2. Fondamenti di una teoria della soggettività
p. 33-67
Note de l’éditeur
L’introduzione è di Anna Manolino.
Texte intégral
1L’articolo Fichtes Ich, testo di una conferenza tenuta in Francia all’inizio del 196616, costituisce la premessa della più nota trattazione Fichtes ursprüngliche Einsicht17, risalente allo stesso anno, nella quale la tesi fondamentale viene riproposta in forma molto ampliata, non mutata nella sostanza ma suffragata da un’analisi notevolmente più approfondita. Fichtes ursprüngliche Einsicht è al tempo stesso lo scritto con il quale Henrich acquista improvvisamente fama e attraverso cui egli riporta inaspettatamente all’attenzione del dibattito filosofico in Germania la questione del soggetto. È quindi il punto di partenza inevitabile per l’approccio che qui si vuole tentare al suo pensiero, e nello stesso tempo il testo che racchiude in nuce sia le varie problematiche che ruotano intorno alla questione del soggetto, sia l’enjeu della questione, seppure attraverso spunti indiretti e trasversali che qui si tenterà di cogliere.
2Innanzitutto una breve contestualizzazione per delineare lo sfondo su cui si colloca. Esso è duplice: da un lato la filosofia di Heidegger, o meglio l’heideggerismo, e in generale la filosofia esistenzialistica; dall’altro la filosofia analitica del linguaggio. A entrambe le tendenze (che sono per Henrich le due principali tendenze del pensiero contemporaneo) è da imputare l’esclusione della questione del soggetto: la prima perché risolve la soggettività nella monodimensionalità della Weltichkeit; la seconda perché, riducendo il soggetto a un problema di linguaggio, lo reifica. L’imputazione non è, a guardar bene, differenziata: è la stessa, il movente è l’esigenza di reagire al primato escludente della “mondità” (alla quale possono essere dati anche altri nomi, se si guarda agli sviluppi successivi della filosofia di Henrich, per esempio, “Naturalismus”)18.
3Sullo sfondo dell’interpretazione che qui è simultaneamente proposta sia della filosofia di Fichte sia della questione del soggetto, non è però ancora chiamata in causa la filosofia del linguaggio, ma solo l’interpretazione heideggeriana di Fichte e della storia della metafisica. Dal punto di vista della ricostruzione storica si tratta di rendere giustizia a Fichte liberando la sua Dottrina della scienza dal malinteso che vi ha scorto una manifestazione di Anmassung e di Vermessenheit, di presunzione e di smodatezza del soggetto, che si inebria della propria onnipotenza. Fra i risultati che l’autore si ripromette, c’è quello di privare dei suoi presupposti la diagnosi nefasta pronunciata da Heidegger sulla modernità e quindi pervenire a una filosofia che «sia in consonanza con i tratti fondamentali della coscienza presente»: che non sia stridentemente antimoderna, e si dia un obiettivo di armonizzazione con lo spirito del tempo. Il che sottende che la filosofia di Heidegger, con il suo attacco alla filosofia dell’autocoscienza, oltre a trascurare una serie di problemi effettivi che questa poneva, ha portato a esiti antimoderni.
4La parola Einsicht, con cui Henrich designa la scoperta che si deve a Fichte, intesa alla lettera può indicare sia uno sguardo capace di penetrare all’interno di qualcosa (il fenomeno della soggettività), sia un riconoscimento, un’ammissione. Si riferisce alla presa d’atto dell’esistenza di un condizionamento che inerisce al pensiero dell’autocoscienza come tale e alla sua costituzione. Punto d’arrivo (e di resa) conseguente a un confronto serrato, ma anche punto di partenza per un nuovo inizio del filosofare, questo sguardo nella costituzione effettiva della soggettività è stato infatti una vera e propria scoperta, qualcosa che ha messo in luce ciò che era rimasto precluso a tutti i filosofi prima di Fichte, da Descartes a Kant, nonostante che essi avessero attribuito centralità alla questione del soggetto. La ragione risiede nel fatto che essi erano stati tratti in inganno da quella che Henrich definisce “teoria riflessiva”.
5La teoria riflessiva nasce come conseguenza dell’aver portato l’attenzione sul soggetto sempre solo in vista della sua valenza fondativa, senza mai prendere in considerazione il significato che esso possiede in se stesso. Colpisce il fatto che quest’accusa sia la stessa che Heidegger muove alla storia della metafisica: la critica di Henrich alla teoria riflessiva implica un parziale riconoscimento della giustezza dell’attacco portato da Heidegger alla filosofia dell’autocoscienza; se non che le modalità del suo approccio hanno indotto Heidegger a lasciare da parte le vere questioni di contenuto che la filosofia della coscienza poneva. A questo proposito conviene osservare, per inciso, che la filosofia di Henrich, nella sua componente per la quale si presenta come un Gegenentwurf, un progetto antitetico rispetto alla filosofia di Heidegger, ne è sempre anche una ripresa, specie di quegli aspetti per i quali Heidegger è un filosofo metafisico, oltre che antimetafisico.
6È di fatto in armonia con una tale ripresa antitetica il fatto che in questo testo si trovi da parte di Henrich sia una condanna sia un’apologia della riflessione, anche se le motivazioni di tale giudizio sono presentate in forma puramente logica. In ogni caso il contrasto si svela come apparente, l’ambivalenza iniziale di giudizio viene superata e il risultato è quello di salvare il significato della riflessione, che però si trasforma in una questione indipendente da quella del soggetto19. La teoria riflessiva è dunque ambivalente, ha un aspetto ingannevole e un aspetto veritiero. La critica di Henrich alla teoria riflessiva non comporta un rigetto della riflessione, ma piuttosto una ridefinizione del suo concetto.
7La teoria riflessiva pretende di spiegare la struttura del soggetto come costituita da un’attività conoscitiva che si rivolge su se stessa, ma va incontro a due obiezioni: 1) se il soggetto è costituito dall’azione del conoscere sé, chi è che compie l’azione, visto che è solo nell’azione che il soggetto si costituisce? 2) come può compiersi l’azione del sapere di sé in quanto sé, se il soggetto non si conosce come tale già in partenza? L’azione del sapere di sé in quanto sé è impossibile a compiersi. Entrambe le questioni sono state poste da Fichte (il secondo tipo di petitio principii in particolare rappresenta una sua scoperta).
8La teoria riflessiva però non si basa solo su un errore nell’impostazione del problema della soggettività, ma ha anche un fondamento reale nel fenomeno dell’io. Essa svela l’inevitabilità del processo per cui il sapere, inizialmente coinvolto nell’esperienza del mondo, esce fuori dall’illusione di questa mondità apparentemente onnicomprensiva e diventa esso stesso questione per se stesso. Quando esce dall’illusione di essere una teoria dell’io, la riflessione è l’atto con cui l’io si libera anche dall’illusione dell’esclusività del mondo, e in questo risiede il suo autonomo significato. A partire da questo atto è possibile spiegare ogni altro atto di riflessione, ma non l’originario esser-sé, che è necessariamente presupposto. Dunque è la possibilità della riflessione che deve essere compresa a partire dall’essenza originaria dell’io, e non viceversa. La teoria riflessiva quindi non riesce a portare uno sguardo completo, esauriente, sul fenomeno dell’io, come presumeva di fare, ma, per effetto della sua errata impostazione logica, lo fa piuttosto scomparire. Tra le conseguenze di questo stato di cose, reso manifesto dalla Einsicht di Fichte, c’è l’aprirsi di «una differenza, forse perfino di un abisso» tra ciò che l’io è, e ciò a partire da cui si può tentare di renderlo comprensibile: «misurarlo, è d’ora innanzi compito della filosofia»20. L’obiettivo è cercare un’altra teoria, che arrivi a cogliere il Grund, il fondamento del fenomeno dell’io. Per fare questo si richiede alla filosofia di rivolgersi contro il linguaggio naturale dell’io. Tale linguaggio infatti favorisce l’autointerpretazione secondaria dell’io, nascondendo la realtà del fenomeno e la difficoltà di arrivare a scorgerlo, con l’apparenza di espressioni che hanno solo la presunzione di essere trasparenti.
9Questo compito è stato ciò che ha guidato Fichte nella stesura delle tre versioni della Dottrina della scienza. Qui ha inizio la parte più propositiva della trattazione, e a questo punto si possono dunque collocare alcune osservazioni più specifiche sulla modalità dell’approccio di Henrich ai testi fichtiani (e di altri autori dell’idealismo). Sia Fichtes Ich, sia Fichtes ursprüngliche Einsicht non sono una trattazione storica, ma una trattazione, su basi storiche, in cui l’interesse teorico è posto risolutamente in primo piano. Il confronto con l’autore avviene senz’altra mediazione che quella di un’argomentazione stringente, in nome esclusivamente della questione che è posta. Ne nasce un avvincente vis à vis con Fichte che ce lo rende assolutamente contemporaneo. La lettura della posizione di Fichte produce il risultato di privare la sua filosofia degli elementi caduchi (che però sono tali solo in quanto confutati o confutabili) e di proporcene una versione, in cui l’attualizzazione coincide con la giustificazione logica, che reclama il nostro assenso. Questo risultato è indistinguibile dalla posizione teorica dell’interprete, cioè da Henrich. C’è un tratto del percorso della trattazione per il quale Henrich e Fichte si identificano. Alla fine l’indagine ha prodotto un distillato della filosofia di Fichte che è quanto si può salvare per la validità perdurante del suo contenuto, e che come tale costituisce parte integrante della posizione teorica di Henrich.
10Henrich quindi segue Fichte fin dove egli assolve al compito della filosofia, per poi manifestare l’intenzione di proseguire il lavoro che Fichte ha lasciato interrotto, di indagare l’abisso, rimasto aperto, dell’io. Si sarebbe tentati di ritornare sul tema dell’ambivalenza, per evidenziare come la ricerca filosofica si trovi costitutivamente all’interno di un tale abisso, a metà strada tra la chiarificazione possibile e l’oscurità che si sottrae. Henrich non nega una tale condizione. Ma sicuramente in Fichtes ursprüngliche Einsicht, e anche in generale, non rinuncia a ritenere che in questo campo che si apre all’indagine sia possibile un reale progresso acquisitivo della ricerca. La stessa espressione “den Abgrund durchmessen”, misurare l’abisso, dà l’idea di quest’abisso come di un paradossale luogo di incontro tra il limite e l’illimitato. Henrich però non si rassegna facilmente ai paradossi. Il problema potrebbe allora essere formulato come segue: che cosa ne è della contraddizione in cui si trova la ricerca sulla costituzione della soggettività rispetto all’inesauribilità del suo compito, e che cosa comporta per lo status della filosofia? Questa però è già una domanda ultimativa, alla quale conviene cercare risposta dopo avere ancora indugiato su altre questioni che il testo sollecita.
11Torniamo alle tre successive versioni della Dottrina della scienza. Proprio perché è possibile un progresso effettivo verso una teoria che arrivi a cogliere il fondamento del fenomeno dell’io, le tre tappe della formulazione del principio fondamentale: 1) «L’Io pone in assoluto se stesso». 2) «L’Io pone se stesso in quanto ponentesi» 3) «L’Io è attività, nella quale è posto un occhio», segnano tre momenti di sempre maggiore avvicinamento al Grund. E, sempre poiché il percorso non è indifferente, a ogni tappa lo svelamento di un aspetto di insufficienza della teoria si accompagna a un’acquisizione che non è il punto di arrivo, ma rappresenta pur tuttavia un punto fermo.
121) «L’io pone in assoluto se stesso». La prima formulazione è la risposta di Fichte allo smascheramento delle aporie della teoria della riflessione. Fichte aveva capito che l’unico modo per afferrare in qualche modo con il pensiero ciò che ci si dà a conoscere quando sappiamo di noi stessi e ci definiamo “io”, è accettare un grado ineliminabile di oscurità e assumere l’esistenza di un fondamento, che si sottrae come tale ai nostri sguardi. Il fondamento si sottrae come tale: è definito dal suo sottrarsi, come risulta dall’attento esame della teoria riflessiva, che mostra l’impossibilità di un fondamento per il fenomeno della soggettività. Per conseguenza, l’io si pone come tale: non può essere definito altrimenti che dal suo porsi, è l’azione del porsi, unica spiegazione possibile per l’esistenza dell’autocoscienza, nell’assenza del fondamento. La tesi del porsi assoluto dell’io, nonostante abbia anche il significato di un’affermazione del principio di libertà e una relazione con i fatti della rivoluzione francese, non è un atto di presunzione. Al contrario, rappresenta il trarre le conseguenze da una situazione inevitabile, subita, in cui il soggetto si trova orfano del fondamento (come si può meglio comprendere se non si dimentica il contesto storico: il 1794 è l’anno dei giacobini e del tragico fallimento degli ideali della rivoluzione). In questo modo la tesi di Heidegger è confutata sul piano storico. Ma la questione rimane aperta sul piano teorico. La definizione fichtiana dell’io come attività che pone se stessa viene a sua volta smascherata dallo stesso tipo di obiezione che si applica alla teoria riflessiva: l’attività di per sé non spiega il fenomeno dell’autocoscienza, se questo fenomeno non è già presupposto. Un’autocoscienza può avere un’attività, ma un’attività come tale non deve necessariamente avere un’autocoscienza. Rimane tuttavia un’acquisizione: l’attività è risultata essere una possibilità essenziale dell’esser-sé. Se dovesse conseguirne che l’attività non è solo una possibilità dell’esser-sé, ma che a ogni esser-sé in quanto tale appartiene la spinta all’azione e all’attiva appropriazione di sé, allora la relazione con l’attività a partire dal proprio fondamento (ancorché sottratto) sarebbe originaria e più che una semplice possibilità: questa era, com’è noto, la convinzione di Fichte. La definizione dell’io come attività che si autopone non dà risposta al problema della sottrazione del fondamento, ma denota un carattere intrinseco ed essenziale dell’esser-sé. L’io è essenzialmente attività: questo dato permane come acquisizione anche nella filosofia di Henrich, che parlerà in seguito dell’autocoscienza come Selbsterhaltung (automantenimento), o della vita cosciente come processo.
132) «L’io pone se stesso in quanto ponentesi». La seconda formulazione è la risposta all’obiezione a cui andava soggetta la prima formulazione, e a cui si è già fatto riferimento. La definizione dell’io come attività che pone se stessa evita il circolo consistente nel presupporre il fondamento che si vuole spiegare, ma non spiega il sapere di sé nella relazione. L’espressione “in quanto” mira a esplicitare il fatto del sapere, che è il risultato dell’attività del porre. In più ha il vantaggio di dare contemporaneamente espressione al fatto che il sapere di sé da parte dell’io deve poter essere contemporaneamente intuitivo (sapere dell’esistenza dell’io, corrispondente all’azione del porre-essere posto) e concettuale (sapere che cosa è l’io, un porre-essere posto), superando così un’altra aporia implicita nel concetto kantiano di riflessione. Intuizione e concetto nel sapere di sé sono cooriginari: l’espressione è stata introdotta da Husserl e ripresa da Heidegger in polemica con le pretese di deduzione dell’idealismo, ed è quindi particolarmente significativo poter evidenziare come essa si trovasse già in Fichte.
14Anche questa nuova conquista reca con sé un limite e un ulteriore passo avanti. Il limite: secondo la nuova formula non solo l’avere sé da parte dell’io sarebbe prodotto simultaneamente rispetto al sapere di sé, ma entrambi gli aspetti scaturirebbero senza alcuna mediazione, in un’unità strettissima. L’obiezione a cui questa affermazione si presta consiste nel fatto che il sapere, reso dall’espressione “in quanto”, non si può avere senza sdoppiamento, perché lo sdoppiamento appartiene al sapere in quanto tale. Inoltre, se ciò che è prodotto è costituito dall’unità di intuizione e concetto, in base alla formula dell’autoporsi dell’io anche l’atto stesso della produzione dovrebbe essere quest’unità, il che è di nuovo inspiegabile. Siamo di nuovo all’aporia che consiste nel presupporre il fondamento senza spiegarlo: il risultato è il pensiero di un io attivo preceduto da un fondamento anch’esso attivo, che non è io e che rispetto all’io è sottratto. L’io è solo il risultato del fondamento. Il fondamento, che è la condizione dell’unità dell’io, non può essere oggetto dell’io, ma solo la sua origine. Quest’ultimo risultato conduce a introdurre una differenza tra l’io come attività e l’io come prodotto.
15C’è però anche l’acquisizione positiva: nel caso di un io, in cui l’io come concetto e l’io come intuizione siano in ugual misura rappresentazioni dell’attività che pone l’io, sussiste infatti la possibilità di considerare l’attività intuitiva come determinata dal suo aspetto concettuale non solo in quanto pensiero, ma nel modo stesso del suo essere attività. Di qui scaturiscono importanti prospettive per la fondazione della filosofia pratica, perché la coscienza etica consiste nell’esperienza di un pensiero che ha come conseguenza immediata una modalità dell’azione, ed è quindi qualcosa di completamente diverso dalla semplice conoscenza della possibilità di quell’azione. La coappartenenza intrinseca di pensiero e azione ci rimanda per un verso a un aspetto rilevante del lavoro di ricerca di Henrich, che è consistito nell’indagare il nesso dell’etica con le questioni fondative, problema tipico legato al sorgere dell’idealismo. Da Kant in avanti la filosofia si assume il compito di rendere comprensibile la coscienza etica a partire dalla struttura della ragione, e questo comporta di concepire in modo nuovo e più profondo lo stesso concetto di ragione (sono tesi che Henrich aveva già sostenuto nel 1963 in Ethik der Autonomie21). Soprattutto, e conseguentemente, ci rimanda a quel particolare tipo di pensiero che è il pensiero speculativo: un pensiero che è essenzialmente movimento, perché è un pensare che nella sua costituzione intrinseca è già sempre anche un agire. A questo punto è possibile porre all’autore una seconda questione: poiché gli studi fichtiani sono la dimostrazione fattiva di come sia possibile, sulle orme degli autori dell’idealismo, indagare e ripensare la struttura stessa del concetto di ragione, sembra doversene desumere che la ragione sia in se stessa un prodotto storico. Da ciò deriva un ulteriore problema, che è costituito dal rapporto di una tale ragione con il Grund: occorre comprendere se questo rapporto sia ancora possibile e come possa essere configurato.
163) «L’io è attività, nella quale è posto un occhio». In questa formula Fichte ha finalmente fatto propria l’idea della passività dell’io in relazione al suo essere qualcosa che vede, cioè autocoscienza, e accentua ulteriormente l’idea dell’unità dei momenti che costituiscono l’io. L’occhio guida l’agire per mezzo del concetto, cosicché l’io è il fondamento dell’agire etico. Significativa è l’altra formula impiegata da Fichte: «facoltà, nella quale è posto un occhio, che è inseparabile da essa; facoltà di un occhio, questo è il carattere dell’io e della spiritualità». Henrich chiarisce a questo punto che ciò che Fichte vuol dire è che l’occhio è collocato nell’agire in modo tale che lo sguardo si rivolge verso l’agire stesso. “Collocato” significa al tempo stesso rivolto all’interno, in modo tale che occhio e agire costituiscono un mondo a sé stante, in cui lo sguardo illumina l’attività: la luce non penetra dall’esterno sull’attività, né si irradia dall’interno all’esterno, cosicché l’attività dell’occhio resta un mondo di luce impenetrabilmente chiuso in se stesso. Questo spiega perché qualunque modello spaziale sia inadeguato a descrivere un tale fenomeno, così come ogni linguaggio che sia stato sviluppato nell’ambito della spazialità. La descrizione ci rimanda ancora una volta all’essenza della speculazione nel suo momento più alto.
17La coappartenenza essenziale di occhio e attività implica però che l’attività possa essere vista solo insieme all’occhio. L’occhio che vede l’attività deve quindi vedere contemporaneamente anche se stesso. L’autorelazione dell’io è l’essere-per sé di un sapere, che è manifesto a se stesso, ma al tempo stesso un fatto che spiega tutto a partire da sé, tranne la sua propria esistenza, nella quale si mantiene senza poterla penetrare con la propria luce.
18L’occhio inoltre deve vedere l’attività dell’occhio in quanto tale. Questo comporta che nel suo sguardo si possano distinguere un momento intuitivo e uno concettuale. Lo sguardo è quindi l’attività nella misura in cui essa è intuitivamente presente e quindi esperita come reale; ma anche l’attività pensata nella determinatezza del suo concetto. Solo dopo quest’interpretazione ampliata della formula è possibile pensare una determinazione reciproca nell’io, così che esso sia originariamente tanto autocoscienza pratica quanto autocoscienza teoretica. Quindi anche l’occhio dell’attività è al tempo stesso intuizione e concetto. In questo modo è completamente interno all’agire e ne è l’autorelazione cosciente. La formula di Fichte sembra ora corretta.
19Ma anche quest’ultima acquisizione ha un lato in ombra. È vero che il discorso dello sguardo che guarda se stesso ed è già sempre questo guardare preserva l’unità originaria dei momenti dell’io, e quindi pone l’accento sull’autorelazione dell’io, considerandola il suo carattere più essenziale. Ma Fichte non è in grado di chiarire quest’autorelazione. È naturale che il concetto che determina una datità possa significare in forma esplicita proprio ciò che è dato intuitivamente, ma da questo non risulta assolutamente un’autorelazione dell’intuizione. Anzi, il concetto presuppone il suo soggetto, che lo pensa e che comprende l’intuizione per suo mezzo. Né il concetto può determinare un’autorelazione nell’intuizione, né l’intuizione nel concetto.
20E non sarebbe neppure sufficiente definire lo sguardo dell’occhio che si rivolge in se stesso come un caso particolare in cui il rapporto di intuizione e concetto si trasformerebbe in un’autorelazione. Bisognerebbe anche poter mostrare come l’autorelazione dell’attività dell’occhio, in questo particolare caso, possa diventare effettiva sia nell’intuizione sia nel concetto. Non solo il contenuto della relazione, ma la relazione stessa considerata in sé, dovrebbe poter esibire il carattere peculiare dell’autorelazione. Altrimenti i mezzi grazie ai quali l’attività dell’occhio sa di sé rimarrebbero mezzi qualsiasi, non necessariamente appartenenti a essa e chiusi nel suo cerchio; l’io non sarebbe per sé, ma solo per un io più alto, e l’autocoscienza non sarebbe possibile. Questa non è che un’ulteriore manifestazione, su di un altro piano, del circolo della teoria della riflessione nella sua seconda variante: se l’io non sa già di sé, non può pervenire a un sapere di sé.
21Fichte è stato in grado di sottrarre la sua teoria alla prima variante del circolo della riflessione, ma non alla seconda. Ha evitato l’aporia per cui ogni volta che si parla di io si presuppone già un’autorelazione, ma non quella per cui l’io deve potersi riconoscere come io in ogni autorelazione. Qui si ferma il suo contributo a una teoria dell’autocoscienza. Egli si è limitato ad affermare che nell’io, e non in relazione a un io, intuizione e concetto si trovano in relazione reciproca. Questo sapere è «unità, luce», un che di «qualitativamente assoluto, solo da compiersi, in nessun modo da concepirsi». In espressioni di questo tipo Fichte rimane fedele alla tesi, già importante nella prima Dottrina della scienza, per cui l’io è «intuizione intellettuale». Nella teorizzazione di Fichte però non è mai risultato chiaro se intuizione intellettuale sia solo il nostro sapere dell’io o l’io stesso. Entrambe le cose possono essere affermate, e bisogna supporre anche un’interdipendenza fattuale fra di esse.
22E tuttavia la posizione di Fichte è più che una tesi arbitraria che nasconde una difficoltà non risolta, poiché è risultata da una successione di passi avanti nel pensiero, ciascuno dei quali svela un aspetto più profondo dell’essenza dell’io, fino a mettere in luce quanto peculiare e incomparabile sia la costituzione dell’autocoscienza. Tuttavia a questa progressiva chiarificazione si è accompagnato sempre un ulteriore oscuramento. Mentre Fichte si approssimava sempre più alla vera costituzione del sapere dell’io, questa si rivelava sempre più difficile da comprendere.
23Ciò fa sì che il cammino lungo il quale modelli esplicativi successivi hanno dovuto essere rigettati sia diventato parte essenziale della conoscenza dell’intima costituzione dell’autocoscienza. Per questo, sulle orme di Fichte, vale la pena di proseguire tale cammino.
2.2. L’io di Fichte22
Aristotele fu il primo a ritenere necessario trattare i problemi filosofici nel loro contesto storico. La sua metafisica e, in particolare, la sua psicologia contengono molti concetti che sono stati creati solo nell’intenzione di superare difficoltà davanti alle quali i suoi predecessori avevano fallito. Questi concetti sono in ugual misura risultati del suo proprio pensiero e della sua critica storica. Dopo Aristotele è stata più volte nuovamente sottolineata da parte di grandi pensatori la necessità del collegamento di questi due aspetti. Leibniz è pervenuto alla sua monadologia solo attraverso il fatto che egli da quel momento, per mezzo di essa, sarebbe stato in grado di rendere conciliabili fra loro affermazioni di autori che a lui apparivano ugualmente evidenti, sebbene fossero fra di loro inconciliabili. Kant sviluppò la sua filosofia critica nell’intenzione di rendere trasparenti le leggi della ragione dalle quali aveva avuto origine la metafisica tradizionale, e così facendo rendere trasparente il presupposto della battaglia millenaria che essa aveva condotto contro se stessa. Hegel, infine, definì la filosofia in relazione al concetto onnicomprensivo delle condizioni dalle quali essa ha origine. E così dobbiamo procedere anche noi, per comprendere il problema della filosofia stessa nella sua prospettiva storica.
24Tuttavia la situazione in cui noi ci troviamo, come filosofi, è fondamentalmente diversa dalla loro. Il nostro orientamento nei confronti della storia del pensiero è dominato da altri imperativi: Artistotele, Kant e Hegel credevano che avrebbero portato avanti la ricerca della verità fino a un punto finale. È in questa convinzione che la serenità degli antichi maestri del pensiero e l’inquietudine escatologica dello spirito speculativo all’epoca della rivoluzione francese si incontrano ancora. Per contro, oggi la filosofia vive piuttosto sotto la minaccia della propria fine. La sua storia sembra aver bisogno di una difesa, e perfino la sua idea di una giustificazione. Spesso essa appare tesa a preservare un vecchio ordine, le cui condizioni di esistenza sono scomparse insieme con il mondo che l’aveva portata a esistere. Per alcuni essa è solo un sogno della ragione che non era stato ancora esposto alla critica e portato all’altezza della scienza, di una scienza che è potuta pervenire ai suoi successi solo abbandonando le mete irraggiungibili per il sapere.
25All’opposto altri, come Heidegger e la sua scuola, sono convinti del fatto che sia la filosofia sia la scienza moderna introducano al loro interno un presupposto generale, che distorce la verità. Questo presupposto, a loro dire, rende comprensibile il fatto che con il trionfo della ragione sperimentale sia emersa al tempo stesso anche la consapevolezza di una crisi. Questa consapevolezza potrebbe venire portata a completa chiarezza e interamente dissolta solo da una revisione critica dell’intera storia della filosofia, attraverso la quale il corso finora seguito dal pensiero moderno potrebbe essere interrotto, e il pensiero stesso portato su di un’altra via.
26Quest’ultima forma di critica si concentra sul principio della moderna filosofia dello spirito, sul concetto e stato di fatto dell’autocoscienza. Essa dà per entrambi un’interpretazione ben definita: l’autocoscienza è dominio del sé. Lo sviluppo di questo pensiero, che si annuncia per la prima volta nel cogito cartesiano, viene descritto da questa critica come un processo di arroganza e smodatezza della soggettività costantemente crescenti. Tale processo porta al tempo stesso a una rimozione dell’ente, che viene ricondotto alla monotonia dell’identità degli oggetti di una coscienza. La formula di Nietzsche dell’equivalenza del nichilismo con la volontà di potenza si presenta così come l’ultimo risultato della comprensione cartesiana della verità.
27In quest’ottica si lascia inserire facilmente la teoria di Johann Gottlieb Fichte, e precisamente come giustificazione particolarmente appropriata di una tale interpretazione della modernità. Tutti sanno infatti che Fichte volle comprendere il mondo come un prodotto dell’io, di un io che mira soltanto a conservare la propria libertà e il proprio potere di comandare su un mondo di fenomeni.
28Se io ora cerco di gettare una luce completamente diversa sull’idea fondamentale che si trova alla base della filosofia di Fichte, è perché mi sembra necessario porre in questione, insieme all’interpretazione corrente della sua dottrina, anche la critica corrente nei confronti della coscienza moderna che ritiene di poter far riferimento in modo particolare a Fichte. Enuncio così due tesi e mi propongo di dimostrarle. La prima viene esposta all’inizio della mia esposizione, la seconda alla fine.
29La prima tesi: all’inizio della sua carriera filosofica Fichte ha fatto una scoperta. Questa scoperta non riguardava tanto uno stato di cose, quanto una difficoltà, un problema: egli comprese che il concetto di autocoscienza, che era già stato assunto dai filosofi come principio, poteva venir pensato solo sul presupposto di condizioni che fino a quel momento non erano state considerate. Questo problema divenne il filo conduttore della sua riflessione filosofica, e questo già in un’epoca, in cui egli non lo aveva ancora formulato espressamente. La sua Dottrina della scienza deve essere intesa come una serie di tentativi di risolvere questo problema, e di fare della misteriosa natura dell’esser-sé il fondamento di una concezione filosofica che fosse in grado di spiegare la totalità del sapere. In ognuno dei suoi tentativi la soluzione di questo problema e la costruzione del sistema sono una medesima cosa. Spesso si è ritenuto che l’accusa di ateismo abbia provocato in Fichte un repentino cambiamento di orientamento. Se però si comprende la sua scoperta iniziale, allora in questo cambiamento non v’è più nulla di radicale. La sua successiva teoria non è assolutamente altro che una nuova soluzione del problema iniziale – ma una soluzione che è superiore alla precedente.
30Ora devo apprestarmi a dare fondamento a questa tesi. Al tempo stesso vorrei mostrare che chiunque sia alla ricerca di un concetto adeguato di autocoscienza deve ancor oggi far riferimento a Fichte, ripercorrendo la sua scoperta iniziale, che finora è stata misconosciuta, perché, a discapito del pensiero, è caduta troppo presto nell’ombra dell’impressione suscitata da Hegel.
31Si possono distinguere due epoche nello sviluppo della teoria dell’autocoscienza. La posizione di Fichte è caratterizzata dal fatto che è da collocarsi all’inizio della seconda epoca. Descartes aveva trovato nel soggetto che sa di sé una certezza che poteva servire da fondamento a ogni sapere possibile. Leibniz era andato ancora oltre, considerando questo soggetto come l’archetipo a partire dal quale devono prendere forma i concetti metafisici fondamentali di forza e di sostanza. In seguito John Locke aveva riconosciuto che “io” non posso essere “io-stesso”, neppure attraverso un atto di identificazione con me stesso. Quindi la forma dell’io sfugge a tutte le ipotesi che rimangono limitate al problema più caratteristico della metafisica. Sulla scia di Locke, Jean-Jacques Rousseau poté poi spiegare che l’io è la condizione necessaria di ogni giudizio, in quanto la copula del giudizio mette in collegamento fra di loro dei concetti. Così fu lui che fece dell’io-coscienza anche il principio di possibilità della logica. Kant ha ripreso quest’idea. Il principio dell’io-coscienza divenne il “punto più alto” dell’intero edificio della filosofia trascendentale, al quale trovavano appiglio in primo luogo la teoria della logica e dopo di essa la teoria della conoscenza. In tutti questi casi l’io-coscienza, in un modo o nell’altro, viene concepito come principio del sapere. Ma proprio per questo non viene indagato in se stesso, ma solo in relazione ad altri principi attraverso i quali deve essere utilizzato come principio fondativo. Il vero problema non era la definizione di “io” e la comprensione di esso, ma la comprensione di ciò che può venire giustificato per mezzo dell’“io”: secondo Descartes l’evidenza, secondo Leibniz le categorie, secondo Rousseau e Kant il giudizio. E Locke ha messo in questione soltanto ciò che Leibniz voleva dimostrare, cioè che l’io fosse la giustificazione fenomenica per una definizione più precisa della sostanza.
32Così procedendo, questi pensatori hanno anche al tempo stesso posto come fondamento una certa rappresentazione della struttura dell’io-coscienza. Essa è stata formulata ed esplicitata per la prima volta da Kant. Egli considera l’io l’atto con cui un soggetto del sapere, astraendo da tutti i suoi oggetti particolari, si rivolge a se stesso, e in questo modo porta a coscienza la persistente unità con sé. Il pensiero pensa solo in quanto pensa un determinato stato di cose. Questo porta a conoscenza il fatto che l’autocoscienza è l’unico caso in cui l’atto del pensare e ciò che viene pensato (l’intenzione e l’intenzionato) non sono distinti l’una dall’altro. Ed evidenzia in ugual misura che questa unità non può venire dimostrata in anticipo, ma che si può diventarne coscienti solo nell’atto stesso e dopo l’atto stesso. L’io non è un oggetto, ma un atto, che è sempre possibile, attraverso il quale l’io “dice io a se stesso”, e quindi l’“io” ha se stesso in quanto attività come tema del suo sapere. Senza questo atto non c’è alcun io. E dove c’è l’io, c’è anche già sempre la dualità: il soggetto e il soggetto come oggetto per se stesso. Da ciò consegue che non si può mai conoscere il soggetto da solo, di per se stesso. Quando lo pensiamo, abbiamo già presupposto che in questo pensiero ci sia il soggetto pensante. Pertanto possiamo muoverci nella nostra autocoscienza pensante solo come in un costante circolo intorno a noi stessi. Tutti i predecessori di Kant avrebbero potuto riconoscere in questa esposizione la loro propria concezione dell’io-coscienza. Se la si vuole riassumere in una formula molto facile, la si può chiamare “teoria riflessiva” dell’io. Questa teoria assume dal principio l’esistenza di un soggetto che pensa. Poi dichiara che questo soggetto si trova in una costante relazione con se stesso. E afferma inoltre che questa relazione è posta in essere nel momento in cui il soggetto fa di se stesso il suo proprio oggetto. Questa capacità di pervenire a una coscienza di sé attraverso un atto riflessivo distingue l’uomo dalla bestia. E spiega anche il fatto che l’uomo possa identificare oggetti, in quanto egli, in ogni momento, è noto a se stesso come un essere identico con se stesso.
33Tutto questo sembra essere completamente chiaro, eppure in nulla v’è maggiore oscurità. Non è l’io, ma la teoria riflessiva dell’io, che si muove costantemente in un circolo intorno a se stessa. La miglior prova di ciò è data dalla difficoltà in cui vengono messi i sostenitori della teoria riflessiva, se si pongono loro questioni molto semplici. Di queste siffatte questioni noi ne poniamo solo due, e cioè quelle che Fichte stesso ha sollevato per primo. Ponendo queste tali questioni Fichte ha iniziato la seconda epoca nella teoria dell’autocoscienza. La struttura dell’io divenne allora il vero problema. Bisogna dire che, dal momento di quest’iniziale scoperta di Fichte, noi siamo avanzati solo di poco.
34Questa è la prima questione: la teoria riflessiva dell’io presuppone un io-soggetto che sa di sé nel momento in cui entra in una relazione con se stesso, e precisamente cioè nel momento in cui si rivolge indietro verso se stesso. Ma come si può concepire questo soggetto? Assumiamo che si tratti dell’io considerato nella sua funzione di soggetto. Allora è palese che finiamo in un circolo vizioso, e precisamente in quanto presupponiamo ciò che vogliamo spiegare. Perché si può parlare di un io solo là, dove un soggetto sa di se stesso, quindi dove l’io stesso si è già inteso come io. Ma allora l’io soggettivo, l’io da cui si voleva partire, non è mai in gioco da solo e di per se stesso. Perché esso è parimenti anche già presupposto in quanto è per se stesso il proprio oggetto. Se quindi si vuole spiegare il fenomeno dell’autocoscienza nella sua interezza a partire dall’io-soggetto e nella sua riflessione su di sé, si presuppone già a priori ciò che si vuole spiegare: bisogna già tematizzare l’io soggetto nella forma dell’equiparazione dell’io pensante con ciò che pensa se stesso. Non si presuppone quindi l’io, ma l’io nella comprensione della sua identità con se stesso.
35Forse si potrebbe tentare di sfuggire a quest’aporia insistendo sul fatto che l’io-soggetto non può essere già pensato come io in senso proprio; l’autocoscienza non sarebbe altro che il risultato della riflessione. Ma questa scappatoia è condannata a fallire presto. Poiché se l’io-soggetto è qualcosa di diverso dall’io stesso, non si può più spiegare in nessun modo il fatto che l’unità dell’autocoscienza esista ciononostante nella forma del concepire sé da parte dell’io: l’io-soggetto, che si comprende, e ciò di cui ha comprensione sono un’unica e identica cosa. Infatti l’autocoscienza non consiste in null’altro che nell’identità dei due lati dell’equazione io = io. Se quindi uno di essi, l’io-soggetto, non è ancora l’io, allora il pensiero “io”, che l’io concepisce di se stesso, non può assolutamente più essere identico con ciò che l’io-soggetto è. La teoria riflessiva dell’autocoscienza si trova perciò di fronte alla seguente rovinosa alternativa: o presuppone il fenomeno senza poterlo spiegare, o lo distrugge.
36La seconda questione evidenzia la stessa insufficienza. La teoria riflessiva presuppone che l’io consegua il sapere di sé solo attraverso un ripiegamento all’indietro su se stesso. Allora non basta dire che un soggetto consegue per riflessione un sapere di un oggetto. L’autocoscienza implica, nella stessa misura, che io di questo oggetto sappia anche che è identico con me stesso. Ma l’autocoscienza non sorge per il fatto che una qualche evidenza esterna, per così dire una seconda istanza, dimostra e garantisce che colui che sa e ciò che viene saputo sono un’unica e identica cosa. L’autocoscienza precede il riconoscimento di sé. Così si diverte il diavolo, che induce l’ubriaco ad accostare il coltello al proprio naso facendogli credere che si tratti di uno squisito grappolo d’uva. Ma l’io è il suo proprio diavolo. Esso, senza aiuto e senza poter essere ingannato, sa di sé come contenuto del suo proprio sapere. E lo sa immediatamente, senza dover passare attraverso riflessioni ulteriori o deduzioni logiche.
37Ma come può l’autocoscienza sapere che sa di sé, se questo sapere deve realizzarsi attraverso un atto di riflessione? È palese che non può assolutamente avere questo sapere riflesso, senza poter già presupporre un precedente sapere di sé. Essa infatti sa di sé in modo riflesso solo se è in condizione di dire che ciò di cui sa è essa stessa. E può compiere una riflessione su se stessa, assolutamente solo se è già informata in precedenza di cosa significa essere se stessa e sapere di se stessa. La teoria riflessiva è quindi finita per la seconda volta in una situazione senza via d’uscita: presuppone la completa soluzione del problema che ha il compito di risolvere. Per questo Fichte, in una della sue lezioni, ha anche potuto rimproverarle di essere costruita su un sofisma: si presuppone sempre un soggetto, senza poterlo mai trovare. «Questa sofisticheria è stata finora a fondamento di tutti i sistemi, anche di quello kantiano».
38Naturalmente con questo la teoria riflessiva non è destituita di ogni fondamento nel problema stesso. Essa appare risultare necessariamente dal problema stesso, tanto dopo quanto prima. Nell’autocoscienza sembra infatti veramente che si debba distinguere un soggetto che fa di se stesso il proprio oggetto. E così sembra di dover riconoscere una relazione, che non può essere fondata nella vera natura del soggetto e in nessuno stato di cose a esso esterno. E sembra che questo fenomeno non possa essere interpretato altrimenti che accettando l’intero schema della teoria riflessiva. Tuttavia il primo livello della scoperta di Fichte fa riconoscere chiaramente che tale modello è del tutto inutilizzabile. Questo risultato è molto ricco di conseguenze. Kant aveva già riconosciuto il fenomeno dell’autocoscienza come uno stato di cose in gran misura stupefacente. Tuttavia non gli parve contenesse alcun segreto o enigma. Piuttosto l’autocoscienza gli apparve come la cosa in assoluto più nota e trasparente, in relazione alla quale ci è possibile comprendere e giustificare tutto il restante sapere. Così non sembra insensato, nei confronti di questo io, l’assunto che esso possa spiegarsi da se stesso.
39Tuttavia Fichte ha dato alla teoria dell’autocoscienza una direzione completamente diversa. Fra ciò che l’io è e ciò tramite cui deve essere spiegato esiste una differenza, un vero e proprio abisso. È compito della filosofia il misurarlo. Accordando al fenomeno dell’io il fatto di essere la sua propria interpretazione si va a cadere nella teoria riflessiva, che non raggiunge l’autocoscienza né nella sua interezza, né là dove originariamente si costituisce. E alla fine questa teoria è condannata a lasciare il fenomeno nella più completa oscurità. Così è necessario cercare un’altra teoria. Ma non la si può trovare, senza aver prima descritto nel modo più completo possibile la costituzione dell’autocoscienza e aver determinato le difficoltà che ne risultano.
40Fichte si è lasciato completamente coinvolgere da queste difficoltà. In un certo senso si può anche dire che non vi è mai del tutto sfuggito. I diversi abbozzi della sua Dottrina della scienza sono altrettanti tentativi di pervenire a una teoria del fondamento del fenomeno dell’autocoscienza, la cui problematica egli ha compreso. Nel corso della sua vita Fichte ha portato a termine almeno due diversi progetti di una simile teoria, e ne ha proposto diverse varianti. Tutte sono da caratterizzare come progetti antitetici allo schema della teoria riflessiva dell’autocoscienza. Perfino il linguaggio di Fichte risulta ovunque dalla resistenza contro le implicazioni di quest’ultima. E questa resistenza spiega il significato teorico delle oscure metafore nelle quali egli spesso si è rifugiato. I testi nei quali vuole chiarire la sua scoperta (che sono fra i più difficili dell’intera tradizione filosofica) la occultano più di quanto la comunichino. Pertanto gli sforzi dell’interprete per estrapolare la scoperta di Fichte dalle oscure pagine di manoscritti incompiuti sono da paragonare addirittura con quelli che Fichte stesso dovette intraprendere per giungere alla sua scoperta.
41Nel far ciò si può incorrere in confusioni di ogni sorta. Per questo bisogna dapprima fornire lo schizzo di una fenomenologia dell’autocoscienza, così come diventa possibile quando, avendo di mira la sua interpretazione, ci si è congedati dalla teoria riflessiva. Con l’aiuto di tale schizzo si può comprendere meglio la sequenza delle motivazioni che hanno portato Fichte a elaborare la sua Dottrina della scienza.
42Possiamo distinguere quattro diversi momenti dell’autocoscienza:
431. Innanzitutto dobbiamo pensare l’autocoscienza come attività. È infatti inconcepibile che qualcosa di altro da me possa provocare il fatto che io mi trovi in relazione con me stesso. In un certo senso solo il mio esser me mi è proprio. Solo in quanto in assoluto esisto, mi è possibile dischiuderlo. Per porre me stesso non è presupposto nient’altro, tranne il fatto che io sia. In quanto sono, sono io l’io, grazie al quale possiedo me stesso.
442. Tuttavia il momento attivo nell’autocoscienza, la coscienza, manifesta il suo essere origine dei propri atti e di una padroneggiata autorelazione, ma non il modo in cui io pervengo a una coscienza di questa soggettività. Dovunque quest’attività dell’io abbia luogo, lì infatti c’è anche già un sapere di quest’attività. Questo sapere non può, come atto del soggetto, precedere ogni coscienza. La facoltà del soggetto è una facoltà che sa di se stessa originariamente.
45È quest’originaria unità dei due momenti che fa scaturire la prima domanda da porre alla teoria riflessiva. I due momenti insieme costituiscono la struttura fondamentale dell’io, ma non la sua intera essenza. Si deve piuttosto riconoscere che un soggetto nell’autocoscienza non è in grado di sapere di sé, neppure attraverso ulteriori momenti. Questi sono i momenti che danno luogo alla seconda domanda, che dev’essere indirizzata contro la teoria riflessiva. Li si potrebbe definire momenti secondari, poiché riposano sulla struttura fondamentale dell’io. D’altra parte bisogna dire anche che, se tali momenti non potessero venir presupposti, la stessa struttura fondamentale non porterebbe per nulla a un’autocoscienza effettiva.
463. Così l’io, come terzo momento, ha bisogno di un concetto di se stesso. Ma non può produrlo. Deve piuttosto presupporre di poterne fare uso, prima di poter pervenire a un sapere, che sia sapere di se stesso. Questo concetto non può essere ciò di cui sussiste coscienza nell’autocoscienza originaria. Poiché ciò è l’attività del soggetto. Il concetto designa invece due realtà in una: l’attività e il sapere di essa. Ed entrambe devono venir pensate nell’unità che contraddistingue l’autocoscienza. Così, non si può neanche pensare da una parte l’attività e dall’altra un sapere effettivo di questa attività. Piuttosto, la loro unità fonda la possibilità d’entrambe le cose. Ed è grazie a quest’unità pensata nel concetto del sé, che l’io effettivo può sapere dell’io come di un tutto, in quanto esso deve essere l’unità dell’attività e conoscenza di questa attività.
47Grazie al terzo momento nell’io c’è un fondamento per la differenza fra il reale e il possibile. Senza di esso non potremmo comprendere come noi nella nostra autocoscienza sappiamo di noi sempre in una doppia prospettiva, e precisamente di ciò che veramente siamo, e contemporaneamente di un orizzonte aperto su ciò che può diventare reale in noi e attraverso di noi.
484. Il quarto momento è solo il complemento del terzo. L’io sa di sé solo alla luce del concetto di sé. Ma sa di sé come di un’unità di attività e sapere, che è reale. Fichte caratterizza questo quarto momento come la presenza intuitiva dell’intero io, che si dischiude sotto il concetto della sua unità. Nell’originario sapere di sé dell’io, essa esprime il modo della certezza della realtà che ogni autocoscienza ha in relazione a sé.
49Questi quattro momenti, presi nel loro insieme, costituiscono l’unità dell’autocoscienza. Sarebbe totalmente sbagliato immaginare che l’autocoscienza possa scaturire da una sorta di montaggio di momenti che prima fossero stati pensati come reciprocamente indipendenti. Nessuno di questi può esistere indipendentemente da tutti gli altri o, detto più precisamente, l’autocoscienza è una realtà solo contemporaneamente a tutti i suoi momenti.
50Così l’unità dei quattro momenti non può venire concepita come la loro somma. Se si dà alla parola “momento” un significato diverso da quello comune, si potrebbe mettere in conto la loro unità come un quinto momento. Ma quest’unità non è propriamente un momento in senso vero e proprio. Essa è infatti il fondamento dell’unità di tutti i momenti in ciò che è loro peculiare, e in ciò che costituisce la loro dipendenza l’uno dall’altro.
51Perciò quest’unità non può venire differenziata dagli altri momenti, quelli specifici, come era possibile in relazione a ciascuno dei momenti. Propriamente essa costituisce la concreta ed essenziale realtà dell’io. Ma i quattro momenti sono le modalità del suo essere reale e, in ugual modo, gli aspetti che devono essere considerati in una teoria dell’autocoscienza.
52Il primo risultato di quest’analisi del fenomeno espone una teoria dell’autocoscienza a difficoltà quasi insuperabili. La coscienza “io” è sicuramente indivisibile e di conseguenza semplice, chiusa in se stessa e al tempo stesso evidente. La sua apparente trasparenza potrebbe indurre ad assumerla come punto di partenza per una teoria che voglia rendere comprensibili altre, meno trasparenti, forme della coscienza. Descartes e Kant hanno inteso questo e l’hanno fatto. In realtà, però, sono proprio la chiarezza e la chiusura dell’autocoscienza in sé, che pongono alla teoria dell’autocoscienza il problema più difficile. Se non si può capire come l’unità scaturisca dai suoi elementi, e se anche l’unità dell’autocoscienza non si comprende a partire da sé, in che modo si potrà mai interpretare il fenomeno dell’io-autocoscienza?
53Una teoria che si accinga a spiegare il fenomeno deve soddisfare a due condizioni: dare una spiegazione dell’originaria unità degli elementi dell’io e mostrare come ognuno degli elementi sia determinato dalla sua originaria relazione agli altri. Questa teoria deve conseguentemente indagare sul fondamento della reciproca determinazione dei momenti costitutivi.
54Fichte si è posto entrambe queste domande, sempre contemporaneamente. Ma solo più tardi le ha distinte l’una dall’altra in modo chiaro e consequenziale, e, sicuramente, l’originaria disposizione del suo pensiero non gli ha consentito di averne sott’occhio tutte le conseguenze. Il suo proprio problema divenne così il centro di un’autocritica del suo pensiero, in ciascuno degli stadi da lui raggiunti. In questo modo egli poté cambiare la formulazione della sua teoria anche in modo radicale, senza allontanarsi minimamente, così facendo, dalla linea generale del suo pensiero.
55Possiamo ora considerare i due principali schizzi di una teoria dell’autocoscienza che Fichte ha elaborato. L’idea fondamentale della dottrina del 1794 culmina nella proposizione: «l’io pone se stesso assolutamente». In essa Fichte ha dato alla libertà l’espressione più radicale e anche più ricca di pathos. I suoi contemporanei hanno trovato nella sua forma la più alta giustificazione degli ideali che essi volevano realizzare attraverso il loro agire, l’atto e la decisione attraverso cui il mondo avrebbe dovuto venir sottomesso alle condizioni della ragione. La liberazione dell’uomo e il trionfo della teoria sembravano essere diventate un unico evento. Ed effettivamente fu un’esperienza vivente della libertà, che condusse Fichte alla coscienza del problema della libertà e che lo fece anche diventare un filosofo. Questa motivazione fondamentale tuttavia non basta a spiegare il vero significato della sua opera. Egli non divenne il pensatore dal quale anche noi oggi abbiamo molto da imparare grazie alla forza della sua volontà. Lo divenne attraverso la sua passione teoretica e attraverso il carattere fondamentale delle questioni da lui poste, a partire dalle quali si spiega anche la sua scoperta. Se si prende la sua formula secondo la quale l’io pone se stesso solo dal suo lato enfatico, si perde di vista la scoperta di Fichte. Me se al contrario la si comprende a partire dal suo contesto problematico, allora la formula perde il suo carattere enfatico. Nel contesto del primo sistema si rivela piuttosto come un tentativo di allontanare una difficoltà teoretica. L’idea che essa allora esprime è la seguente: se vogliamo comprendere da dove proviene ogni nostra coscienza, in quanto sappiamo di noi stessi o in quanto siamo “io”, non abbiamo altra possibilità che quella di presupporre un fondamento del quale non possiamo avere alcun sapere.
56La formula secondo la quale l’io pone se stesso non è nient’altro che il calco negativo del modello di autocoscienza al quale è ancorata la teoria riflessiva, i cui errori Fichte aveva riconosciuto. Non si può costruire l’autocoscienza partendo dai suoi elementi. Non si può neanche voler fare di uno dei momenti il fondamento dell’intero fenomeno. Perché nessun momento precede l’altro. Essi devono intervenire contemporaneamente e in un colpo solo, quindi così come già secondo Platone si dischiude il sapere più alto.
57Quando Fichte parla dell’atto di questo porre sé, pensa al carattere immediato di questo sapere. Quando qualcosa viene “posto”, nulla che faccia parte della sua esistenza può precedere quest’atto. L’atto del porre e il fatto che ciò sia posto costituiscono uno stato di cose. In questo senso gli elementi costitutivi di ciò che viene posto sono dati originariamente e contemporaneamente. Per quanto riguarda l’io, vale il fatto che di esso assolutamente nulla ha luogo, se non ha luogo interamente. Ma poiché l’io è essenzialmente attività, è anche necessario pensare che esso scaturisca d’un colpo senza causa, come una cosa che prima non esisteva e quindi è causa di se stessa.
58La formula secondo la quale l’io pone assolutamente se stesso non deve quindi apparire come l’espressione di una pretesa esagerata. Si deve vedere in quest’espressione il tentativo molto comprensibile di esplicare un dato di fatto, la cui esistenza non è messa in questione da nessuno: la realtà dell’autocoscienza.
59Fichte non ha mai, neppure in seguito, dubitato che le riflessioni che lo avevano condotto alla concezione della sua prima Dottrina della scienza non fossero ben motivate. Tuttavia in seguito le ha esposte in una forma mutata. E le ha mutate al punto, che, cosiderata superficialmente, la teoria trasformata sembra dover essere esclusa da ogni concordanza con la teoria del primo periodo. Sicuramente aveva buoni motivi per fare questo, poiché la soluzione che aveva proposto con la sua prima formulazione aveva solo condotto a portare a piena chiarezza il problema che egli aveva sollevato. Non si può dire che essa abbia dato come risultato una soluzione veramente convincente. Essa infatti non corrisponde a nessuna delle due condizioni di completezza che già prima abbiamo formulato come condizioni per una teoria dell’autocoscienza: non è in grado cioè di determinare in modo convincente né il fondamento dell’unità dell’io, né le implicazioni reciproche dei suoi momenti.
60Per ciò che riguarda il fondamento dell’unità, la prima teoria di Fichte si presenta attraverso un paradosso. Essa insiste certo sul dato di fatto che l’io non può costruirsi a partire dai suoi elementi, congiungendo insieme in un tutto un momento dopo l’altro. Ma, affermando che l’io pone assolutamente se stesso, rinuncia completamente a risolvere il problema della sua unità.
61E se l’io, nella pluralità dei suoi momenti, è quello che pone se stesso, non si può più comprendere quale debba essere quell’atto che costituisce l’origine dell’io, che pone sé. Un tale atto non potrebbe essere uno dei momenti dell’io, perché allora si sarebbe ricacciati nella teoria riflessiva. Così ci si trova di fronte alla seguente alternativa: o si rinuncia a trovare un fondamento per l’autocoscienza o se ne cerca il fondamento in qualcosa che le è esterno, e con ciò però si tradisce lo stato di cose rappresentato dall’autocoscienza.
62Fichte non ha potuto decidersi né per l’una, né per l’altra cosa. Pertanto la sua prima teoria racchiude un’ambiguità sulla quale si è già spesso richiamata l’attenzione: essa asserisce che l’io pone se stesso, e nello stesso tempo tiene fermo al fatto che l’io precede ogni sapere e ogni autocoscienza. In questo modo essa occulta solo la sua difficoltà. Se si esige maggior chiarezza, allora si nota che non è offerto nessun vero spunto per la sua risoluzione. L’io assoluto, nella misura in cui in generale è io, deve infatti essere o la totalità o almeno un elemento dell’autocoscienza effettiva. Come elemento non può però costituire il fondamento dell’unità dell’io. Ma se non lo si può considerare nemmeno come elemento dell’io effettivo, allora non si può neanche dire che la sua unità si spieghi attraverso il dato di fatto del suo porsi.
63Da ciò segue che Fichte, in un primo tempo, non fu in condizione di eliminare alcuni residui della teoria riflessiva dell’autocoscienza. Nella prima versione della Dottrina della scienza cerca ancora di costruire l’unità dell’io a partire da principi molteplici. È vero che questi principi non devono essere esterni alla coscienza e non possono venir reperiti indipendentemente da essa. Essi devono poter essere riconosciuti solo in base alla loro azione all’interno della coscienza dell’io. Sull’attività incondizionata dell’io deve agire un altro elemento, che le si oppone, esercitando una limitazione e un impulso su questo atto e in questo modo rivolgendolo su se stesso. Ma basta una breve valutazione, per riconoscere che in questa trattazione dei problemi che pone il concetto di io è ulteriormente all’opera il modello fondamentale della teoria riflessiva, con i suoi elementi di azione e di ripiegamento dell’azione su di sé. Solo, questo schema è adesso stato trasposto nei fondamenti dell’io. Fichte aveva probabilmente l’intenzione di sostituire la sua teoria dell’impulso sull’attività dell’io nella filosofia pratica attraverso un’analisi più profonda. Ma in un primo tempo non vi è pervenuto.
64La seconda questione che si pone per i sostenitori della teoria riflessiva si risolve nella questione di come si possa comprendere che l’io sappia di se stesso in quanto se stesso. A partire dalla prima Dottrina della scienza Fichte ha cercato di rispondere a questa domanda. Finora abbiamo citato solo una parte della formulazione fondamentale di questa dottrina: «l’io pone assolutamente se stesso». Ma già nella seconda parte della prima Dottrina della scienza da lui pubblicata, e in particolare durante gli ultimi anni del suo insegnamento a Jena, che fu il periodo più importante per lo sviluppo della sua dottrina, ha ampliato questa formulazione. Essa ora si presenta così: «L’io pone assolutamente se stesso in quanto porre-se-stesso». Si può esprimere la stessa cosa anche dicendo che l’io non è solo grazie a sé, ma in ugual misura per se stesso. Fichte intende questo “in quanto (als)” nel suo significato fissato terminologicamente in modo conforme alla hJ della filosofia greca e come comprensione di una relazione fattuale in base a una descrizione. L’io pone sé, e pone al tempo stesso il suo proprio concetto di sé. Esso sa di sé come se stesso, quindi come io grazie al pensiero di se stesso. Questa formulazione indica un progresso nella consapevolezza che Fichte ha del problema. E tuttavia essa adempie solo una delle condizioni necessarie poste per una teoria persuasiva dell’io-coscienza. In una teoria dell’autocoscienza gli elementi dell’io devono essere resi comprensibili nel loro determinarsi reciprocamente. La formula nuova e ampliata non rende ancora ragione di questo. Poiché, secondo essa, l’atto di porre l’io dà ora un doppio risultato: l’io-oggetto e il concetto dell’io, che vale per questo oggetto. Ma l’atto del porre precede ancora entrambi i risultati. E si compie senza fare riferimento al concetto dell’io come tale. Sicuramente il concetto è posto. Ma non viene ancora pensato come un momento interno all’atto stesso del porre.
65Quest’obiezione è in fondo la stessa che andava indirizzata contro i pensieri fondamentali della prima Dottrina della scienza. Se l’atto del porre-sé è identico a un elemento dell’io, allora gli altri momenti non possono scaturire da esso. La formula ampliata mostra che Fichte nei suoi tardi anni jenesi ha sì compreso più profondamente lo stato di cose dell’autocoscienza, ma che egli ha ancora sempre attribuito all’atto ponente un ruolo costitutivo per l’unità dell’io, nonché la proprietà di essere fondamento della totalità e degli altri elementi dell’io.
66Ma Fichte dovette scoprire e riconoscere che in questo modo non si poteva salvaguardare l’unità dell’io, quindi proprio l’unità per la quale egli, fin dall’inizio, aveva voluto cercare un fondamento in cui l’autorelazione dell’autocoscienza non si dissolvesse. Sarebbe un compito stimolante seguire le vie sulle quali egli ha ancora liberato la sua scoperta originaria anche dai residui della teoria riflessiva, che erano rimasti nella forma concettuale della prima Dottrina della scienza. Nel far ciò sarebbe necessario concentrarsi sulla dottrina etica del 1798. Qui però dobbiamo accontentarci di constatare semplicemente che Fichte ha sostituito molto presto la formula ampliata per l’autocoscienza con una formula completamente diversa.
67A partire dall’anno 1801 Fichte descrive l’autocoscienza come «un’attività, nella quale è posto un occhio». Questa è una formulazione significativa che bisogna tenere a mente. Ripeto: l’autocoscienza può essere definita come un’attività che ha un occhio all’interno. In questa terza e ora completamente nuova formula Fichte ha cercato di formulare una teoria dell’io. Tutta la sua tarda filosofia, che spesso si ritiene incomprensibile, non ha altro scopo che di svilupparla e giustificarla.
68La tesi di Fichte si serve di una metafora, quando parla dell’“occhio”. Ma che essa utilizzi questa metafora non indica in nessun modo che Fichte, dalla teoria, si sia rifugiato nella poesia. Essa deve solo, con i mezzi limitati che il linguaggio corrente mette a disposizione, chiarire lo stato di cose dell’autocoscienza e al tempo stesso indicare un progresso nello sviluppo della teoria dell’io. Questo progresso non si poteva formulare solo con l’aiuto delle parole che fino a quel momento i popoli e i loro filosofi avevano sviluppato.
69Il miglior modo per chiarire ciò che Fichte intende per “attività di un occhio” è quello della via negationis. Quando Fichte parla dell’attività dell’occhio vuole sfuggire al tempo stesso a due errori e rendere comprensibile che d’ora in avanti ciò è possibile per mezzo della formula: agli errori della teoria riflessiva e della propria prima teoria di un io che nel suo porre sviluppa per se stesso il concetto di se stesso. Non è affatto l’attività che costituisce l’origine della capacità di accorgersi di se stessi. Del resto la capacità di accorgersi di sé non è neanche una limitazione che sia imposta all’attività mediante un impulso. L’occhio non è inserito nell’attività come l’impiombatura in un dente o la gamba in una sedia, come se l’attività fosse ostacolata nel suo compiersi o completata dalla sua propria facoltà di accorgersi di sé. Piuttosto il modo in cui essa in generale è attività è determinato fin dall’inizio, e determinato positivamente, dalla sua capacità e proprietà di accorgersi di sé. L’occhio è l’occhio di un’attività nello stesso modo in cui la capacità di orientamento compete all’uomo in quanto essere attivo. L’attività dispone in modo essenziale della facoltà di orientamento, solo che nel caso dell’autocoscienza quest’orientamento è tale in riferimento a sé nella comprensione della propria autorelazione.
70Così tra l’occhio dell’attività e la sua “vista” da un lato, e l’attività in quanto tale dall’altro lato, risulta una relazione reciproca di fattori equivalenti. L’attività viene guidata dalla sua vista, la vista è la luce interna dell’attività. Fichte di conseguenza può scrivere: «facoltà nella quale è posto un occhio e indissolubilmente da ciò facoltà di un occhio».
71Questa peculiare unità conduce necessariamente alla seguente conseguenza: una vista che percepisce un’attività deve al tempo stesso percepire anche se stessa. E con ciò questa vista presuppone un’altra struttura da quella che era già stata indicata con l’“in quanto” della capacità di sapere di sé: l’occhio non può veramente vedere se stesso, senza contemporaneamente conoscere e riconoscere se stesso come se stesso. Ma allora esso deve sapere di sé nella doppia prospettiva in cui esso descrive la sua forma e percepisce la sua realtà. Così la duplicità nell’attività dell’occhio si sviluppa in quadruplicità dell’attività dell’occhio, che sa di se stesso in unità con il suo concetto e in base a questo concetto.
72L’unità di visione e atto, che include contemporaneamente una contrapposizione tra percepire e concepire, ha condotto Fichte a fondare la dialettica della sua tarda Dottrina della scienza. Si può facilmente prevedere che questa dialettica apra fin dall’inizio la differenza fra la Dottrina della scienza teoretica e quella pratica.
73Infatti il postulato di un’unità completa all’interno dell’io può venire soddisfatto, solo se il concetto dell’io determina l’io come percepito, nella stessa misura in cui il concetto, d’altro canto, ha valore in relazione alla percezione e in questo senso è dedotto da essa. Il concetto come principio dell’azione morale, e il concetto come risultato del processo del sapere, sono ugualmente conseguenze dell’indissolubile unità che sussiste all’interno dell’io tra visione e atto. Fichte aveva tutti i motivi per ritenere di aver posto ora una base sicura per la struttura del sistema che era stato sua intenzione costruire fin dall’inizio della sua carriera.
74Tuttavia nella realizzazione del suo progetto restano numerose difficoltà. Anziché seguire lo sviluppo del sistema, anticipiamo ancora una volta le conclusioni, per apprendere la nuova risposta che Fichte era in grado di dare alla questione del fondamento dell’io.
75Nella prima teoria questa questione propriamente rimaneva aperta. È vero che Fichte aveva ancora posto come premessa all’autocoscienza un Io assoluto, che avrebbe dovuto essere capace di porre l’autocoscienza. D’altra parte quest’Io assoluto era da pensare di nuovo solo come un momento dell’autocoscienza. Questa tesi però dovette essere abbandonata dal momento in cui Fichte riconobbe con sufficiente chiarezza l’unità originaria di tutti i momenti dell’io. Al posto dell’Io assoluto, andava collocato ora il pensiero di un’origine impensabile dell’intero esser-sé in un assoluto che sopravanzasse l’essere-io. Fichte dovette superare notevoli difficoltà per giustificare quest’idea dell’assoluto come tema del sapere, e per rendere chiaro che la sua scoperta originaria riconduce a essa, e in essa viene mantenuta. Sembra però d’altra parte ovvio che, quando si fonda l’esser-sé in questo modo, gli si toglie anche la possibilità della libertà. Ma la scoperta della libertà, agli occhi di Fichte, era l’intero merito della filosofia critica. Fino alla sua morte Fichte ha ringraziato il suo maestro Kant per averlo liberato dal gioco del determinismo. Parlare di un fondamento-causa della libertà non significa enunciare del tutto apertamente una contraddizione?
76Fichte sicuramente non si sarebbe deciso a interpretare la libertà stessa come conseguenza di una realtà a essa preesistente, se l’esperienza della sua vita cosciente non lo avesse condotto a una tale conclusione. Tuttavia questa conclusione è almeno in ugual misura una conseguenza della sua scoperta del problema e del compito di una teoria dell’autocoscienza. Una lettera, che Fichte ricevette da Friedrich Jacobi quando si trovava in una difficile situazione esistenziale, può aver influito, nel senso di aver accelerato il nuovo orientamento della sua teoria. Ma Fichte non ingannò nessuno, e nemmeno cadde preda di un’autoillusione quando, in seguito, assicurò in ogni occasione che la sua Dottrina della scienza in fondo era rimasta sempre la stessa. Poiché tutte le trasformazioni che essa subì portarono solo più chiaramente in luce le peculiarità dell’autocoscienza, che egli aveva già cominciato a comprendere nella sua scoperta originaria.
77Nella sua tarda dottrina Fichte pensò l’autocoscienza e la libertà a partire dal pensiero di Dio. Vide in tutta chiarezza che l’unità dell’io, che è in se stessa evidente, non può dipendere da nulla di esterno e che essa non si lascia spiegare in modo semplice, per esempio come l’effetto di una qualche causa. Ciò che fonda quest’unità non può avere effetto su quest’unità, né continuativamente né occasionalmente. Del resto non si può nemmeno pensare che l’io sia orientato a uno scopo, la realizzazione del quale sia la sua unica funzione. In quel caso la libertà non sarebbe che un mezzo. Ma l’autodeterminazione non si compie mai attraverso la dedizione a una meta che sia diversa da essa stessa. Quindi l’unità dell’io non può venir compresa né nella forma concettuale della causalità, né in quella della finalità. E Fichte ha inteso dire che la si può rendere comprensibile presupponendo un Dio che non esista semplicemente come vita, ma come vita anche si manifesti. Se le cose stanno in questo modo, allora il carattere di assolutezza dell’io è comprensibile in quanto l’io è chiuso in se stesso e tutto essenzialmente solo coscienza di se stesso. Così però si può anche comprendere come un io che pensi il suo proprio fondamento non rinunci alla propria autodeterminazione, ma la renda solo compiuta e stabile in questo pensiero.
78Fichte ha portato a espressione quest’idea, che corrispondeva al tempo stesso anche alla sua esperienza di vita, in sonetti poco noti. Fu essa che gli rese possibile giustificare la sua posizione nei confronti dei filosofi del sentimento e della natura, che erano diventati i suoi avversari più forti. La nostra esistenza non si può fondare né su un momento irrazionale, che sia presente in noi stessi, né su una realtà spirituale, che venga esperita fuori di noi. La nostra “sostanza” vera e propria, il nostro immediato sapere di noi stessi, che è ugualmente semplice e misterioso, ci fa comprendere alla fine che siamo dipendenti da una realtà che nondimeno noi stessi siamo, poiché essa porta all’esistenza il sapere di noi, che costituisce la nostra essenza. La prima dottrina di Fichte è quindi tanto poco un’espressione dell’estremo autocompiacimento dell’uomo, quanto la seconda dottrina un tradimento della sua libertà.
79Ci si può chiedere se l’interpretazione teologica che Fichte ha dato dell’assoluto si basi su fondamenti sicuri. Si può pensare che la filosofia, partendo dall’idea di un fondamento della libertà, si perda in oscurità insondabili, anziché portare luce permanente nell’idea di Dio della tradizione metafisica. Ma questi dubbi non scuotono minimamente il fondamento e la forma di sviluppo del cammino che il pensiero di Fichte ha intrapreso.
80Se si considera la storia della filosofia idealistica, si può solo deplorare che la scoperta di Fichte sia stata condannata a venir dimenticata e a restare senza risonanza. Fu il pensiero di Hegel a trovare rispondenza. A lui però, appoggiandosi alla scoperta di Fichte, si possono muovere due obiezioni: 1) Hegel pensa l’unità delle antitesi secondo la forma della dialettica, ma che cosa significa pensarla come un risultato e non come unità originaria? 2) Egli pensa l’unità di libertà e realtà come realizzazione della libertà, così che non può concepirla nell’unità originaria di entrambe. Le antitesi sono sì pensate alla luce della loro inevitabile unità, e quest’unità rende possibile il loro movimento. Ma quell’unità che domina tutte le contrapposizioni è di un altro tipo. E la libertà è già in se stessa libertà effettiva. Molti seguaci del pensiero di Hegel hanno indirizzato obiezioni a Hegel che sono di tipo simile. Le loro deduzioni però non hanno mai raggiunto l’altezza speculativa della scoperta di Fichte. Essi erano formalisti, e dominati dalla tendenza ad anteporre all’io, alla ragione e alla libertà una qualche realtà e a rendere evidente che noi saremmo dipendenti da essa. Pertanto hanno solo rinnovato un errore di Hegel in forma più rozza e in sequenza invertita. Essi legano la libertà a un fatto; ma non pensano la libertà stessa e in sé come fatticità. Con ciò però il problema dell’essenza, unità e origine dell’autocoscienza è andato perduto.
81La scoperta di Fichte resta significativa anche per comprendere nel suo insieme l’epoca della critica alla filosofia di Hegel. Poiché ciò che questa epoca volle esprimere è soltanto una nuova forma dell’esperienza che è stata trasmessa ai fondamenti di ogni pensiero nell’epoca della modernità. Fichte fu solo il primo a trovare dei concetti con cui possiamo esprimerla.
82E così perveniamo infine alla seconda tesi: lo spirito della modernità non è in preda a una febbre di soggettivismo che termini nella pura volontà di potenza. Vero è che per lo spirito della modernità tutti i vincoli oggettivi dell’esser-sé hanno perso la loro forza. Nello sciogliersi da quelli, esso ha sviluppato l’idea di una libertà che è autonomia. Ha compreso che ciò che l’uomo è e che può essere si decide anche solo attraverso di lui e in lui. Ma questa è altra cosa rispetto al rimuovere il dato di fatto che la sua facoltà di realizzarsi attraverso di sé non gli è data da lui stesso. La coscienza moderna vive nella tensione che, al di là delle dottrine della teoria moderna, è stata il problema fondamentale di Fichte e che si rivela anche come il fondamento di tutte le questioni che egli ha posto. Da un lato l’esser-sé si mantiene nel costante movimento che da lui scaturisce e dal suo immediato contatto con se stesso. Ma dall’altro lato è consapevole del fatto che, avendo perso il collegamento con una realtà oggettuale che lo vincola e lo giustifica, è ciononostante vivificato e anche sopravanzato da una realtà che lo fonda. L’esser-sé non può mai volere rappresentare questa realtà come un oggetto. Solo attraverso il modo in cui l’esser-sé si realizza e si comprende nella sua realizzazione può anche corrispondere alla realtà che lo fonda.
83Noi non conosciamo ancora il mondo in cui oscurità e ragione, paura e coraggio, morte e inizio potrebbero venire esperiti e conservati nella loro unità, nella quale diventerebbero così l’autentica realtà della nostra vita. La nostra epoca si avvolge in una fuga distruttiva che ci fa cercare rifugi e ideologie che al tempo stesso rassicurano e distruggono. Per chi però ha compreso la scoperta di Fichte, essa sarà tutt’altro che un’illusione, che provenga da smarrimento o spinga in un’oscurità irreale. Fu questa scoperta che fece diventare Fichte anche il visionario di un possibile futuro della vita umana che sia pervenuta alla coscienza della propria libertà. Il pensiero del presente dovrebbe sapersi solidale con lui.
2.3. Discussione
Nell’intervento introduttivo è stata sollevata innanzitutto una questione che nasce dall’apparente contrasto, presente nella mia interpretazione di Fichte, tra l’affermazione per cui l’autocoscienza è chiamata a compiere uno sforzo di autochiarificazione e la constatazione di una sua resistenza insuperabile all’analisi, alla quale in ultima istanza finisce sempre per sottrarsi. Si tratta effettivamente di una difficoltà essenziale: ciononostante, il compito della filosofia è e rimane quello di indicare quali siano gli elementi constatabili sul piano logico e i contesti che indirettamente rimandano all’autocoscienza, ovvero il compito di chiarirli per quanto è possibile e, contemporaneamente, di dare un nome a ciò che in tal modo resta inspiegato. In questo modo si rinvia a ciò che nella chiarificazione rimane come presupposto ultimo, senza poter arrivare a risolverlo. Per converso, però, non si dovrà mai desistere dal tentativo di risolvere questo elementare, perché la tesi che l’elementare non possa venire ulteriormente risolto non può restare una mera tesi, ma deve farsi valere a fronte delle molte obiezioni che affermano il contrario. Ne risulta un doppio discorso: quello che verte intorno ai dati di fatto fondamentali esperibili circa l’autocoscienza, che è complesso, e quello che esplora le possibilità della sua chiarificazione, e deve esaminarle criticamente. Alla fine rimane il non ulteriormente risolubile: la questione diventa, allora, come si debba riflettere sull’irresolubile, come il pensiero possa, nonostante tutto, prendere una posizione anche nei confronti di ciò che non può né spiegare a partire da qualcosa di più semplice, né ricondurre a qualcos’altro, né risolvere al suo interno. A questo punto la filosofia non può più procedere analiticamente e andare in cerca di teorie logico-scientifiche, ma diventa esplorativa: in altri termini, non può più fare progressi ricorrendo al modello di un procedimento scientifico, sia pure di un procedimento scientifico tale da determinare eventi, ma deve diventare, nel senso più ampio, filosofia pratica, vale a dire deve progettare un concetto che sa di non poter dimostrare. Noi viviamo in un’epoca scientifica: tuttavia il xx secolo appena trascorso ci ha lasciato un’eredità che attribuisce alla scienza stessa delle teorie limitative, e apre così uno spazio per pensieri che non sono più accessibili alla dimostrabilità scientifica. Questo vale perfino per la matematica. E anche il naturalismo, poiché in ultima analisi è esso stesso una metafisica, si lascia spiegare come risposta a questa situazione.
84Il dato di fatto fondamentale e tuttavia irresolubile dell’autocoscienza mette quindi in movimento tre forme di razionalità molto diverse: 1) il procedimento analitico, che consiste nel ruotare intorno al dato di fatto fondamentale ed evidenziarne il contesto 2) lo sforzo sempre rinnovato di chiarificazione teorica e la critica di questo sforzo e 3) se la critica occupa la posizione superiore, se cioè tocca alla filosofia compiere una determinazione dei limiti secondo la modalità che le è propria, un pensiero che giunga al di là di questo limite. In questo senso la filosofia resta tale nel senso platonico, poiché si colloca sulla soglia di questo limite, di questo abisso: l’abisso non la inghiotte, deve piuttosto affermarsi di fronte a esso, e a questo scopo impiegare e raffinare i modi di pensiero che le sono peculiari. Questo accomuna la filosofia all’uomo e alla sua vita: ma, mentre l’uomo può anche venire inghiottito dall’abisso, la filosofia, finché c’è, consiste proprio nel non venirne inghiottita.
85Occorre però definire più precisamente in che cosa consista questo mantenersi sull’abisso che è insieme un tentativo di slanciarsi al di là di esso; inoltre, come e in che misura siano possibili sia la chiarificazione teorica sia la determinazione dei suoi limiti. Spiegare l’origine dell’io per Fichte significa interrogarsi su ciò che precede l’io. Ma è proprio questo che per Fichte non si può fare, contrariamente a quanto sostiene Schelling. La posizione di Fichte è che non si possa risalire all’origine del sapere. Questa è la verità di Kant, che secondo Fichte viene ignorata da Schelling e Hegel: di qui scaturirà la polemica tra Schelling e Fichte. Se però non si può risalire all’origine del sapere, e si definisce sapere l’essenza dell’io, ne segue che non si può risalire all’origine dell’io. Quindi Fichte non può in nessun modo voler spiegare l’essenza dell’io, almeno se spiegare significa pensare un fondamento dal quale l’io scaturisce.
86Anche nella forma della prima Sittenlehre Fichte afferma che proprio ciò che dovrebbe valere come principio, come incondizionato, è invece condizionato dal fatto che si pensa questo principio attraverso qualcos’altro. Ciò che deve valere come principio del sapere non è un fenomeno che possa essere considerato di per se stesso, ma è sempre in relazione al sapere. Quindi non possiamo spiegare questo principio come tale, ma solo domandarci come si possa pensare questo fenomeno, cercando di delinearne la struttura: per esempio, dire che si tratta di attività, oppure ricorrere a metafore. Tutti i problemi che si presentano riguardo alla struttura dell’io sembrano sorgere perché si cerca di raggiungere un’origine dell’io. Sembra che Fichte con le sue tre formulazioni cerchi di pensare una struttura dell’io, ma non voglia veramente spiegarla: proprio perché l’io è un fenomeno molto particolare e deve valere come principio del sapere, allora non lo si può spiegare, e tutto ciò che si dice a suo riguardo concerne solo il come lo si possa pensare, quale ne sia la struttura. Proprio perché qui Fichte si serve di metafore, è molto problematico parlar di spiegazione. Occorre quindi chiarire che cosa significa “spiegare” in questo contesto: è in qualche misura possibile raggiungere una spiegazione e, se sì, che tipo di spiegazione, o solo una descrizione dell’io? A questo proposito ci sono due significati, due modi di procedere della spiegazione: si può cercare una spiegazione dell’io a partire da altro, oppure a partire dall’io stesso. Ciò che noi chiamiamo autocoscienza è un fenomeno complesso: ora, è lecito tentare di spiegare uno stato di cose complesso a partire da un elemento che gli appartiene. Questo accade appunto nella teoria riflessiva: essa non si propone di spiegare l’io a partire da qualcosa che gli è estraneo, ma spiega lo stato di cose complesso dell’autocoscienza a partire da un elemento, che ha il suo luogo in esso, che è l’attività del potersi rivolgere a se stesso. Si tratta tuttavia di una spiegazione circolare: è sì una spiegazione, ma una cattiva spiegazione, poiché per suo tramite lo stato in cui qualcosa sa di sé viene solo descritto. Era già così in Aristotele: la ai[sqhsi” è ai[sqhsi” hJ aujtou’; non c’è percezione, che non sia percezione di se stessa. Questa è una mera descrizione, che non contiene alcuna prospettiva di spiegazione. Insieme ad Aristotele si può pensare agli empiristi inglesi, alle loro ideas of impressions and ideas of reflections. Le idee che sono impressioni vengono da fuori, le idee che sono riflessioni sono idee del sé. Anche questa è una teoria circolare: o almeno, se deve essere intesa come una teoria, allora è circolare, perché presuppone già il sé, mentre come descrizione la si può accettare, con il limite di non essere una descrizione approfondita come la teoria della riflessione, ma una descrizione elementare.
87Ora, Fichte vuole spiegare, ma non spiegare a partire da altro, bensì a partire dal sé. L’io che sa di sé deve avere la proprietà del sapere di sé da se stesso. La necessità di definire che cosa l’io debba essere per poter sapere di sé grazie a se stesso, e non grazie a qualcos’altro, conduce Fichte alla tesi che l’io sia pura attività: pura attività distinta dall’essere. Questa è l’origine della teoria dell’intuizione intellettuale. La definizione dell’io come attività è una spiegazione nel vero senso della parola, poiché non è una spiegazione estrinseca, ma intrinseca. Questo può essere affermato anche a proposito degli ulteriori tentativi di Fichte di costituire una teoria, inclusa la terza teoria, per la quale Fichte fa ricorso a una metafora. «Facoltà nella quale è posto un occhio» infatti è effettivamente una metafora, e addirittura una metafora paradossale: ma viene utilizzata come risultato di un’analisi. Per mezzo di questa metafora Fichte mira a una spiegazione che consiste nel non partire più dall’io, ma dal sapere. L’obiettivo è offrire un’analisi del sapere e nello stesso tempo un’analisi del problema di cosa sia l’io, che avvenga contestualmente alla spiegazione del sapere, e sia perciò intrinseca. Il non partire più dall’io ma dal sapere diventa per Fichte, a partire dal 1800, anche la definizione che qualifica il procedimento della Dottrina della scienza. Si può quindi affermare che Fichte ricerca davvero una spiegazione, e su questa via si mantiene sempre, specificando che si tratta di una spiegazione nel secondo senso, cioè intrinseca.
88La spiegazione dell’origine dell’io rimane interna al concetto di io, proprio perché, e fintanto che, esso è inteso come attività. Questa probabilmente è anche la ragione per cui nella terza formulazione Fichte si serve per definire l’io contemporaneamente (indifferentemente) delle espressioni «attività» nella quale è posto un occhio e «facoltà» nella quale è posto un occhio, segno del fatto che egli intende il termine facoltà (Kraft) in un modo che non può venire distinto da attività (Tätigkeit). La facoltà quindi non può venire distinta dall’atto della sua esplicazione. Nella metafisica classica, al contrario, un’attività può venire intesa come l’esplicazione di una facoltà, come risulta dalla definizione classica di facoltà: «rapporto di una sostanza con i suoi accidenti». Per esempio, secondo la definizione classica la facoltà vitale di una sostanza sarebbe il rapporto di una sostanza con una successione di stati della sostanza, che sono stati della sua autoconservazione: in questo caso, sarebbe consentito affermare che l’attività della sostanza sia il modo in cui la facoltà produce degli stati. Ma Fichte non può fare ricorso a una definizione metafisica di facoltà: quando usa il termine deve sempre pensare a una facoltà nell’atto di esplicarsi. Perché allora non si serve solo dell’espressione attività (Tätigkeit), ma dice anche facoltà (Kraft)? Probabilmente perché, per Fichte, in quella particolare attività che è l’attività dell’io, non è in questione solo un fare che ricada esclusivamente su se stesso. Ci sono attività autoproducentisi che procedono semplicemente in se stesse: ballare o camminare, per esempio, sono attività di questo genere. Si può dire allora che, quando qualcuno balla o cammina, colui che balla è in possesso della facoltà di ballare o della facoltà di camminare, e che, se non può ballare o camminare, allora ha perso queste facoltà. Ma Fichte intende descrivere un’attività che produca qualcosa al di fuori di sé, che ponga in essere degli effetti. E questo è ciò che il termine facoltà ha in comune con ciò che Fichte ha in mente. L’attività porta a effetto qualcosa che non è essa stessa, è un agire (Handeln), non un mero fare (Tun). Noi parliamo anche di “agire efficace”, per indicare un agire che supera una contrapposizione e porta a effetto, in ciò che gli è contrapposto, qualcosa che è l’agire dell’io; e anche per questo è in generale pensabile che in quest’attività venga posto un occhio, vale a dire un occhio che non solo ponga l’attività nella condizione del sapere di sé, ma che contemporaneamente indirizzi l’attività verso qualcosa, verso ciò che deve sorgere attraverso di essa. Si può ipotizzare che questa sia la coincidenza strutturale di attività con facoltà, coincidenza che indurrebbe Fichte a ritenere questi due concetti intercambiabili, anche se deve respingere una metafisica delle facoltà. Si tratta tuttavia solo di un’ipotesi, che andrebbe verificata sulla base di uno studio specifico. Sarebbe perciò una ricerca storica interessante esaminare come Fichte utilizza questi termini.
89Si potrebbe peraltro obiettare che la riduzione di ogni facoltà all’attività non renda conto di come si possa spiegare un’attività dell’io prescindendo da una facoltà volitiva. D’altronde non si può affermare che in tutta l’opera di Fichte non vi sia tematizzazione di altre facoltà distinte dall’io. Nella Dottrina della scienza del 1794 si trova infatti un’analisi delle attività (facoltà), che ha esercitato una grande influenza storica: non però attraverso l’analisi della volontà, ma dell’immaginazione. In quest’opera Fichte distingue la parte teoretica e la parte pratica della Dottrina della scienza. Nella parte teoretica l’Io, che è limitato dal Non-io, è impegnato a porre se stesso nella sua limitazione da parte del Non-io. La Dottrina della scienza pratica invece contrappone l’Io al Non-io che lo limita: l’elemento di volontarietà entra in gioco quindi nella Dottrina della scienza pratica. Al contrario, nella Dottrina della scienza teoretica, Fichte si occupa di attività che non sono assolutamente volontarie. È vero che appartiene essenzialmente all’Io il fatto di realizzarsi come volontà: la sua essenza però non si risolve nel volere, ma nel suo porre se stesso, che ancora nella Dottrina della scienza del 1794 è più fondamentale del volere. E per questo l’attività in cui questo porre se stesso dell’io si realizza è la sospensione data dall’immaginazione, condizione che è addirittura contrapposta al volere. Essere infinitamente attivi, mantenendosi sospesi tra due possibilità come un uccello nell’aria, fu l’ispirazione che i romantici trassero dalla Dottrina della scienza di Fichte.
90Lo schema in cui l’io è considerato un’attività coincide in Fichte con l’intento di superare quello che è stato da me definito modello riflessivo. Ho desunto le caratteristiche di questo modello proprio dalla critica che ne fa Fichte; storicamente però non è mai esistito qualcosa che si autodefinisse “teoria riflessiva”. Si tratta quindi di un modello da me inventato, che si potrebbe esprimere così: “c’è qualcuno che esercita l’attività della riflessione, ovvero dirige l’attività intelligente che normalmente è riferita a degli oggetti, altrove rispetto a essi, e precisamente in direzione di se stesso. In ciò consiste (descrizione) oppure da ciò sorge (genesi), l’autocoscienza”. Tuttavia, anche se nessun teorico si è mai espresso in questi termini, si può affermare che Kant pensi veramente così, e precisamente laddove afferma che l’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni. Com’è possibile spiegare quest’affermazione? In questo caso c’è un pensiero che ha il contenuto “io penso”, e questo pensiero è universalmente possibile: non c’è nessun pensiero che io abbia che non possa venire accompagnato dal pensiero che io lo penso, dice Kant. Quindi, quando io penso il pensiero “io penso”, come si perviene al fatto che io lo pensi? Io posso pensarlo, ma non devo pensarlo, e in molti casi vi sono pensieri che io non penso di pensare. Se io dunque penso il pensiero, come dovrei spiegarmi questo, se non con il fatto che ho la capacità di riflettere sulla circostanza che tutti i pensieri sono miei pensieri? L’uso che io faccio ora della parola “riflettere” si riferisce al suo senso odierno corrente. Quando noi esigiamo da qualcuno che si chiarisca le idee su ciò che ha appena detto, gli diciamo: “rifletti un po’ su ciò che hai appena detto”, il che equivale a dire “concentra la tua attenzione non su qualcosa, ma su di te, su ciò che stai facendo in questo momento”. Questo è riflessione. E ciò che Kant dice, quando parla del poter essere accompagnato di ogni pensiero dal pensiero “io penso”, mira a un significato analogo, anche se egli in realtà usa la parola riflessione in modo completamente diverso. Di conseguenza, Kant non avrebbe potuto chiamare tutto ciò teoria della riflessione, anche se di fatto si è servito di una teoria di questo tipo, cioè ha di fatto pensato la stessa cosa quando ha detto che quel particolare pensiero che è l’autocoscienza sorge attraverso l’accompagnamento di un pensiero da parte del pensiero “io penso”. Kant ha dunque dovuto impiegare un modello al quale Fichte si oppone, ma che nemmeno Fichte ha tematizzato servendosi dell’espressione “teoria riflessiva”. Vero è però che egli critica il contenuto di questo pensiero molto esplicitamente: dice espressamente che questo sofisma si trovava alla base di tutte le precedenti filosofie, inclusa quella kantiana. Quindi in Fichte si può trovare chiaramente questo elemento di critica, anche se non l’espressione “teoria riflessiva”.
91Ci sono peraltro sicuramente teorie della riflessione nella storia della filosofia che non hanno questo stesso contenuto. Già le lockiane ideas of reflections utilizzano un senso di riflessione, che però non è lo stesso. Lì la riflessione non deve essere considerata come attività. Prima ancora di procedere verso l’autocoscienza sussiste già il problema di comprendere la coscienza, e già in Aristotele viene presupposta l’autorelazione della percezione, o quantomeno una sorta di autorelazione della percezione, senza che vi sia un’attività. Per Fichte l’io si rivolge a se stesso, e quindi riflettere e porre sono secondo questa sua intepretazione formule fra loro antitetiche di una posizione, ma entrambe sono da intendersi come attività. Nell’empirismo invece si riscontra una concezione della riflessione in cui essa non viene considerata come attività. Ma la parola riflessione rimanda in se stessa all’attività, in quanto descrive un processo, un processo ottico.
92La seconda questione sollevata nell’intervento introduttivo, se la ragione non sia in se stessa qualcosa di storico, si ricollega alla precedente, che guardava il modo in cui l’autocoscienza, nel suo sforzo di autochiarificazione, si trova posta di fronte a limiti insuperabili che la rimandano a un fondamento trascendente. Lo sforzo di chiarificazione che la coscienza compie a partire da se stessa, ovvero l’intento di dare spiegazione dell’autocoscienza razionale a partire da dati di fatto, è infatti in se stesso contingente, e reca con sé il problema della contingenza storica della stessa autocoscienza razionale. Come si può pensare di risalire a un fondamento trascendente, per quanto “sottratto”, se si assume come punto di partenza la contingenza storica? A questo proposito si devono distinguere due significati di “storico”: 1) storico nel senso di legato a una determinata epoca nel tempo, che può essere indifferentemente un’età del mondo, una fase dell’umanità o anche una fase dello sviluppo organico; in altre parole, storico nel senso di mutevole nel tempo e 2) storico nel senso di fondato su un evento, ovvero riconducibile alla storicità intesa non come mero stato di fatto, ma come processo. Il processo, parlando teologicamente, può anche essere eterno, e in questo secondo senso, appunto, lo è. Non è storico nel primo senso, perché viene all’esistenza insieme con il problema che l’essere che si rapporta a se stesso, cioè l’uomo, è per se stesso, fatto con il quale è posta la ragione. Si può affermare che senza l’uomo non c’è ragione, e quindi porre la questione teologica: se è così, e Dio stesso è la ragione, allora Dio c’è solo se c’è l’uomo. La ragione che entra in gioco quando il dato di fatto fondamentale dell’autorelazione suscita dei pensieri non è legata a un’epoca storica, tuttavia si dispiega in modo differente anche all’interno di epoche storiche, e nella mia interpretazione di Fichte viene appunto attribuito a Fichte un significato epocale. Egli è stato il primo a riconoscere che è un problema fondamentale per la ragione il vedersi confrontata con una qualche autorelazione. Questo non significa che non fosse così anche prima: solo, il problema non era diventato esplicito. Da questo punto di vista la filosofia di Fichte è un prodotto della riflessione, nonostante egli sia un critico della teoria della riflessione. Egli riflette per primo sulla condizione dell’io di non essere spiegabile mediante la riflessione. E questa è una nuova epoca del filosofare, ma non una nuova epoca della ragione.
93Questa nuova epoca che pone al centro la questione del soggetto può essere assimilata alla modernità. È vero che in questo senso quanto affermato nell’introduzione, e cioè che in Heidegger il problema della soggettività è trascurato, e che questo lo conduce a esiti antimoderni. Heidegger è molto esplicito su questo argomento: egli pensa che l’essenza dell’uomo consista nel preservare l’Essere. L’orizzonte in cui all’uomo è dischiuso l’Essere è la mondità, la forma del mondo: l’uomo ha un rapporto a sé che è commisurato alla sua essenza solo quando ritorna a se stesso a partire dal suo rapportarsi al mondo. Egli è Esserci, cioè riferito al mondo presso gli enti, e questo significa nel mondo. La soggettività per contro è una relazione a sé che non è mediata attraverso la relazione al mondo: quindi non è un aspetto dell’essere-nel-mondo, ma una relazione a sé, disgiunta dalla relazione al mondo. Questo significa che dal punto di vista della questione dell’Essere la soggettività è identica all’oblio dell’Essere, e questo tratto fondamentale della soggettività è al tempo stesso un tratto fondamentale del mondo moderno. Obliare l’Essere significa mettere al posto dell’ente ciò che viene fatto, ciò che l’uomo può produrre a partire dalla sua autorelazione: questa è in ultima analisi la grande realtà di ciò che Heidegger chiama il Gestell, ovvero la tecnica. E il mondo tecnico, poiché è un prodotto del soggetto, è in quanto tale definito dall’oblio dell’essere: è identico col nichilismo, con la convinzione che nulla sia in gioco con l’Essere, ma tutto sia posto in essere da noi. Questa definizione della modernità a partire dalla soggettività è al tempo stesso ciò che viene rigettato attraverso l’ontologia esistenziale dell’essere-nel-mondo dell’uomo, il quale appunto non è essere per sé, ma essere nel mondo. Di conseguenza, come la posizione filosofica della relazione al mondo che scaturisce dalla relazione al soggetto viene rifiutata da Heidegger in quanto oblio dell’Essere, così al tempo stesso il mondo, l’intera forma di vita che consegue a questa logica, viene caratterizzato da lui come ciò da cui dobbiamo liberarci.
94Questo è il nucleo della critica heideggeriana della modernità, esposto dal punto di vista di Heidegger, perché quando si è in dissenso con qualcuno, bisogna rendere i suoi argomenti più forti possibile. Secondo Hegel infatti, non bisogna colpire un avversario là dove lui non si trova, ma bisogna andarlo a cercare nel suo punto di forza; e il punto di forza di Heidegger è appunto questa correlazione del processo che descrive la storia della metafisica come storia dell’oblio dell’Essere, con la sua diagnosi della situazione dell’umanità. Heidegger fu, per usare un’espressione corrente, il primo filosofo “verde”. E io non concordo con questa sua diagnosi: io vedo in Fichte, appunto come polo contrapposto, un’apologia della modernità. Ma non perché Fichte sia il pensatore che fa proprio ciò che Heidegger diagnosticamente critica, cioè elevare l’io addirittura a qualcosa che fa di sé un assoluto, ma perché Fichte è il primo a vedere che il sé non può venir compreso a partire dal suo farsi da solo. Quindi, pensando in termini heideggeriani, il soggetto non è l’assoluto prender possesso di sé, anzi: il soggetto, nel momento in cui comprende se stesso, si rende conto proprio anche della sua incapacità di essere signore di sé, e in questa incapacità trova la natura dell’attività che gli è essenziale. Per questo, a mio avviso, la tecnica non è un tentativo di costituire una struttura artificiale del mondo, un Gestell, ma un’impresa che si sforza di preservare la delicata vita dell’uomo.
95Pertanto quest’accentuazione del significato dell’attività (umana) nella spiegazione della soggettività non deve essere intesa come la negazione di un rimando ontologico, anche se il fondamento è descritto come sottratto. Se per ontologia s’intende una concezione che non rimane limitata all’esplicazione della soggettività, ma colloca quest’ultima all’interno di un contesto nel quale è possibile parlare perfino di quale ne sia il fondamento, allora si tratta di una concezione ontologica, sebbene non nel senso classico dell’ontologia, per esempio, di Christian Wolff, che ha inventato il termine. Ecco allora che, se ci si trasferisce sul piano ontologico, quando ci si trova posti di fronte a dati di fatto che, come quelli intorno ai quali ha ruotato la nostra analisi, non si lasciano risolvere nel senso della normale chiarificazione o esplicazione teoretica, è possibile e doveroso utilizzare delle espressioni che, se esposte a una considerazione esterna, si possono definire paradossali. Questo però non significa che sia lecito pensare di dover mirare a un pensiero per paradossi. I paradossi devono sempre essere collocati in correlazione con una fondata autolimitazione della conoscenza, ovvero del sapere, e venir controllati a partire da essa. La mera produzione di paradossi non fa procedere la nostra comprensione. Posto di fronte alla comprensione il paradosso la sfida. In questo senso è produttivo, ma non è esso stesso la comprensione. Solo l’ultimo orizzonte in cui viene raggiunta una comprensione può essere un luogo legittimo, eventualmente, per formulazioni paradossali.
Notes de bas de page
16 Successivamente pubblicato in francese in “Revue de métaphysique et de morale” 1967 (72), pp. 154-169. Pubblicato per la prima volta in tedesco in Selbstverhältnisse, cit. .
17 D. Henrich, Fichtes ursprüngliche Einsicht, Frankfurt a. M., Klostermann, 1967, vol. I
18 D. Henrich, Bewußtes Leben, in Bewußtes Leben, cit., pp. 27-34.
19 Dopo questo chiarimento presente in Fichtes ursprüngliche Einsicht, negli scritti successivi di Henrich si trova una costante difesa della riflessione intesa come fenomeno a sé stante, in particolar modo negli studi su Hegel.
20 D. Henrich, Fichtes ursprüngliche Einsicht, cit, p. 16; infra pp. 46-47.
21 D. Henrich, Selbstverhältnisse, cit., pp. 6-56.
22 D. Henrich, Fichtes Ich, in Selbstverhältnisse, cit.; traduzione di A. Manolino.
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