L’atto analitico nella pandemia
p. 159-164
Texte intégral
Il seminario come atto di Scuola
1Ringrazio la presidente ed il Consiglio della SLP per avermi invitato ad intervenire oggi in questo incontro conclusivo del seminario sulla pratica analitica e il suo orientamento lacaniano. È un momento di concludere, di un processo di cui come molti di voi ho seguito le tappe che si sono succedute nel tempo della sua realizzazione, a partire da quando il Consiglio della Scuola ha deciso di istituire questo seminario in forma on line, nel momento più duro della crisi pandemica in Italia, durante il primo lockdown. Approfitterò di questo riferimento per aprire una prima porta d’entrata al tema dell’incontro di oggi, che ruota attorno all’atto analitico. Lo farò dicendo che in fondo, questo seminario che oggi si conclude, è stato l’effetto di un atto, di una decisione del Consiglio della Scuola partorita nell’impossibilità di realizzare in presenza quegli eventi di Scuola che aveva programmato di fare nel 2020. Una decisione prodotta a partire da un impossibile, che ha dato vita al percorso che oggi si conclude, frutto di un’invenzione, rilanciando il nostro lavoro di Scuola verso i prossimi eventi che ci attendono. «Atti di Scuola»1 è la formula che Jacques-Alain Miller coniò, nella Teoria di Torino sul soggetto della Scuola, per definire i passaggi strutturali attraverso i quali si viene a costituire, nel processo del suo sviluppo, la vita di una Scuola, incarnandosi negli eventi che la fanno esistere, e che introducono delle discontinuità nel continuum del suo sviluppo. Entrerò dunque nella questione dell’atto analitico, a partire dalla porta dell’atto di Scuola. La mia esperienza come presidente dell’EFP, che si concluderà tra qualche mese, mi ha permesso di vivere in presa diretta con gli effetti di impasse che la pandemia, che da un anno ha colpito il mondo, ha prodotto sul lavoro delle Scuole di psicoanalisi del nostro Campo in Europa; ma insieme mi ha permesso di assistere ed in buona parte di partecipare alle invenzioni che ciascuna Scuola in Europa ha saputo produrre per rispondere a questa crisi e rilanciare la vita della nostra comunità analitica. Nonostante l’inevitabile disorientamento dei primi tempi, nessuna delle quattro Scuole europee è rimasta immobile dinanzi agli effetti di impossibilità a realizzare gli eventi in presenza che aveva programmato. Ciascuna ha inventato le proprie vie per permettere che la trasmissione della psicoanalisi e la vita della comunità analitica potesse non solo continuare, ma anche trarre dall’esperienza inedita che stiamo ancora vivendo degli elementi di rinnovamento e di rilancio del discorso analitico.
Dall’atto di Scuola all’atto analitico
2Ma è l’esperienza e la pratica della psicoanalisi anzitutto a implicare strettamente la dimensione dell’atto psicoanalitico. È rispetto ad essa che Lacan introduce in effetti questa nozione, inaudita nella storia della psicoanalisi prima del suo insegnamento. Come Lacan stesso scrive, nel suo resoconto del Seminario omonimo L’acte psychanalytique2 «L’atto psicoanalitico, [né] visto né [conosciuto] se non da noi, vale a dire mai notato, e ancor meno messo in discussione, ecco che invece noi lo poniamo come il momento elettivo del passaggio dello psicoanalizzante a psicoanalista»3. Con tutti i limiti legati all’esperienza del fondatore della propria disciplina, attraverso l’autoanalisi ed il carteggio analizzante con Fliess, Freud diede vita nella sua pratica a tale dimensione senza vederla né conoscerla fino in fondo nella sua struttura. Sarà Lacan a rivelarla nominandola come tale. L’atto analitico è anzitutto un atto, e partecipa delle caratteristiche strutturali proprie dell’atto che Lacan sottolinea nel Seminario dedicato al tema. In primis il carattere inaugurale creatore dell’atto, che fa esistere qualcosa di prima inesistente. In secondo luogo la dimensione di discontinuità ed irreversibilità che lo caratterizza. Inoltre, come sottolinea anche Miller, v’è nell’atto una dimensione di trasgressione, di oltrepassamento di una soglia significante fino a prima ritenuta non valicabile. È la dimensione Rubicone propria dell’atto, l’attraversamento operato da Cesare del sacro suolo invalicabile della Repubblica, che Lacan prende a paradigma dell’atto come superamento di una soglia. Insieme, non vi è atto che possa dirsi tale che in assenza di garanzia da parte dell’Altro: l’atto è senza garanzia ed implica un autorizzarsi da sé nella sua produzione. Proprio per questo l’atto sfugge, come sottolinea Miller, «all’ideale dell’azione calcolata»4, e può rivelarsi veramente tale soltanto après-coup, a posteriori, alla luce degli effetti che produce.
3Lacan scrive che «l’atto […] ha luogo da un dire, e con questo cambia il soggetto»5. Questo effetto è al cuore dell’atto analitico, che per Lacan è «l’atto che opera analiticamente»6, con cui «l’analista s’istalla nella sua posizione»7, autorizzando senza garanzia il lavoro analizzante. Per questo Lacan ci dice che l’inizio di un’analisi è un atto, e che questo atto «non è dal lato dell’analizzante ma dal lato dell’analista»8. Non c’è alcuna analisi che possa iniziare, senza il dire di sì da parte di un analista all’avvio del lavoro analizzante di un soggetto che gli porta ciò che lo fa soffrire.
4Mi chiedo se l’epoca che stiamo vivendo, caratterizzata nel periodo del confinamento dalla difficoltà nell’incontro regolare in presenza tra analista ed analizzante, non abbia qualcosa da dirci e da insegnarci attorno allo statuto dell’atto analitico e delle sue condizioni di produzione. Riferirsi alla struttura del discorso analitico, che ci restituisce gli elementi essenziali in gioco nell’atto analitico, può forse servirci da orientamento al di là di un dibattito che rischia di essere fuorviante e sterile sulla relazione in presenza o a distanza. Nel corso della mia analisi sperimentai in un momento determinato uno snodo da cui trassi un orientamento decisivo per il futuro dopo una telefonata fulminante con l’analista, a cui ponevo una questione legata ad una scelta da compiere in ambito lavorativo che mi metteva in ambasce. E per la quale non potevo attendere il mio successivo viaggio a Parigi, si trattava di qualcosa da decidere nell’urgenza. «Lei lo vuole fare, lei lo deve fare!» fu la risposta fulminante dell’analista che mi fece passare il Rubicone in modo istantaneo e irreversibile. Come è scritto nel discorso dell’analista, la logica classica dell’atto viene sovvertita nella sua struttura, sottolinea Graciela Brodsky riprendendo Lacan, «l’atto analitico ha una struttura tale per cui l’oggetto è attivo e il soggetto è sovvertito»9. Nell’atto, l’oggetto causa incarnato dall’analista si presentò in posto di agente, scollato dall’ideale che invece mi manteneva nell’inazione rispetto alla decisione da prendere. Faccio questo esempio tratto dalla mia analisi, avvenuto dunque in epoca pre pandemica, per dire che la dimensione dell’atto analitico è anzitutto legata alla posizione dell’analista nel transfert e nel discorso: è a questo livello che prima di tutto si giocano le condizioni di produzione di un atto che possa après-coup rivelarsi analitico. In questo senso penso che sia importante interrogare i concetti che più ci orientano nella nostra pratica, al fine di rilanciarne l’efficacia con ciò che incontriamo nella nostra esperienza. È quanto è avvenuto per esempio nell’ultimo incontro del Seminario de Otoño della ELP attorno alla questione della presenza dell’analista come presentificazione in atto dell’analista nella cura, irriducibile alla diatriba recente tra la presenza fisica e la presenza a distanza. Anche in questo periodo di pandemia privilegiamo senza dubbio la seduta nello studio dello psicoanalista quando essa è possibile, ma non pensiamo affatto che essa sia una garanzia della presenza reale dell’analista nella cura. La presenza dell’analista ha a che fare con la struttura stessa dell’inconscio freudiano, come ci ricorda Lacan nel Seminario XI10, e permane per noi un enigma che trova la sua realizzazione singolare in ciascuna cura.
5Riguardo all’atto analitico mi sentirei di dire che vale la stessa indicazione. Nel quinto tra i Principi direttivi dell’atto analitico11 redatti da Éric Laurent dopo l’Assemblea Generale del Congresso AMP di Roma, si afferma che «Non esiste cura standard, non esiste un protocollo generale che governerebbe la seduta e la cura psicoanalitica»12. Allo stesso modo possiamo dire che non può esistere uno standard dell’atto analitico: sarebbe una contraddizione in termini. Piuttosto, il dire sì al lavoro analizzante in cui l’atto si produce nella pratica di uno psicoanalista trova nel caso per caso i modi opportuni della sua modulazione e della sua realizzazione, tenendo conto della singolarità dell’analizzante e del momento particolare in cui si trova nella cura.
L’atto nel momento di concludere
6Quando la pandemia arrivò, un anno fa, mi trovavo nell’ultimo tratto dei tre anni di esercizio come Analista della Scuola. Mancavano gli ultimi tre mesi per concludere il mio insegnamento, ma gli appuntamenti di lavoro che avevo davanti come AE vennero annullati. Non eravamo ancora, né il sottoscritto né il Campo freudiano, entrati nel tempo logico in cui siamo ora, in cui la pratica della testimonianza dell’AE a distanza è divenuta una modalità di trasmissione accettata, soggettivata ed operante. Mi permetto dunque di dire qualcosa per l’ultima volta attorno al mio momento di concludere per questa occasione tenendo conto di quello spazio bianco nella coda del mio tempo di esercizio come AE, nel quale sarebbe dovuto avvenire in presenza anche l’incontro che possiamo finalmente realizzare oggi a distanza. Lo farò anche a partire dalla sollecitazione ricevuta molto recentemente da colleghi di Nantes attorno al tema dell’oltrepasse, che mi hanno indotto a riaprire e risvegliare l’esperienza della mia fine analisi, della passe e del mio insegnamento come AE.
7Con sorpresa mi colpì constatare che tra la fine dell’analisi e il periodo terminale del mio esercizio come AE, due grandi «[eventi] di Terra»13 erano intervenuti in modo decisivo: il terremoto e la pandemia. Quest’ultima aveva congelato la coda del mio insegnamento, mentre il primo aveva sollecitato il sogno di fine analisi su cui sono più volte ritornato: «La terra trema, io cado». Questo sogno arrivò a sovvertire, nella sua semplicità, tutta una lunga elucubrazione di sapere durata tutta la vita e che ha attraversato tutto il corso dell’analisi sul tema doloroso delle mie cadute maldestre in cui finivo inevitabilmente con il rompermi le ossa. «Distrazione», il significante impiegato per designare nella storia familiare la ragione di questi eventi traumatici ripetuti, perdeva all’improvviso ogni consistenza. Non cado perché sono distratto, come ho sempre creduto. La terra trema, io cado. È un sogno che mi sovverte, e riduce all’osso i termini della questione. Tutta una vita dedicata a tenere in piedi un Altro da salvare, cuore del fantasma, – si tratti delle défaillance del padre o dell’agitazione della giovanissima madre angosciata per l’arrivo e la cura del bambino –, al prezzo di farmi male nel corpo cadendo, si svuota come un «miraggio della verità»14 che appare ora nel suo statuto di finzione. La caduta rovinosa della giovane madre che portò alla morte del nascituro che avrebbe dovuto portare il mio nome a pochi giorni dalla venuta al mondo, mormorata in alcuni momenti dalla madre stessa, prese corpo all’improvviso nelle ultime sedute dell’analisi, come ciò che mancava e attorno a cui giravo da tempo per poter concludere. La voce dell’analista a fine seduta, il suo «oui» arriva come mai prima: si stacca per me dalla domanda di altra seduta. Lascio lo studio senza un nuovo appuntamento, entrando in una dimensione mai sperimentata prima. Trascorro alcuni giorni febbrili in cui precipita in me, come in un lampo, la certezza sul posto da assegnare a quella agitation de la mer/mère su cui l’analista operò anni prima un taglio decisivo15. Scrivo all’analista per dirgli che ho esigenza assoluta di vederlo per poter dire ancora qualcosa che deve essere detto prima di concludere. Mi risponde subito con decisione fissandomi quello che sarà l’ultimo appuntamento. L’ultimo atto del momento di concludere arriva con il mio dire bene in seduta il precipitato chiarificatore che si era prodotto. Il passaggio conclusivo dallo psicoanalizzante allo psicoanalista era avvenuto. Come scrive Lacan al termine del suo insegnamento, «la fine dell’analisi si dà quando si è girato due volte in tondo, vale a dire si è ritrovato ciò di cui si è prigionieri»16. Al taglio dell’analista che sancì il primo giro, seguì la precipitazione finale delle ultime sedute. Ma occorreva la Scuola per poterne verificare la logica e l’etica, al di là della certezza soggettiva. La domanda di passe s’impose poco dopo. L’esperienza del dispositivo, la nomina, la testimonianza e l’insegnamento come AE ne seguirono, e giunsero infine alla conclusione.
Notes de bas de page
1 J.-A. Miller, Teoria di Torino sul soggetto della Scuola [2000], “Appunti”, 78, 2000, p. 3, e in https://www.slp-cf.it/teoria-torino-sul-soggetto-della-scuola/
2 J. Lacan, Le Séminaire, Livre XV, L’acte psychanalytique [1967-1968], inedito.
3 Id., L’atto psicoanalitico. Resoconto del seminario del 1967-1978 [1969], in Altri scritti, Torino, Einaudi, 2013, p. 369.
4 J.-A. Miller, Jacques Lacan. Osservazioni sul suo concetto di passaggio all’atto [1988], in I paradigmi del godimento, Roma, Astrolabio, 2001, p. 227.
5 J. Lacan, L’atto psicoanalitico. Resoconto del seminario 1967-1968 cit., p. 369.
6 Id., Le Séminaire, Livre XV, L’acte psychanalytique cit., leçon du 22 novembre 1967, trad. nostra.
7 Ivi, leçon du 15 novembre 1967, trad. nostra.
8 Ivi, leçon du 10 janvier 1968, trad. nostra.
9 G. Brodsky, El acto psicoanalítico y otros textos [2002], Bogotà, NEL, 2002, p. 22, trad. nostra. J. Lacan, La mispresa del soggetto supposto sapere [1967], in Altri scritti cit., p. 328.
10 J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi [1964], Torino, Einaudi, 1979 e 2003.
11 É. Laurent, Principi direttivi dell’atto psicoanalitico [2006], https://www.slp-cf.it/principi-direttivi-dellatto-psicoanalitico/
12 Ibidem.
13 J.-A. Miller e A. Di Ciaccia, l’uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano [2010-2011], Roma, Astrolabio, 2018, p. 103.
14 J. Lacan, Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI [1976], in Altri scritti cit., p. 564.
15 Cfr. D. Cosenza, De l’agitation de la mer/e au tremblement de terre [2019], “La Cause du Désir”, 104, 2019.
16 J. Lacan, Le Séminaire, Livre XXV, Le moment de conclure [1977-1978], leçon du 10 janvier 1978, inedito, trad. nostra.
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