differenzia da quella prospettiva.

62Il secondo motivo è che proprio questa differenza dall’impostazione degli idealisti mi consente di parlare dell’autocoscienza come di un sapere di me, non soltanto di. Ed è questa differenza che mi permettere di arrivare a tutta una serie di conseguenze: solo se si concepisce il “principio” come autocoscienza individuale, si possono collegare tra loro, nel modo in cui ho cercato di fare, corporeità, linguaggio e intersoggettività. Con questo non ho naturalmente ancora detto come di fatto i tre momenti si colleghino tra di loro. Nel mio contributo ho parlato di una loro “cooriginarietà” (Gleichursprünglichkeit). Cooriginarietà è un termine introdotto da Husserl nell’analisi fenomenologica e che è stato utilizzato da Heidegger in Essere e Tempo addirittura come un concetto fondamentale dal punto di vista metodologico. Non mi voglio soffermare ora su questo contesto storico, ma vorrei mettere in luce che con co-originarietà si intende che gli elementi per cui l’essere cooriginario ha valore, non possono essere sviluppati indipendentemente l’uno dall’altro. Nel momento in cui fanno la loro comparsa, compaiono tutti quanti, in senso logico, allo stesso tempo, sine alia ratione interveniente – l’espressione logica per “allo stesso tempo”.

63Questo non esclude che entrino in gioco l’uno dopo l’altro, ma compaiono in unione, non l’uno tramite l’altro. Attenzione: “cooriginario” non significa “con la stessa valenza”. Si può ammettere un struttura di momenti cooriginari in cui uno dei momenti sia, in un certo senso, preminente sull’altro. Così io ho inteso, nel rapporto tra soggettività e intersoggettività, la cooriginarietà e la preminenza: la preminenza della soggettività sull’intersoggettività va intesa nel senso che la soggettività è sempre presupposta nell’intersoggettività come ciò che la costituisce strutturalmente. Questo non esclude una priorità genetica dal lato dell’intersoggettività. Ma perché ritengo che la soggettività sia strutturalmente dominante nei riguardi dell’intersoggettività? Perché ogni essere-con degli uomini è reso possibile dall’essere-per-sé di ognuno, e nella sua particolarità è caratterizzato tramite la modalità dell’esser-per-sé del singolo. Diciamolo con altre parole: la soggettività è esser-per-sé del singolo; l’intersoggettività è l’essere-con di quanti ­sono-per-sé. La preminenza della soggettività sull’intersoggetività si può anche formulare in forma di tesi: non si dà alcun essere-con senza che ciascuno di coloro che sono l’uno con l’altro sia per-sé. Ma si dà un essere-per-sé senza un essere-con. Detto in forma di asserzione antropologica: siamo tutti esseri individuali e in più abbiamo la nostra vita da condurre. Ma ciò non significa, argomentando dal punto di vista antropologico, che il nostro esser-per-sé sia per noi più importante di ogni essere-con, ma proprio all’inverso: solo perché, in ultima istanza, siamo-per-sé, l’essere-con può diventare per noi la cosa più importante. Possiamo anche esprimerlo dicendo che nell’amore si compie la vita, ma è la vita di ogni individuo che in quel modo si compie.

64La questione dell’intersoggettività è molto rilevante anche perché la filosofia del xx secolo ha rafforzato enormemente la tesi della fine della filosofia della soggettività, e ha decretato una nuova filosofia che si concepisce a partire dall’essere-con, dal dialogo, dalla società, dalla comunicazione. Per questa ragione, credo proprio che un’operazione filosoficamente ben fondata sia quella di indicare nell’intersoggettività i momenti della soggettività che la rendono possibile, senza tuttavia affermare che si debba partire da un io anonimo, a cui tutti prenderemmo parte, per poi giungere a molti milioni di io individuali concreti. Ovvero: l’essere per sé non è l’essere per me dell’autorelazione conoscitiva.

65L’ultimo è il principio; il primo o è un pensiero che non va a effetto o è il risultato di un pensiero speculativo ma che tuttavia già presuppone l’autorelazione conoscitiva del singolo. Forse va fatta ancora un’osservazione generale: è qualcosa di costitutivo per l’essere umano e la razionalità che, tra l’individualità del singolo e la razionalità che rende possibile l’universalità, sussista un nesso strutturale. Sappiamo di noi stessi come noi stessi, vale a dire: nel nostro sapere di noi, nella nostra singolarità e individualità è posto un universale. Questa tesi si può formulare anche dicendo che l’autocoscienza può essere concepita in maniera proposizionale: è un pensare. E pensare è l’universalità e al contempo la singolarità come punto di partenza e di orientamento.

66E veniamo ora più nel dettaglio al tema del principio, soprattutto in riferimento alle diverse domande che su questo mi sono state rivolte.

67Il vantaggio della soggettività come principio non è quello esplicativo nel senso del “chiarire meglio”, ovvero il vantaggio che una teoria, in virtù di determinati dati, ha rispetto a un’altra, ma la capacità di riferirsi contemporaneamente a molteplici dati e di collegarli in una rete. Vale a dire: è una riflessione coerentistica, non esplicativa. Nel momento in cui prendo come punto di partenza il dato dell’autorelazione conoscitiva, giungo – attraverso un cammino migliore rispetto a ogni altro punto di partenza – a un numero maggiore di altri dati. Un dato di partenza concorrenziale potrebbe sembrare quello della proposizione veritativa. Peter Strawson ha chiamato questo genere di ricerca connective analysis, traendo – come faccio io – quest’idea metodologica da Kant. Strawson distingue il suo procedimento all’interno della filosofia analitica dall’analysis standard, in base a cui i singoli problemi vengono risolti separatamente. I problemi devono essere posti in un ordine, si deve poter passare da un problema a un altro, e quando si fa un’analisi sistematica, si deve considerare la relazione fra tutti i problemi e i dati alla stregua di una rete. E se si dà un principio, a questo spetta il posto centrale all’interno della rete (un po’ come nella mappa di Torino il posto centrale spetta al castello).

68Wittgenstein ha paragonato il linguaggio a una città, dove anzitutto si hanno un paio di case, ma man mano che il linguaggio viene ampliato, si introducono altri elementi qua e là, sino a quando si ha un sobborgo e il linguaggio diviene sempre più complesso. È nei confronti di un modello di linguaggio di questo tipo che la connective analysis assume una posizione critica. Nel linguaggio si dà un nesso sistematico, che non si forma semplicemente, ma che rende il linguaggio qualcosa di sistematico. E ciò che caratterizza come punto centrale tale nesso sistematico è il pensiero chiave della mappa. E se per Strawson questa è la proposizione sulle entità individuali, per me è il sapere di sé come di sé, di me come di me.

69Ora, come è stato giustamente sottolineato nell’introduzione al mio saggio, il principio va fortemente distinto dal fondamento (Grund). Mentre il discorso sul principio si riferisce al nesso sistematico del pensiero, il fondamento si riferisce all’origine reale della soggettività. Questo non significa che il discorso sul fondamento non trovi posto in un ambito sistematico. Anch’esso deve essere spiegato alla luce del nesso di soggettività e razionalità. Il fondamento può essere descritto come idea regolativa, ma solo nel senso che si può pensare qualco­sa come fondamento. Io ritengo che il pensiero del fondamento non sia un’idea regolativa, ma un pensiero necessario, che tuttavia deve essere esplicitato in una maniera concreta. Ma quest’esplicitazione non è una operazione conoscitiva e proprio per questa ragione l’esplicazione del fondamento – vale a dire del pensiero di ciò in cui esso consiste – viene compresa come idea regolativa. Tuttavia io non lo considererei in ultima istanza così. Perché no? Pensiamo a Kant, e alla sua idea di libertà. È un’idea regolativa per la ragione teoretica, ma non appena si passa all’ambito pratico, pur rimanendo un’idea, non è più semplicemente solo regolativa, ma presenta un plus. Riguardo al fondamento, deve essere fatta anche una precisazione dal punto di vista linguistico. Il termine Grund è intraducibile in una lingua diversa dal tedesco. E questo vale certamente per tutte le lingue che derivano dal latino. In latino ratio e fundamentum sono due termini differenti, e questa differenza si ritrova non solo in italiano, ma anche in francese e in inglese. In inglese esiste la parola ground, ma è divenuta obsoleta come terminologia teoretica, dal momento che la lingua inglese ha represso la componente tedesca. Si utilizzano foundation and reason, due termini separati anche in inglese. Costituisce una peculiarità della lingua tedesca che ratio e fundamentum siano la stessa parola. Dopo che ho scritto, quindici anni fa, il mio volume su Hölderlin (Der Grund im ­Bewußstein 1992), mi sono accorto che il titolo non poteva essere tradotto! La particolarità della lingua tedesca – e su questo sono d’accordo con Heidegger – consiste nella sua peculiare capacità di cogliere linguisticamente pensieri filosofici. Beninteso: questo non è esclusivamente un punto di forza, può essere anche un pericolo.

70Il termine Grund tedesco si riferisce a entrambi questi concetti: ciò da cui qualcosa emerge (ratio) e ciò a cui qualcosa viene in ultima istanza ricondotto, che è alla fine (fundamentum). Anche quello che gli idealisti avevano in mente era sempre Grund in questo duplice significato: ciò su cui qualcosa riposa, e ciò a partire da cui si spiega. Per quanto riguarda il sapere di sé, questo duplice significato indica che il sapere di sé, attraverso il fondamento, non solo viene portato all’esistenza qua ratio o qua causa, ma che sussiste sempre anche in forza di questo fondamento. Attraverso il fondamento viene cioè spiegata non solo l’origine, ma anche il sussistere dell’esser sé. In questo senso duplice ma unitario, il fondamento va distinto dal principio. Il principio è un concetto metodologico, che tuttavia non è privo di implicazioni contenutistiche. Il titolo del mio saggio che oggi stiamo discutendo richiama l’opera di Schelling Vom Ich als Prinzip der Philosophie, e nella concezione schellinghiana il principio non viene, anche intenzionalmente, distinto dal Grund. In questo senso il nostro titolo, nel momento in cui distinguiamo tra Prinzip e Grund, costituisce già un programma opposto rispetto a quello degli idealisti. E già a partire da questa distinzione si delinea piuttosto una posizione che si sviluppa molto diversamente da quella degli idealisti postkantiani. È più una posizione kantiana, in cui tuttavia si vogliono conservare le intenzioni che erano alla base della filosofia idealistica.

71Questo concerne anche principio e inizio (Anfang). Il principio non è semplicemente l’inizio: bisogna iniziare da qualche parte e – come dice Hegel – si può anche indicare dove meglio è possibile iniziare, ovvero si inizia laddove meno viene presupposto. In questo senso il sapere di sé non è inizio: è un inizio pieno di contenuto che si raccomanda in ragione della posizione centrale – in un sistema connettivo – di ciò da cui si inizia. E dal momento che fonda ciò con cui inizia, si dice meglio principio che inizio, principio che dischiude, principio che chiarifica. Con quello si deve iniziare. Il principio non è ajrchvé in senso greco, non è un principio ontologico, ma ciò non significa che non abbia alcun significato all’interno dell’esistente. Ha addirittura un significato notevolissimo – si veda per esempio in Descartes.

72Ma veniamo ora alla domanda, se l’autorelazione conoscitiva in quanto implicazione e come qualcosa a cui si può giungere attraverso una connective analysis, abbia anche un “movimento” nel mondo. Tale questione mi è stata posta in collegamento a un’altra, se il criterio per l’inizio sia un criterio pragmatico. Intanto diciamo qualcosa riguardo a “pragmatico”: pragmatico non va inteso nel senso del “pragmatismo”, ma vuol dire che ci sono buoni motivi per iniziare proprio con quell’inizio, motivi di tipo procedurale. Pragmatico nel senso che il principio ha carattere metodologico, e che è sostenuto dalla situazione fattuale. In questo senso direi di si, si può dire che è “pragmatico”. Ma pragmatico non solo nel senso che si deve dapprima procedere in un determinato modo e vedere che cosa ne scaturisce, per poi vedere che scaturisce ciò che piace. Questo sarebbe pragmatico nel senso di William James. È pragmatico nel senso che i motivi, che giocano a favore dell’inizio, sono motivi procedurali.

73E veniamo al “movimento”. In un mio lungo saggio intitolato Identità e obbiettività37 – che contiene un’interpretazione della filosofia kantiana ma che ha anche un carattere sistematico – ho compiuto il tentativo di dedurre dall’autorelazione conoscitiva, secondo un programma di tipo kantiano, la stabilità di un mondo in cui questo essere, che sa di sé, può sapere soltanto di sé. Come ho già detto, il sapere di sé è il mio sapere di me, e in questo sapere di me è compreso il fatto che io non solo so di me ma che so molte cose, e che le condizioni in cui so qualcosa sono molteplici. Il mio sapere di me è sempre lo stesso, la sua costituzione è invariabile, ma il fatto che sia un sapere di me comporta che possa essere in molte altre condizioni di sapere. Forse si può dare un sapere di in senso assoluto, in un senso sovraindividuale, in cui l’identità o la prospettiva di identità di colui che sa di sé non è inclusa, ma nel mio sapere di me è in gioco una prospettiva relativa alla mia identità, vale a dire relativa alla variazione. Si tratta innanzitutto della variazione delle mie proprie condizioni epistemiche, ma, prendendo le mosse da questo punto di partenza, si può anche arrivare a una conclusione che riguarda l’universo intero e che si oppone all’idea di un block universe, come viene chiamato nella filosofia della natura analitica. Un universo in cui non succede nulla, che permane invariato, laddove il tempo può essere una delle sue quattro dimensioni. All’interno di questa configurazione ci sono certo mutamenti, ma l’universo come tale è statico e bloccato. Forse si potrebbe mostrare che questo block universe non può essere il mondo di un soggetto (ma ciò ora comporterebbe una lunga serie di argomentanzioni). Kant ha cercato di farlo nell’Opus postumum.

74Ci avviciniamo così alla tematica del pensiero speculativo. Anche a partire dalle domande che sono state poste è necessario premettere anzitutto qualche osservazione su Kant. Effettivamente Kant non ha affatto considerato autoesplicativo il pensiero fondamentale “Io penso”, da cui l’intera filosofia trascendentale deve evincere il suo punto di partenza e la sua fondazione – e questo è il suo punto di differenza da Fichte, ma Kant ha sempre detto che questo io, che è cosciente di sé – un io, di cui non sostiene energicamente che sia un individuo – ha dei presupposti che non conosciamo. E effettivamente io seguo fondamentalmente questo orientamento kantiano. Si può dire che Kant abbia determinato i limiti della ragione su due fronti. Un primo fronte è costituito dalla realtà. Non possiamo cogliere la realtà come è in sé, ma solo come è per noi. Questa è la differenza kantiana tra la cosa in sé e il fenomeno. Io credo che sia necessario distinguerla dalla differenza tra la percezione sensibile e ciò che sta alle sue spalle. La cosa in sé kantiana va tradotta come ens per se, il che significa che sussiste attraverso se stessa. Noi conosciamo la cosa solo come è per noi, non nel suo essere-per-sé. Questa è la prima limitazione compiuta da Kant, limitazione che concerne gli oggetti. L’altra limitazione riguarda il sapere di sé. Sappiamo che siamo, e sappiamo molto di ciò che appartiene al nostro essere, ma non sappiamo che siamo per sé. Anche noi siamo sottratti a noi stessi come cose in sé, vale a dire non sappiamo come sia reso possibile – diciamolo pure: ontologicamente – questo sicuro sapere di noi nell’io penso. Entrambe queste limitazioni, che sono in fondo la stessa cosa espressa su due fronti differenti, danno la possibilità di concepire pensieri su ciò che è in generale – il mondo – e su ciò che noi siamo. Pensieri che non sono e non possono essere conoscenze. È la possibilità dell’abisso, e la tensione esistente tra esperienza sensibile e possibilità dell’abisso, che è posta essenzialmente nel pensiero dell’uomo su se stesso. Kant dice apertamente che non è impossibile, anche se non lo possiamo sapere, che la nostra autorelazione conoscitiva sia un prodotto della materia. Beninteso, non della materia così come la conosciamo, ma di ciò che sta alla base della materia che conosciamo, ciò che la costituisce in fondo e nel profondo.

75Potete anche riferirlo al campo neurologico. Nell’ambito della teoria fiscalista, è impossibile definire l’autorelazione conoscitiva, la proposizionalità, l’intenzionalità e la normatività, ma questo non esclude che ciò che consideriamo materia attiri a sé questi fenomeni, che costituiscono la nostra vita, in una modalità che non è possibile dominare scientificamente. Credere che questo si possa provare, tuttavia, è frutto di una confusione concettuale tra conoscenza scientifica e pensiero estrapolativo. Si può dire in questo caso che il materialismo sia anche una metafisica. La posizione fondamentale a esso contrapposta è rappresentata dalla convinzione nella realtà della libertà. Questa è la posizione kantiana. Il principio non è il fondamento e il principio può essere pensato a partire da un fondamento, in maniere molto differenti. Con ciò non è ancora detta l’ultima parola sulle motivazioni che portano a pensare il fondamento in una maniera piuttosto che in un’altra.

76Veniamo ora a Hegel e a Hölderlin.

77Nella Scienza della logica Hegel ha trovato una delle formulazioni più imponenti, ovvero che tra il fondamento e il fondato non deve sussistere alcuna relazione esterna. Il fondamento non può essere posto indipendentemente da ciò che fonda. Il termine fondamento – seguendo Hegel nella parte specifica della logica (logica della riflessione) a esso dedicata – è un concetto della riflessione, ovvero, semplificando al massimo, un concetto in cui, da un lato, è intesa la differenza tra A e B e, dall’altro, A e B sono pensati in maniera tale che la loro differenza è tolta, superata. Così, quando ci si attiene in maniera conseguente al doppio aspetto di questa relazione, bisogna introdurre necessariamente un’altra categoria concettuale. Nella Scienza della Logica, è la categoria della sostanza e della sua manifestazione che deve subentrare a quella di fondamento ed esteriorità. E quella, a sua volta, trapassa nella determinazione dell’azione reciproca, che rende necessario togliere come tale l’intero concetto di riflessione. E così Hegel si avvia alla terza dimensione della sua logica, in cui la nozione di manifestazione presenta ancora un significato, ma è tradotta in un altro concetto, vale a dire in quello di sviluppo. Ma ciò che si sviluppa ora non è più la sostanza, ma il concetto. In realtà, solo una volta raggiunta la dimensione del concetto, la struttura riflessiva diviene logica in senso proprio, ovvero come forma che conferisce fondazione ultima e comprensibilità a ciò che viene pensato nelle modalità logiche – concetto, giudizio, sillogismo.

78Se volessimo utilizzare questa concezione hegeliana contro la mia prospettiva, l’obiezione che mi si potrebbe formulare potrebbe essere quella di conferire al fondamento un’autonomia rispetto al fondato, all’autorelazione conoscitiva, mentre il fondamento è fondamento appunto solo nel senso che fonda l’autorelazione conoscitiva. E ciò significa: il suo essere fondamento è reale solo nell’autorelazione conoscitiva. Se le cose stanno in questo modo, non si può parlare di un fondamento che ci è “nascosto”, dal momento che esso non sarebbe affatto il fondamento, se non si estrinsecasse nell’autorelazione conoscitiva. In questo senso, nel momento in cui si pensa che l’autorelazione conoscitiva sia l’estrinsecazione del Grund, si concede che il Grund non sia nascosto ma che in quanto tale sia presente nell’autorelazione conoscitiva. In questa maniera esso non è ancora descritto adeguatamente, ma viene raggiunta la base per una descrizione adeguata, a differenza della mia insistenza sui rapporti di riflessione.

79Ma che cosa si potrebbe obiettare a questo? In Hölderlin la questione non è in fondo tanto differente. Certo, è impostata e sviluppata in maniera anche molto differente, ma se ci riferiamo al frammento del 1795 Urtheil und Sein – laddove Urtheil è l’autorelazione conoscitiva – troviamo l’idea che l’essere sia trapassato nell’autorelazione conoscitiva. Ciò significa che l’essere è perso. L’essere è l’unità originaria; l’autorelazione conoscitiva è differenza. Ma devo ammettere che quest’auto­relazione non si comprende a partire da se stessa per il fatto che si comprende a partire da qualcosa che è stato in essa introdotto. Così, l’unità non è semplicemente nascosta. Qui abbiamo già in nuce il modello speculativo e il rapporto del pensiero finito con quello speculativo.

80Per cercare di rispondere all’obiezione che mi viene dalla prospettiva hegeliana, devo anzitutto riconoscere che nel momento in cui parlo del fondamento parlo dell’essere per-sé come ciò che costituisce l’essere del finito. Dico Grund partendo dalle condizioni del mio dire e del mio sapere, della mia autocoscienza. Non ho detto ancora tutto riguardo al fondamento di cui parlo, se parlo a partire da me stesso. E non ho detto ancora tutto, quando utilizzo fondamento nel duplice senso che sta dietro al termine tedesco Grund (fundamentum e ratio). Nella logica hegeliana, è soprattutto fundamentum a costituire la definizione di Grund. Non ho detto ancora tutto quello che ci sarebbe da dire sul fondamento nel momento in cui lo penso o lo tematizzo a partire dal pensiero finito. E non mi sono ancora riferito a me come a ciò che viene fondato, partendo dal fondamento. Pertanto, contro l’obiezione hegeliana – che costituisce peraltro il punto debole di quella potente argomentazione – posso tentare una linea di difesa più o meno in questi termini: nel momento in cui si ritiene che il fondamento non sia da pensarsi indipendentemente dall’esteriorità, ciò non significa che già si sappia in che modalità esso sia presente nell’esteriorità. Devo pensarlo in relazione al suo estrinsecarsi, ovvero devo pensare che a partire dal fondamento c’è essere per sé. Nel momento in cui associo un fondamento all’essere per sé, non ho ancora pensato il fondamento come presente nell’esteriorità. Per questo occorre un suo proprio pensiero.

81Questa problematica è la stessa del rapporto della finitezza con l’infinitezza, o con l’assolutezza. Il fondamento come tale è già un concetto speculativo ma non è esplicitato come speculativo. Formulato metodologicamente: l’argomentazione trascendentale, a partire da cui con Kant è aperta la dimensione del fondamento, non viene assorbita dallo speculativo, ovvero dalla riflessione sul rapporto tra fondamento e fondato come un non-esteriore. Nel momento in cui oltrepasso la posizione del pensiero finito, posso solo giungere alla dimensione del pensiero infinito, non posso risolvere la posizione del pensiero finito in questo pensiero. Il progetto di Hegel sfocia in ultima analisi proprio nella risoluzione, nel toglimento di questi confini.

82La debolezza del mio gioco – che fa la prima mossa con Kant – consiste nel fatto che non intacca la forza della partita che l’altro sta giocando, non indebolisce l’“apertura spinoziana”, se così vogliamo chiamarla. Io ammetto il pensiero dell’assoluto; l’“apertura kantiana” conduce a una strategia di partita più forte, nel caso in cui quella dimensione venga negata e la si consideri alla stregua di poesia concettuale o di pensiero privo di fondamento. La forza della posizione speculativa – ovvero che il fondamento deve essere pensato in relazione all’esteriorità – non viene confutata dalla “strategia kantiana”. La debolezza della partita “spinoziano-hegeliana” è che contrasta semplicemente la possibilità dell’altra mossa di apertura, e pertanto prima o poi è destinata a cadere in trappola. Ma si tratta di una disputa senza fine. Hegel afferma: l’essere per sé è ciò in cui la manifestazione si compie, il luogo dello sviluppo, ma non è ciò che si sviluppa, non è ciò che si manifesta. Ciò che si manifesta è la sostanza, ciò che si sviluppa è l’idea. L’idea non è semplicemente trascendente, dal momento che in ciò che si sviluppa è presente come ciò che si sviluppa. Ma non è neppure semplicemente immanente, dal momento che il discorso sullo sviluppo e sulla manifestazione presuppone la legittimità di parlare di qualcosa che non è ciò che viene manifestato e sviluppato. Dal punto di vista concettuale, dunque, trascendenza e immanenza non sono così distanti l’una dall’altra, e io credo che anche Schiller alla fine abbia pensato in questi termini nel momento in cui parla della libertà. Non si tratta di qualcosa di paragonabile a uno stato in cui ci troviamo, ma è qualcosa che si afferma tramite un continuo rinnovamento. «Doch der Freie wandelt im Sturme fort», scrive Schiller38. Non è una contraddizione, ma è ciò che è sempre lo stesso, è questo dover-essere, affermato sempre e sempre così. Detto antropologicamente o in modo profondamente teologico: è ciò che si decide in ogni singola vita. E pertanto l’infinito non è reale nei pensieri finiti, ma nella vita finita.

83All’inizio del mio discorso di oggi sono partito da un riferimento a Fichte. In un certo senso l’impulso dei miei lavori sull’autorelazione conoscitiva non proviene tanto dalla Wissenschaftslehre del 1794, ma dalla scoperta della tarda filosofia di Fichte, dall’idea fichtiana dell’annichilimento della coscienza individuale come base per il sapere dell’assoluto. L’assoluto pensato solo come assoluto è nascosto, ma la vita – e l’assoluto è vita – non è più nascosta, ma può essere portata a evidenza tramite la nientificazione dell’esistenza singola, nella rinuncia a essa. La rinuncia a sé da parte della egoità (Ich-haft), diviene autorivelazione, rivelazione dell’assoluto.

84Ho sottolineato come l’autorelazione conoscitiva sia qualcosa di individuale, e noi sappiamo che Fichte non ha considerato l’io assoluto come individuale, e così, a partire da questo io assoluto, nel corso della sua deduzione può giungere anzitutto al sapere assoluto – che è più dell’io, è egoità (Ich-haft), perché sa di sé – e in seguito, in relazione a questo sapere, che non è individuale, può introdurre l’esperienza dell’assoluto. Può introdurre quest’esperienza in relazione all’evidenza di quel sapere, al cui livello il nostro io finito si è già offuscato, e lo sarà ulteriormente; ciò che rende possibile la trasparenza di questo sapere assoluto è la dissoluzione dell’idea che la nostra propria vita abbia un’altra realtà rispetto alla semplice parvenza. E questo è il punto contro cui io, kantianamente, mi rivolgo: il singolo essere per sé rimane il luogo in cui l’assoluto – qualsiasi esso sia, spirito, vita, se non addirittura materia – si realizza.

85Nel momento in cui si tiene fermo in maniera conseguente il fatto che (1) è l’autocoscienza individuale che va considerata “principio” e (2) che ogni pensiero dell’assoluto deve essere sviluppato e mantenuto a partire da questa autocoscienza individuale, si arriva a una posizione che deve essere distinta da quella del tardo Fichte. Ora abbiamo due partite da giocare: Kant-Hegel e Kant-Fichte. In entrambi i casi, dall’insistenza sulla finitezza dell’essere per sé – ovvero sulla singolarità dell’essere per sé – dovrebbe conseguire la necessità di conservare la demarcazione dei limiti. E si potrebbe addirittura dire che su questo punto ci sia concordanza con gli idealisti. Anch’essi infatti direbbero: se tengo fermo all’io penso come autocoscienza di un essere pensante singolare, allora non è più possibile sbarazzarsi dei limiti posti da Kant. Ma proprio Hegel e il tardo Fichte hanno concluso che non bisogna attenersi a questi limiti, ma piuttosto approdare a un sapere di sé anonimo o in ogni caso sovraindividuale, sia che venga inteso come evidenza del sapere, sia come modalità logica.

86Per concludere vorrei dire ancora qualcosa sul collegamento tra l’assoluto e il tema della libertà, che ha percorso trasversalmente il nostro incontro, anche relativamente all’ultima domanda che mi è stata rivolta. Io ritengo che la libertà possa essere compresa solo in un contesto che, alla fine, presuppone il pensiero dell’assoluto, qualsiasi cosa con esso si voglia intendere. Forse si può distinguere tra la coscienza della libertà e il pensiero della libertà. La coscienza della libertà è designata dall’immediatezza: se posso accedere alla coscienza della libertà, posso farlo esclusivamente in maniera immediata, non posso evincerla deduttivamente a partire da qualcos’altro. Il pensiero della libertà è qualcosa di diverso. E non può essere immediato. Per questo motivo la convinzione della realtà della libertà non è data attraverso l’immediatezza della coscienza della libertà. La cosa interessante è che questa tensione appartiene direttamente a ciò che è libertà. La coscienza della libertà nel senso del sapere e della convinzione di essa – non della sua realtà effettiva – il sapere della libertà è indiretto e soggetto a dubbi, la realtà della libertà no. Appartiene alla realtà della libertà il fatto che si abbia bisogno di un pensiero di essa per condurre una vita che si possa chiamare una vita cosciente. Anche per questo però il pensiero della libertà non è immune dai dubbi. Ma se c’è libertà, la possibilità di dubitarne è necessaria, ma è altrettanto necessario che la possibilità di dubitarne non costituisca motivo per contestarne la realtà. Al contrario, non si darebbe libertà alcuna se il dubbio nei riguardi della sua realtà non fosse possibile, anzi necessario. E credo che questo potrebbe sottoscriverlo anche Schiller. Non che ciò si trovi letteralmente in Schiller, e neppure in Kant, anche se è kantiano nello spirito.

87Un fiscalista direbbe: se è sempre possibile dubitare dell’esistenza di qualcosa, allora c’è un buon motivo per contestarne la realtà. Una frase come “si può sempre porre in dubbio” non si dà. Non è compatibile con la razionalità. Viceversa io direi: la libertà non si potrebbe affatto dare, è qualcosa a cui si collega necessariamente in maniera analitica la possibilità del dubbio. Come è possibile che lo scientista confuti la realtà di qualcosa a cui è collegata in maniera analitica la possibilità del dubbio? Semplicemente perché se ne può dubitare. E così, kantianamente parlando, il semplice pensiero della libertà diventa un pensiero limite per lo scientismo.

Notes de bas de page

23 D. Henrich, Subjektivität als Prinzip, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, 1 (1998), pp. 31-44; poi in D. Henrich, Bewußtes Leben, cit., pp. 49-73.

24 G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Werke, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1969, vol. VI, p. 250; trad. it. A. Moni, rev. C. Cesa, Scienza della Logica, Roma-Bari, Laterza, 1988, II, p. 656.

25 D. Henrich, Die Grundstruktur der modernen Philosophie, in H. Ebeling, a cura di, Subjektivität und Selbsterhaltung, cit, pp. 97-121.; poi in D. Henrich, Selbstverhältnisse, cit., pp. 83-108.

26 Cfr. infra, p. 81.

27 Secondo Henrich questa sarebbe l’intuizione fondamentale di Hölderlin, espressa per la prima volta nel frammento del 1795, Urtheil und Sein: «Come posso io dire io senza autocoscienza?». Cfr., in particolare, D. Henrich, Der Grund im Bewußtsein. Untersuchungen zu Hölderlins Denken (1794-1795), Stuttgart, Klett-Cotta, 1992.

28 Cfr. D. Henrich, Fichtes ursprüngliche Einsicht, cit., p. 1.

29 Sul problema dei circoli – al centro anche di una nota controversia con E. Tugenhat – si veda in particolare D. Henrich, Noch einmal in Zirkeln. Eine Kritik von Ernst Tugendhats semantischer Erklärung von Selbstbewußtsein, in C. Bellut, U. ­Müller-Scholl, a cura di, Mensch und Moderne, Würzburg, Königshausen v. Neumann, 1989, pp. 89-128.

30 Recentemente alcune di queste critiche sono state riformulate da Charles Larmore, secondo cui Henrich, pur riconoscendo come l’autoriferimento non sia una forma di riflessione, «si ostinerebbe a vedervi un modo non riflessivo di conoscenza di sé, senza però riuscire a spiegare in che cosa la nostra intimità con noi stessi, concepita così cognitivamente, possa consistere». Ch. Larmore, Le pratiques du moi, Paris, PUF, 2004, p. 179, nota 1; trad. it. M. Piras, Pratiche dell’io, Roma, Meltemi, 2006, p. 156, nota 9.

31 Cfr. infra, p. 87.

32 Si veda per esempio D. Henrich, Denken und Selbstsein, cit., per limitarsi al volume apparso più di recente.

33 Cfr. infra, p. 91.

34 D. Henrich, Subjektivität als Prinzip, cit., pp. 31-44; poi in D. Henrich, ­Bewußtes Leben. Untersuchungen zum Verhältnis von Subjektivität und Metaphysik, cit., pp. 49-73; trad. it. F. Michelini, Soggettività come principio, già in “Il Pensiero” 38 (1998), pp. 7-21 (si ringrazia la Rivista per la gentile concessione dei diritti).

35 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, vol. 3; Sämtliche Werke, a cura di Hermann Glockner, vol. 19, Stuttgart, Frommann-Holzboog, 1965, p. 618; trad. it. E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla storia della filosofia, Firenze, La Nuova Italia, 1973, 3, II, p. 346 (trad. mod.).

36 I due riferimenti sono rispettivamente al barone di Münchhausen, che pretende di potersi sollevare tirandosi per il codino e a una storia popolare che racconta di una sfida di velocità tra la volpe (o lepre) e l’istrice, in cui l’animale più veloce si vedeva sempre precedere dall’istrice, perché al traguardo già si trovava, identica alla prima, un altro esemplare di istrice. [N. d. C.]

37 D. Henrich, Identität und Objektivität. Eine Untersuchung über Kants transzendentale Deduktion, Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, Heidelberg, 1976, Jg. 1976, Abh. 2, pp. 129-131.

38 «Ma libero procede lo spirito anche nella tempesta», dalla poesia Die Worte des Wahns [N.d.C.].

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