3. La dignita dell’essere umano
p. 87-105
Texte intégral
La storia dei diritti dell’uomo
1Nelle prossime pagine intendo parlare dei lavori degli ultimi anni. Ho iniziato questo ciclo con uno scritto che ha più di vent’anni e ritornare a un lavoro scritto nel passato sorprende: si scoprono cose che si erano dimenticate e si ritrovano idee che meritano di essere ravvivate. Gli argomenti che tratterò ora sono più recenti, ma non so se la vicinanza renderà più semplice parlarne.
2La scelta di occuparmi del tema dei diritti umani in Kriege und Werte65, di cui diremo più diffusamente nel seguito, cerca da parte sua di ricollegare la storia di tali diritti con un’analisi storica del ruolo della violenza. Non vorrei essere frainteso: perseguendo questa metodologia non intendo sostenere che la nascita di valori sia necessariamente e sempre collegata a esperienze di violenza, ma credo che si possa riconoscere che gli episodi di violenza hanno un ruolo anche per la costituzione della storia dei valori positivi.
3Non ho scelto un approccio legato alla storia delle idee o alla storia dello spirito poiché, in virtù della mia formazione sociologica, considero di scarsa utilità e pregnanza la scoperta di un’idea isolata all’interno della storia. Il fatto che un’idea si presenti in un dato momento della storia non necessariamente la rende l’origine della propagazione di tale idea nella storia. Lo storico francese Marc Bloch ha trovato una metafora interessante per descrivere il fenomeno che intendo. Egli traccia un’analogia tra l’origine di un’idea e la nascita e lo sviluppo dei fiumi. Quando scopriamo un fiume gli diamo un nome e ne cerchiamo la sorgente. Se la sorgente in quanto tale è innegabile come luogo di origine del fiume, è tuttavia lungo il suo percorso e attraverso le diverse ramificazioni che il fiume prende la sua forma. Il nome che scegliamo per il fiume deriva frequentemente da un corso d’acqua ininfluente e di scarsa rilevanza per la costituzione del fiume stesso. Bloch ha applicato questa metafora alla storia delle idee e ha osservato che la ricerca della fonte costituisce solo uno degli elementi utili alla comprensione dello sviluppo di un’idea, che non dev’essere affatto determinata soltanto da quest’origine.
4Per cogliere i momenti di sviluppo dei valori è senz’altro utile riferirsi alla storia del diritto, poiché le istituzioni tendono a reagire e a registrare i cambiamenti con maggiore lentezza. Non intendevo però scrivere la storia dei diritti umani a partire da una prospettiva puramente giuridica che, a mio avviso, dev’essere posta all’interno di una storia culturale comprensiva o anche all’interno di un più ampio processo di cambiamento e di trasformazione culturale. Il mio interesse per la storia dei diritti dell’uomo o per l’idea della dignità dell’essere umano non è dunque legato prioritariamente né alla storia delle idee né alla storia giuridica, né alla storia dello spirito, ma all’idea di una trasformazione culturale complessiva per la quale i fenomeni di diritto o i diversi discorsi sulla dignità dell’essere umano hanno valore indicativo.
5Anche per questa ragione non attribuisco troppa importanza alla scelta del termine. Contesti culturali differenti possono attribuire significati diversi a terminologie e definizioni analoghe sullo sfondo di rappresentazioni valoriali culturalmente differenti. Un’analisi fondata unicamente sulla storia giuridica rischierebbe per altro di essere fuorviante, poiché le norme e le regole giuridiche possono, in alcuni casi, esistere solo sulla carta. Si pensi, per esempio, alla costituzione di Stalin, che contiene alcuni paragrafi meravigliosi sui diritti dei cittadini, del tutto disattesi però nella realtà politica dell’Unione Sovietica sotto la sua dittatura (i buoni storici del diritto naturalmente sono consapevoli di tali possibili discrepanze). La mia ricerca è determinata dall’idea di un processo complessivo storico-culturale in cui avviene una crescente sensibilizzazione, o in cui si esprime la volontà di cambiare qualcosa nei confronti della dignità dell’essere umano. Mi rendo conto che si tratta di un presupposto più vago di quello della ricerca giuridica (a partire dalla terminologia dei diritti dell’uomo), ma il suo senso profondo risiede anche nella sua vaghezza. L’espressione di un valore è inevitabilmente più vago dell’espressione di una norma.
Alcuni casi emblematici
6Per la mia ricerca empirica ho preso in considerazione quattro casi particolari, di cui due costituiscono processi di cambiamento di lunga durata, estesi nel tempo, e due sono esempi di cambiamento puntuale. I fenomeni di lunga durata (drawn out in inglese) che ho scelto sono l’abolizione della tortura nel xviii secolo in Europa e l’abolizione della schiavitù nel xix secolo in America (la motivazione per la scelta di questi due fenomeni non è oggettiva, ma legata a un contingente interesse personale).
7Nel 1700 la tortura fa parte del sistema giuridico penale di tutti i paesi d’Europa, nel 1800 di nessuno: dal Portogallo alla Russia la tortura viene istituzionalmente esclusa. Sebbene non significhi che non venga mai applicata, essa non è ammessa ufficialmente come parte del sistema. Esistevano, già nel 1700, voci contrarie alla tortura, ma questa era generalmente percepita come sgradevole necessità (la sensibilità del Settecento nei confronti della tortura si potrebbe paragonare alla sensibilità odierna nei confronti delle carceri, viste come un male necessario). A partire dal 1800 nessuno sostiene più ufficialmente questa tesi. Vi sono naturalmente testimonianze di qualche caso isolato di protesta (come la sommossa dei boia di Parigi, che si opposero all’ondata di sensibilizzazione in favore dell’abolizione della tortura), ma non sono esistiti movimenti per la reintroduzione della tortura all’interno del sistema.
8L’esempio dell’abolizione della tortura è indicativo di quello che considero un processo di trasformazione culturale. Nella terminologia che uso per la nascita dei valori si potrebbe dire che l’evidenza soggettiva di un fenomeno si sposta. Nel 1700 l’impossibilità di rinunciare alla tortura sembrava evidente a tutti mentre, nel 1800, appare invece evidente che debba essere abolita. Tra il 1700 e il 1800 deve quindi essere successo qualcosa e mi pare di grande interesse capire cosa sia accaduto e come si sia evoluto.
9L’abolizione della schiavitù in America nel xix secolo, per arrivare al secondo caso analizzato, accade in concomitanza alla guerra civile americana, tra il 1861 e il 1865. Ai tempi della dichiarazione d’indipendenza e della nascita degli Stati Uniti d’America si erano levate però soltanto poche voci isolate in favore dell’emancipazione degli schiavi. Da parte dei quaccheri, per esempio, che però si trovavano in minoranza. La maggior parte dei rivoluzionari non soltanto non era contraria alla schiavitù ma, il più delle volte, apparteneva alla classe dei proprietari di schiavi. Lo stesso Thomas Jefferson, che formulò la famosa dichiarazione all men are created equal (tutti gli uomini sono creati uguali) era proprietario di circa duecento schiavi. Credo che per lui le due cose non fossero in evidente contraddizione. Eppure sappiamo che visse more uxorio con una schiava e che ebbe da lei quattro figli. S’affacciavano certo qua e là alcuni segnali a riprova di una cosiddetta cattiva coscienza, come l’uso di liberare alcuni schiavi in occasione della morte del proprietario, ma tali comportamenti non giunsero mai a mettere in discussione il principio della schiavitù in sé. È interessante comunque che figure di grande statura, centrali nella storia della democratizzazione e dei diritti dell’uomo, non abbiano percepito la schiavitù come problematica e non si siano sentiti in dovere di estendere i loro ideali anche agli schiavi.
10Negli Stati Uniti ciò cambia improvvisamente a partire dalla fine degli anni Venti dell’Ottocento. William Lloyd Garrison fece dell’abolizione della schiavitù la sua ragione di vita. Una profonda esperienza di conversione lo portò ad affermare che la schiavitù era sbagliata e che andava immediatamente abolita. Nacque così l’abolitionist movement, il movimento per l’abolizione della schiavitù.
11I due esempi che riguardano un cambiamento puntuale che ho analizzato sono la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, nata alla fine del Settecento in seguito alla prima fase della rivoluzione francese dell’agosto del 1789 e la Dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane. L’altro cambiamento puntuale che ho preso in considerazione è la dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948.
12Intendo ora fornire alcuni elementi di contestualizzazione per la lettura del mio libro, anche perché esso ha dato luogo a grandi discussioni, non soltanto in Germania. Molti hanno voluto interpretare il mio scritto come un tentativo di storiografia teleologica in direzione di una crescente sacralizzazione della persona. Non credo ci sia una base testuale per affermarlo, e mi preme sottolineare che non si è trattato – e i quattro esempi dovrebbero evidenziarlo – di un tentativo di storicizzazione complessiva, ma di un resoconto di quattro storie separate.
13Ho trattato l’abolizione della schiavitù in America, ma nel xx secolo fu abolita in molti altri paesi e sarei felice se qualcuno volesse approfondire anche gli altri casi. Anche per quanto riguarda l’abolizione della tortura mi è sembrato di aver sottolineato chiaramente che parlo dell’abolizione della tortura in un’area specifica, l’Europa. Basta spostarsi nelle colonie europee per trovarsi di fronte a una casistica ancora diversa. Nel xx secolo essa fu infatti reintrodotta in grande stile dalla Gran Bretagna in Kenya e dalla Francia in Algeria nella lotta contro i movimenti anticolonialisti66. Sono soltanto alcuni esempi e non costituiscono una descrizione esauriente del fenomeno che dovrebbe comunque tener conto della tortura anche dopo la sua abolizione.
14Non credo dunque in una teleologia e in uno sviluppo verso la sacralizzazione della persona, ma descrivo singoli episodi in cui sostengo che ciò sia avvenuto. Come questi si relazionino tra di loro costituisce una domanda empirica a sé. Se, come ritengo, il movimento per l’abolizione della schiavitù inizia intorno al 1830, bisogna allora porsi la domanda se e come esso sia in relazione alla dichiarazione d’indipendenza, e quale ruolo abbia avuto nello sviluppo di quest’idea. Ritengo sia un errore presupporre che, laddove ci sia una dichiarazione scritta, questa dia necessariamente luogo a fenomeni di trasformazione. Una tale relazione può esserci, ma non è scontata.
15Si pensi all’analisi di William Lloyd Garrison. Egli prese a riferimento la storia della costituzione americana e la mise in rapporto con la sua concezione del cristianesimo. Lesse così documenti della costituzione con spirito polemico e li criticò poiché erano stati scritti da proprietari di schiavi, e quindi da persone con cui non voleva avere nulla che fare. Ciò vale però per questo specifico attivista (e non deve valere per un altro). Un’altra domanda riguarda la relazione tra la dichiarazione dei diritti civili francese e la precedente dichiarazione americana. Non sono domande che possano trovare una risposta filosofica. Esistono invece dei nessi fattuali che possono e devono essere analizzati.
Valori, istituzioni, pratiche di vita
16Il processo di trasformazione culturale di cui la storia dei diritti dell’uomo fa parte va vista all’interno di un triangolo che unisce valori, istituzioni (diritto) e pratiche67. Non esistono però soltanto le istituzioni (nel caso citato: una legge che permette o vieta la schiavitù) ma anche l’ambito del rispetto della dignità della persona, che è contenuto nelle pratiche di vita. Le pratiche non fanno parte del diritto, ma esprimono ciò che viene ritenuto e percepito come bene oppure come male. Un esempio per un cambiamento che inizia dalle pratiche è costituito dalla punizione corporale dei bambini, regolata giuridicamente soltanto negli ultimi decenni, ma da tempo abolita dalla prassi educativa.
17Per quanto riguarda i valori rimando a ciò che ho già descritto, con particolare attenzione al momento in cui ciò che viene percepito come bene o come male trova un’espressione “pubblica”. L’argomentazione razionale è dunque una parte importante del processo dell’articolazione dei valori.
18I diritti dell’uomo si sviluppano all’interno di questo triangolo che unisce valori, istituzioni e pratiche di vita. La domanda empirica riguarda l’origine del suo processo e il luogo d’inizio. Si potrebbe pensare che la legge arrivi sempre come ultima istanza, a seguito della ripetuta ma inefficace riprovazione di determinate situazioni. Esistono in effetti processi che sono iniziati in questa maniera, come l’opposizione alla violenza contro le donne in famiglia. Ma il processo può anche iniziare a livello giuridico. Mi riferisco alla costituzione tedesca del dopoguerra, redatta dai tedeschi sotto l’egida degli alleati. Penso che la pressione esterna in direzione della democrazia e dei diritti umani abbia prodotto una costituzione che altrimenti sarebbe stata diversa. Credo infatti che la Germania dell’Ovest nel dopoguerra abbia avuto un sistema giuridico più progredito dei valori e delle pratiche effettive della sua popolazione, e ritengo di essere cresciuto in uno stato democratico senza una cultura democratica, per esempio all’università. Questa cultura non democratica si è mantenuta a lungo in Germania (anche per questo ragione ho provato un grande sollievo nell’incontrare la cultura americana, soprattutto in ambiente accademico).
19Il processo di cambiamento e di nascita di un valore può quindi iniziare in ogni angolo del triangolo suddetto: a livello giuridico, così che istituzioni e pratiche si debbano adeguare, ma anche a livello delle pratiche, per essere successivamente accolto dal sistema giuridico (in alcuni casi il cambiamento è talmente radicato da non avere necessità di una regolazione giuridica). Considero il mio libro parte integrante di questo triangolo, in quanto costituisce un’articolazione dei valori cui vuole dichiaratamente contribuire: la stabilizzazione della cultura dei diritti dell’uomo.
Punti di vista convenzionali sulla nascita dei diritti
20Vorrei ancora affrontare un altro aspetto della mia prospettiva. Il libro prende posizione nei confronti di due punti di vista convenzionali e diffusi sulla teoria dei diritti dell’uomo. La prima tesi, sostenuta da molti libri di testo, ritiene i diritti dell’uomo prodotto diretto della rivoluzione francese. In quest’affermazione è implicita l’idea che la rivoluzione francese sia nata dallo spirito illuministico, e che esso comporti a sua volta un orientamento anticristiano o antireligioso. Quest’opinione, assai diffusa, mostra una certa affinità con l’attuale secolarismo. Poiché molti hanno un rapporto che chiamo patetico e idealizzante nei confronti dell’illuminismo così inteso, mi servo spesso della definizione “mito dell’illuminismo”. Per questa ragione mi si chiede spesso se sono avversario dell’illuminismo. Se l’illuminismo nell’opinione del mio interlocutore è antireligioso o antiromantico, dichiaro di esserne in effetti avversario, in caso contrario no. Il termine illuminismo ha diversi significati da un punto di vista storico. Herder, per esempio, è illuminista o antilluminista? In una visione strettamente kantiana andrebbe considerato antilluminista, ma in una visione più ampia Herder ne fa parte.
21Tra gli illuminismi nazionali quello francese ebbe un accento antireligioso (anche se non in tutte le sue espressioni), mentre in altri paesi, come in Germania o nel mondo anglofono, non vi furono toni così accesi. L’idea generalistica che contrappone nettamente illuminismo e cristianesimo non è dunque corretta e personalmente nego tutti gli elementi di questa spiegazione convenzionale. Inoltre, la prima sperimentazione in direzione della dichiarazione dei diritti dell’uomo non fu iniziata dalla rivoluzione francese, ma va ricercata nel Nord America. Ancora una volta si tratta di domande empiriche la cui cronologia non può essere negata. I rivoluzionari francesi conoscevano le dichiarazioni americane, e alcuni di loro andarono da Jefferson per discutere con lui della propria dichiarazione. Vi sono dunque dei legami e credo fermamente che la tradizionale narrazione dei diritti, di matrice secolare, possa essere empiricamente confutata.
22Anche la storia narrata (e inventata) dai cattolici inizia soltanto a partire dal momento in cui la Chiesa non si oppone più ai diritti dell’uomo. Pio VI dichiarò eretico lo spirito della rivoluzione francese, condannando anche la dichiarazione dei diritti dell’uomo; questa posizione è stata determinante per la Chiesa cattolica per tutto il xix secolo e ha iniziato a vacillare solo nel xx, anche a causa dell’avvento del fascismo e del nazionalsocialismo.
23Il sostegno ufficiale alla carta dei diritti dell’uomo si ha solo con il Concilio Vaticano II, ma il cambiamento avviene di fatto già prima. Esistono studi che mostrano come il movimento per i diritti dell’uomo iniziò molto prima che Papa Giovanni XXIII aprisse il Concilio e decidesse per il nuovo orientamento. La linea in sostegno dei diritti dell’uomo fu poi portata avanti da Giovanni Paolo II, che propose una Chiesa come forza propulsiva dei diritti dell’uomo (anche in relazione alle posizioni sul comunismo e alla situazione della Polonia).
24Considero un tale cambiamento molto positivo, ma credo che lo diventi del tutto solo quando venga abbinato a una coraggiosa elaborazione della propria storia, così da non fingere di essere sempre stati ciò che prima non si era – cosa che purtroppo accade spesso all’interno della tradizione della Chiesa cattolica, la cui tensione a mantenere una facciata d’infallibilità porta a numerose distorsioni storiche.
25Nell’ambito di questa riscoperta dei diritti da parte della Chiesa va aggiunta una seconda e diffusa opinione secondo cui i diritti dell’uomo non si sarebbero costituiti in seguito alle dichiarazioni, ma avrebbero la loro origine nella storia teologica e filosofica. Nascono così descrizioni secondo le quali la costituzione dei diritti dell’uomo passa attraverso il presupposto fondamentale di una fede in un Dio personale. Ma coloro che sono convinti che i diritti dell’uomo siano già contenuti nel Vangelo si ritrovano con una domanda irrisolta: per quale ragione tale spirito ha avuto bisogno di 1700 anni prima di manifestarsi? Dal punto di vista storico e sociologico l’idea di trovare un ideale unico che si sviluppa organicamente nel tempo è insostenibile.
26Anche quando si passa dalle teorie di più ampia diffusione alle teorie istituzionali si è confrontati con alcune criticità. Il mondo anglofono tende a pensare che la nascita dei diritti umani sia strettamente legata alla storia della libertà dell’Inghilterra, e non sia altro che l’estensione dei diritti dei sudditi del re d’Inghilterra a tutti gli uomini, così che l’Inghilterra risulta in questa storia come la punta di diamante. Ritengo la teoria del tutto insoddisfacente, perché tratta il carattere universale dei diritti come una conseguenza logica dell’istituzionalizzazione statuale dei diritti alla libertà. Per contraddire il principio basti pensare all’esempio dell’abolizione della tortura e alla sua mancata estensione alle colonie nei paesi che vi furono coinvolti. Il fatto che lo stato garantisca alcuni diritti non significa che li garantisca anche al di fuori dei suoi confini nazionali, e ancor meno che li sappia esportare a livello ideale.
27La prima risposta di molti politici americani allo scandalo delle intercettazioni sollevato da Edward Snowden fu quella di dichiarare che le intercettazioni erano riferite soltanto a cittadini non americani. Ma non credo che, dal punto di vista dei diritti dell’uomo, un’intercettazione applicata soltanto al “resto del mondo” possa apparire più giusta. Non credo assolutamente che si possa fare una dichiarazione riguardo a un universalismo con l’apparente presupposto che l’applicazione a uno o più paesi debba portare necessariamente allo sviluppo universale.
28La richiesta di un diritto nasce laddove qualcuno lo esige non soltanto per sé o per i suoi congiunti, ma per tutti. Chiamo questo, anche nel libro, la struttura logica dei diritti dell’uomo: è la richiesta dei diritti di libertà per me e per tutti, compresi i miei nemici o oppositori.
La sacralizzazione della ragione
29Non credo di dover discutere ogni passaggio del libro in questa lezione, e intendo quindi procedere in maniera molto selettiva. Spiego però la costruzione del libro, che è composto da tre capitoli storici seguiti da un quarto capitolo – il più lungo – che costituisce un capitolo metodico. Si trova al quarto posto, perché ho avuto l’impressione che se avessi iniziato il libro con questo capitolo, nessuno l’avrebbe letto. Per un lettore interessato alla storia dei diritti dell’uomo il capitolo metodico può essere poco motivante. Segue il quinto capitolo, che sviluppa la relazione tra la precedente analisi storica e una particolare tradizione religiosa. Nel sesto capitolo indago come immaginarci – a partire dalla possibilità che tutte le religioni post assiali e tutte le tradizioni filosofiche sviluppino una relazione positiva con i diritti dell’uomo sulla base dei propri mezzi interni – la comunicazione tra le diverse forme coesistenti di universalismo. Credo alla coesistenza e alla parziale concorrenza di diversi universalismi e sono interessato a come interagiscano e a quando nasca quest’interazione. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 è stata preceduta e favorita, a mio avviso, da una tale comunicazione fra tradizioni di pensiero religiose e secolari, pur tra loro molto distanti.
30La prima parte del libro è scritta, in qualche maniera, contro Max Weber, che descrive la storia dei diritti dell’uomo come la storia della carismatizzazione della ragione. Si potrebbe dire, nel mio linguaggio, della sacralizzazione della ragione. Credo in effetti che una cosa di questo genere esista – il termine ragione è un termine molto denso emotivamente e può essere un punto centrale per orientarsi all’interno della propria visione del mondo. Ma in quanto pragmatista ho la possibilità (e corro il rischio) di chiedermi che cosa sia la ragione. Esiste un’entità di nome ragione? Ho la tendenza a dire che non esiste, che esistono soltanto esseri umani che possono agire e parlare in maniera ragionevole. Trasformo quindi la ragione in aggettivo e tento di non trattarla più come sostantivo. Non esiste, a mio avviso uno spirito della ragione, ma piuttosto una tensione a essere più ragionevoli o ad agire più ragionevolmente (Richard Rorty parla a questo proposito di deflazionamento di un termine)68.
31Penso che in alcuni pensatori e movimenti sociali, in particolare nelle scuole di pensiero del xix e xx secolo, esista una sacralizzazione della ragione. Non credo però che sia fruttuoso pensare la storia dei diritti dell’uomo come conseguenza di questa sacralizzazione, e ritengo singolare che Weber l’abbia fatto. Un autore centrale per prendere le distanze dall’idea della centralità francese nella storia della nascita dei diritti dell’uomo, è un teorico del diritto del tardo xix secolo, Georg Jellinek, amico di Weber, che in un suo libro del 1895 riconduce tale nascita a radici protestanti69. Weber dichiara che proprio la lettura di questo libro lo aveva ispirato nella scrittura della sua famosa teoria sull’etica del protestantesimo. Sebbene si sia trattato di un libro per lui fondamentale, egli manca tuttavia di prendere atto di una delle sue tesi basilari, che comprometterebbe proprio la teoria della carismatizzazione della ragione.
32Aggiungo che il punto di vista per cui Jellinek, ebreo viennese, ricondurrebbe le origini dei diritti dell’uomo al protestantesimo per protesta contro la teoria francese che le pone nell’illuminismo secolare, è sbagliato. Egli afferma che i protestanti non hanno sviluppato il concetto della libertà religiosa altrui, ma solo quella di alcuni singoli. Nel xix secolo la chiesa protestante, molto impegnata a chiedere libertà per la propria religione, era anche molto risoluta nella delimitazione della libertà di religione altrui. Ho già utilizzato il termine della struttura logica dei diritti dell’uomo, per cui i diritti per essere tali devono essere richiesti per tutti, anche se potrebbero causare un danno a chi li richiede: la libertà di religione richiesta soltanto per la propria fede ha carattere triviale. La richiesta di una garanzia statale per la libertà di credo estesa a coloro la cui fede non condivido corrisponde invece alla struttura logica di cui ho parlato.
33Secondo Jellinek fu un battista, Roger Williams, a richiedere l’istituzionalizzazione della libertà religiosa. Ma non la considerava espressione diretta del protestantesimo americano, tanto che la grande maggioranza dei protestanti americani la rifiutò e Williams fu costretto a lasciare il Massachusetts. A differenza di molti suoi contemporanei Williams aveva riflettuto su ciò che significa essere perseguitati per motivi religiosi. L’esperienza di non poter sviluppare un rapporto autentico con Dio in mancanza di libertà lo aveva spinto a richiedere che tutti gli esseri umani ne potessero liberamente fruire. Egli si oppose alle prescrizioni statali in materia religiosa, e rivendicò la libertà di culto non solo per le diverse confessioni cristiane, ma anche per ebrei, musulmani e nativi americani. Viaggiò per tutta l’America e ottenne infine l’approvazione del re a fondare una nuova colonia a Rhode Island (il Rhode Island Charter). Jellinek afferma che si tratta del primo caso nella storia del mondo di regolamentazione a livello statale, valida per tutti. È impossibile, senza questo riferimento, capire lo spirito dei diritti dell’uomo del xviii secolo (anche se non sempre si è consapevoli che una tale regolamentazione si possa realizzare anche al di fuori dell’ambito della libertà di religione). In America ancora oggi si dice che la libertà di religione è la prima libertà dalla quale si sviluppano le altre. Ciò non va in nessun modo idealizzato. Credo che Roger Williams fosse un nevrotico e sarebbe un errore fare dell’America l’ideale della storia o il paese modello per eccellenza. Inoltre, fino al xx secolo la cultura americana è stata profondamente antisemita. Un presidente americano musulmano, infine, sarebbe una cosa del tutto impossibile, anche se la destra dichiara di averne già uno al governo.
34È lontano da me l’intento di idealizzare, ma è pur vero che c’è stata un’innovazione storico-mondiale. E nella descrizione di quest’innovazione non dovremmo tanto far riferimento al termine ragione, e alla sua funzione, quanto al concetto di autenticità (Eigentlichkeit).
La sacralità della persona
35Mi volgo ora all’approfondimento del concetto di sacralità e sacralizzazione, che ho desunto dagli scritti di Durkheim e di cui mi servo in relazione ai diritti dell’uomo. Durkheim parla di sacralità dell’individuo, espressione che ho mutato in sacralità della persona per evitare di incorrere nel fraintendimento dell’autosacralizzazione che il termine “individuo” può portare con sé. Ciò che intendo con la definizione di sacralità della persona è che ogni essere umano ha un nucleo sacro, che costituisce la dignità dell’uomo. Significa che ogni essere umano ha in sé qualcosa che non ha acquisito grazie a capacità particolari e che non può perdere; è qualcosa che da sempre gli appartiene e che non andrà mai perduto, anche se dovessimo diventare dementi o avvicinarci inermi alla nostra fine. Forse rimane intatto anche dopo la morte (come testimonia la dignità con cui trattiamo i morti). La sacralità della persona è ciò che non può andare perduto, che non può essere distrutto e che non può essere guadagnato.
36Durkheim esprime l’idea della sacralità dell’individuo per la prima volta nel 1898 in un breve testo su Dreyfuss. Durkheim, un ebreo laico militante con un nome tedesco (alsaziano), che proveniva da una famiglia di generazioni di rabbini, divenne un sostenitore e precorritore della laicità e, credo, anche uno dei fondatori della lega per i diritti dell’uomo. Egli fu profondamente colpito e scandalizzato dall’ingiusta condanna di Dreyfuss. Quando si scoprì che le accuse di spionaggio, scontate con i lavori forzati, si erano fondate su documenti falsificati dallo stesso servizio segreto militare, la destra francese, invece di scagionare e riabilitare l’innocente, decise che era legittimo sacrificare una persona per salvaguardare la reputazione militare.
37Sono personalmente convinto che il proto-fascismo francese si possa ricondurre a quest’episodio, da molti definito come uno degli avvenimenti chiave del xx secolo. Durkheim reputò questo “sacrificio” del tutto inaccettabile, e vi reagì in maniera analoga a quella descritta per le prime sollevazioni in favore dell’abolizione della schiavitù. L’idea della sacralità della persona nasce dunque da questo breve testo di Durkheim. Ritengo inoltre motivo d’interesse che Durkheim abbia espresso questo concetto pur orientandosi in maniera forte al pensiero di Kant. Credo che avesse l’esigenza di rafforzare soggettivamente Kant, affiancando al processo sulla pretesa di validità un processo soggettivo.
38Per introdurre l’idea della sacralità della persona mi servo della descrizione del processo dell’abolizione della tortura in Europa. Credo che le spiegazioni ricorrenti per la nascita della storia dei diritti dell’uomo si fondino, quando non sono in relazione a Durkheim, su due spiegazioni ricorrenti. Da un lato sull’interpretazione illuministica, secondo cui l’origine del movimento dei diritti sarebbe da ricondurre al libro Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, dall’altra a Foucault. Ma non credo che un libro possa improvvisamente aprire gli occhi a tutti. La storia dei diritti dell’uomo è altra dalla storia della ricezione di un singolo libro. Per quanto riguarda l’analisi di Foucault invece, tento di mostrare che il suo pensiero sulla società punitiva non è empiricamente esauriente (e per quale ragione non lo sia, sebbene in forma minore, neppure quello di Durkheim)70. Una domanda specifica riguarda la metodologia di Foucault nei suoi studi sulla storia della follia. Secondo Marcel Gauchet, Foucault descrive la storia della follia come una storia di esclusione e di disciplinamento, mentre sarebbe invece una storia d’inclusione. Prima dell’età della ragione i folli sarebbero stati considerati “persone non complete” e fondamentalmente diverse ma, in virtù di questo, accettate nella vita comune, al pari degli altri esseri viventi – e ammettendo tante altre possibili forme intermedie di vita – come per esempio gli animali. Secondo Gauchet questa categorizzazione subisce poi una trasformazione. Egli si domanda da quale momento in poi anche coloro che sono considerati fondamentalmente diversi vengano inclusi nella categoria dell’essere umano, e come possano essere avvicinati a questa categoria. A partire da questo tentativo egli descrive una storia di formazione e quindi d’inclusione. Quello che nella prospettiva di Foucault appare come una storia di esclusione, dal punto di vista di Gauchet si rivela come una storia dell’inclusione. Il primo tratta i rapporti istituzionali, il secondo indaga piuttosto terminologia e definizione. Credo sia un buon esempio per mostrare le diverse possibilità di approccio a uno stesso fenomeno.
39Durkheim è a mio avviso un grande sostenitore dell’inclusione, grazie al principio della sacralità della persona. Ogni persona, egli dice, anche se folle, è illimitatamente essere umano e ha diritto al rispetto della sua persona e della sua sacralità. In relazione al crimine ciò porta a una tensione tragica perché, se non possiamo più escludere il criminale dalla categoria dell’essere umano, non possiamo più punirlo semplicemente seguendo la nostra volontà punitiva, in quanto contravviene al nostro principio di sacralità dell’essere umano. Non possiamo dunque torturare a morte qualcuno che abbia torturato a sua volta un’altra persona, perché contraddice la nostra idea della sacralità. Allo stesso tempo però, con la sensibilità della sacralità della persona, aumenta il nostro orrore di fronte ai crimini. Per questa ragione parlo di una tensione tragica. La nostra richiesta interiore di punizione aumenta insieme alla nostra sensibilità. Alla stessa maniera la nostra possibilità di punire è limitata dalla consapevolezza e dalla sensibilità per la sacralità della persona, che investe anche il criminale71.
40Vorrei inoltre prevenire il malinteso secondo cui intenderei la sacralità della persona come unica possibile sacralità. Credo invece che le persone si muovano anche e sempre tra diverse sacralizzazioni. Durkheim stesso era un fervente nazionalista francese. Egli sacralizzava la nazione quanto la persona. Ma la domanda di qualcuno che voglia dare a ciò consistenza intellettuale riguarda la possibile relazione di queste due sacralizzazioni. L’idea, ancora attuale, secondo cui la Francia è la nazione dei diritti dell’uomo permette di difendere la sacralità della persona e insieme la sacralità della nazione. Ciò funziona finché non ne viene messa a nudo la contraddizione (come nel caso francese dell’Algeria. Ma ci sono forme parallele anche negli Stati Uniti: “in quanto americano difendo i valori universali e ciò giustifica il mio intervento in altri paesi”).
41Ci sono diverse interpretazioni possibili anche per il rapporto secolare o religioso con i diritti dell’uomo. I laici sostengono che chi sacralizza la persona non può allo stesso tempo avere fede in un Dio, perché ciò sottrae sacralità alla persona; chi è religioso crede invece che proprio il rapporto con Dio sia fondamentale per evitare altri fenomeni di sacralizzazione (per esempio quello della nazione).
Storia della violenza e storia dei valori
42In un capitolo che mi è particolarmente caro tento di dimostrare in quattro passaggi l’interrelazione tra la storia della violenza e la storia positiva dei valori. Descrivo brevemente i primi due passaggi, di cui il primo prevede l’analisi delle documentazioni giuridiche sui diritti dell’uomo, alla ricerca di riferimenti espliciti o impliciti alla storia della violenza del xx secolo. Nelle costituzioni dei Länder tedeschi dopo il 1945 per esempio si trovano chiari riferimenti al nazionalsocialismo, sebbene con un linguaggio vagamente mitizzante (“la barbarie”) che definiscono negativamente il passato.
43Per quanto riguarda la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, mi appoggio in particolare al libro dello storico olandese Johannes Morsink72. Egli descrive il processo di stesura della carta dei diritti dell’uomo a partire dall’analisi delle sue bozze e tenta di spiegare come, anche all’interno dei singoli articoli, e non solo come presupposto fondamentale, si trovino impliciti riferimenti al nazionalsocialismo e al fascismo. Frasi riferite al lavoro forzato non sarebbero comprensibili, se non in relazione all’idea che esse abbiano lo scopo di escludere per il futuro fenomeni come nazionalsocialismo e fascismo73.
44Esistono molti documenti sulla storia dei diritti dell’uomo nel xx secolo che sono in relazione diretta o indiretta con gli avvenimenti fondamentali della storia della violenza del xx secolo. La persecuzione religiosa nel xviii secolo diede avvio al movimento abolizionista, e così aprì anche alla nascita dei diritti ma, contrariamente a ciò che si potrebbe voler dedurre da queste considerazioni, ciò non significa affatto che la storia della violenza generi ogni volta necessariamente una storia “positiva”.
45I tre grandi filoni della storia della violenza del xx secolo sono, in primis, il nazionalsocialismo e il fascismo, in secondo lo stalinismo e i gulag e infine il colonialismo. La relazione suddetta esiste però solo per il primo caso citato, mentre non corrisponde al secondo e al terzo. Nelle condizioni storiche del dopoguerra un riferimento ai gulag stalinista avrebbe portato l’Onu al fallimento prima ancora di nascere. Inoltre, le potenze coloniali europee si dimostrarono molto resistenti all’introduzione dei diritti, poiché erano molto lontane dall’idea di abbandonare la dominazione coloniale di cui non avevano certo predetto la fine imminente. La Gran Bretagna si era comportata in maniera ostruttiva nei confronti del processo dei diritti dell’uomo, soprattutto per evitare che la carta dei diritti fosse applicata anche ai paesi coloniali.
46Sebbene esista dunque una relazione tra la storia della violenza e la storia dei diritti dell’uomo del xx secolo si tratta, come mostro nel secondo passaggio dell’argomentazione, di una relazione selettiva. Il terzo passaggio obbligato si domanda che cosa accada delle esperienze di violenza (in grande stile) che non trovano un’articolazione utile al sostegno di nuovi valori universali. Mi sono domandato che cosa ne sia di un dolore che non trova luogo ed espressione nel discorso pubblico. Sebbene sia assente, esso contiene però un elemento dinamico (l’Olocausto ha trovato espressione nel discorso pubblico soltanto dopo alcuni decenni di ritardo). Se si pensa ai crimini del colonialismo o dello stalinismo ci si può allora chiedere se gli ultimi potranno portare a un rafforzamento del dibattito pubblico in Russia o negli stati indipendenti dell’Unione Sovietica (mi pare che ciò accada in maniera più evidente nelle repubbliche baltiche e meno, al momento, in Russia, ma vedo una dinamica in atto). Infine rilevo come i crimini del colonialismo vengano taciuti in maniera stupefacente dalle forze colonialiste (per quanto anche anche qui si dovrebbe diversificare a seconda dei paesi). In Francia fu addirittura presentato un progetto di legge che prevedeva il divieto di descrivere negativamente l’impegno coloniale, con lo scopo di non inibire l’identificazione positiva degli studenti con la Francia. S’immagini un ragionamento analogo in Germania, s’immagini questa proposta in relazione all’Olocausto. Nelle potenze coloniali ci sono ancora grandi resistenze all’elaborazione del passato.
47I diritti dell’uomo sono destinati all’ampliamento. Per questa ragione il terzo passaggio si lega a ciò che dico nel mio libro sulla violenza: l’esperienza di violenza porta al trauma, segnato a sua volta dalla difficoltà di articolazione. La mancanza di articolazione non significa però assenza, bensì azione sotterranea. Mi servo di un esempio letterario per esemplificare il processo d’influenza sotterranea dell’esperienza della violenza. Un romanzo di Alfred Döblin degli anni Cinquanta è un geniale esempio degli effetti di lunga durata dell’esperienza di violenza e condensa in maniera altamente poetica e profonda ciò che può accadere nella rielaborazione della violenza. Il libro parla di un soldato britannico cui viene amputata una gamba da un soldato giapponese, e che rimane traumatizzato al punto da non riuscire più a parlare con nessuno. Non comunica più, oppure soltanto in maniera aggressiva e ingiusta, trascinato dall’emozione, maltrattando anche chi, come sua madre, cerca di aiutarlo. Il libro mostra chiaramente come la sofferenza di una vittima traumatizzata abbia effetti e conseguenze anche sugli altri. Siccome il trauma ha un contenuto noetico (chi è traumatizzato vuole trovare il colpevole del suo dolore), il dramma può essere superato solo attraverso un’articolazione che comprenda anche i motivi del suo accadimento. Durante l’articolazione colui che ha subito il trauma passerà da un atteggiamento taciturno a uno pericoloso, attaccando e rivoltandosi contro altri che, a loro volta, rimangono traumatizzati.
48Credo che questo sia in relazione con le dinamiche dell’ultimo dopoguerra in Germania e che si possa generalizzare nell’assunto che dall’elaborazione del trauma possa nascere un ulteriore decadimento dell’ordine sociale, così come da nuove descrizioni del bene nascono forse nuovi valori.
49Nel passaggio successivo tento di applicare in maniera concreta la teoria sulla relazione tra il trauma della violenza e la nascita di nuovi valori all’abolizione della schiavitù. Spesso mi si obietta che gli attivisti del movimento per l’abolizione non furono schiavi (anche se alcuni schiavi fuggiti o liberati ne fecero parte), ma ritengo che un trauma non debba essere esperito necessariamente solo in maniera diretta. Anche in quanto testimoni di una grande azione di violenza si è parte di un atto traumatico (le biografie degli abolizionisti mostrano che molti di loro sono stati testimoni di violenze terribili contro gli schiavi). Anche la letteratura e il teatro hanno un’enorme importanza in questo senso. Dopo aver scritto il libro ho scoperto che il famoso romanzo La capanna dello zio Tom fu centrale per il movimento abolizionista, in particolare nella sua forma teatrale, rappresentata dagli attivisti davanti a un pubblico che spesso rispondeva all’esperienza con l’adesione al movimento.
Valori e motivazione dell’agire morale
50Cerco quindi di elaborare un modello sociale e scientifico per mostrare in quali precise condizioni si sviluppa un movimento sociale a carattere universalistico. La conclusione filosofica, che non approfondisco in questa sede, si rivolge in maniera diretta anche a Habermas, che nei suoi scritti ha sostenuto a lungo l’esistenza di una motivazione razionale per la morale (tesi poi rivista da lui stesso), per esempio l’idea che il riconoscimento morale di Kant si traduca nella motivazione ad agire in maniera giusta. Nel corso degli anni Habermas ebbe grandi dubbi in merito e concluse che il riconoscimento razionale era troppo debole per lo sviluppo della motivazione. Detto più semplicemente significa che talvolta riconosciamo ciò che è giusto, ma che non sempre il fatto di averlo riconosciuto determina la nostra azione. Credo sia vero. Ma a questo punto ci si deve domandare: come si può arrivare all’agire morale se non basta il riconoscimento? Habermas sviluppa il pensiero dell’utilità del diritto, così da inserire un elemento normativo che s’innesca là dove è debole la motivazione. La motivazione viene così staccata e distinta da alcuni processi dell’agire. Sono convinto che il diritto sia utile in mancanza di motivazione, ma non credo sia l’unica strada possibile da percorrere. Ritengo che esista una seconda strada, quella del rafforzamento della motivazione (e credo che anche Habermas l’abbia capito dopo Faktizität und Geltung). Io mi trovo proprio a questo punto: la motivazione forte sono i valori, le idee profonde, affettivamente collocate, del bene, di ciò che assolutamente voglio fare; non sono soltanto un riconoscimento razionale, ma hanno una prorompente forza propria. L’ho detto con linguaggio habermasiano, ma vorrei fare un passo successivo, perché in questo modo pare ancora che ci siano due cose distinte: il riconoscimento morale e, in separata sede, la motivazione (che può eventualmente essere rafforzata).
51Habermas, in effetti, considera i miei lavori interessanti per la questione della motivazione, ma senza effetto per il tema del riconoscimento. Una delle espressioni che uso proprio per contraddire questa distinzione è la crescente sensibilizzazione per la sacralità della persona. Intendo dire che non c’è soltanto il riconoscimento, seguito dalla motivazione, ma che invece l’intensa scoperta dei valori e il loro ritrovamento ci portano a riconoscere cose che senza di essi non avremmo riconosciuto. Le persone agiscono a partire dal loro legame con i valori (pensiamo ai giovani che nei paesi occidentali s’impegnano per la salvaguardia della foresta tropicale o per la libertà del Tibet in Cina. Non lo fanno perché sono stati nel Tibet o nelle foreste tropicali, ma s’interessano al problema in base a un legame con un valore che dischiude loro, cognitivamente, questi elementi). Non si può dunque parlare di una motivazione che si aggiunge al riconoscimento, ma bisogna pensare piuttosto al ruolo del legame ai valori come possibilità di allargare l’orizzonte del mondo. Questa capacità di riconoscimento non è in contraddizione con l’importanza del diritto, né con la possibilità di utilizzare le norme cognitivamente, ma contesta l’opinione che la motivazione non sia che un momento di puro accompagnamento psicologico che andrebbe trattato filosoficamente. Sta qui la grave incuria e trascuratezza dei valori all’interno del discorso sulle norme.
52Ho più volte personalmente incontrato Habermas. Una volta mi disse che «questa cosa dei valori» che illustravo con l’idea dell’esperienza e del racconto, non era argomento razionalmente comprensibile. Voleva spiegarmi per quale ragione non poteva seguirmi su questa strada. Per lui, così diceva, l’esperienza personale del nazionalsocialismo era profondamente costitutiva: aveva bisogno di un’ancora di salvezza contro i pericoli della contingenza storica. Come avrete già capito, stava facendo proprio quello che propongo di fare: stava raccontando la sua storia per spiegare il valore del suo pensiero a partire dall’esperienza personale. Quando glielo feci notare mi disse che a lui questo sembrava piuttosto un tema per la pausa caffè, non però per una discussione pubblica. Non penso che si tratti di temi da conversazione privata, ma di temi che possono costituire oggetto di ampliamento di un discorso pubblico, anche nel suo aspetto razionale. Con ciò non intendo dire che sono obbligato a raccontare sempre di me. Ma su alcuni punti, per esempio di fronte a una difficoltà di comprensione reciproca, può essere d’aiuto raccontare di sé e contestualizzare il proprio pensiero.
53Nella conclusione del lavoro infine tento di mostrare che, in quanto persone legate a determinati valori, possiamo incontrare altre persone che crediamo essere legate a un’altra tradizione di valori. Può capitare però di scoprire che non si è così lontani come si era pensato, che si tratta invece piuttosto di una differente articolazione legata alla nostra tradizione di pensiero; ci esprimiamo in maniera così diversa da non riuscire a vedere quanto siamo vicini. Se questo è vero possiamo – in caso di successo – trovare una nuova formulazione comune, un nuovo termine che non sia del tutto identico ai termini delle tradizioni a confronto.
54Molti anni fa ho lavorato con dei sinologi e uno di loro parlava della rappresentazione dell’idea del Buddha interiore. Non capivo che cosa fosse un Buddha interiore. Quando me lo spiegarono chiesi se credevano che il Buddha interiore si potesse definire come il nucleo della persona, espressione che userei anche per definire l’anima nella tradizione cristiana. Mi risposero di sì; lo considero un caso riuscito di terminologia per quanto riguarda un’universalizzazione dei valori e una nuova formulazione terminologica dei medesimi. C’è un ambito in cui il concetto del Buddha interiore e il concetto cristiano di anima si sovrappongono, articolabile con l’idea del nucleo sacrale. Si tratta di un linguaggio nuovo, indipendente dai linguaggi della tradizione.
Notes de bas de page
65 H. Joas, Kriege und Werte. Studien zur Gewaltgeschichte des 20. Jahrhunderts, cit.
66 Solo nel 2013 il governo britannico si è detto disponibile a risarcire, sebbene con contributi minimi, le vittime di tortura. Ma a tutt’oggi la posizione giuridica della Gran Bretagna è quella di dichiarare di non essere tenuta al risarcimento alle vittime di tortura, poiché questo sarebbe competenza del Parlamento in essere, cioè del Parlamento succeduto alle forze coloniali britanniche: l’odierno Parlamento del Kenya. Rimasi a bocca aperta nell’apprendere la notizia dal New York Times. Il governo inglese sostiene dunque la posizione giuridica per cui la compensazione dei torti subiti dai kenioti per mano degli inglesi sia di competenza del governo keniota. Specifico che le torture non furono messe in atto a danno di pericolosi terroristi o a fronte di probabili minacce, ma eseguiti su ampia scala con il solo scopo di intimidire la popolazione e con casi frequenti di danni permanenti come la castrazione.
67 Per un approfondimento cfr. H. Joas, Die Kreativität des Handelns, cit. e H. Joas e W. Knöbl, Sozialtheorie. Zwanzig einführende Vorlesungen, cit.
68 Preciso di non sostenere affatto che ciò che viene considerato normalmente come ragione non esista, né che alcune definizioni correnti non ne siano una descrizione adeguata. Ciò che intendo, in relazione all’argomento della sacralizzazione, è altro. Lo spiego a partire da un esempio più semplice. Io definirei il nazionalismo come la sacralizzazione della nazione. Potremmo discutere delle diverse definizioni del termine nazione, ma mi pare evidente che il termine della sacralizzazione non si contrapponga a quello di nazione. Il proposito metodologico del pragmatismo è quello di suddividere tra azione ed esperienza. Quindi la nazione non sarebbe più un’entità a sé, ma sarebbe sottoposta alla domanda su quale processo fa sì che un insieme di persone si definisca come tale. Il fenomeno definito nazione è un fenomeno collettivo (e riguarda una definizione collettiva). Per questo parlo di un auspicabile perfezionamento del termine ragione o di un’auspicabile inclusione del parlare e dell’agire razionalmente, due concetti che non distinguo. Credo che in questo modo si possa evitare di essenzializzare e di universalizzare il termine. La sacralizzazione rischia di portare con sé quest’essenzializzazione. Penso che oggi una frase come “la ragione esige” non sia più possibile, poiché per pensare la ragione si devono includere anche le relazioni, le persone e l’agire. La ragione non esiste, se non esistono anche queste cose. La corretta espressione sarebbe allora “io credo che sarebbe più ragionevole agire in tale o tal altro modo”. In questa maniera si compie il passo in direzione della soggettivazione di cui parlavo nell’ultima lezione (che vieta di nascondere la soggettività dietro a un concetto di ragione essenzializzata). Richard Rorty ha utilizzato lo stratagemma pragmatista della “traduzione soggettiva” in maniera spesso audace e, anche se dissento con lui su molti aspetti, credo che tratti questo punto specifico in maniera molto interessante.
69 G. Jellinek, Die Erklärung der Menschen- und Bürgerrechte. Ein Beitrag zur modernen Verfassungsgeschichte, Leipzig, Duncker & Humblot, 1895.
70 L’argomentazione dei due punti qui accennati è approfondita in H. Joas, Die Sakralität der Person. Eine neue Genealogie der Menschenrechte, cit.
71 Le idee circa la terapia dei carcerati credo siano da ricondurre alla tensione della contrapposizione sopra descritta, anche se penso che oggi le nostre possibilità terapeutiche siano ridotte e che queste idee, fondamentalmente buone, spesso non siano applicabili. Esseri umani che hanno abusato di bambini e li hanno uccisi forse non possono semplicemente essere “guariti”. Il principio terapeutico rischia di diventare una frase vuota; ci troviamo costretti a rinchiuderli e, insieme, a percepire questa scelta come contraddittoria rispetto ai nostri principi fondamentali sui diritti umani. Ne nasce una tensione tra impulsi in contraddizione tra loro.
72 J. Morsink, The Universal Declaration of Human Rights. Origins, Drafting, and Intent, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1999.
73 Non si trovano invece espliciti riferimenti all’Olocausto, e i due fenomeni non andrebbero confusi. Negli anni Quaranta infatti, l’Olocausto non è argomento di trattazione o elaborazione pubblica (e non è da mettere, in questo senso, in relazione con la nascita dei diritti dell’uomo). Lo studio e la trattazione specifica dell’argomento dell’eccidio degli ebrei avviene, non solo in Germania ma a livello mondiale, soltanto a partire dagli anni Settanta.
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Valori, società, religione
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