Précédent Suivant

Malinconia. L’ultimo Schelling e l’arte

p. 141-153


Texte intégral

1. La questione

1Nella famosa conclusione del Sistema dell’Idealismo trascendentale del 1800, Schelling assegna all’arte una formidabile posizione nel bilancio generale del possibile umano. In accordo a tale posizione, in ogni sua realizzazione l’arte lavora al contempo all’unica opera d’arte complessiva, ovvero, secondo la propria essenza, essa è già «una sola opera d’arte assoluta, la quale può bensì esistere in diversissimi esemplari, ma è tuttavia una» (SW, I/3, p. 627).

2In questa opera d’arte complessiva si manifesta la rinascita della natura nel medium dello spirito, una renaissance, a cui a modo loro la scienza e la filosofia possono semplicemente collaborare, giacché esse, diversamente dall’arte, possono sì realizzare la natura, ma non in modo definitivo, «così che si può dire che l’arte [è] il modello della scienza, e dove [è] l’arte, deve seguire la scienza» (SW, I/3, p. 623).

3Così, secondo la sua essenza, l’arte è «organo e documento della filosofia», poiché essa in ciascuna delle sue opere testimonia chiaramente «quel che la filosofia non può rappresentare esternamente, cioè l’inconscio nell’operare e nel produrre, e la sua originaria identità col cosciente» (SW, I/3, pp. 627 e seg.). A causa di questa unità di conscio e inconscio, finito e infinito, che si realizza nell’opera finita dell’arte, «per il filosofo l’arte è quanto vi ha di più alto, perché essa gli apre quasi il santuario, dove in eterna e originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia è separato e quello che nella vita e nell’azione, come nel pensiero, deve fuggire sé eternamente» (SW, I/3, p. 628).

4Questa apoteosi dell’arte in conclusione del Sistema dell’Idealismo trascendentale è in evidente contrasto con quelle osservazioni successive alla conferenza accademica Sul rapporto dell’arte figurativa rispetto alla natura del 1807 – ultima esposizione di Schelling relativa alla filosofia dell’arte1 – così come del resto nei suoi scritti più tardi.

5In particolare, in quasi tutti gli scritti successivi al 1809, ricorre, quasi in forma stereotipata, una locuzione, come si vede in modo particolarmente chiaro in questo passo della Grundlegung der positiven Philosophie (lezioni di Monaco del semestre invernale 1832-1833 e del semestre estivo del 1833): «Si parla molto dell’effetto della natura per l’uomo, ma l’effetto per eccellenza, che la natura ha per gli uomini, è quella malinconia, che versata su di loro, sta per così dire come un silenzioso rimprovero all’uomo, quella malinconia il cui dolce dono l’artista e poeta deve sapere suggere da essa, se vuole suscitare interesse».

6Nel Sistema del 1800, così come nella Filosofia dell’arte del 18021803 e ancora nella conferenza del 1807 a prima vista non si parla propriamente di questo «dolce dono della malinconia».

7Questo contrasto tra l’atmosfera delle prime opere di Schelling e dei suoi scritti mediani rispetto alle sue osservazioni sull’arte e sulla natura e la malinconia dell’ultimo Schelling è così strano che sin dall’inizio gli studi dedicati al filosofo hanno messo in evidenza tale contrasto e lo hanno illustrato nei modi più diversi2. Pur prescindendo dall’assurda accusa di irrazionalismo del tipo proposto per esempio da Lukács nella sua Distruzione della ragione, per provare a comprendere, attraverso una spiegazione di ordine psicologico, perché a partire dal 1809 riecheggi nelle sue opere la melodia malinconica, può essere utile ricordare che il 7 settembre del 1809 Schelling perse sua moglie Caroline. Quanto Schelling abbia patito per questa morte è tanto comprensibile quanto noto.

8Tuttavia, già nel 1954 Horst Fuhrmans ha mostrato con piena ragione che l’opera nella quale per la prima volta risuona il motivo della malinconia, ossia le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana del 1809, era già uscita in aprile e dunque molto prima della dolorosa perdita e per di più era stata scritta nel 18083. In quell’opera, di fatto, si parla di una «tristezza connessa a ogni vita finita» e si afferma che Dio stesso è «sorgente della tristezza»: di qui «il velo di mestizia che si distende sulla natura tutta quanta, la profonda incancellabile malinconia di ogni vita» (SW, I/7, p. 399).

9Presumibilmente nel tentativo di spiegare il risuonare della melodia malinconica nel pensiero di Schelling appaiono fallimentari tanto strategie ideologico-critiche quanto psicologico-biografiche. Vorrei perciò proporre un’altra spiegazione, che si può riassumere nelle seguenti tesi, forse un po’ azzardate:

  1. ll motivo della malinconia nel pensiero di Schelling a partire dal 1809 si comprende nella sua genesi solo in relazione alla sua Naturphilosophie.

  2. La parte di dottrina della sua Naturphilosophie, che è da leggersi come luogo originario del motivo della malinconia, concerne la teoria fisica della gravitazione, così come egli per l’appunto la intese nella sua filosofia della natura.

  3. Il motivo della malinconia è perciò soltanto la chiara accentuazione di qualcosa che è presente autonomamente nel pensiero di Schelling sin dagli inizi.

  4. Di conseguenza non v’è alcuna cesura tra la prima filosofia dell’arte di Schelling e le tarde e occasionali osservazioni sull’arte e la malinconia (così come, del resto, non v’è cesura nell’opera complessiva di Schelling), bensì piuttosto una stupefacente continuità, che semplicemente mantiene e presenta contrasti attraverso diversi gradi di chiarezza.

2. La genesi del motivo della malinconia dalla teoria della gravitazione di Schelling

10L’unità interna al pensiero di Schelling si deve certamente anche alla condizione di indeterminatezza del suo problema filosofico, che inizialmente si poneva in continuità con la filosofia trascendentale di Kant e Fichte per andare poi a finire con la sua svolta naturalfilosofica in una grande psicologia del cosmo, ove si raccoglievano in un unico progetto i risultati di scienze tradizionalmente separate fra loro, come la fisica e la metafisica, la gnoseologia e l’ontologia, la cosmologia e la mitologia: vale a dire nell’idea di un unico grande Weltsystem (SW, I/3, p. 257), che avrebbe successivamente trovato parziale realizzazione nel tentativo dei Weltalter. È perciò del tutto corretto affermare, come fa Hans Michael Baumgartner, l’intima continuità del pensiero di Schelling attraverso l’indeterminatezza presente nella sua opera: «Tra la filosofia trascendentale e la Naturphilosophie […] non v’è alcuna interruzione, poiché la filosofia di Schelling dal principio non fu mai in senso stretto una filosofia trascendentale»4.

11Schelling intendeva infatti la formula trascendental-filosofica delle condizioni di possibilità dell’esperienza come condizioni di possibilità degli oggetti dell’esperienza anche sempre al contrario: le condizioni di possibilità degli oggetti dell’esperienza sono allo stesso tempo condizioni di possibilità dell’esperienza.

12È curioso osservare, per quello che qui posso solo accennare, come nel xx secolo Carl Friedrich von Weizsäcker a suo modo abbia rinnovato tale prospettiva. Egli concepiva il suo programma di lavoro a partire dall’idea secondo la quale «i postulati fondamentali delle ultime teorie della fisica non affermano niente di più che le semplici condizioni di possibilità dell’esperienza in generale»5.

13La filosofia della natura di Schelling va proprio in questa direzione, poiché ammettendo che c’è un solo universo, in qualsivoglia contesto, le forze produttive dell’universo devono avere la medesima struttura dinamica: la produttività della natura e la produttività dello spirito hanno la stessa struttura profonda. Dal momento che è così, chi studia la natura studia in ogni caso comunque anche lo spirito. Una volta accettata questa opzione monistica, la genesi del motivo della malinconia dalla teoria naturfilosofica della gravitazione, ossia il passaggio dalla gravità nella natura alla malinconia dello spirito e viceversa, diviene quantomeno non più impossibile in linea di principio.

14Ma più precisamente, come e per quale ragione Schelling introduce la gravitazione nella sua Naturphilosophie?6.

15I processi della natura si possono comprendere in forma stilizzata come modelli di formazione (Musterbildungen) reciprocamente generantisi, evolventisi e involventisi: i prodotti della natura sorgono realizzando un modello tipico, che per così dire divampa sempre più chiaramente nel divenire, per spegnersi infine nuovamente con la morte. Tali modelli di formazione sono sempre il risultato di energie contrastanti. Qualcosa può divenire solo e soltanto se si realizza in una qualche forma. Queste forme (o modelli) si devono a un’energia strutturante, che non fa nascere nulla che non si conformi a un modello. All’energia si contrappone il fatto che qualcosa vuole divenire sempre soltanto se stessa, ossia un individuo che non vuole dividere se stesso con null’altro. Perciò questa energia cieca e priva di distinzione, che mira al semplice autopotenziamento non vuole conformarsi ad alcun modello, poiché ogni modello costringe il puro sé a sacrificare una parte di se stesso per divenire così capace di conformarsi al generale: energie autoontiche ed eteroontiche confliggono dunque fra loro.

16Entrambe queste energie, quella strutturante e quella autopotenziante, cancellano la grande contraddizione che caratterizza ogni rapporto dinamico. Questo antagonismo si presenta in un modello realizzato, in una forma compiuta, per così dire cristallizzata, tuttavia soltanto in modo temporaneo. Quelle energie, che possono originare una forma di vita, sono le stesse che la spazzano via nuovamente. Abbiamo dunque innanzitutto tre aspetti da distinguere: le due energie contrapposte e le condizioni di relazione e accordo fra di esse, che sono come detto realizzabili solo temporaneamente. La questione è ora chiarire come queste condizioni di relazione e accordo, seppur soltanto temporaneamente, possano di fatto venir soddisfatte. Si potrebbe anche pensare che le energie contrapposte dell’autopotenziamento e della strutturazione semplicemente si elidano sempre reciprocamente: i modelli non accettano alcuna individuazione (nessun Selbst) e nessun Sé accetta un modello. Le condizioni di relazione e accordo fanno in ogni caso pensare che le energie contrapposte vengano frenate nella loro reciproca furia distruttiva da un qualche comune riferimento a un’unità insita nel profondo. Ciò riesce se, tramite il comune riferimento all’unità transfinita, la forza distruttiva si indebolisce un po’, così che si possa mostrare una relazione, un accordo, anche se fragile e di fatto meramente temporaneo. Le energie da contraddittorie che erano, con tale riferimento a quella unità transfinita, divengono semplicemente contrarie.

17Questa forza frenante, che esercita tra le energie antagoniste la comune relazione all’unità (che qui è il quarto), così che in un certo senso i passi dei contendenti divengono più veloci e più lenti, è descritta da Schelling come la gravità presente in natura. In essa le energie contrapposte passano in un vincolo temporaneamente stabilito, che noi conosciamo come il modello transitorio della natura. In questo vincolo consiste il Band, il legame, che come gravità, ossia come relazione a un’unità transfinita (vale a dire inconcepibile in modo finito), e in quanto legante di ogni fenomeno della natura, è propriamente la sua condizione di unificazione. Nello scritto della sua prima filosofia della natura Sull’anima del mondo del 1798, si legge nel saggio introduttivo Sul rapporto del reale e dell’ideale nella natura, o sullo sviluppo dei principi primi della Naturphilosophie dai principi della gravità e della luce7: «Questo legame, che lega tutte le cose e costituisce l’unità nella totalità, centro ovunque presente e mai circoscritto è nella natura la gravità» (SW, I/2, p. 364).

18Questo gravitare della natura verso un centro d’unità transfinito chiarisce come possano compiersi le condizioni di accordo e relazione delle forze antagoniste e come queste siano in generale capaci di modelli di formazione temporanei. Nella loro reciproca lotta, le energie eternamente contrapposte vengono ritardate (ossia limitate nello spazio e nel tempo), dal loro gravitare verso quella unità transfinita. Il tempo delle cose è il loro essere per l’unità. Perciò anche il presupposto è creato appositamente perché la velocità di evoluzione viene ridotta a un livello strutturale, così che infine, come dice Schelling, «la natura in generale si evolve con velocità finita» (SW, I/3, p. 102). Con ciò l’intimo propulsore dell’Universo, per così dire la dinamo dell’evoluzione universale, è stabilito come Gravitationssystem (SW, I/3, p. 120), in cui è legata assieme ogni formazione strutturale, dai processi inorganici fino a quelli organici e mentali. Tanto più lontani tali processi sono dal centro di unità, tanto meno efficace risulta la gravitazione e tanto più liberi divengono quindi i modelli di formazione, tanto più leggere dunque sono le strutture. «L’oscuro legame della gravità è dissolto nelle ramificazioni del regno delle piante e si chiude alla luce. La gemma della luce si schiude nel regno animale». Ma infine è solo nell’uomo che «il legame rompe completamente il concreto e ritorna in sé nella sua eterna libertà» (SW, I/2, p. 375).

19La gravità nelle relazioni della natura certo la rende soltanto in grado di evolvere, tuttavia ogni modello, che l’evoluzione produce, è un semplice documento di quell’unità transfinita verso cui tutto gravita ma per l’appunto semplicemente un documento finito e transitorio: «La natura sensibile, coinvolta nelle relazioni, ha realizzato ciò che desiderava, ovvero un’immagine vacillante creata da ciò che vive eternamente, ed è la natura stessa a riassumerla così come essa l’aveva suscitata» (SW, I/7, p. 168).

20Il plastico splendore dei prodotti della natura non può nascondere il fatto che esso è allo stesso tempo sospiro della creatura afflitta, la quale, semplicemente per il fatto di esistere, può essere documento dell’unità al doloroso prezzo della finitezza. «Con la nascita, la vita e la morte ogni essere porta via verso l’ordine divino ciò che è […] colpevole per la mera finitezza» (SW, I/7, p. 166). Ogni formazione della natura deve così essere un sospirare, semplicemente un’immagine finita e transitoria di quell’unità, che essa ha fuori di sé. «Nella gravità, l’essenza è il principio del non-esser-per-sé delle cose; il dio sotterraneo, Giove Stigio» (SW, I/7, p. 236).

21La gravità della natura è il suo dolore; essa fa sì che le strutture luminose dell’esistente brillino sempre soltanto su di uno sfondo di oscurità: «La gravità precede la luce come suo eternamente oscuro fondamento» (SW, I/7, p. 358). Questa gravità si mostra nell’uomo, che è esso stesso parte della natura, come malinconia: alla gravitazione della natura corrisponde una malinconica gravitazione dello spirito. Questa corrispondenza è sempre presente in Schelling a partire dalla Freiheitsschrift e viene esplicitamente chiarita nelle Lezioni private di Stoccarda del 1810: «Ciò che vi è di più oscuro e quindi di più profondo nella natura umana è la nostalgia (Sehnsucht), che è, per così dire, la forza di gravità interiore dell’animo, e che perciò nella sua manifestazione più profonda è malinconia (Schwermut). È in particolare per mezzo di essa che viene mediata la simpatia dell’uomo con la natura. Anche ciò che vi è di più profondo nella natura è malinconia; […] ogni vita è accompagnata da un’indistruttibile malinconia, perché ha sotto di sé qualcosa di indipendente da sé (ciò che sta sopra innalza, ciò che sta sotto attira verso il basso)» (SW, I/7, pp. 465-466).

22Nell’edizione delle Lezioni di Stoccarda cura da Miklos Vetö in corrispondenza di questo passo si legge: «nostalgia, o l’interiore gravità dello spirito: perciò la malinconia è punizione…».

23Con ciò è dimostrata la genesi del motivo della malinconia dalla teoria della gravitazione esposta da Schelling nella sua Naturphilosophie, ma dobbiamo ancora chiarire che posto occupi l’arte in questo contesto.

3. Arte e malinconia

24Innanzitutto occorre mettere in risalto il fatto che la relazione che intercorre fra il motivo della malinconia e le riflessioni filosofiche di Schelling sull’arte è caratterizzata dalla stessa continuità che tale motivo presenta con le tesi della sua filosofia della natura. Ossia, laddove nei primi scritti di Naturphilosophie si parla di gravità il discorso verte sull’arte e, laddove nella filosofia di Schelling si parla di arte là vediamo già comparire la gravità. Questo è anche evidente per il fatto che la gravitazione è una condizione necessaria perché le forze antagoniste della natura possano essere plasticamente produttive e capaci di dare forma alle cose, così come accade con l’artista nell’ambito spirituale. Questa relazione è perciò già chiaramente comprensibile nello scritto Von der Weltseele del 1798. Nel luogo corrispondente Schelling riassume ancora una volta: «Quindi in generale la gravità è quella che rende finite le cose, in quanto pone nel concreto l’unità, o intima identità di tutte le cose» (SW, I/2, p. 366). L’energia priva di forma e oscura del puro autopotenziamento viene sopraffatta e ammansita dal legame della gravità al costo della finitezza e perciò resa capace dell’unità così che il riflesso (Gegenschein) di questa energia, l’energia del generale, dando forma, può simulare l’unità transfinita nei modelli finiti: «Proprio per questo dominio o sopraffazione da parte del legame il concreto diviene capace di riflettere e adombrare l’essenziale» – e qui Schelling procede in un confronto con la produzione artistica –, «nello stesso modo che la materia informe può dar corpo all’idea dell’artista nella misura che per così dire svanisce sotto il dominio di colui che la plasma» (SW, I/2, pp. 366-367).

25Nel processo figurativo l’idea dell’artista fa sparire la materia (Stoff) priva di forma sotto le sue mani nella sua formazione così come nel processo della natura la materia (Materie) per così dire svanisce nel modello genetico: «Ogni realizzazione della natura si fonda proprio su di una tale negazione» (SW, I/2, p. 367). Nelle sue produzioni l’arte è la renaissance del dolore della natura nello spirito8.

26Per lo Schelling della Filosofia dell’arte del 1802-1803 paradigma per la forma dolorosa dell’arte è la scultura greca della Niobe. Egli la definisce difatti come «l’archetipo della scultura», poiché essa rivela il segreto dell’arte, ossia quello di essere la rappresentazione morente dell’unità transfinita. Una tale rappresentazione dell’infinito nella figura finita riesce là dove nella statua della Niobe è raffigurato l’attimo del passaggio dalla vita alla morte. In questa realizzazione, l’opera non è semplicemente simbolica, bensì è riflessivamente simbolica. Nella statua della Niobe si riflette propriamente l’essenza dell’arte: «L’arte è dunque qui doppiamente simbolica; vale a dire essa diviene nuovamente interprete di se stessa, così che qui è espressa nella Niobe ciò che ogni arte vuole»9.

27In seguito le famose riflessioni di filosofia della natura sulla gravitazione non sparirono di certo, nemmeno nella conferenza accademica del 1807. Difatti quelle riflessioni essenziali erano quasi letteralmente intessute nel testo. Anche se si deve dire che Schelling evita in questo discorso di soffermarsi sulla malinconia, di fatto essa è assolutamente presente come un qualcosa di transitorio. Il modello fondamentale della gravità della natura viene così descritto: «La natura, che nella sua completezza appare come la suprema mitezza, la vediamo agire in ogni singolo (Einzeln) in vista della determinatezza, anzi prima di tutto in vista della stabilità, della fine della vita»10.

28Proprio perciò così spiega Schelling, in pieno accordo con la successiva classica formulazione, «l’artista deve innanzitutto negare se stesso e profondarsi nel singolo, non avendo timore dell’isolamento, né del dolore, ma della pena della forma»11. Nello stesso contesto, Schelling ricorre anche alla Entbindung della libertà concepita in termini naturfilosofici nel passaggio attraverso le forme inorganiche, organiche e infine spirituali, citando il legame della gravità descritto nella Naturphilosophie, il quale starebbe anche alla base della tragicità del mondo: «laddove anche l’anima viene piegata al dolore, attraverso il legame, che la lega all’esistenza sensibile […]. È questo il caso di ogni condizione veramente tragica in senso sublime, quale ci è rappresentata nei drammi dell’antichità»12.

29L’anima vorrebbe solo allontanare da sé questo dolore, «rinunciando al suo legame con l’esistenza sensibile», vale a dire mediante la morte. «Questa», dice Schelling citando la sua filosofia dell’arte, «è l’espressione dell’anima che ha raffigurato lo scultore della Niobe»13.

30Quest’idea di una nascita dell’arte dallo spirito della tragedia è presente in tutta l’opera di Schelling sin dai primi lavori. «Questo pensiero», così si legge nella formulazione classica offerta nella filosofia della rivelazione, «chiarisce quella malinconia, che come un dolce dono percorre le opere eccellenti dei Greci, in particolare quelle dell’arte figurativa»14.

31Da allora nella Naturphilosophie del primo Schelling si gettano le basi per un’ontologia, che intende ogni esistente come una struttura dinamica che avvampa e si spegne, e che caratterizza inconfondibilmente il pensiero di Schelling come ben sintetizza l’espressione dei Weltalter: «ogni dolore viene solo dall’essere». Tutto ciò che è, è solo un fragile documento dell’unità, così come essa può apparire nel tempo: «l’essenza di ogni creatura è vacillare, oscillare tra una a e un b, tra l’essere e il non-essere»15.

32Esistenza come effetto dell’oscillazione: io non credo che ci fosse mai stata una tesi ontologica più ardita. Tuttavia essa va chiarita soltanto a partire dall’intenzione di Schelling di contrapporre alla stabilità dell’ontologia tradizionale, che era l’ontologia di ciò che è immobile, un’ontologia del divenire, senza la quale non è possibile raggiungere un’adeguata comprensione filosofica della natura. In questo sforzo Schelling fu più moderno dei pensatori atomistici e meccanicistici del xix e del xx secolo. Per lui non c’è nulla che si sottragga alle erosioni di una profonda dinamica del divenire, nessuna cosa, nessun dio. L’unica vera materia originaria (Urstoff) sono «le semplici azioni» (SW I/3, p. 34); esse sono «l’ultimo in natura […], ciò che è produttivo, senza essere prodotto» (SW I/3, p. 142). Ciò che qui Schelling aveva già pensato in modo concettualmente chiaro, diviene famoso solo nel xx secolo grazie a Whitehead con l’espressione “entità attuale”16.

33Tuttavia, poiché Schelling è un pensatore del divenire di gran lunga più coerente, egli si confronta costantemente con il fenomeno della transitorietà, così nella sua ontologia risuona il lamento della natura, il De planctu naturae di Alano di Lilla, una ontologia che proprio per questo divenne un’ontologia della malinconia.

34Si deve pur sempre sottolineare ancora una volta che questo pensatore, malgrado i toni oscuri certamente presenti nella sua filosofia, non fu in alcun modo un antesignano di una qualche forma di irrazionalismo. Chi si preoccupa di (ri)formulare le condizioni della ragione, non è per questo contro la ragione. Che Schelling stesso si pensasse come un profondo illuminista, lo si può vedere facilmente nei suoi tentativi e per esempio nel passo che segue, dove egli fa esplicito ricorso a un autore dell’illuminismo francese: «Circa cinquant’anni fa in Francia si è riso dell’espressione di un filosofo, il d’Alambert, che parlò del malheur de l’existence, espressione a cui forse era connesso realmente un profondo sentimento. Accennerò appena ad analoghe rappresentazioni indiane circa l’infelicità di ogni essere […]. Da un altro punto di vista questo destino della finitezza […] può apparire di nuovo come l’oggetto di un lutto più profondo ma anche più nobile, di quella malinconia che l’arte ha nobilitata nelle alte testimonianze della sua creazione» (SW, I/10, p. 265)17.

35Il malheur d’être di d’Alambert, o, come lo definiscono Fontenelle, Condorcet e Coteau, la difficulté d’être fu un tema che in filosofia fu approfondito più ancora che da Schopenhauer, proprio da Schelling, con il risultato che lo stesso fondamento del dolore è infine anche fondamento della beatitudine, il fondamento del bene è lo stesso fondamento del male18, e il fondamento del brutto è anche fondamento del bello. Dopo Schelling nessun filosofo si è più posto questo pensiero seriamente. Se non in tutti i campi, almeno a questo riguardo abbiamo ancora sempre Schelling davanti a noi.

4. Gravitazione e linguaggio

36Altrove ho mostrato come il grande progetto sistematico di Schelling, che egli tentò di realizzare con i tentativi dei Weltalter, sia nella sua essenza una filosofia del linguaggio19. Dobbiamo ancora mostrare che anche la sua filosofia dell’arte, come immediata conseguenza della sua teoria naturfilosofica della gravità, sfocia infine in una filosofia del linguaggio.

37Poiché per Schelling il mondo mentale è tanto naturale, quanto quello naturale mentale, non può destare meraviglia che anche il linguaggio derivi dall’universo quanto l’universo dal linguaggio. Perciò le moderne teorie sull’origine del linguaggio sbagliano sin dal loro approccio. Il linguaggio non si deve concepire, secondo Schelling, a partire «da una natura umana psicologicamente isolata, poiché essa si comprende solo dall’universo intero»20. Le forze dell’universo che autonomamente si evolvono sono da intendersi a limine come energie volte all’espressione e al farsi esprimibile. Nei modelli divenienti e transeunti dell’universo si gira attorno alla parola, che per così dire prende forma sulle labbra: «il mondo reale […] è la parola pronunciata-formata»21.

38Proprio perché il linguaggio è «immediata espressione di un ideale […] in un reale»22, «in questo alto significato del linguaggio»23 ogni modello naturale è tanto un’espressione linguistica quanto un prodotto artistico. Così il linguaggio da parte sua è tanto «un’opera d’arte naturale, quanto lo è, più o meno, tutto ciò che la natura produce»24. In questa dissolvenza di filosofia della natura e filosofia del linguaggio si rispecchia anche la filosofia dell’arte di Schelling. Anche le opere d’arte sono parole, come tutti i prodotti della natura, parole che infine muoiono. «Così l’arte figurativa è solo la parola morta, tuttavia proprio anche la parola, il linguaggio, quanto più perfettamente muore – fin su al grido pietrificato sulle labbra di Niobe – tanto più risulta alta l’arte figurativa nella sua espressione»25.

39Se i rapporti stanno così, deve essere allora anche possibile provare l’esistenza delle forze della natura tanto nel linguaggio quanto nell’opera d’arte. Di fatto, Schelling vi è riuscito con qualche conseguenza. Poiché la gravità è la legge che regola ogni rapporto con l’Uno transfinito ed è dunque ciò che tiene assieme il tutto (e pertanto in quanto tale è il legame che rende l’universo temporaneamente strutturato), in una tale prospettiva, la gravità è lo stesso linguaggio dell’universo, che tramite tale linguaggio si separa, si articola, si mostra.

40«Questo legame», si legge nelle Lezioni di Stoccarda, «si chiama molto espressivamente la parola (il Verbo) perché a) è in essa e con essa che ha inizio ogni possibilità di distinzione; b) perché è in essa che si trovano per la prima volta organicamente congiunti l’esser-sé col non-esser-sé» (SW, I/7, pp. 442 e seg.). In un’espressione che ricorre sempre Schelling illustra la gravità del linguaggio mostrando come le energie naturali dell’autopotenziamento e della formazione si rispecchiano nel linguaggio mediante la connessione delle vocali e delle consonanti. «Questo è il grande segreto dell’articolazione, ossia della voce umana. L’oscuro e incomprensibile in ogni essere si basa per noi sul fatto che questo mero essere è per sé mera consonante, che viene espressa solo assieme a una vocale; da qui origina l’esigenza di quell’essere che può essere percepito, la parola»26. «La parola espressa (reale) tuttavia è solo nell’unità della luce e dell’oscurità (vocale e consonante)» (SW, I/7, p. 363).

41Nel Primo abbozzo di un sistema della filosofia della natura del 1799 Schelling definiva la gravità come ciò «che lega l’individuo a un determinato sistema di cose e gli assegna un suo posto nell’universo» (SW, I/3, p. 269). Esattamente questo è ciò che accade con il linguaggio, la cui funzione identificante e classificante assegna a ogni individuo il suo posto nello universe of discourse. La gravità o la gravitazione e il linguaggio sono perciò solo diverse espressioni dello stesso legame che Schelling chiama anche “la copula infinita”, tramite cui a costo della finitezza tutto diviene trasparente per l’Uno. Nel linguaggio sta ciò che si spegne, per il quale il dolore dell’essere diviene percepibile. È spaventoso che noi possiamo confidare soltanto in proposizioni finite. Questo accade per ogni proposizione, tanto per i prodotti della natura quanto per i prodotti dell’arte, nei quali anche la stessa filosofia è inghiottita: «infatti, come nel poema di Dante, anche nella filosofia la via verso il cielo si apre soltanto verso l’abisso» (SW, I/6, p. 43).

Notes de bas de page

1 F.W.J. Schelling, Über das Verhältnis der bildenden Künste zu der Natur, a cura di L. Sziborsky, Hamburg, Meiner, 1983, introduzione, p. xxxviii: «con la conferenza di Monaco termina la filosofia dell’arte di Schelling».

2 Sul tema si veda E. Staiger, Schellings Schwermut in Die Kunst der Interpretation, Zürich, Atlantis, 1967, pp. 180-204. Il testo purtroppo non offre molto sul piano filosofico.

3 H. Fuhrmans, Schellings Philosophie der Weltalter, Düsseldorf, Schwann, 1954, p. 79, n. 3, Fuhrmans continua: «per il percorso di Schelling la morte di Caroline fu senza dubbio molto importante… la morte della moglie ha però reso in qualche modo definitivo l’interesse di Schelling per la teosofia, vale a dire che lo ha rafforzato, ma non l’ha certo determinato».

4 H.M. Baumgartner, Das Unbedingte im Wissen: Ich-Identität-Freiheit, in Schelling, a cura di H.M. Baumgartner, Freiburg-München, Alber, 1975, p. 55.

5 C.F. von Weizsäcker, Die Einheit der Natur, München, Hauser, 1971, p. 218.

6 Schelling si discosta dal significato meramente fisico del termine Schwere, infatti mentre questo è meramente meccanico, il concetto nuturfilosofico è da intendersi come dinamico. Cfr. SW, I/7, p. 168.

7 Il saggio è in realtà del 1806 [N. d. C.].

8 Per l’uso del termine renaissance in questo contesto, si veda quanto scrive Schelling nella Vorrede zu den Jahrbücher der Medicin als Wissenschaft (1806): «Il sacro legame, che unisce le cose della natura senza eliminarle, è possibile anche fra le cose spirituali, ed è possibile nella misura in cui l’intuizione della natura e dell’universo rinasce in esse» (SW, I/7, p. 133).

9 F.W.J. Schelling, Philosophie der Kunst, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1980, p. 269.

10 Id., Über das Verhältnis der bildenden Künste zu der Natur cit., p. 17.

11 Ibidem.

12 Id., Über das Verhältnis der bildenden Künste zu der Natur cit., p. 26.

13 Ivi, p. 27.

14 Id., Philosophie der Offenbarung, 1841-1842, a cura di M. Frank, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1993, p. 246: «Il tratto tragico, la malinconia, che attraversa l’arte figurativa; la massima gioia di vivere assieme a un tratto di intimo dolore dà forma gradualmente alla bellezza della forma greca». Cfr. inoltre F.W.J. Schelling, Initia Philosophiae Universae. Erlanger Vorlesungen WS 1820-1821, a cura di H. Fuhrmans, Bonn, Bouvier Verlag, 1969, p. 22: «I capolavori dei Greci lo provano e portano tutti l’impronta del dolore per la libertà andata perduta, e una malinconia si spande per l’intera natura».

15 F.W.J. Schelling, System der Weltalter, a cura di S. Peetz, Frankfurt a. M., Klostermann, 1990, p. 169.

16 A.N. Whitehead, Process and Reality. An Essay in Cosmology, Gifford Lectures, 1927-1928.

17 Il testo continua così: «Infatti questa è la ragione e il vero senso di quella sublime tristezza che innalza sopra il destino dei mortali le più nobili rappresentazioni dell’arte figurativa antica […], in quanto esse vengono presentate sia come riguardanti l’essere che come prospettate verso il non-essere. L’arte antica non è così assolutamente serena e lieta come l’hanno dipinta nei nostri tempi alcuni romantici male informati. Solo che il dolore che vi si trova è più profondo di quelle lacrime che un triviale sentimentalismo ha il potere di strappare. Perciò anche nell’arte figurativa in particolare si può dire ciò che Aristotele dice della tragedia: che essa ci libera dal comune terrore e anche dal comune dolore. Lo stesso si può dire anche della filosofia: perché chi potrà ancora rattristarsi per le comuni e abituali disgrazie di una vita transeunte quando abbia compreso il dolore dell’esistenza universale e il grande fato che incombe sul tutto?» (SW, I/10, pp. 265 e seg.). Cfr. anche il System der Weltalter cit., p. 111; qui Schelling usa l’espressione malheur d’être.

18 Nelle Ricerche filosofiche si legge: «Quello stesso che, mediante la volontà della creatura, diventa cattivo (se si distacca totalmente, volendo avere un essere separato), è in sé il bene, finché rimane nel fondamento e intrecciato al bene». E poi: «chi non ha in sé l’elemento e le forze per il male [è] anche incapace del male» (SW, I/7, p. 400).

19 W. Hogrebe, Prädikation und Genesis, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1989; trad. it., Predicazione e Genesi, a cura di S. Maestrone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2012.

20 Ivi, p. 130.

21 Ivi, p. 128.

22 Ivi, p. 126.

23 Ivi, p. 127.

24 Ivi, p. 126.

25 Ivi, p. 128.

26 F.W.J. Schelling, System der Weltalter cit., p. 171.

Précédent Suivant

Le texte seul est utilisable sous licence Creative Commons - Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0 International - CC BY-NC-ND 4.0. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.