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Del tempo non ne voglio sapere niente

p. 129-137


Texte intégral

Immaginario

1Ad un certo punto dell’elaborazione di questo tema di lavoro, mi sono trovato a scriverne, quasi ogni giorno, un nuovo inizio. La questione del tempo è divenuta, così, sempre più inquietante.

2Inizio a scrivere per poi annullare tutto. Non facendo più affidamento su quanto scritto in precedenza e, non riuscendo a proiettarmi in un possibile futuro, mi dico: «E ora?!»

3Per decolpevolizzarmi riempio ogni possibile vuoto della giornata facendo mille cose. Chiunque mi avesse visto non avrebbe mai potuto affermare che prendevo gusto nel perdere tempo.

4Si può dunque godere del tempo?

5Di fronte all’orrore di affrontare il vuoto di una pagina bianca, che continuo a riempiere di parole vuote, scongiuro la mia mortificazione con un fare ubiquo che solo ai miei occhi risulta inconcludente. Per il mio vicino sono un bravo giardiniere, per i mie figli un buon decoratore, per gli amici un infaticabile sportivo, per me solo un uomo che gode.

6Poi spazio sui libri, nell’illimitato di internet apprendo nuovi particolari sulla storia del tempo: il susseguirsi del giorno e della notte, i mesi, gli anni, la clessidra, la meridiana, il pendolo, gli orologi. Apprendo che per la scienza, la fisica e la matematica in particolare, la natura del tempo è il mistero più grande1. Un mistero che si lega ad altri grandi misteri avendo a che fare con l’origine. L’origine del linguaggio, l’origine della vita e dell’universo hanno da sempre una relazione con la natura del tempo.

7Colgo che il fluire del tempo cronologico e lineare si articola come il susseguirsi regolare di una catena significante, ma la mia esperienza soggettiva, il mio tempo, continua ad essere fossilizzato in un eterno presente. E mi domando:

8«Cosa sto rimuovendo?»

9«Cosa trattengo?»

10«Che cosa non voglio perdere?»

11«Non voglio perdere tempo!» – mi dico.

12«Il tempo nasce prima d’essere concepito?»

13«Quando, quando è nata in me questa questione del tempo, visto che ora mi trovo a trattare con un godimento di cui non riesco a dir nulla?» Mi immagino così una gestazione continua che non porta ad alcun parto.

Simbolico

14Ricordo così d’aver letto, anni prima, un libro sull’origine dell’universo2, scritto da Jean-Pierre Vernant.

15In principio fu Chaos, un vuoto oscuro, senza limiti, ma dal cui seno poi nasce Gaia, la Terra, che al contrario di Chaos ha una forma distinta, separata, precisa. Sulla Terra dèi, uomini e animali possono camminare con sicurezza, ma nel profondo di essa si ritrova sempre l’aspetto caotico originale del vuoto oscuro.

16«Dapprincipio, dunque, fu l’abisso, la Voragine, fauci immense in forma di baratro buio e senza fondo, ma che si apre poi su una superficie solida: sulla Terra, che si slancia verso l’alto e sprofonda verso il basso»3.

17Dopo Chaos e Terra appare per terzo, quello che i greci chiamano Eros. Inizialmente Eros non è il dio che presiede agli amori sessuati, ma esprime un’energia nell’universo che consente a Terra di portare al di fuori, senza doversi unire a nessuno, ciò che era in lei. La Terra partorisce così Urano, il Cielo e poi Pontos, l’acqua, i flutti marini. Terra sviluppa quello che già era in lei e che, dal momento in cui lo libera, diventa il suo doppio e il suo contrario. Allora Urano si stende su di lei, costituendo due piani sovrapposti dell’universo, un pavimento e una volta, che si coprono a vicenda. Il mondo si forma così a partire da tre entità primordiali: Chaos, Gaia ed Eros a cui ne seguono altri due partoriti da Gaia: Urano e Pontos.

18Un significante rappresenta un soggetto per un altro significante. Nascono così le storie e la prima sembra proprio essere stata quella tra Urano e Gaia.

19Urano è coricato, disteso e pesa su colei che lo ha generato e non conosce altra attività se non quella sessuale. Non pensa che a quello, e non fa che quello. La Terra si trova esausta e incinta di una prole numerosa che non può neppure uscire dal suo grembo.

20Gaia non ne può più, è adirata.

21Tra Cielo e Terra non si crea così mai un luogo che permetta ai figli, i Titani, di uscire alla luce e condurre una vita autonoma. Terra allora si rivolge ai figli dicendo loro di ribellarsi alle violenze del padre. Solo Cronos, Crono dai pensieri scaltri, il più giovane dei Titani, accetta di aiutare la madre e di misurarsi col proprio padre, grazie ad un piano astuto concepito dalla madre stessa.

22Terra fabbrica un piccolo falcetto in metallo che mette in mano al figlio Crono che sta in agguato nel ventre di Gaia, proprio dove Urano si unisce a lei. Non appena Urano si sfoga in lei, Crono gli taglia i genitali in un sol colpo. Nell’istante in cui viene castrato Urano si allontana con un urlo di dolore da Gaia e si ferma in alto creando uno spazio libero fra cielo e terra, tanto che ora tutto ciò che verrà generato avrà un luogo per respirare e per vivere4.

Reale

23La notte stessa in cui ho riletto questa storia, mi sveglio nel buio della notte in preda a un sogno concitato. Ho sognato di essere preso dall’urgenza di fare la pipì. I bagni della piazzola di sosta dell’autostrada, che avevo scelto di percorrere per risparmiare tempo e arrivare prima alla meta, sono tutti occupati. Mentre attendo che se ne liberi uno il flusso delle persone, che entrano ed escono dai bagni, si fa così caotico e veloce che le porte rimangono aperte e si può vedere chi è in seduta. Provo dell’imbarazzo ma oramai l’urgenza di fare la pipì è diventata un’emergenza. È quasi una lotta trovare un bagno libero; mi divincolo da chi mi ostacola e mi trovo finalmente davanti al gabinetto. La particolarità è che la tazza del gabinetto si trova al centro della toilette senza un riparo dallo sguardo delle altre persone, che sono così indaffarate a trovare un loro posto dove fare la pipì, che non si preoccupano gli uni degli altri. Decido allora di fare la pipì, ma non appena inizio mi accorgo che un signore, poco distante da me, mi fissa, immobile. Ha un aspetto poco rassicurante. Vorrei quasi tirarmi indietro, ma un pezzo del mio pene cade nel gabinetto: «Come uno stronzo» – mi dico. Provo a recuperarlo ma ormai è andato. Riallaccio i pantaloni e verifico che ciò che è rimasto del mio pene, nonostante il taglio, ha sempre la sua consistenza. E riparto.

Un nuovo annodamento

24Da sveglio ripercorro più volte il sogno.

25Un sogno di castrazione?

26Da una perdita si è prodotto qualcosa di nuovo proprio perché vi ho investito una libbra di carne.

27Mi sento rivitalizzato.

28Non rimando più la scrittura.

29Non erro da un sapere all’altro senza sorprendermi di nulla. Non otturo tutti i possibili vuoti creativi con un mio oggetto elettivo. Un oggetto che non riuscivo a depositare sulla carta bianca, deposito del significante nella sua realtà materiale, motériale. Sicut palea.

30Colgo che ho già fatto esperienza di quest’impossibile che non cessa di non scriversi, ma che grazie ad un evento può trasformarsi e cessare improvvisamente di non scriversi, anche se il corpo continua a goderne5.

31È il tempo dell’angoscia del parlessere; un’angoscia leggera la mia, appena sotto pelle, elettrica e, ora, ora che sono riuscito a metterla al lavoro non appesantisce e non imbroglia i mie pensieri.

32«Sono ancora in tempo – mi dico – non sto ancora indossando la maglietta della salute in piena estate così come mi ordinava mia madre. Non sono sprofondato nei vecchi schemi, posso ancora sciogliere la nebbia sottile di quest’angoscia».

33Ne ho già fatto esperienza. «L’inconscio non cambia, ma ciò che può cambiare è il rapporto del soggetto con l’inconscio»6.

34Non deve essere poi così diversa dall’angoscia grazie a cui mi recai a bussare alla porta di colei che divenne per vent’anni la mia analista, compiendo, seduta dopo seduta, il più lungo dei mie viaggi.

35Un viaggio che è durato molto tempo se valutato in senso cronologico, ma che tradotto nell’unicità dell’esperienza soggettiva, che ne ho ora, equivale all’immediatezza di alcuni istanti, immagini significanti che hanno coniugato, nello spazio definito della seduta analitica, la temporalità dell’inconscio freudiano, che si fonda sulla catena significante e rappresenta il soggetto inconscio, e l’a-temporalità di quel reale, messo in rilievo da Lacan, che è causa, godimento.

36Ringrazio la Scuola, le sue istanze, che in questo tempo inquietante e un po’ sospeso in cui viviamo, pervasi dal Covid-19, non ha ceduto dal metterci al lavoro e, a partire dal suo vuoto creativo, ci spinge ancora a smascherare le nostre approssimazioni, conducendoci di fronte all’orrore dell’atto analitico, che non ha garanzia.

37Una Scuola grazie a cui tornare a disancorarmi da quell’àncora che mi stava zavorrando in uno spesso ed eterno presente.

38Se penso di poter avere il tempo, non è che non ne voglio sapere niente?

Col tempo ho imparato che potevo dirne un po’ di più. E poi mi sono accorto che la mia avanzata era costituita da qualcosa dell’ordine del non ne voglio sapere niente.
È indubbiamente ciò che, col tempo, fa sì che io sia ancora qui, e che anche voi ci siate. Me ne stupisco sempre… ancora.
Da qualche tempo mi favorisce il fatto che c’è anche in voi […] un non ne voglio sapere niente. Ma – è questo il punto – si tratta proprio della stessa cosa?
[…] Non credo, ed è proprio in quanto supponete che io parta da un punto diverso dal vostro, in questo non ne voglio sapere niente, che vi trovate legati a me. […]
Ecco perché è solo quando il vostro non ne voglio sapere niente vi appare sufficiente che, se siete miei analizzanti, potete distaccarvi normalmente dalla vostra analisi7.

39In quest’ancora, con quest’avverbio di tempo che sembra anche coniugare all’infinito un punto impossibile da raggiungere, Lacan situa, a mio modo d’intendere, sia il motore che spinge l’analizzante a tornare in analisi, sia il punto limite su cui un’analizzante può distaccarsi dall’interminabile della sua analisi. Tra l’istituzione e la caduta del transfert vi è l’ancora una seduta e poi ancora, ognuna diversa, sempre singolare e non qualificabile.

40Si fissa l’orario e il giorno dell’appuntamento, la sua scansione settimanale. Si costituisce così il luogo della parola nel tempo, la seduta analitica, e il tempo si situa nel linguaggio per giungere ad estrarre dei significanti, pochi, che non fanno né catena, né senso, ma equivoco, vuoto.

41Lacan nel Seminario XX ci parla ancora di inconscio. Un inconscio che non è una catena in cui il significante S1 è articolato al significante S2: l’inconscio strutturato come un linguaggio. Qui, la struttura dell’inconscio è reale, dunque un insieme di significanti che non compongono da sé una storia. Non è quindi la stessa cosa pensare l’inconscio come una serie, anziché pensarlo composto da un numero limitato di significanti separati, che possono però giungere a comporre un senso legandosi fra di loro a partire dal meccanismo di retroattività proprio del linguaggio e del tempo nella seduta analitica, dove l’analista incarna l’operatore che sposta il passato al presente e, in secondo luogo, simultaneamente, riporta questo passato al presente.

42Restando a tempo con l’ultimo insegnamento di Lacan, possiamo dire che la seduta analitica non anima nessuna illusione di trovare un senso, di dare un nome definitivo alla sua origine. Non c’è rapporto sessuale, non c’è comprensione.

43L’inconscio di ognuno di noi è composto da una sciame di significanti, S1/S1/S1/S1, punti di godimento fissati in modo indelebile, come una struttura di lettere isolate che non sono in rapporto tra loro e non fanno catena. Ecco perché Lacan dice che l’inconscio è fatto dalla lalingua e non dal linguaggio. Il linguaggio viene dopo, perché è secondario; primaria è lalingua.

44All’inizio noi parliamo la lingua materna. Questo vuol dire che il traumatismo della lalingua lascia un sapere, una memoria a partire dalla quale solo in un secondo tempo il soggetto cerca di stabilire dei rapporti.

45All’inizio non c’è l’Altro del linguaggio, ma l’incontro traumatico con lalingua, l’incontro traumatico con il godimento e questo significa che il soggetto si trova confrontato con un reale senza l’Altro. Dunque, il soggetto fa prima di tutto l’esperienza con un godimento traumatico senza l’Altro, e solo in seguito cerca l’Altro per stabilire dei rapporti8.

46Sono giunto in analisi parlando la lingua dell’Altro e c’è voluto molto tempo prima di arrivare, grazie all’associazione libera, a fare in modo che un significante e un significato non fossero più legati da un rapporto e i significanti non dipendessero solo dal senso.

47«Mamma! Quando? Come sono nato?»

48«Sei nato in ritardo. Ti attendevamo prima, ma tu non ne volevi sapere di arrivare».

49«Ritardo?!»

50Lalingua è infatti quello che sentiamo, senza aver alcun rapporto con la scrittura.

51Devo aver fatto un cattivo incontro con questo suono traumatico, «ritardo», definendo poi uno stile nel mio modo di stare nel legame sociale.

52Ricordo d’aver recitato questo mantra (Mamma! Quando? Come sono nato? Sei nato in ritardo. Ti attendevamo prima, ma tu non ne volevi sapere di arrivare. Ritardo?!) durante una seduta analitica che avviene quasi allo scadere dei colloqui preliminari. Il tempo di mettere in serie questi pochi significanti e in non più di tre minuti un taglio netto, senza parole dell’analista mi accompagna fuori dallo studio.

53Attraverso le varie soglie dello studio con la sensazione di aver svolto la seduta analitica più lunga della mia vita. Non cammino, galleggio. «Sono in rimozione» – mi dico – e mi ritrovo per strada raggiunto dal rumore dell’ultima porta che, chiudendosi, sbatte con fragore dietro di me e mi risveglia dal mio sonnambulismo. In quell’istante di stacco, guardo l’orologio e mi accorgo d’aver trascorso solo pochi istanti in seduta.

54«Ma cosa? Ma come? Perché? Qualcuno si è forse sbagliato!» Corro indietro per risuonare il campanello del citofono e far valere l’esattezza delle mie ragioni.

55«Avevo forse subito un torto?»

56Stavo tornando dal mio soggetto supposto sapere a reclamare l’oggetto tempo perduto. Fino al giorno in cui si produsse quest’incontro, tutto quanto dicevo in analisi produceva un senso cronologico: quello che dicevo nel presente si legava a qualcosa che reperivo scritto nel mio passato.

57Ma poi, come un disco che smette piano piano di girare e la puntina del grammofono non suona più la stessa musica, arresto la corsa dell’indice puntato sul pulsante del citofono e, lì, sulla soglia, tra il mondo della realtà esterna e il luogo della seduta analitica, faccio esperienza, senza ancora saperlo, di una realtà impensabile, che incise il mio corpo fino al punto di sollevarlo in un motto di riso che mi aveva fatto avanzare proprio lì dove mi ero sentito un avanzo.

58Qualcosa d’essenziale mi aveva toccato: l’esattezza del tempo cronologico ha risuonato a tempo con la mia verità soggettiva, sorprendendomi e separandomi un po’ da quel mio mantra sul ritardo.

59C’è un tempo cronologico, un tempo logico e c’è il tempo del sintomo proprio a ciascuno, dove spazio e tempo si incontrano per produrre un luogo, il luogo, per mia fortuna, della seduta analitica. Un luogo dove paradossalmente la verità è il tempo, e l’esattezza è la puntualità con cui vi si ripete il proprio sintomo grazie al lavoro di transfert.

60Ho fatto così l’esperienza di come la funzione del tempo nella seduta analitica, grazie e a partire dall’ultimo insegnamento di Lacan, diventa più che mai quella di sgretolare l’idea che il compito fondamentale di una psicoanalisi, di una seduta analitica, sia quello di stabilire dei rapporti tra la storia del soggetto e le sue difficoltà. Ma invece quello di andare a cercare il non rapporto lì dove se ne trova uno e produrre in atto l’interpretazione in grado di fare in modo che un significante e un significato non siano più legati da un rapporto e che i significanti non siano più governati dal senso.

61Controcorrente rispetto all’ideologia contemporanea dell’ascolto volto alla possibile completezza della comunicazione, l’utilizzo della funzione tempo nella seduta analitica punta a deludere ogni volontà di comunicazione.

62Il taglio dell’analista provocò in me l’avvio della separazione dagli effetti di senso che si erano prodotti nel mio inconscio ed iniziai a credere di poter cambiare il destino che si era costruito nel mio inconscio.

Sono i casi della vita che ci spingono a destra e a sinistra mentre noi ne facciamo il nostro destino – perché siamo noi che lo intrecciamo in un certo modo. Ne facciamo il nostro destino perché parliamo. Noi crediamo di dire quello che vogliamo, invece è quello che hanno voluto gli altri, in particolare la nostra famiglia, a parlarci. Il ci va inteso come un complemento oggetto. Noi siamo parlati, ed è per questo motivo che facciamo dei casi della vita, che ci spingono qua e là, qualcosa di tramato.
In effetti una trama c’è – e noi la chiamiamo il nostro destino9.

63E dunque non è certo un caso se mi ritrovo qui oggi a cercare di sbrogliare il filo che mi annoda ancora al tempo, un reale da cui traggo la spinta per aggiornare e attualizzare a che punto sono con il mio essere zimbello del reale. E lì, come è accaduto in un momento conclusivo della mia analisi, arriva un suono o immagine reale che illustra un sogno, che trasforma un impossibile in evento contingente consentendomi di stare ancora di fronte ad una contingenza reale.

64In una luminosa e fresca giornata di sole, costeggio i palazzi di una città di mare che, costruiti a semicerchio, ne definiscono il litorale. Ad un tratto, mi trovo in un vicolo cieco. Alzo lo sguardo sopra di me e, in alto, su di un balcone, si agita un ragazzo. Mi ricorda Salvatore, un ragazzo con cui giocavo da bambino che aveva evidenti disturbi fisici e psichici. Dicevano fosse un ritardato, penso e al contempo mi domando: «Come fa a vivere senza che nessuno stia con lui?»

65Mi giro per proseguire il mio cammino e il ritardato si lancia dal balcone. Sentendo il tonfo sordo della caduta penso subito che qualcuno lo abbia fissato troppo col suo sguardo insistente e dico con tono di rimprovero alle persone presenti: «Non bisogna troppo indugiare con lo sguardo verso queste persone, loro vi si aggrappano e si lasciano cadere».

66Oggigiorno, capita spesso di sentire qualcuno che, domandando un’analisi, vuole sapere quanto tempo deve spendere per risolvere il suo problema. «Quante sedute? Basta un anno? Va bene una volta al mese? E quanto mi costa in denaro? Devo saperlo sa! Non c’è tempo da perdere».

67A posteriori, ora, io domanderei – citando Miquel Bassols – «Quanto vale il sapere qualcosa sul godimento dell’oggetto, sul suo valore di uso?»10

68Lacan darà una risposta nel suo Seminario XX Ancora dicendo che costa molto (beau-coût – beaucoup): «Il sapere vale esattamente quello che costa, un bel costo (beau-coût), perché bisogna rischiare la pelle, perché è difficile – che cosa? – non tanto acquisirlo quanto goderne. […] La fondazione di un sapere è infatti che il godimento del suo esercizio sia lo stesso di quello della sua acquisizione»11.

Notes de bas de page

1 Cfr. C. Rovelli, L’ordine del tempo, Milano, Adelphi, 2017.

2 J.-P. Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini. Il racconto del mito, Einaudi, Torino, 2000.

3 Ivi, p. 10.

4 Cfr. ivi, p. 14.

5 Cfr. J.-A. Miller, Introduzione all’erotica del tempo [2004], “La Psicoanalisi”, 37, 2005.

6 Ivi, p. 34.

7 J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora [1972-1973], Torino, Einaudi, 2011, p. 3.

8 Cfr. V. Palomera Laforga, Il sapere, la verità e il barocco, in G.F. Arzente (a cura di), Corpi parlanti, Torino, Antigone, 2016.

9 J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII, Il sinthomo [1975-1976], Roma, Astrolabio, 2006, p. 159.

10 M. Bassols, Denaro [2017], in P. Bolgiani e R.E. Manzetti (a cura di), politica lacaniana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, p. 65.

11 J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora cit., p. 91.

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