Premessa
Un’archeologia del moderno
p. 7-14
Texte intégral
1Dieter Henrich è filosofo al tempo stesso notissimo e poco frequentato. Tra gli specialisti, non c’è chi non conosca il suo volume sulla prova ontologica e i suoi studi sull’idealismo tedesco; ma, anche tra gli specialisti, non sono moltissimi quelli che saprebbero ricostruire dettagliatamente il suo orizzonte teorico. L’occasione di una sintetica autopresentazione del suo pensiero è dunque particolarmente preziosa, tanto più in considerazione del fatto che non esiste un’opera che ne esponga sistematicamente le linee portanti, affidate piuttosto a scritti che sono una raccolta di saggi indipendenti1.
2Anche questa pubblicazione, nello stile schivo e rigoroso dell’autore, ha carattere affatto particolare. Non una serie continua di lezioni, ma, partendo dai testi, un lavoro di scavo, che ne estrae le intenzioni teoriche di fondo. Di qui la struttura del volume, che riprende come di consueto un incontro della Scuola di Alta formazione filosofica2. Il primo capitolo riproduce una vivace ricostruzione autobiografica, in cui Henrich riferisce della sua vocazione filosofica nel clima, anche filosoficamente frantumato, della Germania del Dopoguerra. Il secondo, il terzo e il quarto capitolo s’incentrano su testi (uno solo dei quali già noto al pubblico italiano), proposti alla discussione dallo stesso Henrich e introdotti da note esplicative di due studiose italiane della filosofia di Henrich, Anna Manolino e Francesca Michelini3. Il quinto infine restituisce il testo appositamente preparato da Henrich per la conferenza pubblica che ha avuto luogo in quella stessa occasione. L’insieme offre la possibilità di orientarsi nella produzione henrichiana, guidati dall’autore e illuminati da introduzioni e discussioni, ma anche sorretti da riferimenti testuali, altrimenti di non facile reperimento.
3La questione e gli autori che stanno a cuore a Henrich appartengono alla modernità; il modo con cui egli li affronta è legato al lascito della tradizione (la metafisica); il metodo che applica è quello che si usa per reperti di un passato remoto (l’archeologia). Cerchiamo di dipanare quest’intreccio, che può apparire persino paradossale, e facciamolo guidati dalle osservazioni autobiografiche dello stesso Henrich. Come egli stesso riferisce, la sua prima passione fu l’archeologia e questa passione giovanile, per sua stessa ammissione, ha suggerito l’impostazione delle sue ricerche storiche. Comprendere un testo significa infatti inserirlo nel contesto di un materiale, linguistico e concettuale, di cui il testo si nutre, ma che nel testo non è contenuto. Occorre andare a ricuperarlo in altri documenti, che non fungono da testo, ma che costituiscono lo strato su cui il testo appoggia. Così per esempio egli ha fatto per comprendere finalmente cosa significasse deduzione trascendentale in Kant, una questione che può essere chiarita solo ove si sia scavato nelle centinaia di testi giuridici coevi. L’archeologia del testo è una filologia del contesto che consente di ricuperare l’intenzionalità profonda di un autore e, grazie a quella, di coglierne l’attualità teorica. Così ancora Henrich ha fatto con l’idealismo, di cui rivendica a pieno titolo l’attualità e la proseguibilità teorica. Ciò che è accaduto tra Kant, Fichte, Hölderlin e Hegel costituisce una costellazione in cui è possibile ritrovare le questioni che ci interpellano ancor oggi, questioni che vengono fatte valere appieno solo se non si abbandona l’intenzione metafisica della grande filosofia. Anzi proprio quest’intenzione è all’altezza del progetto della modernità, un progetto il cui senso può essere inteso appieno solo se si comprende che la rivendicazione del finito e del soggetto, che la sostanzia, ha luogo all’interno di una costellazione metafisica, ossia in una strutturale relazione del finito e del soggetto con l’Assoluto (qualunque cosa ciò significhi).
4Sintetizzato così il progetto henrichiano nelle sue intenzioni di fondo, proviamo a illustrarne alcuni snodi fondamentali, a partire dal tema del soggetto.
5Vi è una lunga tradizione, sfociata nella critica di Heidegger e poi di Habermas e proseguita ai giorni nostri nelle varie forme di decostruzionismo, che lega il progetto della modernità al tema del soggetto. Questa tradizione imputa proprio alla soggettività i fallimenti ascrivibili alla modernità (sia che questa debba essere abbandonata, sia che questa debba essere diversamente compiuta). Henrich ha il coraggio di dire che: 1) occorre salvare e proseguire il moderno; 2) che, proprio a tal fine, bisogna riprendere e approfondire la questione del soggetto; 3) che ciò implica rileggerla attraverso la strutturale relazione che essa ha con l’assoluto; 4) che, per questa stessa ragione, l’idealismo tedesco costituisce il luogo più alto, e ancora attuale, del pensiero della modernità.
6Nel denso articolo dedicato all’Io di Fichte trovano formulazione i fondamenti di una teoria della soggettività. Dove cercare tali fondamenti? La teoria riflessiva, che si basa su un modello conoscitivo del rapporto dell’io con sé, è costretta a confessare che non sa dire nulla dell’io. Infatti, se l’io è un sapere di sé, chi è che compie quest’azione? Se si dice che è l’io, bisogna allora riconoscere che ciò che doveva essere spiegato è già presupposto, ed è presupposto come qualcosa che non sa di sé, contro le premesse. Anzi è la stessa azione a non potersi compiere senza che si sia già presupposto l’io come un sapere di sé. Come Henrich scrive icasticamente: la teoria riflessiva o presuppone il fenomeno dell’io senza poterlo spiegare o lo distrugge. Fichte (e Henrich condivide) con una mossa ardita descrive l’io come un’attività che pone se stessa. Nel far ciò egli non solo rispecchia il clima rivoluzionario dell’epoca, ma lo rigorizza. L’io che pone se stesso come libera attività è un io che non ha fondamenti. Anzi è un io che ha un fondamento che gli si sottrae, un fondo oscuro che non è in grado di padroneggiare. L’io però, in questo modo, reca in sé le tracce di un’ambiguità e di una duplicità irriducibili (che a un nuovo livello legittimano, dopo averlo squalificato, l’approccio riflessivo): l’io è un risultato che non ha in sé un fondamento, o meglio il cui fondamento gli è sottratto. In questo senso l’io, che è per sé attività che si pone, ha una passività originaria. E questa passività (semplifico i più sottili passaggi fichtiani e henrichiani) dà ragione del fatto che l’io è un agire che si vede, che vede se stesso; è al tempo stesso un’attività e una contemplazione, un agire e un rispecchiamento, un far luce e un guardare nell’oscurità (nell’oscurità da cui l’io stesso proviene). Il tema del soggetto reca dunque, proprio in questa duplicità che lo struttura, la questione – riflessiva già nella sua formulazione terminologica – dell’autocoscienza, di una coscienza che si dà essendo anzitutto e originariamente coscienza di sé, e che dunque si dovrebbe dire coscienza di una coscienza, e così via sino all’infinito, a un cattivo infinito. Fichte ha bloccato, ma non risolto, questo processo, sottraendo all’io il sapere del proprio fondamento. Ma proprio ciò destina metafisicamente la rivendicazione moderna del soggetto. Il soggetto tutto fonda e tutto deriva da sé, ma esso ha un fondamento che gli è sottratto. Racchiude, per dirla con Marcel, un’ombra che sta al centro.
7Ne esce profondamente ripensata la tesi che fa della modernità il luogo di uno sfrenamento onnipotente del soggetto e anche il corollario heideggeriano per cui la tecnica è una presa di possesso artificiale del mondo. Al contrario, il soggetto vive della tensione che nasce dall’aver perduto il collegamento naturale con una realtà oggettuale, che ne dia giustificazione, e dal trovarsi nondimeno sempre vivificato e sopravanzato da una realtà abissale che lo fonda, da un assoluto (comunque lo si voglia chiamare) senza il quale il soggetto non sarebbe. Il soggetto non è allora sfrenato, ma piuttosto sporto su un abisso, cui lui solo può attingere e di cui lui solo può essere misura. E, correlativamente, la tecnica è un modo per preservare, in questa condizione di esposizione all’abisso, la delicata vita dell’uomo.
8In questa rilettura dell’io, l’autocoscienza (Selbstbewußtsein) è solo un aspetto della soggettività; essa si connette a un altro aspetto, più immediato ed elementare, che altrove4 Henrich ha chiamato automantenimento (Selbsterhaltung) e che qui, in Soggettività come principio, viene svolto piuttosto nella direzione di un’autorelazione conoscitiva (wissende Selbstbeziehung)5. Questa duplicità del principio presenta per Henrich una serie consistente di vantaggi. Anzitutto sbarazza il campo dall’illusoria pretesa che la filosofia possa partire da concetti semplici. Essa, al contrario, muove da problemi “insolubili” e ne tenta una chiarificazione. In secondo luogo supera l’impersonalità6 del soggetto, così com’era stato pensato dall’idealismo, perché radica l’autocoscienza in una relazione individuale, singolare, in un sapere di me, che è specifico. Infine statuisce una coorigenarietà che non è equivalenza. Così come vi è una precedenza dell’automantenimento sull’autocoscienza, pur presentandosi i due elementi insieme, si può dire che c’è una precedenza dell’autorelazione sull’autocoscienza, pur configurandosi i due elementi come cooriginari.
9Se questo modello esplicativo è efficace, ne viene secondo Henrich anche un’indicazione per affrontare, a partire dalla soggettività, temi come quello dell’intersoggettività, della corporeità, del linguaggio. La giusta constatazione che l’accento sulla cooriginarietà degli elementi reca con sé una priorità fattuale del complesso (e quindi dell’uomo nella sua relazione intersoggettiva, nella sua corporeità e nella sua linguisticità) non esclude la preminenza strutturale, di principio, della dimensione della soggettività (e dell’autocoscienza, attraverso cui la soggettività si sa). L’ultimo è in filosofia il principio; infatti ci si costituisce solo infine come soggetti nella condizione fattuale dell’intersoggettività. Ma quest’ultimo cui si è pervenuti è la condizione di possibilità del processo che abbiamo constatato. È così che va svolto e applicato il principio del fondamento. In tedesco il Grund è fondamento (fundamentum) e ragione (ratio) al tempo stesso. Il fondamento, come dice la parola, viene al fondo: l’ultimo è il primo. Ma il modo in cui il fondamento fonda è una ragione che non dà luogo a un rapporto autoesplicativo di dipendenza causale (nel senso che non lo produce). Si può dire, se si vuole, che il fondamento è principio esplicativo, e si può quindi riprendere la tesi della soggettività come principio, ma a patto che si resti ancorati allo spirito di Kant, in cui la fondazione è una deduzione trascendentale, ossia una spiegazione a partire dall’origine, una spiegazione che rende ragione di quella complessità che non potrebbe altrimenti adeguatamente essere intesa.
10Come si vede, Henrich tenta sempre di nuovo di ricondurre l’abisso che egli sta pensando a misura, e lo fa in una prospettiva che riprende precisamente l’idealismo, in quel luogo prezioso in cui la filosofia kantiana della finitezza si misura con le proprie stesse condizioni di possibilità e si sporge, fino al rovesciamento, al limite dei propri limiti. La soggettività è per Henrich questa misura che pensa l’altro da sé dell’intersoggettività e l’oltre sé dell’assoluto. Per lui è il punto di vista stesso del finito a porre la necessità di pensare la relazione con l’assoluto. È questo, in ultima istanza, il senso profondo della prova ontologica dell’esistenza di Dio. Il finito, per pensarsi, non può che pensare anche l’assoluto, non può che pensare il pensiero limite a cui abbiamo dato il nome di Dio. Lo scetticismo su questo punto reca con sé conseguenze catastrofiche per l’esistente finito, il quale, come aveva ben visto Descartes, se dubita dell’assoluto, deve dubitare della propria stessa razionalità. L’incondizionato, l’infinità, l’assoluto, Dio – in una parola tutto ciò che sta dietro la vaga, ma straordinariamente efficace, denominazione di metafisica (un non-titolo, come egli dice) – sono necessari correlati della finitezza. Senza il ricorso filosofico a essi, senza l’idea che vi si manifesta, anche l’edificio della modernità – giustamente intenzionato a dar conto del mondo e della storia iuxta propria principia – è minacciato di fallimento. Per dirla con uno slogan, solo una metafisica potrà salvare la modernità. A patto naturalmente che essa sia una metafisica moderna, ossia all’altezza della modernità. E veniamo così a un ultimo punto, quello che è esemplarmente contenuto nella disputa Henrich-Habermas, una disputa che assurge a opposizione chiasmatica, per l’intreccio di ragioni condivise e opposizioni radicali. Già il titolo delle 12 tesi (una in più che le tesi di Marx su Feuerbach, con un gesto che considererei di modestia) merita attenzione: Che cos’è metafisica - che cos’è moderno? Intanto per il fatto di porsi in forma di domanda, ossia per l’attitudine, intenzionalmente evidenziata, a interrogare, un interrogare che vuole dire al tempo stesso interrogarsi e mettere in discussione. Questioni centrali come queste meritano un accanito interrogare, un corpo a corpo con il problema che il tedesco ben esprime con l’espressione ringen um. E poi, in secondo luogo, per l’oggetto di quest’interrogazione. Essa si domanda infatti il che cosa (was), ovvero ciò che nel linguaggio tradizionale della metafisica si chiamava l’essenza. E infine per l’assenza di articolo determinativo che spicca nel titolo e che significa il rifiuto di indagare la metafisica e il moderno, un rifiuto che prelude al rigetto di una semplicistica opposizione dei due termini.
11Habermas e Henrich, alle cui spalle sta per entrambi Weber, costituiscono paradigmi alternativi di interpretazione della modernità. Per Habermas, il cui pensiero è orientato primariamente in senso socio-politico, il progetto incompiuto della modernità passa, secondo un’eredità heideggeriana, attraverso la critica decostruttiva della metafisica e il rifiuto del principio di soggettività, e si compie mediante la risoluzione di quei paradigmi nel modulo – alternativo – della comunicazione, intesa come condizione trascendentale di una comunità che si struttura entro una linguisticità che ne costituisce il quadro di riferimento ultimo. Il mondo della vita viene in Habermas in primo piano, ma nella presupposizione, in ultima analisi irenica e armonica, di un universo della comunicazione a cui è affidato il compito, ottimisticamente sempre eseguibile, di dirimere i conflitti, quei conflitti che, con un’eredità francofortese, è la modernità stessa ad aver suscitato. L’ottimismo habermasiano è in definitiva un riduzionismo di tipo naturalistico, che si affida al presupposto del paradigma della comunicazione universale. Seguendo Feuerbach piuttosto che Marx, Habermas riduce al piano di immanenza, individuato qui nella linguisticità, i conflitti dell’uomo moderno. E attraverso l’agire comunicativo ne propone (o ne presuppone) un’universale chiave di risoluzione. Quando poi, come mostrano gli ultimi sviluppi del pensiero habermasiano, le risorse immanenti della società non sono sufficienti alla risoluzione dei conflitti, appare inevitabile ricorrere al patrimonio delle religioni, ma sempre sotto il segno dell’immanentizzazione dei loro contenuti.
12Pericolosamente incerto tra Weber e Heidegger, Habermas coniuga con difficoltà, in un equilibrio sempre precario, il lascito di liberazione della razionalità moderna – che è un portato di Weber – con il ricorso a un mondo della vita, in fondo a-conflittuale e premoderno, che è la nostalgia di Heidegger. Verrebbe da dire che le armi, di cui egli si è munito, gli si sgretolano progressivamente tra le mani, costringendolo sulla difensiva. La sua coraggiosa, e condivisa, battaglia per la modernità, si lascia difficilmente combattere, là dove ci si sia privati degli strumenti della metafisica e si sia ridotta l’autocoscienza del soggetto a comunicazione, sostituendo a quella una presupposta intersoggettività comunicativa universale.
13Per Henrich invece, al fine di sostenere quel processo di sviluppo non reversibile che ha nome di modernità, occorre, ancora una volta, ricorrere alla metafisica, che ne è una componente indissociabile. E con essa a tutto quell’armamentario, antico, ma non vetusto, che si deposita nelle nozioni di soggettività, autocoscienza, assoluto, pensiero speculativo. L’idealismo, rivisitato, resta più che mai attuale. Riprendendo dalla tesi 11 del saggio su Habermas7: «Chi riconosce la metafisica come parte della modernità e le tiene aperto un futuro… deve credere che il pensiero sia capace anche di una lingua e, quindi, deve riconoscere alla soggettività la possibilità di interloquire e di comprendere… Se è vero che la soggettività emerge solo dove è rivolta la parola agli uomini come tali, è altrettanto vero che un colloquio degno di questo nome ha luogo solo dove gli inter-attori differiscono dai drammaturghi e dai “locutori” della teoria semantica e della teoria dell’agire comunicativo. Bisogna restare in sé ed essere capaci di “meditazione”, per poter pronunciare una parola da amici… Per poter far volgere una discussione verso la misura e la verità, bisogna già essere in possesso di una determinata comprensione di sé… Hegel e Hölderlin sapevano di aver bisogno della metafisica per questo compito».
Notes de bas de page
1 Ne richiamo alcuni, i quali, talora già nel titolo, confermano questo tratto non sistematico: Fluchtlinien 1982; Konzepte, 1987; Ethik zum nuklearen Frieden, 1990; Fixpunkte, 2003; Die Philosophie im Prozeß der Kultur, 2006; Denken und Selbstsein, 2007, tutti editi presso Suhrkamp, Frankfurt a. M.; Selbstverhältnisse, 1982 e Bewußtes Leben, 1999 apparsi presso Reclam, Stuttgart; Versuch über Kunst und Leben, 2001 presso Hanser, München. Nondimeno non si deve immaginare un’occasionalità degli scritti, i quali sono piuttosto frammenti che mettono capo a una costellazione teorica.
2 Cui hanno partecipato Paola Bernardo, Alberto Bonchino, Emilio Carlo Corriero, Piero Cresto Dina, Camilla Croce, Giovanna D’Aniello, Martino Della Valle, Filippo Di Stefano, Teodoro Dicanio, Federico Ferraguto, Serena Floresta, Giovanni Gerardi, Antonella Giglio, Eduardo Gonzales Di Pierro, Jose Leon Serrano, Gualtiero Lorini, Laura Anna Macor, Manuela Mei, Alejandro Mumbro Mora, Giulio Noverino, Sandra Viviana Palermo, Gianluigi Pasquale, Teresa Pedro, Vittorio Platania, Paola Rumore, Piertoni Russo, Mauro Sangalli, Barbara Santini, Davide Sisto, che qui ringrazio per il prezioso contributo alla discussione.
3 Anna Manolino ha curato l’introduzione del cap. 2, la traduzione del testo e la trascrizione delle relative discussioni dello stesso capitolo, nonché la revisione della traduzione di Alberto Noceti del cap. 5. Francesca Michelini ha curato, oltre alle introduzioni, le traduzioni dei testi del cap. 3 e 4 e le relative discussioni, nonché la trascrizione e traduzione del cap. 1. Preziosa è stata inoltre la loro attiva partecipazione al seminario in qualità di tutor.
4 Cfr. D. Henrich, Die Grundstruktur der modernen Philosophie, in Subjektivität und Selbsterhaltung. Beiträge zur Diagnose der Moderne, a cura di H. Ebeling, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1976, pp. 97-121; poi in D. Henrich, Selbstverhältnisse, cit., pp. 83-108.
5 Occorrerebbe un’analisi accurata, che qui non è possibile fare, per stabilire se questo mutamento terminologico costituisca uno svolgimento, una complessificazione o una correzione.
6 Ed è qui forse che l’autorelazione conoscitiva introduce una sfumatura che non esisteva nell’automantenimento, che può restare una forza impersonale cieca. Ciò avviene però forse al prezzo di una ricaduta in un’eccessiva accentuazione della dimensione conoscitiva.
7 Si tratta, in definitiva, della tesi conclusiva e queste sono le parole con cui essa si chiude. La tesi 12, che smarca Henrich dai numeri delle tesi di Marx, ritorna in forma di parziale ritrattazione su Habermas e comincia infatti: «Habermas non è del tutto insensibile a questa verità».
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Metafisica e modernità
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