La presenza dell’analista e del suo non-tutto traducibile in parole
p. 71-79
Texte intégral
1Il tema della presenza dell’analista, più che mai in un tempo di normative su autorizzazioni e divieti all’incontro, necessita di un tempo preliminare di lavoro per cogliere quale sia il posto corretto da cui interrogarlo secondo la psicoanalisi. Lo si può in effetti declinare in tanti modi, ma a partire dalle letture della letteratura freudiana e lacaniana e dal titolo generale del tema, La pratica analitica nell’orientamento lacaniano, scelgo di farmi orientare da una domanda, che traduce la questione della presenza con queste parole: «C’è dell’analista?» Si tratta di una domanda che consente di risituare il tema della presenza in relazione alla pratica e soprattutto ai principi che la orientano. La pratica dello psicoanalista è decifrabile e il controllo è il luogo elettivo per verificare e risituare la sua portata, provando a rispondere alla domanda se in essa vi sia della presenza dell’analista. Anche in questa occasione la memoria ritorna piacevolmente a Freud e alla pubblicazione dei suoi Casi clinici, per constatare che con il suo esempio, tra molti altri, ci ha lasciato anche quest’insegnamento, ossia che è a partire dalle deviazioni della pratica della psicoanalisi, constatabili nei loro effetti, che il cuore stesso dell’azione analitica può essere meglio situato. Con questo atto già Freud ci ha fatto intendere che non esiste l’analista, che non c’è la tecnica dell’analista, come i suoi scritti cosiddetti tecnici mettono ben in rilievo, piuttosto c’è eventualmente dell’analista, che può rivelarsi soltanto negli effetti. Lacan stesso nel suo scritto del 1958 La direzione della cura e i principi del suo potere1 si è orientato in qualche modo così. Ha preso una pubblicazione che raccoglieva alcuni contributi di colleghi, La psychanalyse d’aujourd’hui 2 di Sacha Nacht, pubblicata nel 1956, l’ha studiata e si è rimesso e ha rimesso al lavoro i suoi lettori, ricentrando la questione della psicoanalisi, e dunque della presenza dello psicoanalista, sotto la forma di tre interrogativi e due affermazioni, tutti indissolubilmente legati alla pratica e ai suoi principi. Non nuoce ricordarli: Chi analizza oggi?3, il primo, Qual è il posto dell’interpretazione?4, il secondo, A che punto siamo col transfert 5, il terzo, infine due affermazioni Come agire col proprio essere 6 e Bisogna prendere il desiderio alla lettera7. Scrive Lacan:
Si osserverà che tuttavia l’analista offre la sua presenza. Ma credo che in un primo tempo essa non sia che l’implicazione del suo ascolto, e che questo non sia che la condizione della parola. Se così non fosse perché mai la tecnica dovrebbe esigere ch’egli la rendesse così discreta? Solo più tardi la sua presenza sarà notata.
Del resto, il senso più acuto della sua presenza è legato a un momento in cui il soggetto può solo tacere, in cui cioè indietreggia persino di fronte all’ombra della sua domanda.
Così, l’analista è colui che fa da supporto alla domanda, non, come si dice, per frustrare il soggetto, ma perché riappaiano i significanti in cui è trattenuta la sua frustrazione8.
2Si tratta di un passaggio, che troviamo nel capitolo A che punto siamo col transfert? e che ha in primo luogo attirato la mia attenzione, in quanto compare il significante presenza legato a quello dell’analista. Certo l’analista accoglie domande, le più disparate, direi persino richieste, ma che sviluppo, che destino conferisce ad esse? Due punti mi sembrano importanti, che scandiscono anche due declinazioni della presenza: l’iniziale, ma fondamentale «implicazione del suo ascolto […] [come] la condizione della parola», implicazione che traduce l’esigenza stessa della tecnica psicoanalitica, ossia quella di renderla «così discreta». L’analista dunque non risponde alla domanda dal lato della soddisfazione del bisogno, ma vi risponde con la sua implicazione in modo tale che essa si snodi in una catena di significanti, che la articolino, la dispieghino. Questo non rispondere dal lato del bisogno però non equivale, come scrive Lacan, a frustrare il soggetto, il che farebbe ricadere la psicoanalisi in una rieducazione emotiva, dai tratti un po’ sadici, ma ha piuttosto la finalità di far riapparire «i significanti in cui è trattenuta la sua frustrazione», ossia portare la domanda al piano superiore del grafo, il piano di S(Ⱥ). È questo il livello in cui per Lacan si situa la seconda declinazione della presenza dell’analista: «Solo più tardi la sua presenza sarà notata. Del resto, il senso più acuto della sua presenza è legato a un momento in cui il soggetto può solo tacere, in cui cioè indietreggia persino di fronte all’ombra della sua domanda». Dunque non c’è soddisfazione della domanda, ma nemmeno la sua frustrazione dal lato del frustrare il soggetto o del correggere la domanda stessa, piuttosto un farsi da supporto ad essa affinché emergano i significanti in cui è trattenuta la sua frustrazione, cosa che evidentemente lascia aperta la questione di cosa si sceglierà di farsene, al termine, al termine dello svuotamento della domanda stessa, nel più assoluto esilio di fronte a ciò che ha causato la domanda fondamentale e ai suoi resti inassimilabili, che permangono come termine logico del processo stesso. Questo punto del «senso più acuto della sua presenza» è qualcosa di cui Freud, a modo suo, si era già accorto e rispetto al quale, servendosi per primo della metafora della battaglia, aveva convocato e invocato la necessità della presenza dell’analista. Scrive infatti così, nel 1912, come conclusione del suo testo Dinamica della traslazione9:
Gli impulsi inconsci non intendono essere ricordati, come la cura vorrebbe, bensì tendono a riprodursi in modo corrispondente all’atemporalità e alla capacità allucinatoria dell’inconscio. Come nel sogno, il malato attribuisce attualità e realtà agli esiti del risveglio dei suoi impulsi inconsci; egli vuole mettere in atto le sue passioni senza tener conto della situazione reale. Il medico vuole obbligarlo a inserire questi impulsi emotivi nel contesto del trattamento e in quello della storia della sua vita, a sottoporli alla considerazione intellettuale e a identificarli secondo il loro valore psichico. Questa lotta tra medico e paziente, tra intelletto e vita pulsionale, tra conoscenza e volontà di agire si svolge quasi esclusivamente nell’ambito dei fenomeni di traslazione. È su questo terreno che deve essere vinta la battaglia, e la vittoria si esprime nella guarigione definitiva dalla nevrosi. È innegabile che il controllo dei fenomeni di traslazione crea allo psicoanalista le maggiori difficoltà, ma non bisogna dimenticare che proprio essi ci rendono il servizio inestimabile di rendere attuali e manifesti gli impulsi amorosi, occulti e dimenticati, dei malati. Infatti, checché se ne dica, nessuno può essere battuto in absentia o in effigie10.
3Certo Freud in questo passaggio è un po’ animato dalla carne che brucia nelle cure, ma in fondo aveva già colto che il momento più “acuto” sul “campo di battaglia” (in latino acies, aciei è un sostantivo che oltre a significare la punta di un’arma, indica anche l’esercito schierato in battaglia, il campo stesso di battaglia, nonché il taglio provocato dall’acutezza della parola) è quello che richiama un far sentire la “presenza” dell’analista, ossia il suo atto. Ora è su questo punto cruciale della “necessità logica” della presenza, come d’altronde Lacan stesso lo dimostra analizzando alcuni casi ne La direzione della cura e i principi del suo potere – ricordo qui velocemente il caso di Ernst Kris oppure quello dell’allieva di Bouvet –, che si rivela di che stoffa è fatto l’analista e che cosa ci si attende dal suo farsi presente:
Resta che le flagranti incertezze nella lettura dei grandi concetti freudiani, sono correlative alle debolezze che gravano sul travaglio pratico.
Vogliamo far capire che nella misura delle impasses incontrate nello sforzo di cogliere la loro azione nella sua autenticità, ricercatori e gruppi finiscono per forzarla nel senso dell’esercizio di un potere.
E sostituiscono questo potere alla relazione con l’essere in cui tale azione prende posto, facendone decadere i mezzi, quelli della parola, dalla loro eminenza veridica. Ecco perché è una sorta di ritorno del rimosso, strano quanto si vuole, ciò che, dalle pretese meno disposte a occuparsi della dignità di tali mezzi, fa sì che sorga il discorso senza capo né coda di un ricorso all’essere come a un dato del reale, quando il discorso che vi regna respinge ogni interrogazione che una superba piattezza già non abbia riconosciuto11.
4È dunque «l’impotenza a sostenere autenticamente una prassi»12, ossia una certa «relazione [autentica] con l’essere in cui tale azione prende posto», veicolata dai mezzi della parola e dalla loro «eminenza veridica», ciò che degrada la presenza dell’analista all’esercizio di un potere e che riduce la pratica della psicoanalisi a un’esperienza duale, in cui «si confonde questa necessità fisica della presenza del paziente all’appuntamento, con la relazione analitica»13.
5Lacan qui è molto preciso. Si può certamente obiettare che è il primo tempo del suo insegnamento, ma personalmente penso che abbia ancora tutta la sua freschezza e la sua validità, perché ciascuno proceda nelle direzioni delle cure lungo i binari dei principi. Riprenderò comunque più avanti questa questione della presenza dell’analista nel primo Lacan e nell’ultimissimo Lacan, sollecitato da una questione che è Jacques-Alain Miller in persona a porsi, che possiamo fare nostra e che possiamo leggere nel libro di Di Ciaccia e Miller, l’uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano14. Si tratta del capitolo 12 del libro, intitolato L’essere è il desiderio15. Dicevo poc’anzi che Lacan nello scritto La direzione della cura e i principi del suo potere è molto preciso nel cercare di definire l’essere, di cui l’analista dovrebbe aver fatto esperienza nella sua analisi e di cui dovrebbe dare testimonianza, negli effetti, nel modo in cui offre la sua presenza per incidere con la sua azione sull’essere del soggetto a cui è indirizzata. Così Lacan per avvicinarci all’essere in questione, attraverso una cesura davvero tranchant, ci fa fare un viraggio dagli «effetti che la persona dell’analista avrebbe»16, seguendo i colleghi postfreudiani e aggiungendo con un certo spirito pungente e acuto il seguente commento «pensate di quale nobiltà d’animo diamo testimonianza quando mostriamo che la nostra argilla è la stessa di cui son fatti coloro che plasmiamo»17, alla affermazione nuda e cruda che l’analista «deve pagare con ciò che di essenziale c’è nel suo più intimo giudizio, per mescolarsi a un’azione che va al cuore dell’essere»18. «il cuore dell’esperienza psicoanalitica e […] il campo stesso in cui si dispiega la passione del nevrotico»19, e dunque anche quella dell’analista come prodotto dell’analisi, è la «mancanza-ad-essere del soggetto»20. Sono queste le parole con cui Lacan sforbicia tutto l’immaginario sull’analista e la sua presenza: «Il proprio livello operativo l’analista lo deve trovare nel rapporto con l’essere […] Va formulata un’etica che integri le conquiste freudiane sul desiderio: per mettere in capo ad essa la questione del desiderio dell’analista»21. Di che cosa dunque testimonia la sua presenza? Di che esperienza se non di quella di cui ha fatto la prova nell’analisi, in cui si è dispiegata la sua passione, ossia quella della mancanza-ad-essere? Come testimonia nelle cure dell’esperienza che ha fatto al cuore dell’essere e come la rende operativa nell’uno per uno? Si tratta dunque, in questo tempo dell’insegnamento di Lacan, di un inquadramento dell’azione dell’analista a livello dell’ontologia, ossia dell’essere, del suo nucleo, che Jacques-Alain Miller definisce con queste parole: «il nucleo del nostro essere è dell’ordine del desiderio, di un desiderio impossibile da afferrare e da trattenere a dispetto del secondario»22. Si tratta di un desiderio che ha come suo correlato, dal lato della funzione analista, quello che Lacan chiama “desiderio dell’analista”, come Jacques-Alain Miller mette bene in luce in una lezione del suo Corso del 2010-2011 sul concetto di essere e di uno, a cui ho accennato poc’anzi e da cui ho tratto le ultime citazioni. Essa ha come titolo L’essere è il desiderio e come sottotitolo La metafisica dell’azione analitica. Dal riconoscimento alla causa del desiderio. Il godimento, causa della realtà psichica. Il suo interesse in relazione al tema della presenza dell’analista si mostra a partire dall’accento che viene posto da Miller su questo punto di passaggio nell’insegnamento di Lacan. Infatti, la progressiva rinuncia di Lacan all’ontologia, per abbordare il soggetto, gli fa compiere un viraggio dalla categoria della mancanza-ad-essere a quella del buco, che però lasciano aperta e ancora da ponderare la questione del loro rapporto e della loro differenza, come sottolinea Miller in questa lezione. Potremmo innanzi tutto dire, seguendo Miller, che tra queste due categorie si tratta di una distanza che chiama in causa l’azione dell’analista, ossia l’atto dell’interpretazione, su due registri completamente differenti: l’ordine del senso da un lato e quello del reale dall’altro (un’interpretazione che fa piuttosto segno). L’operazione del Lacan de La direzione della cura e i principi del suo potere è stata necessaria per chiarire «la metafisica dell’azione analitica, ossia assegnare l’essere su cui verte questa azione»23. Essa aveva il compito di chiarire a partire da che cosa l’azione dell’analista potesse avere effetti di trasformazione sul nucleo dell’essere, cui si indirizzava, e quale fosse l’essere su cui essa intendeva agire. Si trattava dunque di un’azione analitica il cui perno poggiava su quel registro dell’interpretazione che, come dice Miller, «fornisce anche senso, ma per permettere una venuta all’essere, di far essere ciò che non era, di cui si può inferire che ça vuole essere anche se il soggetto non se lo confessa. L’analista sarebbe in qualche modo l’ostetrico dell’essere incompiuto!»24 L’operazione che invece Lacan compie nel suo ultimissimo insegnamento, dopo aver elaborato e messo in forma il concetto di godimento, è quella di formulare che «C’èdell’uno»25, il cui statuto non è né dell’ordine della mancanza, né di quello dell’essere, piuttosto quello del corpo e del suo reale, attraverso il concetto di evento. Si passa dunque da un tempo in cui vige il primato dell’Altro della parola, che porta a «ricostituire la storia del soggetto a partire dalle avventure […] del suo essere»26, sottolinea Miller, al piano del C’èdell’uno, in cui dal desiderio che è sempre e solo stato dell’Altro, si assiste ora alla sua deflazione, all’evacuazione della sua consistenza, trovandosi confrontati nella più radicale solitudine a questo C’èdell’uno singolare, differenza assoluta, insieme di resti sintomatici e più corpo proprio marcato da un godimento che essere, conseguenza del buco nell’Altro, e dunque caduta di qualsivoglia appello da indirizzargli su che cosa farsene di questo faccia a faccia con il proprio C’èdell’uno. L’Altro si evacua e insieme ad esso anche la consistenza del desiderio, sempre ad esso legata. Nella sua Postfazione al Seminario XI 27, che si trova pubblicata in Altri scritti, Lacan scrive: «il godimento arriva a causare quel che si legge come il mondo»28. Così commenta Miller:
Ciò vuol dire che il godimento è il segreto dell’ontologia, la causa […] dell’ordine simbolico la cui filosofia ha fatto il mondo. C’è un’opposizione tra ontologia e godimento. L’ontologia fa il suo posto a ciò che vuole essere, e comporta ugualmente il possibile, mentre il godimento è del registro dell’esistente. È per questo che Lacan ha potuto dire, nel suo ultimo insegnamento, Altri scritti pagina 565, che la psicoanalisi contraddice il fantasma della metafisica (può essere che sia io ad aggiungere questo), che consiste nel far “passare l’essere avanti all’avere”: per questo l’avere è prima di tutto avere un corpo.
Possiamo dire che fino a quel momento il soggetto lacaniano non aveva un corpo? No, non possiamo dirlo. Ma aveva solo un corpo visibile, ridotto alla pregnanza della sua forma. Con la pulsione, la castrazione, l’oggetto piccolo a, il soggetto ritrovava un corpo? Sì ma un corpo sublimato, trascendentalizzato dal significante.
Va in modo completamente diverso a partire dalla giaculatoria C’èdell’uno, perché il corpo appare, da allora, come l’Altro del significante, in quanto il significante vi fa evento. L’evento di corpo che è il godimento appare come la vera causa della realtà psichica29.
6È ancora il desiderio dell’analista ciò che può definire l’impossibile a dirsi della posizione dell’analista, si domanda Miller? Concludo con queste parole di Miller, che lasciano aperto un interrogativo e che spingono a ulteriori elaborazioni sulla questione della presenza dell’analista e del nuovo che la singolarizza:
Questo [il passaggio dalla mancanza-ad-essere al buco prodotto dal C’èdell’uno] lascia in sospeso la definizione del desiderio dell’analista, Lacan lo invocava per far passare l’essere inconscio, ossia rimosso, allo stato compiuto. Il rimosso come ciò che vuol essere faceva appello al desiderio dell’analista, per venire all’esistenza. La posizione dell’analista, quando si confronta con C’èdell’uno nell’oltrepasse, non è più marcata dal desiderio dell’analista, ma da un’altra funzione che dovremo elaborare in seguito30.
7Dunque, quale altra funzione in attesa di un nome per dire della posizione dell’analista e dell’incidenza della sua presenza? Quale nome per dire un modo della presenza, che è passata dall’Altro, ne ha esperito il buco, si è confrontata nella più completa solitudine con i resti di godimento che la singolarizzano e che, appoggiandosi su essi, trova la forza creativa di farne uno stile di presenza singolare? Certamente la passe permette l’esperienza di poter scrivere le lettere della propria presenza singolare, nel modo di abitare nel legame la solitudine radicale da cui si può sorgere, in quell’attimo, ogni volta e senza garanzia alcuna, senza ripiegare cinicamente o desolatamente nell’isolamento, e nell’autorizzarsi a condurre l’altro a poter fare la sua esperienza con C’èdell’uno e a farsi con essa singolare. Ma questa funzione così singolare, fatta più di indicibile e di atti, che non sempre si rivelano tali, di mostrazioni in opera più che di dit-mostrazioni in après-coup, volendo, per spingersi di più sull’intraducibile, che resa potrebbe dirla? Nel mio caso, quando mi sono trovato a scrivere la mia testimonianza di passe per il Congresso dell’AMP, ho reso l’intraducibile della mia esperienza con il titolo Un osso di niente: qualcosa che resta, marca il mio stile e l’annodamento tra il mio reale, simbolico e immaginario. Un nome della presenza che mi singolarizza tra altre singolarità, da cui la mia pratica per lungo tempo tanto temuta e a cui non mi sentivo assolutamente pronto ne trae uno stile, mio, ma uno tra tanti. Non a caso forse “presenza” dice di un “esserci” non tanto e non solo di parole, ma certo di un modo di abitare la solitudine, la solitudine di fronte al godimento del proprio corpo, godimento isolato, circoscritto, separato, e dunque assunto, e che per ciò stesso, può condurre a un nuovo modo di fare e sostenere il legame, altro tra altri, senza farsi troppo abbagliare, anche quando vi si incappa, nel narcisismo delle piccole differenze. Presenza forse come modo di prestarsi a un legame con l’altro, che testimoni di un’esperienza di solitudine abitabile, per condurlo a fare la sua esperienza e poter stare, a suo modo, nel reale della vita in un legame possibile, condivisibile, tra altre solitudini.
Notes de bas de page
1 J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere [1958], in Scritti, Torino, Einaudi, 1974 e 2002, vol. II.
2 S. Nacht, La psychanalyse d’aujourd’hui, Paris, PUF, 1956.
3 J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere cit., p. 580.
4 Ivi, p. 587.
5 Ivi, p. 597.
6 Ivi, p. 608.
7 Ivi, p. 615.
8 Ivi, pp. 613-614.
9 S. Freud, Dinamica della traslazione [1912], in Tecnica della psicoanalisi [1911-1912], in Opere, Torino, Bollati Boringhieri, 1974, vol. 6.
10 Ivi, p. 531.
11 J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere cit., pp. 607-608.
12 Ivi, p. 581.
13 Ivi, p. 591.
14 J.-A. Miller e A. Di Ciaccia, l’uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano [2010-2011], Roma, Astrolabio, 2018.
15 Ivi, p. 151.
16 J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere cit., p. 580.
17 Ibidem.
18 Ivi, p. 582.
19 Ivi, p. 608.
20 Ibidem.
21 Ivi, p. 610.
22 J.-A. Miller e A. Di Ciaccia, l’uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano cit., p. 154.
23 Ibidem.
24 Ivi, p. 156.
25 Ivi, p. 159.
26 Ibidem.
27 J. Lacan, Postfazione al Seminario XI [1973], in Altri scritti, Torino, Einaudi, 2013.
28 Ivi, p. 504.
29 J.-A. Miller e A. Di Ciaccia, l’uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano cit., p. 160.
30 Ibidem.
Auteur

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