5. Sacralizzazione e desacralizzazione. Potere politico e interpretazione religiosa
p. 135-154
Texte intégral
1«Mia è la vendetta, dice il Signore». La citazione è senz’altro nota ai lettori della Bibbia, ma anche ad animi più secolari potrà apparire familiare, non in ultimo perché Tolstoj ne ha fatto il motto del suo romanzo coniugale Anna Karenina. È tratta dal Deuteronomio (32, 35) ed è parte della resa dei conti di Mosè con il suo popolo disobbediente: una terribile minaccia di un duro castigo e di un’inarrestabile apocalisse. La stessa parola si trova anche nella Lettera ai romani di Paolo, che la cita dandole però una prospettiva propria (Rm. 12, 19): «Non vendicatevi, non fatevi giustizia da soli, carissimi, ma lasciate la giustizia al Signore». Per molti credenti e non-credenti questa parola, nella sua formulazione originaria, suona in maniera terribile, dato che la loro immagine di Dio, sempre che ne abbiano una, si è ormai completamente trasformata in quella di una persona sovrumana amorevole, comprensiva e che tutto perdona. Il nome proprio “Fürchtegott” [Timoroso di Dio, N. d. T.] è scomparso. In Paolo invece, si esorta con un grande cambiamento al perdono e alla riconciliazione umani, perché il monopolio della vendetta e del castigo sono lasciati a Dio. La giusta intonazione è allora: «Mia è la vendetta», e non più «Mia è la vendetta». Ma anche di fronte a questa formulazione attenuata, che molti contemporanei troveranno più attraente, i dubbi si fanno presto sentire. L’idea che ci possa essere una rinuncia complessiva alla vendetta umana è davvero realistica in senso buono? Non è forse così che – come ha rilevato Max Weber nelle sue famose Osservazioni intermedie94 – «la violenza e la minaccia di violenza, secondo una prassi inevitabile per ogni agire, dà inevitabilmente vita a nuova violenza?». Se soltanto Dio ha diritto alla vendetta, chi allora tra gli uomini può parlare per lui, chi può interpretare la volontà di Dio? In questo gesto di subordinazione alla volontà di Dio non si nascondono forse presunzione e volontà di potenza, e il pericolo che determinate forze si propongano come «la voce e la spada di Dio»95?
Due presupposti insostenibili
2Sono domande che si potrebbero definire domande di teologia politica, domande sulla religione in quanto tale o su specifiche religioni in quanto portatrici di pace o come fonti di violenza, o anche di entrambe le cose, a seconda delle condizioni date (che sarebbero da analizzare), o forse delle due cose insieme, proprio perché la buona coscienza rischia di alimentare l’autogiustificazione.
3Con il presente contributo s’intende sviluppare una proposta che possa afferrare e risolvere i problemi cui abbiamo accennato, a partire dalla prospettiva di una sociologia della religione storico-comparativa. Per questa ragione sarà dato poco spazio ad altre proposte o a teorie concettuali. Tutti sanno quanto è difficile definire “religione”, e non è meno difficile determinare i termini “politica” e “il politico”, soprattutto se non si prendono in considerazione soltanto i fenomeni dello statalismo moderno. La confusione terminologica si mostra chiaramente nei dibattiti sulla relazione che intercorre tra i totalitarismi del xx secolo e i processi di secolarizzazione a partire dal xviii. Se si raccolgono le diverse proposte in merito, ci s’imbatte in una vera e propria giungla terminologica: religione sostitutiva o sostituti della religione, religione politica o religione secolare, pseudoreligione, criptoreligione, religione camuffata o nuova religione, perdita del trascendente o trascendente pragmatico; tutte queste definizioni e molte altre vengono impiegate o inventate per rendere giustizia all’intuizione che i totalitarismi sviluppino una forma che ricorda le religioni storiche. Senza quindi addentrarsi all’interno di questi approcci o sforzi s’intende formulare l’obiettivo fondamentale, cui a mio parere deve tendere un tentativo contemporaneo in questo campo. E l’obiettivo si deduce, secondo me, da una caratteristica – ai miei occhi centrale – dell’attuale costellazione politico-religiosa. Alla base della domanda sul ruolo del terrorismo di motivazione religiosa, o sulla religione come mezzo utile o al contrario d’ostacolo all’integrazione di determinati gruppi d’immigrati, o sul significato dell’islam rispetto all’entrata della Turchia nell’Unione Europea – a un livello più profondo di queste domande mi pare ci sia il fatto che le due apparenti certezze che dal xviii secolo hanno dominato il dibattito politico-religioso si sono dimostrate insostenibili96. I credenti dovranno abbandonare l’apparente certezza (a lungo un presupposto fondamentale) secondo cui l’uomo è antropologicamente orientato alla religione, e che là dove si dovesse contravvenire a questa necessità – fosse per costrizione, per hýbris umana o per superficialità consumistica – ne deriverebbe soltanto decadenza morale. La decadenza morale (senza Dio ogni cosa è permessa), predetta continuamente tanto dalla teologia seria quanto dalla semplice apologetica della fede, non si è però verificata nelle società contemporanee più secolarizzate. I rapporti empirici di religione e morale non paiono così semplici come qualcuno vorrebbe.
4E viceversa, anche coloro che non credono e che hanno un atteggiamento critico nei confronti della religione devono ormai abbandonare la certezza, solo apparente, che vede la religione come qualcosa di storicamente superato, e che di conseguenza tendono a figurarsi i credenti come arretrati, le forme esistenti di vita religiosa come relitti e se stessi nella loro miscredenza come la punta di diamante del progresso storico-mondiale. La modernizzazione economica e tecnico-scientifica di società e culture al di fuori dell’Europa e del Nord America ha mostrato che molto di ciò che è stato considerato una relazione causale necessaria tra modernizzazione e secolarizzazione è da riportare a contingenze della storia europea. Persino gli ultimi sostenitori che suppongono una tale corrispondenza si affrettano ormai a sottolineare che il nostro mondo diverrà, in tempi brevi, sempre più religioso. Sono costretti a tale concessione non appena prendono in considerazione la crescita demografica e il diverso grado di fertilità di società secolarizzate o di società religiosamente vitali. La possibilità di utilizzare una tendenza storica, e dimostrabile con i fatti, contro la fede si rivela insostenibile, come e quanto, dall’altra parte, l’autocompiacimento fariseo di essere uomini moralmente superiori soltanto a causa della fede.
5Chi rimane legato all’idea che una secolarizzazione radicale sia antropologicamente impossibile non potrà che vedere i totalitarismi come un mero sostituto delle religioni storiche, come il risultato della secolarizzazione o come tentativo di compensazione per le perdite della secolarizzazione. Vi è insito il pericolo di tralasciare completamente ciò che queste nuove creazioni contengono di nuovo o di leggerle attraverso il vecchio e ormai noto motivo nella storia della religione, forse addirittura di ricondurlo a una storia delle influenze sotterranee e mistificate di motivi gnostici o millenari. Chi al contrario tiene fede all’idea che la modernizzazione porti alla secolarizzazione, percepirà i tratti quasi-religiosi dei totalitarismi come sintomi di una religione non ancora del tutto superata, come idee, pratiche e istituzioni che, come le religioni della tradizione, non hanno futuro97.
6L’obiettivo decisivo nella situazione attuale è quindi quello di parlare di questi totalitarismi e dell’intera storia mondiale della relazione tra religione e politica, senza affrontarli a partire da queste due certezze apparenti. Per farlo è necessario in primo luogo tracciare una chiara separazione terminologica tra il sacro e la religione – almeno nell’accezione secondo cui il sacro non è ricavato dalla religione, ma dove al contrario s’intendono le religioni come un tentativo d’interpretare l’esperienza del sacro, di renderla possibile attraverso pratiche e narrazioni e di dar loro durevolezza attraverso l’istituzionalizzazione. La nascita della sacralità nell’esperienza umana è in effetti il punto di partenza della nostra proposta. E si esclude a priori qualsiasi idea secondo la quale “religione” e “politica” siano due entità chiaramente distinguibili. Ne va piuttosto di non perdere d’occhio il fatto che dovremmo parlare di esseri umani, delle loro azioni ed esperienze, di relazioni sociali e non soltanto di “fattori” e “sistemi”. Solo se non perdiamo di vista questo, possiamo sperare di dipanare con successo la matassa della mutua relazione storica tra sacralità e potere.
Sacralità e autotrascendenza
7La nascita della sacralità rappresenta un fenomeno antropologico fondamentale98. Gli uomini fanno esperienze in cui si sentono condotti al di là dei confini di sé – sono esperienze della “autotrascendenza”. Quando fanno tali esperienze non possono evitare di riportare la forza dell’esperienza – che supera la loro volontà, ma da cui dipende la loro forza di vita – a fonti al di fuori di sé. A queste fonti si ascrivono caratteristiche che si distinguono dalle caratteristiche di cose, persone o situazioni quotidiane. Se a queste esperienze del sacro (e alle loro fonti) si applica poi la domanda sull’accettabilità morale, allora il sacro, che può comprendere il bene e il male, il divino e il diabolico, diviene il bene assoluto. Così come l’esperienza della autotrascendenza costituisce un dato irriducibile della vita umana, allo stesso modo si può parlare di un “fatto della formazione dell’ideale” 99. Con ciò non intendo anzitutto altro che il dato empirico, che mostra come le persone siano portate, nella convivenza, alla costruzione di ideali, quindi a produrre rappresentazioni del bene e del male che sembrano loro soggettivamente evidenti (e che in questo senso non necessitano di ulteriori giustificazioni, ma che anzi vi sono sottese come certezza fondamentale ed essenziale) e la cui evidenza li coglie con grande intensità affettiva. Ho scelto la definizione “fatto della formazione dell’ideale” in cosciente analogia – sebbene con involontaria irriverenza – al discorso di Kant sul fatto della ragion pura pratica. La mia formulazione però mostra subito una doppia differenza rispetto alla filosofia morale di Kant. Il concetto dell’ideale è molto più ampio di quello della morale cui mirava Kant, e sottolinea la dimensione d’attrazione piuttosto che quella di restrizione. Attraverso un discorso intorno alla formazione dell’ideale, e non semplicemente all’ideale o alla morale, si mostra, anziché una valenza perpetua e sovrastorica, un’origine inaspettata e assolutamente storica.
8Questo pensiero fondamentale sarà specificato nel seguito in alcuni dei suoi aspetti. È molto importante notare che nella formazione dell’ideale non si ha che fare con un processo intenzionale. Non possiamo decidere di considerare qualcosa come ideale, ma al contrario ne dobbiamo essere catturati, motivo per cui in tutti questi casi ne facciamo esperienza passiva, come beneficiari di un dono, ascoltatori di un annuncio, ricettori di un’ispirazione. Il discorso condotto da Nietzsche nella Genealogia della morale riguardo a una “fabbricazione” è perciò del tutto inadatto per il fenomeno in questione100. Inoltre è da sottolineare che l’abisso tra ideale e reale non è fisso, ma storicamente variabile. Anche se si pone l’accento sul fatto della formazione dell’ideale, non vi è alcun legame con la supposizione che la storia (nel senso di una filosofia idealistica della storia) sia un processo evolutivo di realizzazione dell’ideale teleologico. L’accento posto sulla formazione dell’ideale sottolinea al contrario che nascono, appunto nel processo storico, sempre nuovi ideali, che rompono con quelli antichi e che danno nuove direzioni alle azioni. Si pone così al centro il cambiamento storico nelle sue molteplici forme, contro la logica di uno sviluppo unico. La nascita di nuovi ideali comprende l’appannarsi dei vecchi, per lo meno comporta lo slittamento d’idee, obbliga a nuove sintesi. Un tale cambiamento può avvenire in modo repentino oppure strisciante. Ciò che noi chiamiamo secolarizzazione, all’interno di questa prospettiva, si dimostra molteplice, dato che può comprendere lo slittamento dell’intensità affettiva da un determinato contenuto ideale a un altro – per esempio là dove al posto del legame con il cristianesimo si è inserito quello con il socialismo –, ma può comportare anche e semplicemente una diminuzione d’intensità, un’“institution démotivée” 101, priva dunque di nuovi contenuti con i quali nascano legami d’intensità affettiva.
9Ho parlato della “costruzione dell’ideale” e non della “nascita dei valori” anche per evitare le connotazioni che il termine “valori” continua a implicare per alcuni filosofi e teologi tedeschi. Ma è ancora più importante l’intento di non voler ridurre il fenomeno a un fatto intellettualistico, come se ne andasse principalmente della costruzione di consenso intorno a contenuti che possono essere formulati in modo proposizionale. Il fenomeno che intendiamo qui in realtà è un processo unitario che tocca strati della persona più profondi di quelli che coinvolgono la sua capacità argomentativa. Perciò si consiglia di parlare anche in questo caso di “sacralizzazione”, di un incontro profondamente sconvolgente o entusiasmante con forze coinvolgenti, che ci forniscono un’immagine del bene o del male, che possiamo trasformare soltanto incompiutamente in singole descrizioni condivisibili, le quali per altro non comportano necessariamente una divisione netta e precisa tra bene e male.
La formazione dell’ideale come autosacralizzazione del collettivo
10Il pensiero di molti pensatori importanti all’inizio del xx secolo convergeva (seppur con terminologie differenti) su questo concetto fondamentale del “fatto della formazione dell’ideale” e della dinamica necessariamente storica di processi di sacralizzazione e desacralizzazione. Tutti loro si opposero tanto ai tentativi “materialistici” di denuncia degli ideali come mera ideologia o illusione, quanto all’esaltazione “idealistica” dell’ideale secondo cui il bene umano è in opposizione alle altre dimensioni dell’agire umano. Appartengono a questo pensiero i pragmatisti americani William James e John Dewey, Josiah Royce, che si muove tra il neoidealismo e il pragmatismo, il fondatore della sociologia francese Émile Durkheim; in Germania Georg Simmel, Max Scheler, Ernst Troeltsch e per certi aspetti Max Weber. Il pensiero fondamentale si esprime forse nella maniera più esemplare in Émile Durkheim, quando nella “sintesi” della sua opera classica su Le forme elementari della vita religiosa del 1912 102 si sforza di dimostrare che le religioni sono generate dalla società, ma allo stesso tempo si rifiuta fermamente di essere associato al materialismo storico. Durkheim mirava alla facoltà tipica dell’uomo di «concepire l’ideale e aggiungerlo al reale», mentre l’animale secondo lui conosce soltanto «il mondo che percepisce attraverso esperienza interiore ed esteriore»103. Per lui però non aveva senso trattare questo fatto antropologico fondamentale come «una virtù misteriosa che sfugge alla scienza»104, poiché è proprio al contrario questa capacità umana a dover essere esaminata empiricamente nelle sue forme concrete. Si deve anzitutto evitare l’errore di trattare la formazione dell’ideale come se fosse «una specie di lusso di cui l’uomo potrebbe fare a meno»105; essa è piuttosto la sua condizione esistenziale. «Una società non può crearsi né ricrearsi senza creare nello stesso tempo qualcosa di ideale. Questa creazione non è per essa una specie di atto supplementare con cui essa si completerebbe una volta formata; è l’atto con cui essa si fa e si rifà periodicamente. (…) La società ideale non è al di fuori della società reale; essa ne fa parte. Non si può essere divisi tra le due come tra due poli opposti che si respingono, poiché non si può appartenere a una senza appartenere anche all’altra»106. Ciò significa che di una società fa parte l’idea centrale che essa si fa di se stessa, alla quale non necessariamente corrisponde, ma a cui tende.
11Tra i pensatori pragmatisti si trova lo stesso pensiero, applicato però perlopiù all’uomo in quanto individuo. William James per esempio introduce una diversificazione tra il sé “in actu” e il sé “in posse” 107 e rileva che non possiamo adeguatamente comprendere l’individuo, se lo guardiamo soltanto attraverso le sue caratteristiche e prestazioni e non per gli ideali che gli sono propri. Sappiamo tutti dall’autoosservazione che ci sentiamo stretti e sottovalutati quando gli altri non comprendono il nostro potenziale, riducendoci a ciò che di noi è dimostrato. Nondimeno, nei rapporti con gli altri, questo errore ci capita di continuo. Naturalmente ci sono anche gli ironici e gli scettici, cioè persone che hanno un rapporto spezzato con il proprio ideale o con molti ideali, ma la mancanza assoluta di una qualsiasi relazione dell’individuo con l’ideale è per James equiparabile alla depressione più nera, alla vita in un mondo che non sviluppa alcuna qualità per noi attraente. Nella filosofia di Josiah Royce il pensiero secondo cui disponiamo del «power to form ideals» (“potere di formare ideali”) che è «a product of my nature as human being» («un prodotto della mia natura di essere umano»)108 diventa il punto di partenza per ampie riflessioni etiche e di teoria della religione. Ernst Troeltsch sviluppò, con lo stesso pensiero di fondo, le sue concezioni di una via d’uscita dai pericoli relativistici dello storicismo e da una storia universale della religione109.
12Ma basta con le autorassicurazioni storico-scientifiche. A questo punto si potrebbe pensare che il mio messaggio sia in fondo un umanesimo benevolente. Ciò non sarebbe forse la cosa peggiore; ma io ho di mira una direzione completamente diversa. Se infatti pensiamo principalmente agli individui e prendiamo sul serio la moltitudine degli ideali, la loro grande variabilità culturale e storica, e il fatto che agli uni possa apparire come evidentemente bene ciò che agli altri appare come evidentemente male, ci avviciniamo alla consapevolezza che il “fatto della formazione dell’ideale” non si riferisce semplicemente al vero, al bello, al bene in sé, ma che ha un rovescio. La formazione dell’ideale è infatti, nella sua forma originaria, un’idealizzazione di condizioni particolarmente riuscite del collettivo dal quale l’ideale proviene; in origine la sacralizzazione di determinati contenuti è sempre un’autosacralizzazione del collettivo. È sostanzialmente a partire da una prospettiva individualistica e anacronistica che pensiamo prima di tutto all’individuo nella sua esperienza di discordanza tra l’ideale e il vero potenziale. Nelle società dei cacciatori e raccoglitori pare però, come documentano ricerche sugli aborigeni australiani110, che l’ideale esista invece solamente nell’autocompiacimento collettivo per il rituale riuscito. Nessun individuo è durevolmente considerato come l’incarnazione della condizione ideale del collettivo.
13L’incarnazione personale dell’ideale si presenta come un livello di sviluppo superiore nella ricostruzione del processo evolutivo. Questo non significa però che l’autosacralizzazione originaria del collettivo sparisca. Altri gruppi, che non prendono parte all’estasi del rito collettivo e che quindi non si avvicinano alle forze sconvolgenti di cui in esso si fa esperienza, sono considerati come “non-sacri” e i loro componenti sono considerati come “creature d’ombra” 111 che non conoscono la vita vera, potenziata. Nel proprio collettivo si è portati ad assegnare una particolare idealità a coloro che conoscono meglio il rito collettivo, come gli anziani e coloro che sono più esperti della preparazione, dello svolgimento e dell’interpretazione dell’accadere rituale. Questa personalizzazione può però rimanere del tutto interna alla dinamica di processi di sacralizzazione, senza che vi sia una vera diversificazione dal potere o addirittura dalla politica: gli esseri umani possono diventare un modello senza avanzare, in virtù della loro esemplarità, alcuna pretesa impegnativa rispetto alla costruzione di un seguito, né di privilegi materiali.
14Ciononostante, da quel momento in poi, ogni stadio della costruzione di potere e dominio sarà vissuto dal collettivo nel panorama di quest’autosacralizzazione. Gli anziani o gli stregoni (sciamani, guaritori ecc.) possono così acquisire crescente potere, così come (allo stesso modo e in maniera capovolta) ai guerrieri in lotta contro avversari valorosi può essere ascritta una forza superiore, dovuta appunto alla pienezza sacrale. Nascono così non soltanto uno stato per cui il collettivo si sente elevato in quanto unità, né solo la semplice venerazione di anziani o modelli esemplari, ma si costruisce una sacralità che è sostenuta dal potere, mentre il potere è esperito come sacro. La forma di ciò può essere enormemente variabile. Parlo consapevolmente di “potere” e di “sacro”, poiché “religione” e “politica” suggeriscono condizioni che appunto non sono ancora date, cioè una sistematizzazione professionale del sacro o la realizzazione di strutture statali elementari. Con la loro nascita e il loro consistente sviluppo in Egitto, Mesopotamia o Cina si accresce a dismisura la concentrazione di sacralità in singole persone di potere, già esistita nella sacralizzazione dei “capitribù”, dei luoghi da loro abitati o di quelli in cui sono sepolti, attraverso culti officiati da loro o su loro incarico. Non si può più parlare allora di un ideale semplicemente come di uno stato elevato di una collettività o del riconoscimento di un singolo come modello; ora possono essere impiegati strumenti di potere per rafforzare un dato culto, si possono giustificare richieste di sottomissione in nome di un ruolo cosmico del sovrano o esigere e sistematicamente ampliare riti sacrificali o sacrifici umani. La nostra fantasia è ancora oggi pervasa da immagini che rimandano alla natura violenta delle forme di Stato arcaiche: ai faraoni o a Nabucodonosor, oppure ai sacrifici umani degli Aztechi – senza entrare nel merito di quale parte di queste immagini sia pertinente alla verità storica e quale parte da ascriversi a propaganda nemica volta a destare orrore.
La svolta dell’epoca assiale
15La fusione di religione e politica nello Stato arcaico ha lasciato, almeno a livello immaginativo, uno scenario dell’orrore di portata persistente. Per la nostra domanda sul rapporto tra potere politico e interpretazione religiosa è di centrale importanza il fatto che proprio la stessa storia della religione abbia reagito nel modo più duro alle religioni tribali e in particolare al potenziale violento delle religioni arcaiche. Già Max Weber, quando parlava di un’“epoca della profezia” (non soltanto rispetto agli ebrei) e di un’eticizzazione delle rappresentazioni della salvezza ha mostrato, collegandosi a importanti correnti della storiografia religiosa del xix secolo, la rottura profondamente religiosa con la sacralità sorretta dal potere, tipica degli Stati arcaici112. Karl Jaspers nel suo libro Origine e senso della storia del 1949 (un libro che costituisce anche un’importante risposta alle sfide del totalitarismo) parla, riallacciandosi a Weber e ad altri, di un “periodo assiale” nell’ebraismo antico, in Grecia, in India, in Iran e in Cina, in un tempo in cui – così Jaspers – ha avuto inizio un nuovo modo di riflettere sulle condizioni fondamentali dell’esistenza umana113. Egli portava in primo piano la possibilità di una comprensione reciproca tra le civilizzazioni, che nacquero da questi rivolgimenti e dei quali ancora oggi si nutrono. A questo ragionamento (a lungo sottovalutato) e a riflessioni affini si allaccia già da qualche decennio un’ampia corrente di sociologia della religione di tipo storico-comparativo, capeggiata da due tra i maggiori sociologi del nostro tempo: Shmuel Eisenstadt e Robert Bellah. Per quanto siano discusse le caratteristiche precise di questo “periodo assiale”, le sue cause e conseguenze, è stato innanzitutto il sociologo israeliano Eisenstadt (insieme al sinologo di Harvard Benjamin Schwartz) a scorgere la caratteristica decisiva di questo ribaltamento religioso nella nascita dell’immaginario della “trascendenza” e delle sue conseguenze socio-politiche114.
16Fino a oggi si è voluto credere che la relazione con la “trascendenza” fosse segno distintivo di qualsiasi religione, ma il prezzo di questa convinzione è una comprensione completamente banalizzata della trascendenza. Eppure per gran parte della storia dell’umanità il divino è stato parte del mondo – senza che vi fosse una separazione dal mondo terreno. Gli spiriti e gli dei potevano essere influenzati (se non manipolati) proprio perché erano appunto parte del mondo, o per lo meno perché il regno degli dèi (per esempio l’Olimpo) non funzionava in modo tanto diverso dal mondo terreno.
17Ma se ora si traccia un confine netto, quasi spaziale, tra il terreno e il divino, ciò istituisce un enorme potenziamento del fatto della formazione dell’ideale. Ora il divino può essere pensato come l’essenziale, il vero, il completamente altro, nei confronti del quale il terreno non può che essere deficitario. Vi è così un unico regno di ciò che è concretamente bene, che supera qualsiasi qualità terrena immaginabile.
18Questa differenziazione non è soltanto un pensiero metafisico, ma l’articolazione di una tensione amplificata in modo inaudito tra l’ideale e la realtà. La religione, che negli Stati arcaici poteva apparire come strumento privilegiato per la sacralizzazione del potere e del dominio, diviene invece strumento di desacralizzazione proprio di questo potere. Un regno teocratico dell’identificazione del regnante con un Dio non è allora più conciliabile con la trascendenza. Se Dio o gli dèi hanno il loro posto al di fuori del mondano, allora nessun regnante può più essere un dio. Il regnante è di questo mondo – e si deve ora giustificare davanti al mondo vero dell’aldilà. La religione allora può costituirsi come punto di partenza per una nuova forma di critica al potere e ai suoi strumenti, così come alle forme d’ingiustizia sociale che esso alimenta. Se Dio dà dei comandamenti cui il regnante non corrisponde, rivoltarsi a lui in nome di Dio, essere più obbedienti a Dio che non agli uomini, compresi i più potenti tra loro, diventa un obbligo. Si aprono così margini d’azione per gli “intellettuali” avant la lettre, per sacerdoti che predicano e agiscono in base a testi sacri, per profeti che richiamano alla conversione o che la incarnano in maniera esemplare come Buddha. L’autosacralizzazione del collettivo si apre di uno spiraglio, poiché il collettivo etnico e quello religioso non sono più necessariamente identici. L’idea dell’umanità che supera le particolarità etniche in maniera universale può allora prendere il posto della fratellanza di sangue contro il nemico; l’idea della rinuncia alla violenza e del sacrificio di sé che porta alla riconciliazione prende il posto dell’uso eroico della violenza. In ogni caso con l’imporsi della visione assiale si pone il fondamento per la nascita – per esempio – del cristianesimo (e più tardi anche dell’islam). La storia di Gesù Cristo è la storia di una rottura con l’autosacralizzazione del suo popolo tanto quanto con quella dell’impero romano.
19Parlo di una desacralizzazione del potere politico e prediligo per il fenomeno in questione questa definizione a quella di razionalizzazione e di secolarizzazione. Non ne va di una riduzione della sacralità nel suo insieme, ma di una sua nuova collocazione, divenuta in qualche modo riflessiva. In luogo di un approfondimento delle diverse vie percorse dalla ricerca sociologica e storico-religiosa115, s’intende, a chiusura di questo punto, dare un esempio. Lo studioso protestante dell’Antico Testamento Eckart Otto ha mostrato in maniera affascinante che un passaggio particolarmente sanguinario del Deuteronomio (13, 2-10), dove si mette in guardia dalla seduzione all’idolatria e si esorta a punire con la morte qualsiasi seduttore e a partecipare in prima persona all’esecuzione anche nel caso in cui si tratti del proprio fratello, figlio, figlia, moglie o migliore amico, corrisponde alla lettera al giuramento di fedeltà che i Grandi e i vassalli dell’impero degli Assiri, compreso il re giudaico Manasse (696-642 a. C.) prestavano al re. Dato che il giuramento di fedeltà è ora rivolto a Dio, il re dei giudei viene interpretato come “il primo e più devoto alla Toràh del suo popolo” (Dt., 17, 14-20)116. Dio, o per lo meno la comunità del culto e i dottori della legge, divengono così la fonte del diritto e prendono, in quest’ambito, il posto del re.
Una tentazione non estinta
20Con tutto il dovuto riconoscimento alla forza dirompente del periodo assiale oppure, se non si vuole considerare un’epoca specifica, del cambiamento di cui si è detto (in qualunque momento sia accaduto), questo non può essere trattato come l’inizio di un processo perpetuo di desacralizzazione del potere politico, un processo destinato a diventare un saldo patrimonio culturale della civilizzazione del periodo assiale. Con sguardo retrospettivo la presunta cesura nella storia del mondo può apparire come un semplice episodio singolo, dato che tutte le forze religiose così desacralizzanti sono sempre rientrate al servizio del potere politico come fonte di una nuova legittimazione religiosa dello stesso. Il cristianesimo, per esempio, divenne la religione di Stato dell’impero romano, a Bisanzio si arrivò addirittura all’«ibridazione»117 del culto dell’imperatore e del culto di Cristo, e anche il cristianesimo latino ha sempre prodotto, nonostante le tensioni interne tra chiesa e potere politico, una grande quantità di intrecci e di forme di legittimazione al tempo stesso religiose e politiche. La “statalizzazione” della fede rimane una tentazione perenne, anche per le religioni posteriori al periodo assiale.
21Non è però l’unica. Là dove lo Stato è piuttosto debole, l’auto-sacralizzazione politica posteriore al periodo assiale può rivolgersi al popolo stesso e ascrivergli un ruolo privilegiato d’elezione voluto da Dio. Ciò non va mitizzato negativamente: si può al contrario immaginare che il sentimento di un’elevata e inaudita convinzione religiosa assegnata al proprio popolo sia interpretata nei termini di un’elezione in vista della “rivelazione” di questa convinzione medesima. Ma diviene allora decisivo se quest’essere prescelti è vissuto «with tenure»118, come una preferenza esclusiva, irrevocabile e assoluta ascritta a un unico popolo da parte di Dio, oppure come sottoposta a condizioni e accessibile anche ad altri. È famoso il passo del profeta Amos, in cui si contesta il diritto specifico del popolo d’Israele; lì il Signore dice: «Israeliti, voi siete per me come qualsiasi altro popolo, anche lontano. Ho fatto uscire voi dall’Egitto, i Filistei da Creta, gli Arami da Kir. Io, il Signore, conosco le colpe del regno d’Israele, e lo spazzerò via dalla faccia della terra» (Am 9, 7-8)119. Così come la “statalizzazione” della fede costituisce un pericolo per l’universalismo morale, così lo è anche l’etnicizzazione e la culturalizzazione, contenuta nell’idea dell’elezione assoluta di un popolo.
22Nella storia dell’autocomprensione che i popoli del nord America hanno avuto di sé queste tensioni si ripetono in maniera esemplare. Il lungo periodo di una statalità debole ha reso particolarmente plausibile ai coloni l’idea di essere un “popolo eletto”. La storia degli Stati Uniti è così pervasa da un inevitabile rapporto di tensione tra l’universalismo e il particolarismo e la tendenza alla sublimazione di fini particolaristici attraverso la missione di civilizzazione, pacificazione e democratizzazione del mondo, affidata agli americani. Una formulazione classica di questo motivo è la seguente: «God has not been preparing the English-speaking and Teutonic peoples for a thousand years for nothing but vain and idle self-contemplation and self-admiration. No. He made us master-organizers of the world to establish system where chaos reigned. He has given us the spirit of progress to overwhelm the forces of reaction thorughout the earth. He has made us adept in government that we may administer government among savage and senile peoples. Were it not for such a force as this the world would relapse into barbarism and night. And of all our race he has marked the American people as His chosen nation to finally lead in the redemption of the world» («Dio non ha preparato per mille anni coloro che parlano in inglese e i popoli teutonici per null’altro che vana e indolente autocontemplazione e ammirazione. No. Ci ha fatti maestri dell’organizzazione mondiale perché portassimo un sistema là dove regnava il caos. Ci ha dato lo spirito del progresso per sopraffare le forze che si oppongono in tutto il mondo. Ci ha resi adatti a governare perché noi potessimo amministrare il governo di popoli selvaggi e ignoranti. Se non fosse per questa forza il mondo piomberebbe di nuovo nel buio della barbarie. E di tutta la nostra razza Egli ha prescelto il popolo americano come la nazione che infine guiderà la redenzione del mondo»)120. In questo ritorno di un motivo dell’Antico Testamento io naturalmente non vedo tanto l’agire di uno sviluppo sotterraneo e persistente di un tema, quanto l’adattamento di alcuni vecchi schemi interpretativi allo sviluppo di nuove situazioni. Anche la storia della religione successiva al periodo assiale sarebbe così un’epoca di autosacralizzazione.
23Ma la spina rimane. Con le innovazioni dell’epoca assiale si è inserito un potenziale per la desacralizzazione del potere politico che non è mai più ammutolito né sparito del tutto. Perciò la storia del rapporto tra religione e politica diventa, dal periodo assiale in poi, una storia di tensioni continue – tensioni che dobbiamo ricostruire e mettere a bilancio senza pregiudizi, prendendo in considerazione tutte le tradizioni del periodo assiale, ma anche le limitazioni particolaristiche di tutte queste evoluzioni. È sbagliato mettere a confronto le dottrine religiose delle diverse religioni mondiali in senso astratto, isolandole dalle rispettive pratiche di vita. C’è un’abitudine diffusa a considerare il potenziale universale quando si guarda alla propria tradizione, e di vedere invece, quando si guarda alle altre, le limitazioni date dai particolarismi. Proprio così però si valica il confine oltre il quale il pathos universalistico diviene nuovamente soltanto un mezzo della lotta per l’affermazione di fini particolaristici. Diversamente da Charles Taylor (nella sua opera monumentale A Secular Age121) io fatico a vedere come i periodici sforzi di riforma del cristianesimo latino nella storia della chiesa possano essere sommati, come egli dice, in un “vettore” di desacralizzazione religiosa del potere politico. I legami, per esempio, tra riforma medievale dei monasteri e spirito delle crociate, tra riforma e nascita dello Stato nella prima modernità, tra riforma radicale e spirito economico capitalistico nella sua forma politicamente istituzionalizzata appaiono troppo stretti perché ciò sia possibile.
24Quindi né patrimonio culturale stabile né un vettore (per quanto indirizzato in una direzione precisa), ma nemmeno una casuale e congiunturale altalena di alti e bassi tra sacralizzazione e desacralizzazione del potere politico. Come possiamo pensare con maggiore precisione il rapporto degli universalismi nati nel periodo assiale con le culture nelle quali sono iscritti? In un confronto critico in particolare con Ernst Troeltsch, il teologo protestante americano H. Richard Niebuhr ha sviluppato alcune tipologie e diversificazioni terminologiche estremamente utili per districare il teso rapporto tra l’universalismo e le sue rappresentazioni sociali e culturali necessariamente particolaristiche122. Accanto al conflitto tra religione e mancanza di religiosità, vi è oggi, secondo lui, un altro conflitto di fede che è di enorme importanza, e che definisce il conflitto tra l’ideale esigente del monoteismo in senso proprio «e altre forme di fede umana: il politeismo e l’enoteismo nella loro forma moderna, priva di mitologia»123. Nel discorso sulla forma non-mitologica del politeismo Niebuhr tende a dire che le persone spesso «cercano riparo in una molteplicità di centri di valore e indirizzano la propria lealtà a molti oggetti»124. Storicamente ciò non è nulla di nuovo; al massimo lo è la forma non-mitologica. Con il termine “enoteismo” invece, diffuso nella storia della religione a partire dalle ricerche d’indologia di Max Müller, Niebuhr mira a una condizione determinante per la comprensione di culture condizionate dal periodo assiale. Nel suo significato originale il termine indicava – come quello della “monolatria” – pratiche religiose in cui si venerava un solo Dio, senza che per questo si negasse l’esistenza di altri o ne venisse completamente vietata l’adorazione. Ma Niebuhr utilizza il termine per l’auto-sacralizzazione di collettivi; è lì che egli vede l’effettivo pericolo per il monoteismo: «il rivale principale del monoteismo è l’enoteismo: quella fede che rende una comunità religiosa o culturalmente ben delineata oggetto della fiducia e della lealtà»125. Il nazionalismo è naturalmente l’esempio caratteristico di un tale enoteismo, ma Niebuhr mostra, nelle sue analisi, che anche unità inferiori come tribù o regioni costituiscono a loro volta un «centro di valori e oggetto di lealtà»126, come anche unità sovranazionali, per esempio un’intera civilizzazione o cultura. Egli interpreta il marxismo come una forma non-nazionalistica dell’enoteismo e prende le distanze anche da universalismi secolari quando in essi è semplicemente l’umanità (e non la creazione nel suo insieme) a costituire il punto di riferimento più alto. Nemmeno una professione ufficiale monoteistica mette al riparo da questo; Dio può essere semplicemente un nome, «che viene dato al principio del gruppo religioso in quanto società chiusa»127. Egli v’intende un’autosacralizzazione sia di quelle chiese sia di quegli ordini politici in cui la professione di monoteismo è centrale per la propria legittimazione.
25La distinzione tra “enoteismo” e “monoteismo radicale”128 è fondamentale per costruire una tipologia dei rapporti di tensione tra il potenziale dell’epoca assiale e la realtà culturale. In questo senso non esiste nemmeno una cultura assiale pura. Nel linguaggio di Niebuhr si parla di un rapporto tra Cristo e la cultura129. Egli nella sua tipologia (che costituisce un ulteriore sviluppo delle riflessioni di Ernst Troeltsch e di Max Weber rispetto alle forme di ordinamento sociale del cristianesimo) distingue cinque possibilità: la fuga dal mondo, un dualismo paradossale, l’armonia sintetizzante, l’assimilazione completa e infine una perenne trasformazione della cultura. Soltanto l’ultima sottintende che non ci possa essere una soluzione definitiva del problema all’interno della storia dell’uomo. Essa obbliga ogni singola formazione sociale e culturale a una benefica umiltà e all’attenzione costante, perché non avvenga inavvertitamente una strisciante autosacralizzazione “enoteistica”. Non nega però la possibilità di istituzionalizzare maggiormente il potenziale dell’epoca assiale rispetto a quanto sia fin qui avvenuto.
26Certamente ci sono “storie di formazione” delle religioni, storie in cui esse hanno scoperto la propria suscettibilità alla tentazione e operato il tentativo di rinsaldare se stesse, sul piano della dottrina ma anche su quello delle istituzioni, e di mettersi al riparo da queste tentazioni. La storia della fondazione religiosa della libertà di religione – non quindi una tolleranza delle altre religioni dettata da pragmaticità o indifferenza, ma un impegno, nutrito dalla comprensione della propria professione di fede, per la libertà religiosa di chi crede diversamente, – costituisce per me un vero esempio perfetto di una tale “storia di formazione”. Questa “storia di formazione” ha un ruolo fondamentale nella storia che precede le dichiarazioni dei diritti dell’uomo nel xviii secolo130. Anche la storia dei diritti dell’uomo è una storia di sacralizzazione e desacralizzazione. Se ho ragione nell’affermare che in essa si svolge una sacralizzazione della “persona”, cioè di ogni uomo indipendentemente dai meriti o dalle colpe, allora questa necessaria sublimazione della persona e del suo valore proprio richiede una certa desacralizzazione dello Stato, della nazione, del regnante o della comunità. Non richiede, come i secolaristi spesso ritengono, la secolarizzazione e la rinuncia all’idea della santità di Dio, dato che proprio quest’idea può essere il contrappeso alla sacralizzazione del potere politico terreno. Ciononostante nemmeno la storia dei diritti dell’uomo dev’essere descritta nel senso di un vettore, di un’univoca direzione di crescente sacralizzazione.
27Nella storia dei diritti dell’uomo io vedo, dopo l’evento del periodo assiale e la nascita delle religioni universali, la seconda grande ondata storica di una radicale desacralizzazione del potere e del dominio politico. Ma così come per la prima ondata anche ora s’inseriscono i pericoli della riparticolarizzazione. La Francia si poté autoproclamare la “nazione dei diritti dell’uomo” e così rivestire il suo nazionalismo con un mantello universalistico. Quanto poco questo pericolo derivi in primo luogo dalla religione in sé è dimostrato dalle forme d’interventismo messianico altamente secolarizzato a partire dalle guerre rivoluzionarie francesi131. Per la variante americana – più religiosa – abbiamo già fornito un esempio. Nella storia del nazionalismo tedesco la resistenza all’universalismo “occidentale” è potuta a sua volta diventare fondamento per una missione nazionale, che si è espressa in forme variabili sia sacrali che secolari. È di nuovo da sottolineare che con questo non mi riferisco a tradizioni storico-culturali, ma a dinamiche interne dell’autosacralizzazione collettiva nelle condizioni della religione del periodo assiale, o del suo accrescimento nella forma dei diritti umani oppure dell’abbandono nazionalistico e razzistico di tutto ciò.
28La secolarizzazione – se intesa come indebolimento della religione – non ha certamente risolto questo problema. Nei totalitarismi del xx secolo si trovano forme di autosacralizzazione dello Stato e di chi lo guida che ricordano, per la loro impetuosità, lo Stato arcaico, immensamente potenziate dai mezzi tecnici ora a disposizione. Questi totalitarismi ricordano lo Stato arcaico, ma non costituiscono un ritorno a esso, motivo per cui si è parlato di una sacralizzazione della politica distinta dalla sacralizzazione del potere132.
29È facile mettere in guardia dai pericoli degli altri, condannare i totalitarismi e l’antico nazionalismo tedesco o italiano, prendere le distanze dalle tendenze teocratiche dell’Iran o, se vogliamo, dallo spirito missionario della politica estera americana. Ma i pensieri qui riportati prendono forza e incidenza storico-analitica soltanto se li si applica al proprio campo. Dedico a ciò un commento conclusivo, che prende di mira le tendenze all’idealizzazione dell’Europa, della sua cultura e del suo passato, le quali solo a una percezione superficiale appaiono antinazionalistiche, ma che ripetono invece la struttura dell’autosacralizzazione collettiva su un nuovo piano post-nazionale. Esistono in varianti secolari e religiose. Proclamano l’Europa come continente dell’illuminismo oppure del cristianesimo oppure della tradizione giudaico-cristiana o della sintesi di grecità e cristianesimo. Ci sono anche tentativi di associare le due varianti – quella illuministica e quella “religiosa” – per esempio ascrivendo all’illuminismo un’origine cristiana con l’affermazione che sia «nato non a caso proprio e soltanto in ambito cristiano»133. Con tutto il rispetto per le motivazioni di una tale affermazione e con tutta la consapevolezza delle domande storico-empiriche che in effetti si pongono una volta che sia superata la semplice alternativa “illuminismo versus cristianesimo”, vedo qui all’opera una problematica “culturalizzazione” della religione, una culturalizzazione che è inadeguata proprio alle religioni universalistiche, legate alla trascendenza. Le particolarità della cultura europea e i tratti specifici del cristianesimo vengono accostati troppo, o addirittura identificati, in una maniera che non rende giustizia al potenziale universalistico di altre tradizioni o costellazioni religiose o culturali. Tale culturalizzazione è però un trampolino di lancio per tutti quelli che, richiamandosi ad altre tradizioni culturali, vorrebbero cortesemente rifiutare i diritti umani. In quest’ambito si deve resistere per esempio al tentativo del potere statale cinese di negare il carattere di religione, tipica del periodo assiale, al confucianesimo, riducendolo a un’espressione della cultura cinese; questa resistenza non deve però essere praticata a partire da un trionfalismo cristiano-europeo134. Proprio in un tempo in cui il cristianesimo è globalmente in enorme espansione – in diretto contrasto col sentimento europeo del declino – diventa sempre più importante mostrare sensibilità per i particolarismi culturali europei all’interno delle tradizioni cristiane e non confondere tra loro particolarità culturali e annuncio universalistico. Questi tentativi divengono particolarmente poco plausibili là dove il carattere cristiano dell’Europa è pretesto per un’esclusione, in particolare quando viene utilizzato da coloro che poco hanno da spartire con il messaggio del vangelo135. È invece importante sottolineare che non è necessario provenire dalla cultura cristiana o anche da un’altra cultura segnata da una religione post-assiale per essere richiamati da questo messaggio o dallo spirito dei diritti dell’uomo. In questo si mostra il carattere grandioso, di chiamata, di questo messaggio e di questo spirito. Non voglio con ciò perorare la causa di un universalismo slegato da ogni cultura, poiché lo ritengo inattuabile, ma voglio perorare quella di una riflessione – che è da farsi soltanto nel concreto – sulla necessità della desacralizzazione delle rispettive potenze politiche e richiamare alle tentazioni, sempre presenti, di sempre rinnovate sacralizzazioni.
Notes de bas de page
94 M. Weber, Zwischenbetrachtung, in Id., Gesammelte Aufsätze zur Religionsoziologie, I., Tübingen, UTB, 1920, p. 547, trad. it. C. Sebastiani, Osservazioni intermedie, in Id., Sociologia delle religioni, Torino, UTET, 1976, vol. II, p. 597.
95 R. Schieder, Sind Religionen gefährlich?, Berlin, Berlin University Press, 2008, p. 88.
96 Si tratta della tesi fondamentale di H. Joas, Glaube als Option. Zukunftsmöglichkeiten des Christentums, cit. Cfr, anche Id., Gesellschaft, Staat und Religion. Ihr Verhältnis in der Sicht der Weltreligionen, in H. Joas e K. Wiegandt, Säkularisierung und die Weltreligionen, Frankfurt am Main, Fischer, 2007.
97 Sono molto istruttivi in questo senso i dibattiti sul termine “religione politica” e la forza espositiva o anche i limiti del grande progetto di Michael Burleigh. Cfr. tra gli altri P. Burrin, Political Religion. The Relevance of a Concept, in “History and Memory”, vol. 9, n. 1/2 (1997), pp. 321-349; H. Maier, Wege in die Gewalt. Die modernen politischen Religionen, Frankfurt am Main, Fischer, 2000; D.D. Roberts, Political Religion and the Totalitarian Departures of Inter-war Europe: On the Uses and Disadvantages of an Analytical Category, in “Contemporary European History”, vol 18, n. 4 (2009), pp. 381-414; M. Burleigh, Irdische Mächte, göttliches Heil. Die Geschichte des Kampfes zwischen Politik und Religion von der Französischen Revolution bis in die Gegenwart, München, DVA, 2008.
98 Nelle righe seguenti sintetizzerò in poche frasi il pensiero fondamentale dei miei libri Praktische Intersubjektivität. Die Entwicklung des Werkes von G.H. Mead, cit., e Braucht der Mensch Religion? Über Erfahrungen der Selbsttranszendenz, cit.
99 Ho utilizzato la definizione per la prima volta per legittimare il tentativo di descrivere la storia dei diritti dell’uomo come la storia della sacralizzazione della persona. Cfr. H. Joas, Die Sakralität der Person, cit., p. 155.
100 Per un approfondimento sui meriti e limiti del contributo nietzschiano si veda H. Joas, Praktische Intersubjektivität. Die Entwicklung des Werkes von G.H. Mead, cit., p. 37-57.
101 F. Héran, L’institution démotivée. De Fustel de Coulanges à Durkheim et au-delà, in “Revue française de sociologie”, vol. 28, n. 1 (1987), pp. 67-97.
102 é. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris, Alcan, 1912; trad. it. C. Cividali, Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Edizioni di Comunità, 1963. Cfr. anche Id., Einführung in die Moral (1917), in H. Bertram, Gesellschaftlicher Zwang und moralische Autonomie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1986, pp. 33-53.
103 é. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, cit., p. 461.
104 Ivi, 461-462.
105 Ivi, 463.
106 Ivi, 462.
107 W. James, The Varieties of Religious Experience. A Study in Human Nature. Being the Gifford lectures on natural religion delivered at Edinburgh in 1901-1902, cit., pp. 138 e 210.
108 J. Royce, The Problem of Christianity, cit., p. 110, ma anche Id., The Philosophy of Loyalty, New York, Macmillan, 1908.
109 E. Troeltsch, Der Historismus und seine Probleme, Tübingen, Mohr, 1922, in Id., Kritische Gesamtausgabe, Bd. 16.1 e 16.2, Berlin, DeGruyter, 1998/2000. Cfr. in merito anche H. Joas, Die Sakralität der Person. Eine neue Genealogie der Menschenrechte, cit., pp. 147-203. Per il pensiero di Troeltsch cfr. anche Id., Selbsttranszendenz und Wertbindung. Ernst Troeltsch als Ausgangspunkt einer modernen Religionssoziologie, in F.W. Graf, F. Voigt, Religion(en) denken. Transformationen der Religionsforschung, Berlin - New York, De Gruyter, 2010, pp. 51-64.
110 W.E.H. Stanner, Religion, Totemis, and Symbolism, in T.M. Berndt e C.M. Berndt, Aboriginal Man in Australia, Sydney, Angus and Robertson, 1965, pp. 207-237.
111 Con una formulazione di W. Stark, Grundriß der Religionssoziologie, Freiburg im Breisgau, Rombach, 1974, p. 19.
112 M. Weber, Religiöse Gemeinschaften, in Id., Max-Weber-Gesamtausgabe (1864-1920), Tübingen, Mohr, 1991, pp. 183 ss.
113 Cfr. K. Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, Zürich, Artemis, 1949, trad. it. A. Guadagnin Origine e senso della storia, Milano, Edizioni di Comunità, 1965.
114 Cfr. E. Voegelin, Ordnung und Geschichte, opera in 10 voll. a cura di P.J. Optiz e D. Herz, München, Fink, 2001-2005; S.N. Eisenstadt, Die Achsenzeit in der Weltgeschichte, in H. Joas, K. Wiegandt, Die kulturellen Werte Europas, Frankfurt am Main, Fischer, 2005, pp. 40-68; B.I. Schwartz, The Age of Transcendence, in “Daedalus” vol. 104, n. 2 (1975), pp. 1-7; R. Bellah, Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2011.
115 Cfr. R. Bellah e H. Joas, The Axial Age and its Consequences, cit.
116 E. Otto, Auszug und Rückkehr Gottes. Säkularisierung und Theologisierung im Judentum, in H. Joas e K. Wiegandt, Säkularisierung und die Weltreligionen, cit. pp. 124-171. Cfr. anche pp. 133-141. Qui p. 139.
117 W. Stark, Grundriß der Religionssoziologie, cit., p. 13.
118 C. Cruise O’Brien, God Land: Reflections on Religion and Nationalism, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1988, p. 42, citato in D. Langewiesche, Reich, Nation, Föderation. Deutschland und Europa, Beck, München 2008, p. 71.
119 Il passaggio ha un ruolo determinante nella differenziazione di Michael Walzer dei due tipi di universalismo nell’ebraismo e nel cristianesimo. Cfr. per esempio M. Walzer, Lokale Kritik - globale Standards. Zwei Formen moralischer Auseinandersetzung, Berlin, Rotbuch, 1996.
120 Così il senatore repubblicano Albert J. Beveridge (Indiana) in un discorso davanti al senato degli Stati Uniti il 9 gennaio 1900 (Congressional Records 56th Congress, session I), citato in E.L. Tueveson, Redeemer Nation. The Idea of America’s Millennial Role, Chicago, University of Chicago Press, 1968, p. VII.
121 C. Taylor, A Secular Age, cit. Le mie osservazioni critiche sono ampiamente sviluppate in H. Joas, Die säkulare Option. Ihr Aufstieg und ihre Folgen, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie” vol. 57, n. 2 (2009), pp. 293-300.
122 Cfr. H.R. Niebuhr, Radikaler Monotheismus. Theologie des Glaubens in einer pluralistischen Welt, Gütersloh, Gerd Mohn, 1965 e Id., Christ and Culture, New York, Harper and Row, 1951.
123 Cfr. H.R. Niebuhr, Radikaler Monotheismus. Theologie des Glaubens in einer pluralistischen Welt, cit., p. 7.
124 Ivi, p. 22.
125 Ivi, p. 7.
126 Ivi, p. 18.
127 Ivi, p. 21.
128 La scelta del termine “monoteismo radicale” non è a mio avviso del tutto felice, per diverse ragioni. Si fonda su una sottolineatura del profetico e sul discorso di Rudolf Bultmann dell’obbedienza radicale di Gesù, ma da un lato pare rivolgersi contro il pensiero trinitario e dall’altro sembra comprendere una svalutazione delle forme non monoteistiche di una comprensione “radicale” della trascendenza nel tempo assiale. Nessuna di queste ipotesi però rientra nelle intenzioni di Niebuhr.
129 Cfr. H.R. Niebuhr, Christ and Culture e l’ottimo riassunto di R. Crouter, Reinhold and H. Richard Niebuhr, in F.W. Graf, Klassiker der Theologie, München, Beck, 2005, pp. 258-288; qui pp. 275 ss.
130 Cfr. H. Joas, Die Sakralität der Person. Eine neue Genealogie der Menschenrechte, cit., pp. 23-62.
131 Esempi significativi per le rappresentazioni francesi della propria «mission civilisatrice» dagli scritti di Victor Hugo, Jules Michelet e Victor Schoelcher in D. Bogner, Das Recht des Politischen. Erfahrungszeugnisse zum Algerienkrieg und ein neuer Begriff der Menschenrechte, Münster 2012 (tesi di abilitazione non pubblicata), pp. 158 ss. Esaurientemente sul tema B. Barth e J. Osterhammel, Zivilisierungsmissionen. Imperiale Weltverbesserung seit dem 18. Jahrhundert, Konstanz, UVK, 2005.
132 E. Gentile, Die Sakralisierung der Politik, in H. Maier, Wege in die Gewalt. Die modernen politischen Religionen, Frankfurt am Main, Fischer, 2000, pp. 166-182.
133 J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture, 1° aprile 2005, conferenza a Subiaco in occasione della consegna del Premio San Benedetto «per la promozione della vita e della famiglia in Europa»; in “Regno-doc.” vol. 9 (2005), p. 218.
134 Cfr. H. Roetz, Die chinesische Ethik der Achsenzeit. Eine Rekonstruktion des Durchbruchs zu postkonventionellem Denken, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1992; e il suo contributo in R. Bellah e H. Joas, The Axial Age and Its Consequences, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2012.
135 In proposito si raccomanda U. Schneider, Von Juden und Türken. Zum gegenwärtigen Diskurs über Religion, kollektive Identität und Modernisierung, in “Zeitschrift für Geschichtswissenschaft” vol. 52, n. 5 (2004), pp. 426-440.
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