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1. Un’autobiografia intellettuale

p. 15-32


Texte intégral

1Vorrei iniziare da alcune considerazioni sul carattere del mio lavoro filosofico, che è storico e sistematico a un tempo. Ho infatti un duplice profilo biografico: il successo accademico che ho ottenuto e l’interesse che ho suscitato con il mio lavoro, anche negli Stati Uniti, derivano anzitutto dai miei studi storici. I miei lavori più propriamente sistematici sono sorti soltanto molto tempo dopo, quando in realtà ero già cinquantenne: solo allora ho cominciato a discutere delle domande teoretiche fondamentali della filosofia, inserendomi all’interno del dibattito filosofico di quegli anni.

2Questo è dovuto principalmente a due motivi: il primo riguarda la situazione in cui mi trovavo quando ho cominciato a studiare filosofia, immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, all’interno di uno scenario intellettuale tedesco al punto zero. Tuttavia molte posizioni filosofiche – già presenti e influenti anche prima di Hitler – stavano ritornando in auge e giocavano nuovamente un ruolo: per esempio la fenomenologia, che, con il suo procedimento della pura descrizione, poneva il dubbio in ogni argomentazione e operazione concettuale. Ma anche il neokantismo, che, sotto la pressione della situazione successiva alla Prima guerra mondiale, si era diffuso nei campi della teoria della conoscenza, dell’etica e della pedagogia e che, con Hermann Cohen, offriva una teoria della religione e, con Ernst Cassirer, una teoria della cultura, pur nei limiti del fatto che i fondamenti metodici dell’argomentazione neokantiana rimanevano ancora avvolti nell’oscurità. Gli stessi neokantiani discutevano perennemente di tali questioni. E il positivismo, con il circolo di Vienna, che considerava la fenomenologia una forma di intuizionismo non scientifico e il neokantianismo una forma di operazione che utilizzava concetti privi di significato, e che vedeva nella logica moderna la base sensata di ogni filosofare. E naturalmente la filosofia esistenzialista, che solo allora cominciava a essere conosciuta nella forma del tardo pensiero heideggeriano. Infatti ­Heidegger, dopo Essere e Tempo, il libro su Kant e i trattati su Hölderlin allora poco conosciuti, come poco conosciuto era il testo sull’Essenza dell’opera d’arte, non aveva pubblicato altri testi filosofici. E i testi su Hölderlin e sull’opera d’arte erano pure rimasti nascosti, pubblicati solo parzialmente durante la guerra. Così accadde che, solo con la pubblicazione di Sentieri interrotti nel 1950, divenne di pubblico dominio che c’era tutta una nuova filosofia heideggeriana da discutere che non poteva esser più designata con il nome di esistenzialismo. Ma naturalmente non c’era solo Heidegger. C’era Karl Jaspers, che nel periodo dopo Hitler costituiva in Germania una voce importante. E poi vi erano molte posizioni di matrice esistenzialista che erano tutte più o meno critiche verso la fenomenologia, il neokantismo e il circolo di Vienna, considerati tutti una sorta di ostacolo nei confronti delle autentiche questioni filosofiche. E si potrebbe ancora andare avanti nell’elenco: nell’arena del dibattito facevano infatti il loro ingresso anche diverse posizioni marxiste e le teorie filosofiche legate alla società, come per esempio la scuola di Francoforte. Fui casualmente proprio io, da studente, a essere salutato da Adorno quando fece il suo ingresso nel 1949 nel seminario di Francoforte. «Buongiorno, sono Adorno, mi conosce?» – mi chiese mentre io stavo scrivendo qualcosa. «Sì, – risposi, – la conosco attraverso La genesi del dottor Faustus di Thomas Mann». Non avevo mai sentito parlare di Adorno come filosofo, né io né nessun altro. Dunque un caos! Ognuno con la propria filosofia, nessuna possibilità di discussione! E quando si è giovani studenti, soprattutto dopo la guerra, non è possibile voler aderire a una scuola filosofica quando si sa che ve ne sono innumerevoli altre che ritengono che ciò che in quella scuola viene sostenuto non sia sensato.

3Su di me aveva fatto una grossa impressione, dopo la guerra, l’opera di Max Weber. Non si trattava effettivamente di un filosofo – o forse sì, dopo Jasper il più grande filosofo del suo tempo. Ma non mi voglio soffermare ora su questo discorso. Quello che più mi colpì di Max Weber fu la sua idea che la sociologia fosse una materia in cui si lavorava sotto la propria responsabilità. Essa non possiede cioè né alcun sapere stabilito né alcun metodo. In quel periodo non esistevano ancora istituti di sociologia: la sociologia è stata fondata da Durkheim in Francia, da Pareto in Italia, e da Weber e Simmel in Germania, poco prima della Prima guerra mondiale. Max Weber, rivolgendosi agli studiosi di sociologia, sosteneva che, chi vuole studiare sociologia, deve possedere anzitutto una scienza solida. Per Weber scienze “solide” erano con tutta probabilità la giurisprudenza – anche se allora sussistevano ancora dubbi – l’economia, e, con certezza, la storia. È necessario aver avuto prima esperienza in quelle scienze e solo dopo è possibile occuparsi di sociologia.

4A me pareva che ciò che Max Weber aveva sostenuto nel 1918 riguardo alla sociologia fosse applicabile con ancor più diritto alla situazione della filosofia del 1950. Ritenevo infatti necessario occuparmi dapprima di qualcosa di solido che non mi portasse al di fuori dei miei interessi filosofici ma che servisse ad arricchirli e incrementarli: la storia della filosofia! Credo che qualcosa di simile sia accaduto anche in Italia dopo la guerra. Il grande significato dell’opera di Pareyson è da ricercarsi nell’abbandono della base su cui si fondava l’opposizione tra Croce e Gentile. Solo dopo aver trovato una base solida è possibile occuparsi di problemi sistematici. Questa è la seconda motivazione del mio tardo approdo alle questioni più specificatamente sistematiche. Molto presto mi trovai a confronto, nella storia della filosofia, anche con un problema storico.

5Prima però di raccontarvelo, vorrei premettere che, ancor prima di dedicarmi alla filosofia, ho lavorato sulla preistoria – vale a dire su un ramo di ricerca storico in cui non si possiedono fonti scritte, testi, ma solo resti di scavi – e casualmente la studiai presso il docente più importante in materia che vi era allora in Germania e che divenne il maestro di tutti gli studiosi della preistoria della generazione successiva. Lo spirito di questa disciplina mi ha toccato nel profondo, radicando in me quel tipo di approccio per cui bisogna sempre aver presente che i rapporti valevoli in un determinato periodo di tempo dell’umanità sono completamente differenti da quelli che sussistono nell’epoca in cui si vive. Se studiate la preistoria in Italia, dovete dimenticarvi ovviamente del tutto dell’Italia: si è infatti confrontati con culture che sono sorte all’interno di contesti completamente differenti rispetto a quelli che hanno portato al sorgere delle nazioni e, ancora prima, delle regioni dell’impero romano. Bisogna dunque mettere radicalmente in questione, in questa disciplina, la scoperta da cui si parte, per poter scoprire effettivamente qualcosa.

6In un certo senso, ho applicato questa mia prima lezione alla filosofia classica tedesca. Il problema storico che ebbi davanti agli occhi già molto presto era il seguente: comprendere lo sviluppo e la dinamica filosofica che hanno condotto da Kant a Hegel. È soprattutto la velocità incredibile di questo sviluppo che ancora oggi continua a impressionarmi. Se guardo alla mia vita, ai molti decenni che ho vissuto, il fatto che sono diventato professore emerito da dodici anni, è sconvolgente rendersi conto che dalla Critica della ragion pura – la prima opera epocale di Kant – sino alla comune formulazione dell’idealismo assoluto da parte di Schelling e di Hegel, sono trascorsi solo vent’anni. Come solo vent’anni sono trascorsi tra la Critica della ragion pratica (1788) e la Fenomenologia dello spirito (1807)! Inoltre: mentre Schelling e Hegel già iniziavano a pubblicare i loro articoli sul “Giornale critico della filosofia”, Kant era vivo e pubblicava ancora, anche se limitatamente. E dunque mi chiedevo come fosse possibile che un gruppo di persone così giovani – avevano infatti tanti anni quanti ne avevo io nel momento in cui mi sono rivolto per la prima volta quella domanda (venticinque anni circa) – avessero avuto l’ardire di confrontarsi con questa potente opera kantiana e a trent’anni sostenessero già una loro propria filosofia, fino addirittura a dichiarare la fine della storia della filosofia. Com’è possibile qualcosa del genere? L’opera di Richard Kroner, Von Kant bis Hegel, si basa sulla tesi hegeliana che lo sviluppo da Kant a Hegel sia stato una conseguenza logica, e Fichte solo uno stadio transitorio nel mezzo. Ma, nel momento in cui ci si interroga su come sia stato possibile, si comincia già a dubitare che si sia trattato solo di una conseguenza logica. E se conoscete abbastanza bene Kant, vi risulterà evidente che la maniera in cui questi giovani si confrontavano con lui ha di per sé buone ragioni, ma d’altra parte non coglie realmente nel segno, così che la domanda sul come è stato possibile questo sviluppo si trasforma nella questione su quale sia stato realmente il nesso teorico tra queste diverse posizioni. La questione si deve cioè trasformare in una che riguarda anche la stessa filosofia kantiana: se infatti nutrite dei dubbi sul fatto che le obiezioni che Schelling e Hegel e, in una certa misura, anche Fichte, muovono a Kant abbiano come conseguenza una diagnosi adeguata della posizione kantiana, dovete allora chiedervi: “Qual è realmente l’essenza della filosofia kantiana?” Ci sono sempre kantiani – e ve ne erano in gran numero anche in quel periodo così dinamico – che affermano: “Kant è la verità; ciò che viene dopo non ha senso”. Kant aveva un gruppo di studenti che sostenevano, con alcune piccole modifiche, proprio questa posizione (come a Berlino Kiesewetter, e anche Beck) e ancora quando ero studente esistevano questi kantiani, nonostante fossero trascorsi duecento anni. Con Kant si sarebbe giunti al punto finale, alla fine della storia della filosofia razionale; forse possiamo ancora fare una filosofia della natura di tipo moderno, ma la filosofia teoretica si deve orientare a Kant. Nel xix secolo vi era il motto: Zurück nach Kant!, e nell’interpretazione dell’idealismo tedesco quest’idea che si debba andare al di là di Kant per ritornare a Kant è un motivo fondamentale.

7Se tuttavia si vuole evitare questo andirivieni, bisogna seguire in profondità l’intero sviluppo. E così ho iniziato a lavorare con il mio metodo archeologico alla filosofia post-kantiana, alla “preistoria” della filosofia hegeliana, e poi alla situazione intellettuale dell’università di Tubinga, dove Hegel aveva studiato, e dell’università di Jena, dove allora si doveva andare, se si voleva studiare Kant (non aveva senso andare a Königsberg, visto che Kant non vi aveva mai tenuto alcuna lezione sulla Critica della ragion pura). Gradualmente, attraverso i decenni, ho sviluppato un modello “preistorico” della storia dell’idealismo tedesco, tramite molte fonti, molti ritrovamenti, ecc. Oggi so perché è andata come è andata, e come è stato possibile voler concorrere con Kant quando Kant era ancora in vita, e so che non fu semplicemente un segno di presunzione o di mancanza di pudore. Ci tengo a dire che ritengo Kant uno dei due grandi della filosofia, insieme a Platone; a maggior ragione ritengo utile tenere chiaramente presenti i limiti che si trovano anche nel suo pensiero.

8Questo è stato fondamentalmente il mio lavoro storico. Naturalmente, con quel metodo archeologico, solo se si sono studiate a fondo tutte le fonti è possibile sviluppare un’analisi globale dell’idealismo, e questa è un’impresa veramente immane. Ognuno di voi, che lavori con una sola delle opere di questi autori, lo sa: anche nella letteratura secondaria è evidente questa parcellizzazione della ricerca. E ci sono anche dei buoni motivi. Avere in mente l’intera produzione di Kant, e poterla adeguatamente discutere, è un’impresa difficilissima, e lo stesso vale per Fichte, Hegel e per pensatori minori come Reinhold, e dunque si preferisce essere competenti e offrire una pubblicazione di alto livello in un settore specifico. La mia archeologia ha incontrato spesso difficoltà, proprio perché non riuscivo a trovare collaboratori che avessero competenze su tutte le figure chiave. Per lo studio della filosofia post-kantiana sono inoltre decisive – come oggi noi sappiamo, ma a lungo non fu riconosciuto – due figure, molto importanti presso i loro contemporanei che in seguito caddero nell’ombra: Karl Leonhard Reinhold e Friederich Henrich Jacobi. E su questo devo fare nuovamente i complimenti alla ricerca italiana: la ricerca su Reinhold ha avuto in Italia impulsi che sono mancati a quella tedesca (alcune delle migliori ricerche su Reinhold e sull’idealismo sono di Marco Maria Olivetti, che purtroppo è mancato da poco). Dunque, quelle che oggi sono considerate figure chiave per la comprensione della filosofia tedesca dopo Kant, dovevano, in quel periodo, essere ancora completamente riscoperte. Per questo tipo di ricerca ho sviluppato, nel corso del tempo, anche una formula programmatica: “ricerca per costellazioni” (Konstellationsforschung). Qualche anno fa è uscito anche un volume di due miei ex collaboratori che ha proprio questo titolo8.

9I motivi più propriamente filosofici della mia produzione si sono progressivamente sviluppati sullo sfondo di questo lavoro storico sino a quando non sono stato in grado di sottoporli all’attenzione del dibattito. Se rifletto sul motivo che mi ha portato definitivamente alla filosofia e allo strappo, per quanto doloroso, dall’archeologia, posso dire che esso consiste nel fatto che, per ciò che concerne la forza di concezione e l’enorme prestazione concettuale che si deve impiegare, non vi è nulla di più significativo dei grandi sistemi filosofici. Nel momento in cui si impara a muoversi all’interno di questi sistemi – e per me in quel periodo valeva soprattutto per Kant – si ha la sensazione di ottenere una chiarezza sui grandi nessi concettuali in una misura che altrimenti non si ottiene mai. La ricerca storica può essere esatta e affascinante quanto si voglia, e può offrire un contributo all’ampia prospettiva di studiare che cosa l’umanità sia e che cosa la costituisca, ma non può articolare questa stessa prospettiva. Questo è invece il compito della filosofia. Ecco il motivo che mi costrinse ad allontanarmi dall’archeologia.

10Ma in realtà vi era anche un altro motivo, strettamente collegato all’idea di pensare in generale e di ordinare la realtà a diversi livelli, che riguarda la seguente questione: come si possa iscrivere ciò che sappiamo di noi e della nostra vita in un’immagine del mondo (e forse di molti mondi) come di un tutto, senza dover rinunciare all’essenziale di ciò che noi vediamo e sperimentiamo di noi stessi, ossia senza rinunciare a ciò che pensiamo sia per noi irrinunciabile. Come possiamo saperci integrati in un mondo, in un tutto? Questo è naturalmente il problema moderno e lo si può formulare in maniera molto semplice come la tensione lacerante tra il senso della vita e l’abisso di fronte a cui l’esistenza di ciascuno, la stessa mia esistenza, si deve vedere come un qualcosa di descrivibile soltanto come una scoperta oggettiva. È la tensione di vedersi posti tra senso e abisso e di poterla sciogliere solo nel pensiero. È la specifica esperienza moderna che, all’inizio della filosofia classica tedesca, ha portato a coniare la parola nichilismo. È vero che ci sono tracce del termine anche in precedenza, ma in quanto parola che tutti avevano sulla bocca, è opera di Friedrich Henrich Jacobi e ha influenzato anche la letteratura moderna (Kleist). E si ritrova nell’esperienza della filosofia hegeliana, secondo cui la vera filosofia è scetticismo compiuto ed esperienza fondamentale del pensiero “Dio è morto”. E si potrebbe poi citare il sogno di Jean Paul, e giungere velocemente sino a Nietzsche per cui il nichilismo è “il più inquietante degli ospiti”, e a Heidegger, che lo identifica con la modernità, e per il quale il superamento del nichilismo è lo stesso superamento del pensiero moderno della soggettività.

11Quest’insieme di motivi è sempre stato determinante per la mia riflessione. Ho compreso già molto presto che questa situazione non si poteva affrontare e risolvere tramite il cosiddetto superamento della modernità, tramite cioè l’idea che si potesse abbandonare e destituire il moderno della sua specificità. Ritengo che questa tensione fondamentale dell’umanità ci sia sempre stata e continui a esserci. Nel mio saggio Vergegenwärtigung des Idealismus9, riconduco l’intero idealismo al tentativo di trovare una risposta a questa tensione fondamentale, senza semplicemente volerla occultare, ma anzi portandola al suo punto esplosivo. Come poter dire qualcosa su una tale tensione? Ritornano nuovamente allo scoperto il pluralismo dei metodi filosofici, la confusione linguistica, il caos delle posizioni. Per dire qualcosa di filosofico si deve conoscere un procedimento e avere un linguaggio a esso collegato. Ma come lo si ottiene? A lungo, a causa dell’assenza di questa prospettiva, e della possibilità di affrontare il problema adeguatamente anche dal punto di vista metodologico, mi sono mantenuto all’interno di una forma di comunicazione storica, indiretta.

12Nel 1957 per la prima volta andai a Oxford. Si trovava lì un amico fraterno per me, Herbert James Paton – che probabilmente conoscete per i suoi studi kantiani come Kant’s Metaphysics of Experience e The Categorical Imperative10 che allora era il kantiano più significativo e aveva la cattedra di metafisica a Oxford. Io ero riuscito a fare una critica alla sua posizione che egli aveva accettato, ed ero naturalmente molto orgoglioso al pensiero che nutrisse interesse nei miei riguardi. Per suo tramite sono entrato in contatto con l’ambiente e i filosofi che lavoravano a Oxford. Per la prima volta mi trovai davanti l’intero mondo della filosofia analitica e mi vennero consigliati anche libri come la Philosophical Analysis di James Opie Urmson11 – una ricerca storica del percorso che in Inghilterra ha condotto da Russell e Moore ai neo-wittgensteiniani – e l’Introduction to Logical Theory di Peter Strawson12. E notai che in quelle opere si trovava un procedimento argomentativo che si distingueva da tutto quello che fino a quel momento avevo conosciuto (le grandi posizioni, la mancanza di discussione). Così sono diventato attento a quel mondo, e ho incominciato a leggere, anche se non avevo la possibilità di ottenere un insegnamento a Oxford, dal momento che ero Privatdozent a Heildelberg. Tuttavia, nel momento in cui divenni docente a Berlino nel 1960, ebbi la possibilità di fare degli inviti e chiamai Urmson, di cui avevo studiato il libro. Quando giunse, cercai di discutere con lui e constatai che era in grado di discutere molto meglio di me. Io ero professore e lui lettore a Oxford, ma, quasi come nel gioco degli scacchi, notai che le sue mosse argomentative erano sempre migliori delle mie. Questo mi ha convinto a impegnarmi a dominare quel metodo. E così ho cominciato a tenere, dapprima in maniera dilettantesca, lezioni sulla filosofia analitica (soprattutto sull’etica) e non appena ne ebbi l’occasione, andai come visiting professor negli Stati Uniti. Ebbi la fortuna di essere invitato in diverse università, per esempio la Columbia-University, l’università del Michigan (Ann Arbor), che alla metà degli anni Sessanta era la numero due per la filosofia, e lì ho “pagato” per la mia formazione tenendo lezioni su Kant e Hegel, sulla fenomenologia e su Heidegger, e nel poco tempo che mi rimaneva avevo l’opportunità di imparare la filosofia analitica. Alla fine giunsi a Harvard. Più passava il tempo, meglio riuscivo a discutere con i colleghi analitici, che ho spesso invitato anche a Heidelberg a tenere corsi. Per esempio con Roderick ­Chisholm ho tenuto un seminario comune sul tema “autocoscienza”, e nel momento in cui sono stato in grado di formulare argomentazioni che lo costringevano a cambiare le sue posizioni, mi sono detto che avevo fatto il necessario. In maniera sorprendente, la conseguenza principale per me non fu formulare quello che avevo da dire nella forma dell’argomentazione analitica, ma il fatto che la capacità acquisita di muovermi nel medio della filosofia analitica portò con sé anche la libertà di sviluppare le grandi prospettive. Per così dire, ero tornato nuovamente a Max Weber! Mi muovevo ora in ambito non più storico ma sistematico: potevo formulare solide argomentazioni nei singoli problemi chiave e poi, sulla loro base, sviluppare nessi concettuali di più ampia portata.

13Questa conseguenza fondamentale, a cui sono giunto progressivamente, implica che la filosofia non debba essere scienza (mentre la storia lo è), nonostante molti filosofi analitici fossero convinti che il compito fosse proprio quello di far diventare la filosofia scienza. Questo è un programma moderno a partire da Descartes: i grandi filosofi della prima modernità erano grandi matematici. Descartes, per esempio, è stato l’inventore della geometria analitica, Leibniz (con Newton) lo scopritore del calcolo infinitesimale – senza Leibniz non è pensabile alcuna fisica moderna – e anche Kant voleva rendere la filosofia scienza, anche se ne voleva tracciare contemporaneamente i limiti in quanto scienza. Seppur in una maniera del tutto differente, Hegel stesso voleva far diventare scienza la filosofia, e lo hanno voluto anche filosofi come Husserl, Moritz Schlick, Carnap, e ho conosciuto personalmente anche un altro grande filosofo che lo voleva: Willard van Orman Quine. Nel caso di Quine, che era veramente uno spirito molto acuto (è stato anche un matematico), ho potuto osservare che quando si trattava di dover rispondere alle questioni filosofiche fondamentali, in relazione alle quali prendeva anche posizione, non sapeva tuttavia esattamente descrivere quale fosse la posizione che sosteneva. La sua argomentazione, pur così acuta e conseguente nei singoli passaggi, rimaneva sino alla fine oscillante e un po’ sbrigativa quando si trattava della formulazione delle posizioni fondamentali. Per esempio: la sua posizione è uno scientismo – un realismo filosofico – oppure un pragmatismo? Non è mai stato chiaro ciò che in realtà egli fosse. Hilary Putman, con cui ero diventato amico, diceva: «al mattino, quando si sveglia, Quine pensa di essere pragmatista, e alla sera, prima di andare a dormire, di essere scientista!» Ed è morto così. Tutto questo mi ha dato il coraggio di provarci, ma allo stesso tempo non con leggerezza (di nuovo pensando a Max Weber): il training metodico, la disciplina argomentativa costituiscono la licenza per ordinare i propri pensieri e seguirli.

14Voi vedete come sia i motivi storici sia quelli sistematici si intreccino vicendevolmente all’interesse per la filosofia classica tedesca, per l’idealismo tedesco. Tutti questi filosofi desideravano infatti giungere a un’immagine del mondo in cui fosse conservato – e non destituito di senso – ciò che costituisce l’essere umano.

15Un esempio d’intreccio dell’interesse storico e sistematico in relazione al mio lavoro filosofico è la questione di come si possa comprendere l’autocoscienza. Quando dico “tutto ciò che noi sappiamo di noi stessi e ciò che noi nella nostra vita consideriamo irrinunciabile vogliamo saperlo integrato in un tutto”, allora il problema dell’autocoscienza vi è già presente. E noi non siamo semplicemente legati a un tutto: Aristotele dice che l’uomo aspira per natura al sapere, ma, andando oltre, l’uomo aspira per natura a sapere qualcosa che considera compatibile con ciò che sa di se stesso. La chiave è l’autocoscienza, perché nel momento in cui dico “ciò che noi sappiamo di noi stessi”, quale sapere è quello che noi abbiamo di noi stessi? Un nucleo di questo sapere di noi – che naturalmente non consiste soltanto nell’autocoscienza – è il fatto che noi sappiamo di noi. E non solo che sappiamo di noi, ma che sappiamo di noi che sappiamo di noi. Che tipo di sapere è? Questa domanda, che è una domanda sistematica, può essere formulata anche come una domanda storica, se per esempio pensiamo a Kant. Per Kant infatti il pensiero “io penso” è il punto più alto della filosofia, a cui si può attaccare l’intera logica e l’intera filosofia trascendentale (e naturalmente non solo queste, ma anche la filosofia pratica). È il punto a cui si riallaccia l’intera filosofia trascendentale: non è per Kant solo il primo, ma anche l’ultimo. Infatti, nel momento in cui l’io penso è inteso filosoficamente come un unico pensiero integrato con “io agisco e mi comprendo come libero”, ecco che per Kant è anche l’ultimo. Kant afferma che la filosofia pratica è la pietra miliare del sistema della filosofia. Questo motivo percorre il suo intero sistema filosofico come una sorta di filo rosso.

16Ora, ricorderete che ho parlato del caos delle posizioni filosofiche in Germania e della mancanza di discussione. Vi era tuttavia un’opinione comune, un punto fermo su cui tutti erano d’accordo: che l’autocoscienza non fosse affatto un tema filosofico importante, ma un pregiudizio derivante da una filosofia precedente che riteneva di poter argomentare filosoficamente prendendo l’io come punto di partenza. È il cartesianesimo della prima modernità, da cui ci saremmo già congedati, di fatto già con Hegel, che non avrebbe più sviluppato una filosofia dell’io, ma della comunicazione. Non la soggettività, ma l’intersoggettività sarebbe il tema principale della filosofia. Il paradigma del pensiero è stato così spostato: dal soggetto al linguaggio, dal singolo alla società. È questa la formula – e qui cito in nuce Habermas – che congiunge due impulsi: quello positivistico-analitico – non si deve riflettere sul pensiero, ma sul linguaggio – e quello marxista e della teoria sociale, secondo cui l’uomo è essenzialmente un essere sociale e non si può comprendere che cosa sia come singolo, se non lo si comprende in quanto essere sociale. Questa complessa e ingegnosa congiunzione habermasiana di filosofia del linguaggio e teoria sociale conduce alla tesi del “congedo dalla soggettività”, ed era davvero un’opinione comune, che unificava tra loro addirittura Heidegger e i marxisti. Adorno ha fatto il pelo e il contropelo a Heidegger, ma ciò che non ha criticato in Heidegger è il fatto che volesse prendere congedo dal soggetto come principio. Su questo il caos delle diverse posizioni diventava un coro all’unisono. E questo allora, da giovane studente, mi pareva già un motivo valido per essere in disaccordo. Lo avete sicuramente esperito che quando si è giovani si ha l’impulso forte di cercare dove è il punto in cui tutti convergono per tentare di confutarlo. E questo è un esercizio importante, anche quando si ha torto. Infatti, è stata lanciata una provocazione filosofica che forse può portare chi è stato provocato a sviluppare pensieri più profondi. Ma torniamo a Kant.

17La domanda su cosa sia l’autocoscienza si può rivolgere anche a Kant e si può rimanere sorpresi del fatto che Kant, stranamente, dica poco al proposito. Si può giungere alla conclusione che Kant utilizzi l’autocoscienza come principio, ma che non la tematizzi; il compito della filosofia consisterebbe non nell’analisi dell’autocoscienza ma nel suo utilizzo come principio da cui prendere le mosse. E si può anche ritenere che non dia un’adeguata descrizione dell’autocoscienza, e che sia oscillante nel modo di esprimersi sull’autocoscienza. Qualcosa di simile può essere constatato anche in relazione a Fichte, a un livello più marcato. Fichte ha correttamente ripreso questa scoperta kantiana – qualcosa manca, c’è qualcosa di insoddisfacente – facendo della questione della comprensione dell’autocoscienza il tema centrale della sua opera. Si può tuttavia tranquillamente affermare che egli non ne sia venuto a capo. Adesso naturalmente il problema diventa più serio, in ordine di grandezza: se tutta l’opera di una vita è dedicata alla chiarificazione del problema dell’autocoscienza e tuttavia vi permangono delle difficoltà, allora non si tratta, come in Kant, di difficoltà occasionali derivanti da una mancanza di chiarezza nell’esposizione. Nel caso di Fichte, si tratta invece, evidentemente, di gravi difficoltà oggettive, difficoltà del resto molto promettenti sul piano filosofico per chi vi si cimenti. Personalmente sono arrivato alla conclusione che in Kant il tema rimanga aperto e che Fichte lo abbia ripreso e ulteriormente sviluppato in una maniera per molti versi decisiva, senza arrivare tuttavia a una soluzione dirimente. Il risultato della ricognizione da me condotta sui contributi della filosofia dei successivi duecento anni in tema di autocoscienza è che nessuno si è spinto più in là di Fichte. Né Husserl, né William James, anch’egli impegnato in questa ricerca, né i neokantiani. Molta parte della mia attività didattica ha avuto per tema la dimostrazione di questo risultato e a sostegno di questo il mio allievo Manfred Frank13 ha curato anche un’edizione antologica di testi relativi al tema dell’autocoscienza nella filosofia postkantiana14.

18Si trattava di un risultato negativo sintetizzabile nella constatazione che noi non comprendiamo che cosa l’autocoscienza sia. L’intera problematica della filosofia riposa sul fatto che noi risiediamo stabilmente nell’autocoscienza, che dobbiamo dare una direzione consapevole alla nostra vita, che sappiamo dunque di avere nozione di noi stessi e di dover vivere a partire da questa conoscenza. E tuttavia non disponiamo di alcuna spiegazione di cosa essa sia. Da parte mia, mi sono impegnato in una serie di tentativi volti a spiegare l’autocoscienza, la maggior parte dei quali non ho mai pubblicato e che alla fine ho dovuto rigettare nel loro insieme. Anche molti dei miei allievi si sono occupati di questo problema, finendo poi per impelagarsi nella spiegazione del significato dell’autocoscienza. Le pubblicazioni dei miei allievi sul tema sono diventate nel frattempo molto numerose; questa letteratura è stata definita “scuola di Heidelberg” da Tugendhat, il mio collega di Heidelberg che per molto tempo, insieme agli esponenti della filosofia del linguaggio, ha negato al tema della autocoscienza qualsiasi statuto filosofico, per non dire poi della possibilità di farne un principio della filosofia. Ci sono ancora alcuni giovani colleghi che proseguono nello studio di questo tema, anzi proprio adesso con mia grande gioia il più giovane di loro, Tobias Rosefeldt, ha ottenuto un’importante cattedra a Costanza.

19Una delle mie grandi sorprese, quando giunsi a Harvard, è stato constatare come, nella percezione comune dei filosofi analitici, l’autocoscienza da tema obsoleto avesse iniziato a essere considerata un tema centrale. Al tempo del mio arrivo negli Stati Uniti, i miei lavori in Europa si collocavano ai margini del dibattito filosofico, ma, una volta giunto lì, mi trovai immediatamente proiettato al centro del dibattito, peraltro senza un particolare impegno da parte mia. Ciò dipende molto dai miei colleghi analitici, di cui ho molta stima, e soprattutto da Thomas Nagel.

20Le conseguenze a cui sono giunto sull’autocoscienza non sono estranee al lavoro storiografico. A questo proposito è opportuno fare ancora un paio di osservazioni. Come già detto, in Kant l’autocoscienza, nozione che designa il soggetto in quanto tale e ne costituisce la soggettività, è un concetto chiave della filosofia nel suo complesso. La dissertazione che scrissi per la mia abilitazione si intitolava “Autocoscienza e moralità” (Selbstbewußtsein und Sittlichkeit), ed era dedicata al significato della teoria dell’autocoscienza nella costruzione dell’etica. Inizialmente, ero dell’opinione che Kant avesse dedotto proprio dall’autocoscienza la sua etica e la sua teoria della libertà. Ho preso poi già da subito le distanze da quest’ipotesi, mostrando come Kant abbia, in effetti, giocato con questa posizione per poi in seguito abbandonarla. Si può mostrare infatti come Kant abbia mutato radicalmente la propria posizione filosofica dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura, opera in cui egli assume ancora una posizione ambivalente. Dal punto di vista della filosofia teoretica kantiana, il nucleo della Critica della ragion pura, la deduzione trascendentale delle categorie, è collegato nella maniera più stretta alla nozione di autocoscienza – chi si confronta con Kant e intende venirne a capo, deve conoscere a fondo questo nucleo dottrinario che lo stesso Kant considerava l’elemento più importante e anche il più difficile della sua filosofia. Ho pubblicato alcuni saggi interpretativi sull’architettura argomentativa della deduzione trascendentale che hanno sortito un certo effetto, anche nella letteratura analitica su Kant. A un certo punto, tuttavia, ho inteso che non comprendevo che cosa Kant volesse realmente dire quando parlava di “deduzione” delle categorie.

21Ho così avviato una ricerca sul significato di questa nozione in Kant, e ho potuto mostrare come egli intendesse qualcosa di radicalmente differente da ciò che intendiamo noi. Noi, infatti, con “deduzione”, comprendiamo un’inferenza veritativa basata su delle premesse – decisiva qui è la derivazione logica, bastano le premesse e poi occorre solo inferire la conclusione – questo è il modo comune di pensare; questo è ciò che s’intende comunemente per “deduzione”. Ma in seguito mi resi conto che Kant intendeva tutt’altro con “deduzione”, e che il termine aveva un significato completamente differente nella sua epoca. Kant afferma, inoltre, di aver ripreso il termine dai giuristi – e tuttavia quel significato giuridico resta indefinito. Ho indirizzato le mie ricerche inizialmente proprio alla chiarificazione di questo elemento, facendo peraltro delle scoperte archeologiche assolutamente sorprendenti. Nessuno sapeva che col termine “deduzione” Kant intendeva una “spiegazione a partire dall’origine”, cosa assai differente dalla derivazione logica. Sulla base di questa indicazione il testo kantiano acquista immediatamente una diversa leggibilità. Quando capii che bisognava cercare presso i giuristi, iniziai a interrogare innanzitutto loro a proposito del significato del termine. Per tutta risposta ne ho ottenuto che esiste una cosa che si chiama “Max-Planck-Institut für Rechtsgeschichte” e che loro non ne avevano “alcuna idea!”. Allora mi sono messo a rovistare io stesso dentro volumi polverosi cui nessuno da secoli metteva mano, e ho scoperto intere biblioteche sulla deduzione. La biblioteca nazionale bavarese possiede migliaia di questi volumi, tutti catalogati sotto la voce “deduzione” (si tratta di argomentazioni giuridiche). Naturalmente Kant conosceva questa letteratura – era bibliotecario del resto! Questa scoperta ci obbliga a comprendere la deduzione in termini assolutamente mutati rispetto a prima. Mi fu allora chiaro di aver riflettuto, di aver sviluppato delle interpretazioni e perfino elaborato un modello ermeneutico generalmente apprezzato, e tuttavia di non avere la minima idea di che cosa si trattasse! Mi chiesi: non succede forse lo stesso con la nozione di autocoscienza? E cioè: non è forse vero che, nella ricostruzione che ne avevo fatto, ero partito da premesse sbagliate? Sono giunto così, anche qui, alla conclusione che non bisogna lasciarsi fuorviare dalla maniera laconica e dal modo talvolta vagamente ondivago e impreciso in cui Kant si esprime a proposito dell’autocoscienza. Egli non lo fa certo perché è ignaro del reale significato della cosa. Kant, al contrario, sapeva perfettamente di cosa parlava. Difendeva piuttosto una posizione che possiamo articolare in tre elementi.

22In primo luogo, in filosofia non siamo ancora in grado, nel nostro tempo, di affermare con chiarezza qualcosa sull’autocoscienza. Così si esprime Kant in un poscritto a una sua lezione. Non vi è alcuna chiarezza su ciò che l’autocoscienza è, e Kant è in grado di dare una spiegazione sul perché non l’abbiamo. Il secondo elemento: già prima della Critica della ragion pura, Kant aveva capito che la filosofia non può pretendere di partire da concetti semplici. Questo era il grande programma leibniziano del calcolo universale, prima i concetti semplici e poi la loro combinazione. Lambert, filosofo molto stimato da Kant cui egli volle dedicare la Critica della ragion pura, ma che poi morì prematuramente, aveva un programma del tutto simile. Tuttavia, prima di porre anche solo mano alla Critica della ragion pura, Kant aveva già elaborato l’idea secondo cui è sbagliato pensare di partire da concetti semplici. Occorre partire piuttosto da concetti che si presentano a noi come irresolubili. Il procedimento della filosofia deve coincidere con l’identificazione dell’irresolubile. E così mi venne in mente che forse l’autocoscienza, non solo per lo stato attuale della ricerca filosofica, ma forse in generale, non possa essere affatto analizzata. In seguito, ho compreso inoltre dove Kant localizzasse in realtà l’autocoscienza, e questo costituisce il terzo elemento. Seguire tuttavia questo pensiero ci porterebbe adesso troppo all’interno dell’esegesi kantiana.

23Come vedete, quando si riflette in maniera rigorosa sul tema impegnandosi magari in una lunga serie di esperimenti teorici e, allo stesso tempo, ci si propone di ripercorrere le tracce di questo grande filosofo, si resta sempre insoddisfatti di ciò che si fa. Ci si accorge, in definitiva, del fatto che Kant ha ben pensato qualcosa in proposito, ma che noi ne siamo all’oscuro e perciò non riusciamo a comprenderlo. E poi all’improvviso, dopo un lavoro sistematico, arrivate a una nuova idea capace di dare una svolta a quello studio, una svolta che non avrebbe mai potuto aver luogo senza questa preliminare operazione di autochiarificazione. Per quel che riguarda l’idealismo, è piuttosto evidente che già la generazione successiva a quella di Kant non aveva più presenti le posizioni che de facto costituivano le condizioni del pensiero kantiano, quelle posizioni che Kant stesso non rende mai esplicite o che ritiene perfino ovvie (come appunto il senso del termine “deduzione”). Pertanto non ha senso parlare di “successori” in senso stretto, di qualcuno che riprende problemi che un altro ha affrontato e che prolunga i pensieri da questi sviluppati. Ma nonostante tutto si dà una problematica comune. E la problematica comune è appunto la totalità sistematica nella quale siamo situati, almeno nella misura in cui sappiamo di noi stessi e sappiamo di sapere di noi stessi. Con la questione della totalità tutti i problemi filosofici riacquistano naturalmente tutta la loro carica esplosiva – per esempio la questione del naturalismo: è possibile comprendere l’uomo come essere naturale? E quali degli assiomi primari che lo concernono è necessario abbandonare e quali no? Esistono diverse forme di naturalismo. Il naturalismo scientista afferma che la natura è ciò che la fisica descrive, che di conseguenza non esiste intenzionalità, che a questa nozione non corrisponde nulla nella realtà, che si tratta solo di un’espressione linguistica. Per il naturalismo del quotidiano, invece, rappresentato da Peter Strawson, noi siamo già appaesati nella nostra tradizione, ne è prova il fatto che la nostra lingua funziona. La scienza, invece, è qualcosa di molto ipotetico e va considerata secondaria rispetto al nostro sapere quotidiano – un’ulteriore forma di naturalismo, questa. L’alternativa a tutto ciò è la metafisica (e non solo: anche la religione).

24Il problema rappresentato dalla scienza penetra nell’ambito di ciò che deve essere tematizzato, non appena ci si chieda in che misura ed entro quali limiti la scienza riesca a spiegare l’uomo e la sua vita cosciente, se è vero che la questione cruciale è: “che cos’è l’autocoscienza, e come può l’essente uomo, cosciente di sé stesso e avvezzo a condurre la propria vita nella coscienza di sé, comprendersi nell’ambito di una totalità?”. Dall’inizio – da quando gli uomini esistono, cioè da quarantamila anni (dalla comparsa dell’uomo di Cro-Magnon la costituzione dell’essere umano non è mutata) – la religione è il medium attraverso cui l’uomo tenta di mettere in relazione la propria esistenza consapevole con l’esistente. Ma anche la teoria dell’arte fa parte di quella prospettiva. In numerose pubblicazioni ho provato a spiegare non tanto l’arte in generale, ma l’elemento caratterizzante della grande arte proprio a partire da questo bisogno dell’uomo di comprendere la propria esistenza all’interno di un mondo, mondo che io descrivo nei termini di un mondo d’integrazione (Integrationswelt). Ma in questa sede ho particolare motivo di porre l’accento sulla teoria della religione per via degli stimoli ricevuti e di quel che conosco del lavoro di Ugo Perone. La teoria della religione è stata, d’altra parte, uno dei punti focali delle mie ricerche e dei miei studi sull’idealismo tedesco.

25La filosofia classica tedesca, se con essa intendiamo la filosofia post-kantiana, si può descrivere come il tentativo di saldare insieme due concezioni aventi ciascuna una propria lunga tradizione. La prima è quella del monismo filosofico ed è efficacemente rappresentata, nella filosofia moderna, da Spinoza – sebbene nel xviii secolo fosse opinione comune che la sua teoria si basasse su una sequenza di false inferenze e false definizioni. Tanto più sorprendente è che dopo l’impulso dato da Kant alla filosofia europea lo spinozismo sia tornato in voga. La posizione di Spinoza era caratterizzata generalmente come fatalismo – tutto ciò che accade, accade necessariamente, la libertà che l’uomo si attribuisce è un’illusione, e conseguentemente anche le religioni tradizionali sono costrutti fittizi da abbandonare. Dunque, la posizione spinoziano-monistica è, insieme alla scienza, una posizione che non ammette alcun senso per la libertà (al di fuori della libertà che è possibile ottenere attraverso il pensiero). Dall’altro lato, abbiamo invece la tradizione rappresentata da Jean-Jacques Rousseau, secondo la quale l’essenza dell’uomo coincide con la libertà. La libertà e la fiducia nella sua realtà rappresentano l’ultima cosa a cui l’uomo può rinunciare, e la filosofia deve pertanto servire alla giustificazione di questa consapevolezza della libertà promossa nell’interesse dell’uomo. Kant stesso, influenzato da Rousseau, ha tentato di racchiudere il proprio programma filosofico nella formula “Tutto va subordinato alla libertà!”

26Uno dei motivi portanti della filosofia idealistica consiste indubbiamente nella volontà di mettere assieme Rousseau e Spinoza. Nel suo tentativo di fondare la libertà su di una dottrina dell’uni-totalità, la filosofia dell’idealismo viene a trovarsi in un rapporto, in parte polemico, in parte ambiguo, con tutti i monoteismi della tradizione europea. Kant sosteneva ancora la dottrina del monoteismo filosofico – sebbene soltanto nella filosofia pratica – e, con Christian Wolff, ha criticato la dottrina spinoziana dell’uni-totalità per la sua confusione. Tuttavia, già Fichte polemizzava contro il monoteismo e sosteneva l’impersonalità del principio divino inteso come ordine – il senso di Dio è ordine coerente e non personalità; questa è una categoria umana e finita che deve essere tenuta separata dall’infinito. Uno degli avvenimenti europei più significativi è rappresentato dal fatto che una tale convinzione filosofica e religiosa fondamentale ritorni in pieno vigore nel xvii secolo, fino a diventare un movimento intellettuale e religioso. Si tratta di una teoria estremamente significativa già nell’antichità, che si può ritrovare in Eraclito (il cosmo come e{n pavnta, il gioco dei contrari e la loro unità), e che, sulla scorta di provenienze egizie, assunse, nell’ambito della tradizione mistica, un grande significato come dottrina segreta, lasciando in seguito tracce anche nella dottrina cristiana. Questa svolta attira non solo la riflessione filosofica, ma anche quella storico-filosofica. In un tale contesto va collocata anche la questione di Heidegger: come entra Dio nella metafisica? Che rapporto c’è tra l’essere, inteso come questione portante della filosofia per Heidegger, e forse anche per Spinoza, e il pensiero di un ente supremo perfetto da cui un tempo ha preso avvio la prova dell’esistenza di Dio? Il contrasto tra la dottrina dell’uni-totalità e la dottrina del monoteismo è dunque un motivo filosofico-religioso di estrema potenza non solo per l’idealismo ma anche per il presente.

27Una seconda forma di contrasto, che l’idealismo tenta di bandire con il suo “spinozismo della libertà” – il collegamento di Spinoza e Rousseau – è quello tra la metafisica dell’uni-totalità e la metafisica della soggettività. La posizione idealistica, volendo essere una dottrina monistica della libertà, si sforza di sviluppare una teoria dell’uni-totalità in cui soggettività e libertà ne siano i concetti chiave. Essa incontra però delle difficoltà. Feuerbach, per esempio, propone la tesi che la filosofia può condurre solo a un Dio impersonale e che la religione concerne l’essenza dell’uomo e i suoi bisogni, ma non ha nulla che fare con la filosofia. Questo tema – soggettività e monismo – costituisce un punto d’interesse anche per il presente. Esso ci restituisce infatti una potente tradizione religioso-filosofica che, a differenza dell’idealismo, vuole tenere separata la soggettività dall’uni-totalità (in ogni caso la soggettività nella forma della libertà rousseauiana). Si tratta di quella filosofia monistica di derivazione indiana che esercita un’enorme attrazione su tantissime persone al giorno d’oggi. Da una parte abbiamo posizioni induiste, dall’altra la dottrina buddista-zen (una setta guerriera buddista cinese divenuta in Giappone una filosofia esoterica, cui si debbono nel xx secolo significative prestazioni filosofiche), che, a partire dalla sconfessione del soggetto quale essente consapevole di sé nella forma del kantiano “io penso”, e nell’approssimazione a ciò che rappresenta l’essenza dell’uomo, conduce a una soggettività deprivata dell’io. Questa è l’origine del vivace interesse nutrito dai filosofi asiatici per l’idealismo tedesco. Vi vedono infatti una posizione affine al loro convincimento fondamentale – una dottrina dell’uni-totalità – ma vi vedono, allo stesso tempo, anche una sfida, per via degli accenti totalmente diversi con cui essa presenta il tema della soggettività. Mi sono occupato a lungo di questa problematica, ho avuto del resto una lunga serie di allievi giapponesi e sono stato spesso in Giappone e anche in India, dove mi sono impegnato in discussioni finalizzate a fare chiarezza su tale situazione. Naturalmente, è una questione cruciale per la comprensione del processo vitale dell’uomo: come si deve vivere? Decidersi con Fichte per la propria autodeterminazione nella piena coscienza della propria libertà? Oppure esperire e saggiare la soggettività come un tratto presente in tutto ciò che esiste, rinunciando al proprio io per lasciarsi andare in un processo di esperienza assoluta, sede della liberazione dalle irrisolvibili difficoltà della modernità? Moltissimi giovani sono partiti per l’India per questa ragione.

28La domanda circa l’essenza della vita cosciente emerge immediatamente in rapporto a un tale contrasto religioso. Ho tentato di sviluppare una risposta alla questione (che è una questione platonica) di come si possa autenticamente vivere all’interno del sapere che si ha di se stessi – tentativi che vanno sotto il titolo “vita cosciente”, che è anche il titolo di un mio libro15. A proposito della separazione tra una filosofia dell’esistenza, impegnata nella comprensione della vita reale dell’uomo, e una filosofia trascendentale o metafisica, riferita a principi, ho sempre avuto l’impressione che non bisogna permanere nel contrasto. Non può esserci mera contrapposizione, si deve giungere piut­tosto a una filosofia fondamentale capace di far luce sull’esistenza dell’uomo. E mi pare che questo sia anche un compito che deriva dalla situazione filosofica in cui mi sono formato, e credo che una tale convergenza sul tema della soggettività sia del tutto possibile.

Notes de bas de page

8 M. Mulsow, M. Stamm, a cura di, Konstellationsforschung, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 2005.

9 D. Henrich, Vergegenwärtigung des Idealismus, in “Merkur” 50 (1996), pp. 104-114; poi in Id. Die Philosophie im Prozeß der Kultur, cit., pp. 228-248.

10 H.J. Paton, Kant’s Metaphysic of Experience: A Commentary on the First Half of the Kritik der reinen Vernunft, London, Macmillan, 1936, 2 voll.; H.J. Paton, The ­Categorical Imperative: A Study in Kant’s Moral Philosophy, London, Hutchinson’s University Library, 1947.

11 J.O. Urmson, Philosophical Analysis, Oxford, Clarendon, 1956.

12 P. Strawson, Introduction to Logical Theory, London, Methuen & Co, 1952; trad. it. A. Visalberghi, Introduzione alla teoria logica, Torino, Einaudi, 1961.

13 M. Frank, a cura di, Selbstbewußtseins-Theorien von Fichte bis Sartre. Mit einem Nachwort “Fragmente zu einer Geschichte der Selbstbewußtseins-Theorien von Kant bis Sartre”, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1991.

14 In tale contesto, diventava chiaramente necessaria anche una critica a Heidegger. Heidegger era infatti la figura dominante agli inizi del mio percorso filosofico, la sua influenza si percepiva ovunque e io ritenevo necessario prenderne le distanze. Questo per diverse ragioni, tra cui una l’ho già nominata: si tratta del suo tentativo di prendere congedo dalla modernità rivolgendosi al passato – Heidegger è stato rivoluzionario – e di instaurare una nuova forma di vita in cui il pericolo del nichilismo fosse scongiurato; a ciò si aggiunga anche la pretesa di Heidegger di aver compreso l’autocoscienza a partire dall’originaria mondanità dell’esserci.

15 D. Henrich, Bewußtes Leben. Untersuchungen zum Verhältnis von Subjektivität und Metaphysik, cit.

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