2. La nascita dei valori
p. 61-105
Texte intégral
La discussione sui valori
1Affronterò ora il tema della nascita dei valori e dedicherò la seconda parte della lezione ad alcuni fra i pensieri sul tema della guerra e della violenza, con l’intento di fornire un’introduzione ai miei scritti sull’argomento.
2Quando ho iniziato a scrivere La nascita dei valori40 nel 1996-1997, il tema dei valori era un tema molto discusso negli Stati Uniti, sia pubblicamente sia nelle scienze sociali, ma sconosciuto alla filosofia. In Germania esso è invece associato a una specifica “filosofia dei valori”, in particolare a Max Scheler e a Nikolai Hartmann, autori che ignorano le teorie sociali e la ricerca sociologica americana sui valori, tanto che (mi preme ricordarlo) in questi ambienti espressioni come cambiamento e contesto valoriale vengono utilizzati in maniera del tutto indipendente e autonoma.
3Una recensione del mio libro sulla sacralità della persona41 iniziava pressappoco con la frase “da decenni Hans Joas tenta di riportare all’attenzione la filosofia dei valori”, citando Nikolai Hartmann. Ma io, forse sbagliando, devo ammettere di non aver mai letto Hartmann, così che mi è difficile identificarmi con la definizione di questo recensore, che mi vorrebbe in relazione con la filosofia tedesca. Il mio pensiero sui valori è invece decisamente influenzato (forse troppo) dal pragmatismo americano42. Quando Talkott Parsons, il più influente sociologo americano degli anni Cinquanta, o Ronald Inglehart, che ha fornito il più grande studio empirista sul cambiamento di valori, parlano di valori, non si relazionano dunque in alcun modo alle antiche discussioni di area tedesca.
4Nell’opinione pubblica si parla spesso della perdita dei valori. Per quanto non possa darne dimostrazione empirica in poche frasi, nutro un profondo scetticismo di fronte a questa tesi. Ho l’impressione che prenda in considerazione soltanto la perdita dei legami con determinati valori, senza considerare i nuovi valori che sono sorti. Si è portati a guardare soltanto a quelli antichi. Cito spesso l’esempio dei cambiamenti sociali e culturali degli anni Sessanta, che hanno prodotto un enorme mutamento dei valori delle nuove generazioni. Per un pensiero conservatore tale cambiamento può essere avvertito come una perdita di valori tout court – il movimento dei diritti è stato definito come eccesso di permissivismo – ma si tratta spesso di una valutazione empiricamente errata. Sebbene alcune regole siano state abolite, alcuni temi, come la dignità e il diritto delle donne e dei bambini, ne sono usciti rafforzati e hanno prodotto una crescente sensibilizzazione morale.
5Si deve dunque fare un bilancio che comprenda non soltanto la perdita dei vecchi valori, ma anche la nascita dei nuovi attraverso un’indagine empirica. In alcuni articoli ho tentato di descrivere e mettere a confronto alcuni ambienti di valori vitali in Germania e in America (sono i due ambienti che conosco meglio), ma si tratta soltanto di brevi articoli e non di studi approfonditi. Più che ai dati empirici mi sono infatti interessato alla domanda più astratta e fondamentale di come nascano i legami con i valori e i valori stessi. Considero i valori e i legami ai valori come facenti parte della stessa categoria, poiché sostengo che, là dove nessuno si sente legato a un valore, il valore non esiste. Personalmente non credo dunque in un regno dei valori (come potrebbe essere per alcuni neokantiani). Dalla mia prospettiva la storia non dà luogo soltanto ai legami con i valori, ma anche ai valori veri e propri. Nella mia terminologia è quindi particolarmente importante il termine del legame (piuttosto che quello del valore).
6I valori e i legami con i valori non possono essere costruiti intenzionalmente – il che riporta alla dimensione passiva di cui ho parlato in precedenza. Non serve a nulla, a livello educativo, dire a qualcuno di considerare una cosa un bene (in effetti credo che la predica morale sia la forma meno efficace dell’educazione). Possiamo obbligare a fare determinate cose, ma non possiamo costringere a trovarle buone. Non possiamo farlo nemmeno rispetto a noi stessi.
7Vi è una possibile analogia tra i legami con i valori e i legami tra le persone. Entrambi nascono senza imposizione o sforzo decisionale. Amicizia o innamoramento non possano essere indotti. Non basta l’esigenza di avere un amico o il desiderio d’innamorarsi perché ciò avvenga e, d’altro canto, i due sentimenti possono nascere anche contro la propria volontà (il che non significa, ovviamente, che non si possa contrastarli volontariamente). Il nocciolo dell’esperienza contiene una dimensione passiva che considero fondamentale e che l’espressione ergriffen sein (essere afferrati, catturati) del tedesco coglie pienamente. Si contrappone in maniera decisa a espressioni attivistiche come il diffuso Werte setzen (istituire valori), o alla “fabbricazione” dei valori, utilizzata da Max Weber.
8Evito questa terminologia perché rischia di rappresentare il legame con i valori come un legame che priva di libertà, mentre, nel legame che nasce, possiamo sentirci più liberi o più prossimi a noi stessi43.
Libertà e valori
9Esistono decisioni che, pur non costituendo un obiettivo diretto, ci prendono e ci lasciano un particolare senso di libertà, intesa come il sentimento di ritrovarci identici a noi stessi. Sono convinto che ognuno di noi conosca il fenomeno, sia nell’ambito delle relazioni personali, sia nell’esperienza della relazione con il bene e il male. Chiamo queste relazioni legami di valori.
10Distinguo il termine valore da quello di norma. Non credo che il secondo sia d’importanza minore all’interno di una teoria morale, ma per ragioni contingenti mi sono voluto occupare dei valori e non delle norme. Sottolineo la distinzione poiché spesso, in particolare nel dibattito pubblico, vengono usati indistintamente. La mia distinzione personale (ma non esclusiva) tra i due contiene un’importante diversificazione tra il carattere restrittivo delle norme e quello attrattivo dei valori.
11Considero le norme restrittive, poiché determinano un agire per obiettivi o ne delimitano i mezzi, così da restringere le nostre possibilità di azione, dichiarandole improprie da un punto di vista morale o giuridico, a seconda del tipo di norma. Un esempio semplice riguarda il consumo e l’acquisto di bevande alcoliche, regolato in maniera differente in diversi paesi. In molti (non in tutti) è consentito l’acquisto di alcool, ma è punibile per legge la rimozione dal negozio senza pagamento: la norma che prevede il pagamento delle bevande restringe il campo dell’agire. In alcuni paesi vige dunque un divieto rispetto all’obiettivo (l’acquisto di alcolici), mentre in altri esso riguarda soltanto il mezzo (non si può prenderli senza pagare).I valori, a differenza delle norme, hanno un carattere di liberazione; non restringono il nostro agire, ma ampliano le nostre possibilità e sono costitutivi per le idee riguardo alle possibilità dell’agire. Una persona può essere presa a modello e diventare l’incarnazione di un valore. Nell’incontro con un padre idealizzato, un maestro o un insegnante, si può avere l’impressione che quello che esprime è bene. L’esempio costituito dalla persona ammirata può allora produrre idee circa le possibilità dell’agire, magari inaspettate e del tutto nuove. L’attrattività dei valori incrementa l’immaginazione rispetto alle possibilità dell’agire e amplia il nostro repertorio di azioni.
12La distinzione terminologica che propongo è, in un certo senso, analitica e intende mettere in discussione alcuni discorsi ricorrenti, come quello secondo cui le norme nascono dai valori. Certo ogni attrattività può anche comportare una restrizione. Dal punto di vista dei legami personali possono valere entrambi, come per esempio accade per l’innamoramento. Una relazione d’amore comporta degli obblighi e richiede una data forma di fedeltà (che può essere culturalmente variabile). Non si può dichiarare di amare una persona e non avere relazione con ciò che l’affligge, per esempio una malattia. La stessa cosa vale per l’amicizia. La “mancata relazione” con un aspetto del rapporto non consente di definire tale rapporto come amore o amicizia: credo si tratti di un vero e proprio errore grammaticale, di un inciampo logico.
13A legami di libertà possono dunque essere connesse delle restrizioni (come la fedeltà per l’amore); lo stesso avviene per i legami ai valori. Tutti i valori licenziano norme, ma non tutte le norme, lo dico anche nel libro La fede come opzione, nascono da valori44. La differenziazione terminologica tra il carattere restrittivo e attrattivo di norma e valore non intende quindi isolare i due fenomeni di cui, l’ho già detto, è piuttosto il secondo ad attirare la mia attenzione.
Valore e desiderio
14L’altro termine dal quale voglio distinguere il valore è quello del desiderio. Esistono filosofie che definiscono e classificano il valore come categoria specifica del desiderio, per esempio il desiderio duraturo (gli economisti parlano anche di meta-preferenze). Io preferisco fare riferimento alla teoria dei valori di John Dewey, che credo abbia precorso la distinzione di Charles Taylor tra desire e desireability, desiderio e desiderabilità. Il primo indica una cosa desiderata di fatto, la seconda indica la convinzione della desiderabilità di una determinata cosa (e ha un carattere obiettivo). I valori, nella mia terminologia, si collocano nell’ambito della convinzione della desiderabilità e non al livello dei desideri di fatto.
15Le due condizioni possono essere conflittuali nella sfera motivazionale di una persona. Si può avere un desiderio che non si vorrebbe avere. Una donna incinta, fumatrice, che ha una convinzione empirica rispetto alla nocività del fumo, può provare, ciononostante, il desiderio di fumare. Mi pare un classico conflitto tra desiderio e desiderabilità, che potrà essere risolto nelle maniere più disparate.
16Non si tratta però di un conflitto tra restrittività e attrattività, tra norma e desiderio, ma della contrapposizione di un valore desiderabile (l’ideale della buona madre che non nuoce al figlio) a un desiderio fattuale (quello di fumare). Esistono conflitti tra desideri e norme, ma il desiderio e il valore – mi pare importante sottolinearlo per non creare confusione – non sono la stessa cosa. I valori non sono semplici desideri, e consiglio di porre attenzione all’uso diversificato dei termini, poiché basta riformulare il presupposto nel linguaggio delle preferenze per livellare erroneamente i fenomeni descritti.
17Con sfumature diverse John Dewey, Charles Taylor e Harry Frankfurt distinguono, per indicare il conflitto tra diverse preferenze, tra first order e second order volitions. “Vorrei andare in spiaggia e mangiare un gelato, ma la gelateria non è vicina alla spiaggia”: i due desideri non possono essere realizzati entrambi, poiché uno esclude o eventualmente precede l’altro; non sono attuabili nello stesso momento. Da un punto di vista logico però, i due desideri si trovano sullo stesso piano.
18Nell’esempio della fumatrice incinta i due desideri invece non concorrono allo stesso livello, poiché sono distinti da un sistema di valorizzazione che li fa confliggere. Tra gelato e spiaggia non c’è relazione riflessiva. Invece, tra l’essere una buona madre ed essere una fumatrice esiste una rapporto riflessivo di rinvio, perché una cosa dichiara l’altra come un male. Possiamo volere dei desideri o non volerli, non a causa di un’eventuale realizzabilità, ma in ragione di una relazione intrinseca di valutazione del desiderio, che può essere giudicato come buono o cattivo, da desiderare o da non desiderare.
19Si tratta di un aspetto centrale anche nel nostro rapporto con i desideri degli altri. Semplici desideri di altri non scatenano infatti particolari valutazioni da parte nostra (non costituisce problema mettersi d’accordo sui diversi gusti in fatto di cibo), ma non appena entra in gioco la dimensione della desiderabilità, la cosa cambia. La preferenza o avversione non si esprimerà più in termini neutrali (“io non amo mangiare un certo piatto”), ma attraverso un giudizio di valore (“io non trovo giusto che si mangi un certo piatto”). Si pensi a tal proposito all’aspetto ideologico di un vegetariano convinto (o all’esempio, fatto in precedenza, sull’abitudine di mangiare uccelletti45). Non si tratta solo della scelta individuale di non mangiare alcuni cibi, ma di un giudizio morale verso coloro che invece lo fanno. Sono due fenomeni distinti, poiché entra in gioco un rapporto di valutazione.
20Per questa ragione sono giunto alla formulazione secondo cui i valori sono rappresentazioni emotivamente dense del desiderabile – di ciò che dovrei desiderare, di ciò che dovrebbe essere desiderio spontaneo e non soltanto indotto (come nel caso delle norme). Vorrei essere un uomo per il quale è naturale volere ciò che è desiderabile. Goethe porta l’esempio dell’anima bella, che descrive un essere umano che fa il bene in maniera spontanea e non soltanto perché vi è costretto contro le proprie inclinazioni naturali. Si tratta, credo, di un primo tentativo del romanticismo di distanziarsi da Kant, ed è un’idea importante anche nei trascendentalisti americani.
21Se questa definizione può servire a delimitare il fenomeno di cui intendo parlare, essa non basta a rispondere alla domanda sul come nascano questi valori. Come giungiamo noi esseri umani ai nostri legami con i valori, e che cosa si può dire delle dinamiche storiche di nascita e legame con i valori?
Valori e formazione del sé
22«I valori nascono da esperienze di formazione del sé e di autotrascendenza». Il mio scritto sulla Nascita dei valori inizia con questa frase e la dipana progressivamente, in un percorso circolare. Credo e spero però, che per coloro che hanno seguito le lezioni precedenti, contenga una buona quantità d’indizi chiari, che non necessitano di grande approfondimento.
23Con “formazione del sé” intendo ciò che gli psicologi infantili chiamerebbero socialità primaria nel bambino e formazione di un sé, tema già affrontato a partire da Mead. Non veniamo al mondo con un sé, ma lo sviluppiamo in un rapporto autoriflessivo con noi stessi.
24La relazione autoriflessiva s’incrementa nell’interazione con gli altri e il nostro legame con i valori si costituisce nello stesso identico modo all’interno del processo di consolidamento del sé. L’auto riflessività del sé si sviluppa, come abbiamo detto, in relazione a e attraverso l’identificazione con persone di riferimento. La relazione che ne nasce non si riferisce però soltanto alla persona stessa, ma include la percezione dei suoi valori. Il bambino non può scindere tra la persona con cui s’identifica e i suoi valori. Non esiste bambino di tre anni che possa formulare la frase: “amo mio padre ma non ne condivido le convinzioni fondamentali”. Contiene un inciampo grammaticale simile a quella dell’enunciato sull’amico malato. Invece, detta da un tredicenne, la frase non soltanto è possibile ma addirittura probabile, soprattutto all’interno di una cultura dell’individualizzazione.
25Ciò non vale per tutte le culture, ma è tipico per quelle dell’individualizzazione, dove esiste un momento dello sviluppo in cui si manifesta una forte separazione tra il legame con la persona e il legame con i suoi valori46. Naturalmente il ragionamento ha relatività storico-culturale e vale, detto in maniera sommaria, per le culture dell’individualizzazione. L’idea dell’allontanamento dai genitori e da ciò che chiamo lo strato basale di legami ai valori, che avviene nella socializzazione primaria in alcune culture come la nostra, può essere addirittura normativa.
26Lo chiarisco con un esempio: mettiamo che siate religiosi. In una cultura secolarizzata vi verrà chiesto frequentemente per quale ragione lo siate e la risposta “perché mia madre mi ha educato così” sarebbe considerata ridicola. Non si può più giustificare una religiosità adulta riportandola alla propria socializzazione. Si può farvi riferimento, ma solo come dato narrativo da aggiungere a una spiegazione dell’eventuale rafforzamento e della scelta maturata autonomamente in seguito. In alcune tradizioni del protestantesimo questo rafforzamento è stato istituzionalizzato, come mostra il fenomeno del born again, della rinascita spirituale professata. Ci si aspetta che la fede venga scelta attraverso un’esperienza profonda di rinnovamento delle convinzioni e non semplicemente perpetuata dall’infanzia.
27Nella nostra cultura la richiesta di un’adesione ragionata vale, a mio avviso, in maniera generica per tutte le nostre convinzioni profonde (anche per quelle politiche). Nella nostra società viene pretesa (a livello normativo) una spiegazione rispetto alle nostre convinzioni; spesso però la spiegazione è legata alla storia della formazione dei nostri valori che, come abbiamo già detto, non sempre può apparire sufficiente come elemento di affermazione. In altre società è invece vero il contrario. In tali società anche un comportamento altamente individuale o individualistico deve essere riportato a tradizioni antiche o a ciò che è ritenuto valido universalmente47.
28La nascita dei legami con i valori di ogni singolo si compie all’interno del processo della formazione del sé. Si tratta di un presupposto condiviso e scientificamente ben delineato, motivo per cui non ho mai sentito la necessità di approfondirlo. Ma se sono convinto che questa fase della vita sia di fondamentale importanza per la creazione dei legami, non sono altrettanto convinto che ciò che accade nei primi anni d’infanzia debba essere determinante per tutta la vita, come alcuni studiosi affermano. Si tratta, a mio avviso, di una tesi che può essere confutata a livello empirico (e tenendo conto del fatto che esistono legami che nascono in maniera personale e legami che nascono per motivazioni storiche).
29Per quanto non sia una questione prettamente filosofica, mi preme sottolineare che nello studio sulla formazione dei valori non si possano indagare soltanto i processi di formazione del sé, poiché anche in una fase successiva della vita possono avvenire rivolgimenti fondamentali. Gli americani chiamano queste esperienze, che riorientano l’uomo post adolescenziale in maniera tale da cambiare radicalmente le sue convinzioni sul bene e sul male, esperienze di autotrasformazione. Lo studio empirico di queste esperienze si concentra in particolare sui processi di conversione.
30Non si tratta solo necessariamente di fenomeni religiosi. Una conversione può riguardare una concezione del mondo secolare (un marxista o un liberale, per esempio, che cambiano orientamento politico) o rappresentare un abbandono piuttosto che un avvicinamento. Essa comprende dunque tanto l’idea della perdita, quanto quella della nascita di una fede. La varietà dei fenomeni rende la conversione un campo empirico piuttosto complicato per il quale, ancora una volta, William James ha fornito uno studio pionieristico con La varietà dell’esperienza religiosa48. In confronto alle raffinatezze metodologiche di oggi, i suoi tentativi sono elementari, ma testimoniano un vero interesse e una particolare sensibilità per il problema.
31Egli aveva constatato che le conversioni non sono un fatto puramente individuale, ma che avvengono anche in base a certi schemi culturali. L’esperienza di una perdita di fede, inoltre, può essere esperita in maniera molto simile a quella di una conversione. Nel romanzo vagamente autobiografico Ritratto dell’artista da giovane, Joyce descrive come il protagonista, in un solo istante, perda la fede. La struttura morale religiosa nella quale il ragazzo, educato dai gesuiti, è cresciuto, crolla inesorabilmente durante una passeggiata sulla spiaggia, alla vista delle ragazze in costume. La descrizione dettagliata è del tutto identica alla descrizione letteraria di una conversione, anche se in maniera capovolta. Si tratta, naturalmente, di un espediente letterario molto raffinato e interessante.
Valori e autotrascendenza
32La formazione dei valori nell’autotrascendenza riguarda la domanda su ciò che accade una volta concluso il processo della formazione del sé. Anche dopo che si è formato, possono avvenire esperienze di mutamento, spesso connesse alla sensazione e all’esperienza di essere strappati fuori da se stessi. Il fenomeno cui mi riferisco, che è in relazione alla sociologia della religione di Durkheim, è stato oggetto di discussione per alcuni decenni, più o meno dal 1887 al 1934. Sostengo infatti che il discorso sia iniziato con la Genealogia della morale di Nietzsche e che sia finito pressappoco con A common faith di John Dewey49. Sono inoltre convinto che i pensatori che hanno scritto qualcosa in merito non lo abbiano fatto in maniera puramente individuale, ma facendo riferimento l’uno all’altro50.
33Introduco brevemente alcune possibili obiezioni o interrogativi in merito alla mia proposta. La prima potrebbe riguardare la periodizzazione scelta per delimitare l’argomento (perché iniziare soltanto con il 1887 e perché dichiararlo concluso nel 1934), un’altra riguarda l’effettiva completezza nella scelta degli autori rappresentati. Credo, in effetti, di non aver incluso tutti i più importanti pensatori sull’argomento e oggi so che due autori, che non sarebbero assolutamente dovuti mancare, e che se dovessi riscrivere il libro avrebbero un ruolo fondamentale, non sono stati inclusi nel mio studio: sono Ernst Troeltsch e Josiah Royce51.
34Di Troeltsch, un teologo protestante che ha vissuto a Heidelberg e a Berlino, vorrei ricordare in particolare un testo che, per quanto possa apparire incredibile, non avevo ancora letto quando scrissi La nascita dei valori. Il testo cui mi riferisco è nato quando Troeltsch tenne un ciclo di lezioni a Saint Louis, pubblicato poi con il titolo Psicologia e teoria della conoscenza nell’ambito della scienza della religione52. Mi sono permesso di dire che il titolo non è allettante. Chi vorrebbe leggere un libro del 1905 con un titolo simile? Ma si tratta davvero di un lavoro fantastico, che ho apprezzato enormemente. Troeltsch parla con entusiasmo di William James e del suo scritto sulla religione (che definisce epocale), ma auspica e tenta anche una sintesi del suo pensiero con la ricca tradizione storica della religione in Germania e con le domande kantiane circa la validità. Nasce così il collegamento tra la teoria della conoscenza e le domande della psicologia. Lessi lo scritto nel 2004 e rimasi profondamente colpito dalle importanti analogie che vi trovai con ciò che avevo scritto ne La nascita dei valori.
35Jesiah Royce, un neohegeliano americano, amico di Peirce e William James, aveva conosciuto il pragmatismo nella sua forma embrionale e più fresca in diversi momenti della sua biografia intellettuale. Credo che Royce si sia occupato, soprattutto nell’ultima fase, di colmare alcuni vuoti del pensiero di Durkheim, nei cui ottimi resoconti delle esperienze di autotrascendenza manca l’analisi della modalità di articolazione delle stesse da parte di coloro che le hanno vissute. In The Problem of Christianity (Il problema del cristianesimo)53 Royce ha tentato di colmare il deficit ermeneutico e semiotico di Durkheim e quello della filosofia della religione di James.
36La domanda circa la periodizzazione proposta è invece più complessa e si fonda sul nesso fondamentale tra la domanda sulla nascita dei valori e due presupposti: primo, la soggettivazione delle idee sul bene; secondo, la contingenza storica. Per soggettivazione s’intende la consapevolezza che ciò che appare a uno come il bene in sé non risulta necessariamente come tale a un altro. Si tratta della rinuncia alla prospettiva secondo cui il bene in sé esiste autonomamente, al di là di noi, e le persone si differenziano per la diversa capacità di riconoscerlo (l’argomento riguarda in particolare la filosofia occidentale). Con la soggettivizzazione del bene entra in gioco una pluralità che richiede però una terminologia adeguata, e per esprimere le diverse idee del bene degli esseri umani, serve ora una parola che si possa utilizzare anche al plurale. Il termine valore, la cui grande diffusione inizia nel xix secolo, permette di definire ciò che individualmente appare come il bene.
37La soggettivazione non va però confusa, come molti di coloro che si oppongono alla terminologia fanno, con il relativismo. I più grandi pensatori, infatti, volevano a tutti i costi mantenere il concetto di bene; non intendevano lasciare al soggetto la decisione di ciò che è bene, ma semplicemente affermare la possibilità di ritenere bene cose diverse. Max Scheler usa un’espressione paradossale, “il bene in sé per me” che, anche se viene considerata assurda da molte tradizioni filosofiche, descrive con precisione la complessità che s’intende mantenere.
38Troeltsch utilizza l’espressione dell’assoluto soggettivo (subjektive Absolutheit) per indicare un fenomeno simile: si tratta di un assoluto del quale però so che è un assoluto per me; intendo e credo che sia giusto e un bene per tutti, che sia da tutti desiderabile, ma so, mentre ci credo, che sono io ad aver fatto esperienza di questo (e che altri potrebbero non averla fatta). Ritengo che anche il best account principle di Taylor vada in questa direzione. Ognuno ritiene bene qualcosa, ma questo sentire va sostenuto anche da una motivazione. La spiegazione metafisica non può più, oggi, essere convincente. Si tratta di fornire “il miglior resoconto possibile” di ciò che mi porta a un determinato valore54. Per tornare alla motivazione sulla periodicizzazione, è dal 1887 che il termine valori prende il sopravvento sul termine bene, per tenere fede a un “coefficiente soggettivo”, cioè a una connotazione necessariamente soggettiva.
39Per quello che riguarda la contingenza storica posso dire che, finché si pensa che esistano “le leggi della storia” o una qualche filosofia della storia che sappia collocare il presente nel contesto di un futuro prevedibile, non si ha una determinazione temporale abbastanza radicale. Una di queste concezioni colloca il bene al di fuori della storia e si rivolge all’analisi di chi lo sappia riconoscere e orientarvisi. L’altra, pur non collocando il bene al di fuori della storia, possiede la convinzione che la storia sia destinata al bene (il marxismo, per esempio).
40Ci sono stati alcuni pensatori che, alla fine dell’Ottocento, hanno compiuto un doppio movimento, legando il bene alla soggettività e abbandonando l’idea che la storia termini nel bene; hanno riconosciuto che la storia può produrre imprevedibili novità anche e proprio nel campo delle idee sul bene. Questo è il motivo profondo per il quale ho iniziato il mio libro con un capitolo su Nietzsche. Credo che la rottura con l’idea di una storia che in sé si evolve nel bene e la soggettività dell’idea del bene, che nasce alla fine dell’Ottocento, si trovi in particolare in Nietzsche e in James, due autori tra loro molto lontani che però condividono, a mio avviso, una profonda sensibilità per le tematiche citate55.
41Nietzsche ha avuto la capacità pionieristica di porre per primo, e in maniera concreta, la domanda sulla nascita dei valori. Lo ha fatto, nella Genealogia della morale, per quello ch’egli chiama il valore ebraico della giustizia e per il valore cristiano dell’amore. Nietzsche presenta il libro come uno scritto scientifico, anche se non si tratta affatto di un trattato verificabile empiricamente (vi si nasconde una strategia di depistaggio non insolita per il complesso pensatore Nietzche). Se però si è disponibili ad accettare questo presupposto, allora si scopre che Nietzsche ha, in effetti, una teoria empirica sulla nascita dei valori, che lo porta a determinate affermazioni storiche su ebraismo e cristianesimo.
42Non è qui il luogo per approfondire questo discorso. Concludo con la convinzione, già maturata da molti importanti contemporanei di Nietzsche, che la sua teoria sia di fatto empiricamente insostenibile in relazione al cristianesimo e, in maniera più complessa, rispetto all’ebraismo. Credo che alcuni scritti di Max Weber siano in dialogo latente proprio con queste due tesi.
43Un altro autore importante, Max Scheler, non confuta l’analisi psicologica del risentimento di Nietzsche, ma piuttosto una filosofia della religione che fondi su questo l’idea della nascita dei valori cristiani. Tendenzialmente non siamo felici quando facciamo esperienza di persone che ci sono superiori in un campo cui teniamo. Può capitare che diventino un modello, ma più frequentemente siamo tentati di svalutare colui che ci è superiore. Gli rivolgiamo allora, come dice Helmut Plessner, l’occhio composto del risentimento – l’occhio dell’insetto che scruta l’altro con precisione per scovarne le debolezze. Si tratta di una forma di protezione di sé nella relazione con la superiorità.
44Il passo successivo riguarda un rapporto in cui non soltanto ci si mette a confronto, ma si sviluppano ordini di superiorità o di dominio: colui che è ritenuto (o si ritiene) superiore, ne deriva delle pretese nei confronti degli altri. Per Nietzsche i più deboli mettono allora in moto una strategia di “infezione attraverso il risentimento”: fanno credere che le caratteristiche che determinano la superiorità dell’altro siano prive di valore, che non siano un bene. Nietzsche vi scorge un continuo capovolgimento, che egli elabora in vere e proprie teorie sulla schiavitù. Se da un punto di vista storico non hanno molto fondamento, hanno validità a livello psicologico. Sia Scheler sia Merleau-Ponty hanno apprezzato in Nietzsche l’acuto psicologo, sensibile all’intercettazione (alla captazione del sentimento) del risentimento, ma Scheler, che non nega certamente il risentimento come fenomeno umano, nega che possa aver avuto un ruolo determinante all’interno della storia del cristianesimo. Il fatto che il risentimento possa esistere all’interno della Chiesa, non ne fa certo una descrizione adeguata del vero senso del precetto dell’amore cristiano (sarebbe possibile solo se il páthos dell’amore fosse il risultato di una specie di odio primario di sé o di altri)56.
45Secondo Scheler a Nietzsche manca del tutto la sensibilità per il fenomeno dell’amore in quanto eccesso d’amore, che è un amore non costretto o richiesto, ma sovrabbondante, che rispecchia, per Scheler, l’immagine dell’amore del Dio cristiano. Un Dio che si ama oltre ogni misura e che rende liberi, nella relazione, di amare oltre misura. Non so dire se questa autorappresentazione cristiana sia una buona descrizione di cristiani realmente esistenti, non posso dirlo, ma come descrizione dell’etica dell’amore cristiano la ritengo adeguata – più della descrizione di Nietzsche.
46Nel libro sulla Nascita dei valori analizzo gli autori alla ricerca di descrizioni di fenomeni di autotrascendenza, con particolare attenzione all’aspetto dell’articolazione di quest’esperienza. William James ed Emil Durkheim hanno registrato con grande precisione questi fenomeni, cui mi interesso in relazione all’idea della nascita dei valori. Durkheim li descrive per lo più come fenomeni di estasi collettiva, mentre James pone l’accento su esperienze altamente personali e addirittura solitarie, come la preghiera individuale.
47James distingue tre tipi di preghiera, di cui solo una fa parte delle esperienze di autotrascendenza (per le quali utilizza la definizione self surrender, abbandono di sé). Solo la preghiera che prevede una comunicazione libera tra Dio e l’individuo, che suppone un aprirsi senza obiettivo, può essere descritta come tale, a differenza delle preghiere puramente rituali con un testo prescritto, a carattere eventualmente meditativo, e della petizione, dove si prega Dio di fare (o non fare) alcune cose. L’idea contiene, ancora una volta, una rottura con il modello dell’agire secondo un obiettivo, e mette la preghiera in intima relazione con Dio nell’abbandono alla richiesta che “sia fatta la tua volontà e non la mia”. Si tratta dell’ultima rinuncia allo scopo individuale e designa la disponibilità a dire che c’è un’istanza che sa, meglio di me, ciò che io devo volere.
48James dà ampio spazio ai processi di conversione e alla nascita della motivazione e della forza vitale, per la quale usa l’espressione willingness to be (la disponibilità a esistere). Molti teologi conoscono il libro di Paul Tillich, The courage to be (Il coraggio di esistere)57, che credo faccia riferimento anche alla willingness di James. Da dove deriva la fonte del volersi dare alla vita e alle sue richieste? Per James è una forza non razionale ma profondamente corporea e vitale, un’attitudine pronta ad affermare la vita, che nasce dalla sensazione di una presenza amorevole nel mondo. Per illustrare l’immagine a partire da un esempio non religioso cito il caso di una persona che non abbia al mondo nessuno che la ama – può essere motivo e fonte di una profonda depressione. Se invece esiste, anche se questa non è fisicamente o continuamente presente, avrà la sensazione di una presenza amorevole nel mondo. L’idea di religione di James è in stretta relazione con il sentimento di vivere nel mondo con una presenza amorevole, che supera l’amore umano.
49Nomino infine alcuni fenomeni di autotrascendenza, che comprende esperienze diversificate e per le quali fornisco ancora alcuni brevi esempi. Ciò che vale per la preghiera, che può essere puramente rituale o avere forma di petizione, vale anche per il dialogo tra gli esseri umani: può essere un semplice scambio d’informazioni oppure una semplice chiacchierata, definizione che porta con sé una connotazione frivola, di scarso impegno. Ma quello che in tedesco si chiama Gespräch, colloquio, concetto importante anche per alcuni pensatori come Martin Buber, designa un dialogo vero e profondo, che va al di là della gentilezza o dello scambio d’informazioni e diviene un incontro tra due esseri umani. Anche questa può essere una possibile esperienza di autotrascendenza.
50Un’altra possibile esperienza di questo genere è l’esperienza della compassione profonda. Quando si viene interiormente scossi da un incontro con una persona bisognosa, si prova l’esperienza di una pietà naturale, una natural piety, per usare un termine del romanticismo inglese. Un’altra esperienza di questo tipo può essere l’incontro esaltante con la natura, dove si esperisce la fusione con il mare, le montagne o anche il bosco. Ne fanno parte infine le esperienze di fusione sessuale, anch’esse distinguibili in diverse tipologie d’incontro, come per la preghiera e il dialogo. La fenomenologia di esperienze di questo genere è molto ricca. La maggior parte dei pensatori si concentra solo su alcune di queste, tralasciando la grande varietà che una teoria complessiva dovrebbe contenere. Un’ultima domanda fondamentale riguarda la descrizione di ciò che in questi momenti viene esperito.
L’articolazione dell’esperienza di autotrascendenza
51Se il fenomeno dell’autotrascendenza appare chiaro, non è altrettanto evidente come contenga un contenuto articolabile. La domanda è importante e riguarda quello che James chiama «il contenuto noetico di esperienze mistiche»: descrive l’esperienza, dal carattere vagamente paradossale, di coloro che hanno incontrato momenti che suscitano la sensazione di contenere qualcosa di immensamente importante e pieno di significato, forse persino un contenuto conoscitivo, che però non si riesce a esprimere. Si tratta dell’esperienza di una pienezza di senso il cui contenuto è indicibile.
52Chi ha avuto l’esperienza di una fusione con la natura (e credo che in molti l’abbiano sperimentata) si trova in difficoltà nel momento di raccontarla, poiché è difficile rendere a parole la pienezza del sentimento provato. Si può allora scegliere di articolare l’esperienza da soli o di prendere a prestito parole altrui, per esempio dalla poesia, quando si ha l’impressione che descrivano tale esperienza vissuta. Spesso però, quando siamo noi stessi ad articolare l’esperienza, ci troviamo di fronte all’inadeguatezza dei nostri mezzi espressivi. Si possono trovare descrizioni adeguate anche a distanza di tempo. Un’opera d’arte può improvvisamente risvegliare la netta sensazione di esprimere con esattezza il senso di un’esperienza da noi vissuta.
53Cito ancora, al proposito, una descrizione di Anna Karenina, il cui dito mignolo sollevato, mentre beve il tè, è descritto come un dettaglio che nutre l’innamoramento del suo interlocutore. Ma, superata la fase dell’estasi amorosa, lo stesso dettaglio diventa invece insopportabile, un gesto finto e affettato. Ritengo la descrizione geniale, poiché mostra come lo stesso gesto possa trovare riempimento tanto con un sentimento d’amore quanto di ripulsa. Ho avuto la sensazione, leggendo Tolstoj, che fosse riuscito a descrivere con esattezza una sensazione che ho provato molte volte nella vita: la possibilità di riempire di sentimento alcuni piccolissimi dettagli che riguardano gli altri. Molte volte la parola poetica riesce a superare i nostri inadeguati tentativi d’espressione. Torquato Tasso dice, nell’opera di Goethe: «e se nel suo tormento l’uomo è muto, | a me un dio ha dato il privilegio | di poter dire in che misura soffro»58. Dove altri, pur nella stessa esperienza di dolore, non hanno i mezzi espressivi adeguati, Dio ha donato a Tasso (è una condizione passiva!) la possibilità di dire ciò che patisce e di esprimere il dolore anche per gli altri. Alla descrizione poetica si aggiunge, naturalmente, la possibilità di una descrizione teoretica. Per descrivere l’esperienza della fusione con la natura si potrebbe scegliere, per esempio, il tema della gratitudine per la bellezza della creazione. Sarebbe l’espressione soggettivamente convincente di un credente. Richard Dawkins invece potrebbe dire che è sorprendente come, attraverso processi di evoluzione, siamo giunti a produrre delle sostanze che generano determinate sensazioni alla vista delle cime della montagna. Sono vocabolari teoretici che concorrono all’espressione della medesima esperienza e situazione.
54Ciò che intendo è che queste situazioni richiedono di essere espresse, al punto che colui che le ha vissute non riesce quasi a trattenersi dal parlarne. È risaputo che i convertiti sono portati a narrare i passaggi che li hanno condotti alla conversione (o che giovani innamorati abbiano la tendenza a voler condividere l’esperienza in modo a volte esasperante). Ma sebbene queste situazioni esigano di essere espresse, è molto difficile formularne il contenuto.
55Direi che non si tratta dunque di contrapporre un’emozione a un contenuto, ma piuttosto che un’esperienza piena di senso, con grande intensità di sentimento, non è adatta al linguaggio proposizionale e tende all’espressione poetica. Il linguaggio proposizionale non può essere evitato, poiché è utile alla sua giustificazione, ma non è il mezzo più adeguato per accogliere l’esperienza nella sua complessità. Ricoeur ha detto cose molto profonde sul linguaggio religioso, che vanno in questa direzione.
56Nel mio libro sulla Nascita dei valori uso il termine articolazione (per la cui descrizione dettagliata rimando al libro Abbiamo bisogno della religione?, in particolare al capitolo sull’articolazione dell’esperienza59), dove ho tentato di mostrare il processo che si mette in atto quando siamo di fronte a qualcosa di cui non possiamo esattamente dire che cos’è, ma di cui sappiamo e sentiamo che è molto importante. Qual è l’espressione simbolica che cerchiamo di mettere in moto in quel momento?
57A partire da queste riflessioni, delineerò il passaggio dal tema della nascita dei valori al tema sulla violenza.
La violenza e la guerra
58Il tema della guerra e della violenza, ha dato origine a due libri; ne ripercorro alcune pagine, che credo costituiscano un buon passaggio dall’analisi dell’esperienza di autotrascendenza alla nascita dei valori e infine al tema della guerra60. Un capitolo di Guerre e valori, intitolato Sprayed and betrayed (traditi e intossicati), cita un famoso slogan utilizzato dai veterani della guerra in Vietnam e riprodotto sugli adesivi che si attaccano ai finestrini delle automobili (i cosiddetti bumper stickers). La breve formula voleva esprimere al tempo stesso la rabbia e il dolore per le conseguenze permanenti causate dai gas impiegati in guerra, e la sensazione di essere stati traditi dal proprio paese. Mi pare che il titolo riassuma un punto nodale del mio interesse, non solo per l’esperienza religiosa, per le esperienze secolari di autotrascendenza e per l’esperienza della guerra, ma anche per la domanda fondamentale sui danni permanenti o di lunga durata causati da esperienze di violenza.
59Il capitolo muove i suoi passi a partire da una rilevazione empirica della sociologia svolta nel 1920, che osservava in concomitanza con la fine di un conflitto bellico un aumento del tasso di criminalità, provocato dai soldati ormai congedati. Ne ho dedotto che il canale dell’esperienza della violenza, aperto durante la guerra, non si può semplicemente richiudere. Le persone che hanno fatto esperienza di violenza non riescono a smettere di riprodurla, anche quando cada la cornice in cui era richiesta e giustificata.
60Nessuno scenario di guerra è stato indagato empiricamente quanto il conflitto in Vietnam e i suoi effetti. Soltanto pochi studi indagano gli effetti e le conseguenze sociali degli anni successivi alla seconda guerra mondiale in Germania. La guerra in Vietnam invece, avvenuta in concomitanza a un apice di sviluppo delle scienze sociali, è ampiamente documentata. Uno dei problemi analizzati, forse il più ricorrente, è appunto l’imprevedibilità dei soldati congedati, vere e proprie “bombe a orologeria”, pronte a esplodere in qualsiasi momento. Si tentava di analizzarne il motivo e di trovare delle risposte adeguate al problema che ponevano.
61Alcuni considerano il fenomeno come marginale, a causa dall’esigua percentuale di soldati violenti (in relazione al numero totale dei soldati congedati). Ma la teoria che sdrammatizza il fenomeno contiene un errore di valutazione, perché non considera quanti soldati, tra coloro che rientrano in patria, abbiano effettivamente fatto esperienza diretta della violenza. Può dipendere dal carattere della guerra o dalla mansione dei soldati, ma dev’essere considerato come riferimento determinante il dato che avessero effettivamente combattuto.
62La guerra del Vietnam è stata inoltre caratterizzata da combattimenti di guerriglia, che la rendono un’esperienza ancora particolare: non si combatte un’armata nemica chiaramente identificabile, si ha di fronte un nemico indistinto, e si è sottoposti a pressione continua dalla sensazione di essere esposti e vulnerabili in qualunque momento, anche durante la licenza, passeggiando per la città e nel contatto con le persone del posto. Durante la mia indagine sul fenomeno sono stato profondamente colpito dalle registrazioni dei colloqui nei cosiddetti wrap groups, gruppi di sostegno per i soldati che erano stati protagonisti di esperienze di violenza. Con la guida di psicologi e psichiatri si tentava di far loro esprimere e condividere le esperienze attraversate.
63Uno dei protocolli riporta l’affermazione di un soldato che sostiene di aver riconosciuto in Vietnam di essere un mostro: aveva ucciso donne e bambini al di fuori di ogni richiesta o regolamento militare. Ciò che mi colpì particolarmente fu il modo di esprimere l’esperienza: «ho riconosciuto di essere un mostro». Se avesse dichiarato di aver commesso uno sbaglio, di avere avuto un comportamento mostruoso o di essere divenuto temporaneamente un mostro, avrebbe preso distanza dall’accaduto e avrebbe avuto la possibilità di chiedere per quale ragione e con quale diritto lo avevano sottoposto a una situazione che l’aveva spinto ad agire in maniera tanto violenta – una condizione che non sarà mai in grado di superare per i sensi di colpa e il dolore che vi sono connessi. Ma dicendo di aver riconosciuto di essere un mostro (non intendo fare psicologia dilettantistica, ma ripercorrere il pensiero secondo il valore che attribuisco all’espressione), egli si sottrae al senso di colpa e trasforma il suo sé e la sua identità. Crede di aver in qualche modo riconosciuto qualcosa che già era e che non aveva avuto occasione di esprimere, ma che definisce il suo vero essere: una persona che prova piacere nell’esercitare violenza sugli altri.
La violenza come esperienza di trasformazione
64L’esperienza della violenza può essere, come l’esperienza esaltante della conversione, un’esperienza della trasformazione del sé. Nell’introduzione al libro Guerre e valori ho usato la formulazione «il trauma è il fratello perverso dell’esperienza dei valori». Si tratta di fenomeni intimamente affini nella struttura e pur tuttavia profondamente differenti.
65Il termine trauma si è sviluppato in stretta relazione con la storia della violenza del secolo scorso. Usato inizialmente soltanto per fenomeni fisiologici e biologici, come la rottura di un arto o ferite fisiche, esso viene applicato, credo a partire dalla prima guerra mondiale (che in ogni caso ha avuto un ruolo importante per la sua evoluzione), anche alla sfera psichica. Un altro termine, oggi di uso corrente, deve la sua fortuna alla guerra del Vietnam: il disturbo posttraumatico. Con esso si descrivono i fenomeni più svariati e ci si riferisce anche ad avvenimenti precedenti al Vietnam, come l’Olocausto.
66Esiste una somiglianza strutturale tra l’esperienza della violenza e l’esperienza costitutiva dei valori. Le esperienze di autotrascendenza, o costitutive dei valori, com’è già stato detto, sono determinate dalla sensazione di essere strappati al di fuori di sé. Nel caso della violenza la vittima fa l’esperienza di essere strappata a se stessa. L’esperienza della violenza incide in maniera molto profonda e intima nell’io di una persona (una violenza per stupro è terribile proprio per questa ragione). Si potrebbe dire, e spero di non essere frainteso, che un’esperienza che non provoca danni fisici permanenti dovrebbe essere superabile. Sono invece convinto che sia tremenda, proprio perché non incide soltanto sulla fisicità di una persona, ma affonda nell’identità stessa della vittima. Quello che una persona può esperire come un’apertura felice nei confronti di un’altra, viene violentemente forzata e si ripercuote sul sé in maniera terribile. Le due esperienze hanno quindi in comune un superamento dei confini dell’io, in un caso attraverso uno sconfinamento entusiasmante, di abbandono gioioso, nell’altro con la violenza e contro la volontà di chi viene strappato a sé.
67La questione dell’uscita e perdita di sé è ancora più complessa nel caso di una persona che arreca violenza. La difficoltà aumenta quando siamo di fronte a persone che hanno piena coscienza di aver fatto qualcosa di profondamente sbagliato, e scoprono che il compimento di questi atti provoca loro gioia. Diversi studi sulla guerra mostrano il dilemma di persone che hanno ucciso bambini e hanno provato piacere nel farlo. La sorpresa di fronte alla consapevolezza dell’atto compiuto è un sentimento legato all’impossibilità di liberarsi dall’idea di aver goduto di un tale atto.
68Nell’esperienza entusiasmante, costitutiva dei valori, è quasi impossibile trattenersi dal desiderio di comunicarla ad altri. L’esperienza traumatica, al contrario, è caratterizzata dal fatto che non si riesce a parlarne. Per questa ragione definisco i due fenomeni come due fratelli perversi. Il superamento di un trauma, com’è risaputo, può essere raggiunto grazie alla sua espressione, che combatte la tendenza a evitare di parlarne (spesso la sua articolazione avviene soltanto dopo moltissimi anni).
Contingenza della storia
69Il confronto tra la dinamica dell’esperienza costitutiva del valore e quella del trauma mi affascina dal punto di vista della loro struttura, che contrappone l’esperienza di autotrascendenza e l’esperienza dell’essere strappati fuori di sé (costitutiva di entrambe) al livello della loro articolazione ed espressione: entusiastica, poetica e sovrabbondante la prima e caratterizzata da un senso d’impossibilità di dire nella seconda. Bisogna riconoscere che esiste l’esperienza della violenza, così come esiste quella della costituzione dei valori. Questo vuol dire che possono accadere avvenimenti che cambiano le persone in maniera radicale, al di là di ogni logica storica.
70Credo che nessuno di coloro che ha mandato i soldati a combattere abbia avuto l’intenzione di provocare dei cambiamenti nella loro persona, quanto piuttosto quella di conseguire determinati obiettivi (come quello di occupare un paese). Le persone però sono tornate cambiate, innescando una quantità di conseguenze che nessuno aveva previsto. Questo vale anche per l’esperienza di valori. Non credo infatti che la storia della religione si possa forzare entro un’idea evolutiva di sviluppo, poiché anch’essa mostra momenti di discontinuità e di cambiamento che possono essere determinati anche dall’intervento improvviso di singoli61.
71La storia della religione, come quella della guerra, deve acuire la nostra consapevolezza del fatto che la storia in sé può essere altamente contingente. Se foste degli storici potreste rispondermi di non aver mai sostenuto nulla di diverso, ma per i sociologi si tratta di una tesi provocatoria, poiché molti tendono a pensare che ci sia una teoria in grado di spiegare i meccanismi fondamentali della storia. La storia avrebbe un procedimento chiaro, uno sviluppo progressivo di meccanismi di differenziazione funzionale, di progressiva razionalizzazione eccetera.
72Nei miei studi ho tentato di trarre alcune conclusioni dall’esperienza della guerra e dalle sue conseguenze. Alcune teorie sul cambiamento sociale sono legate in particolare all’analisi dell’esperienza della violenza e dei suoi effetti duraturi. Naturalmente l’elaborazione del passato nazionalsocialista della Germania, che ha colpito molto la mia generazione e quella precedente, è centrale per il mio pensiero. Da questa esperienza nasce la volontà di capire e interpretare le parti coinvolte, e di comprendere tutti, anche i nazisti, nella complessità della loro persona e nella realtà del loro essere, di tentare infine un’analisi di quei meccanismi che possono radicalmente e intimamente cambiare una persona. Cosa può convincere degli esseri umani a commettere atti di violenza in larga scala anche quando, in qualche parte della loro coscienza, sono consapevoli che sono sbagliati? Si tratta di persone che vivono all’interno di un sistema interpretativo che giustifica il loro agire.
73Nel libro sulle Guerre e i valori (costruito in maniera analoga al libro sui valori) l’obiettivo era quello di rivedere le teorie che interpretano la storia come un processo in direzione di una diminuzione di violenza. Per questa ragione ho intitolato un capitolo Il sogno di una modernità priva di violenza. Vi sono idee sulla modernità che credono che la guerra e la violenza debbano scomparire con la progressiva istituzionalizzazione degli ordini liberali e classificano di conseguenza i diversi paesi a seconda del loro “grado di modernità”. La storia è piena di teorie che tentano questa spiegazione.
74Va rilevato che, sin dall’inizio del xx secolo, secondo le teorie allora vigenti (in particolare in ambiente anglosassone) non si sarebbero più presentate guerre in Europa. In considerazione dei legami consistenti tra le nazioni, delle interrelazioni tra i paesi europei e dell’interesse economico condiviso, la volontà per il mantenimento della pace sembrava un assunto incrollabile. La guerra però avvenne e, per non dover abbandonare o confutare la cornice interpretativa che era stata costruita, il “malfunzionamento” del sistema venne imputato a un unico paese62. Si addossò quindi la responsabilità a quei paesi che non erano ancora propriamente e pienamente moderni. Per molti aspetti però la Germania nel 1914 era uno dei paesi più moderni del mondo, il che costrinse a teorie come quella di una Germania “parzialmente moderna”. Quello che sto cercando di mostrare è che “il sogno della fine della violenza” s’inserisce nelle teorie in maniera strutturale. Ma il sogno di un mondo libero da violenza (che per altro in quanto sogno condivido) non deve riversarsi in teorie sociali e storiche che vanno verificate empiricamente.
75Nel capitolo La modernità della pace tento ancora una critica fondamentale della teoria della modernizzazione, proprio in relazione all’idea della crescente pacificazione delle società moderne. Mentre nel 1900 sia i liberali sia i socialisti credevano in un futuro pacifico, un intellettuale italiano, Enrico Corradini (che classifico come proto-fascista), ne derideva il sogno e rispondeva con il concetto della “modernità della guerra” (da cui ho tratto il titolo del capitolo in questione). Corradini prediceva che il xx secolo sarebbe stato un secolo di guerre inaudite ed ebbe tragicamente ragione. Con intento antifascista io tento allora di riflettere su ciò che egli ha correttamente interpretato, anche se in relazione a un pensiero, a me del tutto estraneo, di esaltazione della guerra e della violenza.
76L’Italia ha avuto importanza fondamentale per la storia mondiale. Prima di scrivere il libro sui diritti dell’uomo (un processo durato più di 10 anni, dato che faccio troppe cose contemporaneamente), avevo in animo di scrivere un libro in cui l’Italia avrebbe avuto un ruolo centrale. Ciò che ho spiegato all’inizio della lezione sulla tendenza dei soldati che hanno fatto esperienza di violenza a ripetere atti violenti anche là dove le condizioni esterne non lo richiedono più, ha avuto un ruolo significativo in tutti i paesi coinvolti dalle guerre. Direi che la maggior parte dei paesi affrontò l’atteggiamento violento come un problema e lo stesso Lenin, che considero uno dei grandi giustificatori della violenza per uso strumentale (la rivoluzione proletaria non può essere priva di violenza), la legittimava, per lo scopo finale di costituire un ordine utopisticamente pacifico, privo di ogni forma di violenza. La rottura con la teoria strumentale della violenza trovò invece un rappresentante politico fondamentale in Benito Mussolini. Avvenne, come ho già anticipato, anche nel pensiero di Enrico Corradini e più in generale nell’ambiente fascista, ma il passaggio da una giustificazione puramente strumentale della violenza a un altro tipo di giustificazione avviene in maniera radicale proprio con Benito Mussolini. Non soltanto a livello teorico, ma dal punto di vista pratico e politico. Egli credeva che i giovani che avvertivano l’urgenza e la necessità di esprimere violenza, dovessero avere l’occasione di farlo. Che poi questo avesse utilità strategica, era considerato un ulteriore vantaggio, ma contavano soprattutto il rafforzamento dell’identità di gruppo e l’entusiasmo suscitati dall’esperienza condivisa di violenza.
77I fasci hanno compiuto azioni violente del tutto gratuite nei confronti di strati innocenti e disarmati della popolazione. Un esempio analogo dell’uso gratuito della violenza è dato dalle SS in Germania, che ha avuto un significato paragonabile a quello sopra descritto. Si trattava di organizzare una messa in libertà della violenza. Senza questo passaggio la vittoria del nazionalsocialismo, come quella del fascismo, non sarebbero state possibili. Anche per questa ragione considero il fascismo italiano un fenomeno molto importante per l’analisi dei temi proposti. Non c’è stata una modernità progressiva e non violenta, ma una modernizzazione, passata attraverso la liberazione e la messa in libertà della violenza.
La rimozione della guerra
78Intorno al 2000 ho scritto un breve testo, rimasto inedito, dal titolo La guerra come rivoluzione, in cui volevo dimostrare che con l’esperienza della guerra mondiale era stato compiuto un passo assai “creativo”, quello di portare su un piano unitario le ideologie del socialismo e del comunismo del xx secolo. Nessuno avrebbe predetto, all’inizio del xx secolo, l’avvento del fascismo, e nel 2014 non sappiamo quali sorprendenti ideologie potrebbero nascere nel 2050. Si potrebbe parlare, a questo punto, del terrorismo islamico, del quale non si sa bene quando sia iniziato; proprio in seguito alle riflessioni fatte, però, credo si debba dire che possono nascere sistemi di valori completamente nuovi e che non possono essere pronosticati né a partire da dinamiche traumatiche, né da fenomeni di entusiasmo.
79Il mio pensiero sull’esperienza della violenza, come quello sulla religione e sull’autotrascendenza, mi serve come strumento per la messa in discussione di teorie storiche che non prendono in considerazione l’elemento della contingenza. Il capitolo intitolato Ideologie di guerra tratta specificamente la risposta delle teorie sociali, filosofiche e politiche risalenti all’epoca alla prima guerra mondiale. Mi sono chiesto come Weber o Troeltsch, Bergson o Simmel o altri pensatori vi abbiano fatto riferimento. Sottolineo (in corrispondenza alla teoria dell’agire di cui ho già parlato), che sono convinto che le guerre, laddove le persone ne siano effettivamente coinvolte, esigano e chiedano un’interpretazione. Detto secondo i modelli delle precedenti considerazioni: le guerre presentano un problema d’interpretazione, perché mostrano con chiarezza che accade qualcosa d’importante, di cui però non si sa cosa sia.
80Durante una guerra (e il 1914 ne è un esempio eminente) vengono prodotte enormi quantità d’interpretazioni. È accaduto anche con l’11 settembre. Situazioni di questo tipo generano un’ondata di spiegazioni, vere e proprie teorie storiche e nuove interpretazioni del mondo. Il 1914 aveva prodotto l’idea che la Germania dovesse rompere con il 1789. Molti hanno anche sostenuto, contro il mio scetticismo, che l’11 settembre abbia costituito una rottura epocale. Non lo credo affatto, ma ciò non di meno va seriamente considerato il fatto che sia ritenuto tale da una maggioranza. Anche questo è un dato rilevante per l’interpretazione del mondo.
81L’intensità interpretativa delle crisi arriva fino al punto in cui anche il sogno di una razionalità metodica diventa una delle forme d’espressione della crisi. Uno dei miei libri preferiti, Cosmopolis di Stephen Toulmin63, sostiene che un particolare sonetto, scritto in occasione dell’omicidio di Enrico IV, ha probabilmente per autore Cartesio. Potrebbe essere una scoperta filologica qualsiasi, che racconta che il giovane Cartesio scriveva sonetti (uno dei quali sull’omicidio di Enrico IV), ma Toulmin afferma, in maniera a mio avviso molto raffinata, che lo scritto dimostra quanto Cartesio fosse disperato per le sanguinarie contrapposizioni confessionali in Francia e in Europa. Il solo modo per uscire dal conflitto confessionale sarebbe stato per lui lo sviluppo del dubbio metodico.
82Toulmin inoltre sostiene che coloro che (nel xx secolo) hanno creduto maggiormente nella metodologia sono stati i positivisti logici, esponenti del cosiddetto Circolo di Vienna, nato nella capitale dell’Impero tra le due guerre mondiali. Ma Vienna, nel periodo tra le due guerre, si trovava sotto la minaccia perenne di una guerra civile, per cui sarebbe del tutto sbagliato ritenere che l’idealizzazione del metodo in filosofia fosse l’espressione storico-sociale di una razionalità stabile e sicura. La razionalità metodica è al contrario il sogno di pensatori disperati di fronte all’irrazionalità. L’idea non va vista in maniera troppo rigida e non ha alcuna pretesa di universalismo, ma invito a riflettere se non sarebbe utile, in condizioni più pacifiche e armoniose, puntare su un rapporto di tipo pragmatico, che considera paritari (per quanto diversi) i suoi interlocutori, e che riconduce il sogno di un metodo infallibile alla ricerca esasperata di una soluzione.
83La rimozione dell’esperienza della guerra riflette sul fatto che molti pensatori, pur avendo fatto esperienza di una guerra, non ne parlano all’interno della loro opera e io sostengo (in maniera un po’ generalista) che ciò valga da Hobbes fino a Habermas64. Mi sembra singolare che Hobbes, che si serve di uno dei tópoi più famosi sulla guerra – bellum omnia contra omnes –, ne parli in maniera approfondita soltanto da un punto di vista concettuale, mentre della guerra reale, da lui vissuta, non abbia quasi nulla da dire. Anche Habermas, che certo non nasconde l’importanza che la seconda guerra mondiale e l’elaborazione del nazionalsocialismo hanno avuto per lo sviluppo del suo pensiero, e che per altro ha scritto sui temi più svariati, non tratta mai la seconda guerra mondiale in maniera diretta. Naturalmente quest’intuizione non costituisce una tesi o una teoria fondamentale e non va intesa in questo senso, ma mi pare interessante che l’esperienza della guerra in quanto esperienza costitutiva venga espressa o tematizzata solo molto raramente nelle opere di tanti grandi pensatori.
Notes de bas de page
40 H. Joas, Praktische Intersubjektivität. Die Entwicklung des Werkes von G.H. Mead, cit.
41 H. Joas, Die Sakralität der Person. Eine neue Genealogie der Menschenrechte, Berlin, Suhrkamp, 2012, trad. it. A.M. Maccarelli, La sacralità della persona. Una nuova genealogia dei diritti dell’uomo, Milano, Angeli, 2014.
42 A Max Scheler, che considero di grande interesse, al quale riservo però diverse obiezioni, ho dedicato un capitolo del libro sui Valori. Cfr. H. Joas, Praktische Intersubjektivität. Die Entwicklung des Werkes von G.H. Mead, cit.
43 Nell’introduzione al libro sui valori culturali in Europa cito la famosa frase pronunciata da Lutero quando gl’intimarono di ritirare le sue tesi: «Io sono qui, non posso fare altro. Dio mi aiuti. Amen» (Hier stehe ich. Ich kann nicht anders. Gott helfe mir. Amen). Significa “non ritratto” e a ben vedere, detto così, potrebbe trattarsi di una stupidaggine, perché Lutero avrebbe senz’altro potuto ritrattare. Ma ciò che egli intende con “non posso fare altro”, non significava un’incapacità reale, ma un’impossibilità dettata da altro. Per dirlo con un linguaggio un po’ anacronistico, ciò significa: “non è conciliabile con la stima che ho di me stesso”. O, detto ancora più semplicemente, “non potrei più guardarmi allo specchio, sarebbe una contraddizione per la mia persona, mentre voglio rimanere fedele a me stesso”.
44 H. Joas, Glaube als Option. Zukunftsmöglichkeiten des Christentums, Freiburg, Herder, 2012; trad. it. P. Costa, La fede come opzione. Possibilità di futuro per il cristianesimo, Brescia, Queriniana, 2013.
45 Cfr. nota 30.
46 Mark Twain scrive, con grande sintesi ironica, che tra il suo ventesimo e il suo quarantesimo compleanno «suo padre divenne sempre più intelligente». La citazione descrive la parabola di allontanamento, di successiva elaborazione e di recupero del riferimento paterno, un processo di cambiamento che permette una ricostruzione più giusta dell’immagine dei genitori.
47 Porto un esempio preso a prestito dalla cultura italiana. In Il mulino del Po, Riccardo Bacchelli descrive un personaggio molto coraggioso, la cui caratteristica principale è quella di dire sempre la verità (ed egli ne viene molto lodato, anche perché mantiene la sua sincerità nonostante essa comporti molti svantaggi). Alle lusinghe risponde con semplicità: «i miei genitori non mi hanno insegnato a mentire», riconduce cioè il suo comportamento lodevole, personale e autonomo non a se stesso, bensì ai genitori. Si tratta, a mio avviso, di un capovolgimento dell’attuale richiesta d’individualità e di autonomia. Cfr. R. Bacchelli, Il mulino del Po, in Id., Tutte le opere di Riccardo Bacchelli, Milano, Mondadori, 1957.
48 W. James, The Varieties of Religious Experience. A Study in Human Nature, cit.
49 J. Dewey, A Common Faith, New Haven, Yale University Press, 1934.
50 Leggendo Dewey ebbi la sensazione di trovarvi un riferimento al pensiero di Durkheim, che però non era citato. Scrissi allora all’archivio John Dewey per chiedere se fosse possibile ritrovare nel lascito tracce di un’eventuale conoscenza dell’autore. Con mia grande gioia mi inviarono il manoscritto autografo degli appunti di Dewey sugli scritti di Durkheim.
51 Per compensarne la mancata presenza, ho dedicato loro diversi articoli, sei a Troeltsch e uno, ancora inedito, a Royce.
52 E. Troeltsch, Psychologie und Erkenntnistheorie in der Religionswissenschaft. Eine Untersuchung über die Bedeutung der kantischen Religionslehre für die heutige Religionswissenschaft, Tübingen, Mohr, 1905.
53 J. Royce, The Problem of Christianity (lectures delivered at the Lowell Institute in Boston and at Manchester College, Oxford) New York, MacMillan, 1914.
54 Per ascoltare la diversità dei valori secondo il resoconto serve umiltà. In Troeltsch il principio ha una punta anticattolica che però, in quanto cattolico, accolgo volentieri. Egli critica l’idea che ci sia qualcuno che, al di là di ogni discussione, sia capace di riconoscere ciò che è bene come modalità autoritaria e accentrante. Nell’idea del protestantesimo di Troeltsch questo è del tutto inaccettabile. Molti teologi cattolici oggi naturalmente non difenderebbero più quest’idea, attuale all’inizio del Novecento. Il discorso peraltro può valere anche indipendentemente da connotazioni puramente religiose.
55 Una delle molte differenze tra loro è data a partire dal presupposto profondamente democratico in James, e di quello totalmente antidemocratico, antireligioso e scettico in Nietzsche.
56 Ricordo in merito ciò che mi ha segnalato su Nietzsche Jean-Luc Marion, secondo il quale il filosofo tedesco ha fornito una descrizione errata del fenomeno del risentimento nella Chiesa. Citando Tertulliano, la cui idea di beatitudine consiste nella gioia dei salvati alla vista delle sofferenze di coloro che bruciano all’inferno, Nietzsche ne ha tratto la conclusione che il piacere sadico dei beati così descritto dimostrerebbe che chi agisce nel bene non lo fa per amore, ma soltanto in vista di questo triste compiacimento.
57 P. Tillich, The Courage to Be, New Haven, Yale University Press, 1952.
58 J.W. Goethe, Teatro, pp. 407-520, trad. it. G. Forti, Torino, Einaudi, 1973.
59 H. Joas, Braucht der Mensch Religion? Über Erfahrungen der Selbsttranszendenz, Freiburg, Herder, 2004; trad. it. A.M. Maccarini, Abbiamo bisogno della religione?, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010.
60 H. Joas, Kriege und Werte. Studien zur Gewaltgeschichte des 20. Jahrhunderts, Weilerswist, Velbruck, 2000; H. Joas e W. Knöbl, Kriegsverdrängung. Ein Problem in der Geschichte der Sozialtheorie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2008. I temi della religione e della guerra, per i quali nutro un interesse equivalente, sono caratterizzati da percorsi di ricezione molto differenti. Il tema della religione suscita un interesse continuo, mentre il tema della guerra (di cui mi occupo sin dagli anni Ottanta) ha una congiuntura temporale particolare, probabilmente unica nel suo genere. Ogni volta che la politica mondiale affronta la minaccia o il sorgere di una nuova guerra, le discussioni e gli interventi sul tema si moltiplicano, al punto che non riesco a dar seguito al grande numero d’inviti a convegni o discussioni pubbliche che mi vengono rivolti. Ma questa condizione particolare perdura al massimo sei settimane; non supera mai quest’arco temporale, anche quando la guerra si protrae per periodi molto più lunghi, magari per decine di anni. L’interesse intorno al tema della guerra ha una durata limitata ed è sempre e soltanto condizionato dall’attualità politica. Si tratta di un fenomeno interessante, poiché sembrerebbe segnalare la volontà di tornare il più in fretta possibile alla rimozione attiva del tema della guerra (i dati sulle vendite dei libri rispecchiano la fluttuazione dell’interesse qui descritta).
61 Come dimostra l’esempio dei mormoni. Si pensi al caso di Joseph Smith, che sostiene che i libri aggiuntivi della Bibbia gli sono stati dettati direttamente da Dio e trova milioni di sostenitori. Esperienze di questo genere non si possono, naturalmente, ricondurre soltanto ai singoli, ma vanno analizzate in considerazione di un contesto più vasto (che, nel caso dei mormoni, possa spiegarne il successo presso i suoi sostenitori).
62 La Germania, per esempio, dopo la prima guerra mondiale, e sicuramente dopo la seconda, è stata dichiarata responsabile di averle causate. Lo ritengo giustificato nel caso della seconda, mentre credo che la questione sia più complicata nel caso della prima (il dibattito circa il coinvolgimento e la responsabilità della Germania è di nuovo molto attuale, come dimostrano gli studi di Christopher Clarke).
63 S. Toulmin, Cosmopolis: The Hidden Agenda of Modernity, Chicago, University of Chicago Press, 1992.
64 Il libro Guerre e valori è una raccolta di saggi, nati in momenti diversi. Non ne ero del tutto soddisfatto e ho sempre avuto l’ambizione di farne una storia più completa, dedicata al tema della guerra e della violenza nelle filosofie e nel pensiero sociale dell’Occidente dalla prima modernità fino a oggi. La University of Chicago Press mi propose di farne un’edizione antologica e per ragioni di tempo chiesi al mio allora assistente e oggi professore, Wolfgang Knöbel, di fare il volume con me. Iniziammo a scrivere un’introduzione che sarebbe dovuta essere di circa 40 pagine, ma la versione finita ne contava 120. Prima di farla tradurre (era scritta in tedesco), sottoponemmo il problema della lunghezza all’editore, che ci assicurò che non sarebbe stato un impedimento, ma quando ebbe tra le mani l’introduzione tradotta in tutta la sua lunghezza, decise diversamente. A quel punto però non eravamo più disposti a tagliarla e mandammo il testo a Suhrkamp, proponendolo per un breve volume sul tema della guerra. Il “breve volume” arrivò a 380 pagine e s’intitola La rimozione dell’esperienza della guerra.
Mi preme ancora accennare a un libro (il più lungo che abbia mai scritto, sia pure in collaborazione con un altro autore) che non tratterò in queste lezioni. Il libro in questione intende ripercorrere la storia dello sviluppo della social theory (teoria sociale) e si situa in qualche modo a metà strada tra la filosofia e le scienze sociali, di cui traccia lo sviluppo a partire dal 1945 in ambito anglofono, tedesco e francese. Il libro ha riscosso grande successo sia in inglese sia in tedesco, ed è stato tradotto in molte lingue. Ne parlo qui per prevenire alcune puntualizzazioni ricorrenti, come la domanda sulla collocazione di Foucault o di altri pensatori nella mia teoria sulla nascita dei valori. I libri teorici non possono essere enciclopedici, ma chi avesse interesse al mio lavoro in relazione ad altri autori, potrà trovarvi ampi riferimenti nel libro citato. Cfr. H. Joas e W. Knöbl, Sozialtheorie. Zwanzig einführende Vorlesungen, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2004. Vorrei infine aggiungere, ancora in maniera soggettiva, che ho sempre patito il fatto che i miei libri venissero presentati e letti isolatamente. Si tratta di un fenomeno diffuso ma difficile per l’autore, che si trova a confronto con una recensione che non tiene conto del percorso e dello sviluppo del suo pensiero, del fatto che alcuni temi possono già essere stati trattati in altri scritti. Credo che nasca da qui la tentazione di puntualizzare ogni volta che si è scritto di determinati temi in altro luogo, anche alla ricerca della disponibilità del lettore a mettere in relazione le diverse cose che sono state scritte. Da alcuni anni peraltro mi ritrovo in questa fortunata situazione: sono felice che Sabine Schößler mi abbia dedicato una tesi di dottorato (Der Neopragmatismus von Hans Joas: Handeln, Glaube und Erfahrung, Berlin, Lit, 2011).
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Valori, società, religione
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