1 Quest’evasione nell’estetica è un atto di disperazione, ma reagisce a una critica della conoscenza che non potrebbe essere più immanente. Perché come si può chiamare altrimenti il fatto che la ragione con i suoi propri mezzi rende conto degli ingredienti di non-verità senza i quali non può essere ragione? Chi si spiega la cosa al contrario, come se Nietzsche avesse per primo assunto il moderno punto di vista estetico tipico «di una soggettività decentrata, liberata da tutte le restrizioni della conoscenza e dell’attività per uno scopo, da tutti gli imperativi del lavoro e dell’utilità» (J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 125) e, partendo da qui, sia poi passato a «una critica razionale smascheratrice della ragione, che pone se stessa al di fuori dell’orizzonte della ragione» (ivi, p. 99) non ha compiuto lo sforzo di ripercorrere il cammino del pensiero nietzschiano, né ha familiarità con l’esperienza dello scandalo tolemaico. Involontariamente dà ragione all’uomo folle: «Io vengo troppo presto». «Quest’enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini».
2 WL § 1, OFN III**, p. 365.
3 Ivi, pp. 364-365.
4 Aristotele, Metafisica 1074b.
5 Ivi, 1003a.
6 Ivi, 1072b.
7 FW § 355, OFN V**, p. 223.
8 WL § 1, OFN III**, p. 360.
9 Ivi, p. 364.
10 Ivi, p. 362.
11 Ivi, p. 363.
12 JGB § 269, OFN VI**, p. 191.
13 Eh («Perché sono così saggio» § 2), OFN VI***, p. 273.
14 WL § 2, OFN III**, pp. 30-31.
15 Ivi, p. 370.
16 Ivi, pp. 371-372.
17 Eh («Perché sono così saggio» § 1), OFN VI***, p. 273.
18 Dove ingenuità e scaltrezza, oblio di sé e autoriflessione, intuizione e ragione, vita e arte si intrecciano l’una con l’altra, cosicché ognuna ha anche in sé l’altro da cui si distingue, cosicché ognuna include anche in sé l’opposto che esclude da sé, è necessario esercitare un grande sforzo per non abbandonarsi a una terminologia hegeliana, perché «dove tali, che sembrano assolutamente separati, passano l’un l’altro per se stessi» e si rivelano come «unità dell’essere differente e del non-essere differente» (G.W.F. Hegel, Scienza della logica, Roma-Bari, Laterza, 1974, vol. I, pp. 74; 118-119) il dato di fatto della dialettica è inevitabilmente presente. Ora è sicuramente vero che Nietzsche non risolve dialetticamente nessuna delle coppie concettuali qui citate. Ma quale fallacia ritenere che, dove non c’è una risoluzione dialettica, non vi sia neppure un intreccio dialettico! Proprio in Hegel l’elemento dialettico è il ripercorrere minuziosamente l’intreccio, non il colpo di mano con cui egli poi lo risolve in pura identità. Quando egli in una costellazione dialettica – di finito e infinito, fondamento e fondato, essenza e apparenza o qualunque essa sia – analizza con precisione in che misura qui il distinto sia anche identico e l’identico anche distinto, per poi affermare, che in tutto ciò «sia andato insieme con se stesso» (ivi, p. 181) – e certo non si sa come, transitando a una nuova, superiore unità: proprio questo è il punto saliente, vale a dire, il punto in cui Hegel fuoriesce dalla dialettica. «I passaggi, le transizioni non tengono» (M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, Genova, Marietti, 1988, p. 8). Chi non nota questo punto saliente e concepisce la dialettica solo come lo schema estrinseco-formale di tesi, antitesi, sintesi, ovvero posizione, negazione, negazione della negazione, può certo rappresentarsi la cosa in questi termini: «Tre idee stanno alla base della dialettica: il potere del negativo, principio teorico che si manifesta nell’opposizione e nella contraddizione; la valorizzazione della sofferenza e della tristezza (“passioni tristi”), principio pratico che si manifesta nella scissione e nella lacerazione; la positività quale prodotto teorico e pratico della negazione stessa; ora dire che tutta la filosofia di Nietzsche, nel suo senso polemico, è la messa al bando di queste tre idee non sarebbe affatto esagerato» (G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 222). Come anche non si esagera quasi se si dice che basta questa citazione per rivelare quale idea della dialettica abbia il suo autore: «La dialettica si generò dalla Critica kantiana ovvero da una falsa critica» sostiene Deleuze, come se Socrate e Platone non ci fossero mai stati, e contrappone «al lavoro della dialettica i giochi della volontà di potenza, contro quella famosa negazione della negazione, l’affermazione dell’affermazione» (ivi, pp. 223-224) e con tutto ciò costituisce una pietra miliare nella ricezione francese di Nietzsche a cui anche dall’estero si rivolgono sguardi deferenti. Di contro cfr. A. Schmidt, Zur Frage der Dialektik in Nietzsches Erkenntnistheorie, in M. Horkheimer (a cura di), Zeugnisse, Frankfurt am Main, Europäische Verlagsanstalt, 1963, pp. 115 sgg.; H. Schweppenhäuser, Nietzsche – Eingedenken der Natur im Subjekt, in Id., Vergegenwärtigungen zur Unzeit?, Lüneburg, zu Klampen, 1986, pp. 178 sgg., un lavoro che nell’esibizione della dialettica in Nietzsche assume esso stesso un andamento dialettico.
19 Il monoteismo cristiano è «come un ultimatum e un maximum della forza plasmatrice di divinità, del creator spiritus nell’uomo», «da allora non hanno più creato un nuovo Dio! Quasi due millenni e non un solo nuovo Dio!» (AC § 19, OFN VI***, p. 186).
20 «Il libero pensiero dei nostri signori naturalisti e fisiologi è, agli occhi miei, uno scherzo – a loro manca la passione di queste cose, la sofferenza di esse» (AC § 8, OFN VI***, p. 174).
21 MA I § 52, OFN IV**, p. 57.
22 JGB § 59, OFN VI**, p. 64.
23 GD («Scorribande di un inattuale» § 38), OFN VI***, pp. 138-139.
24 GD («Scorribande di un inattuale» § 46), OFN VI***, p. 147.
25 MA I § 32, OFN IV**, p. 39.
26 «Quel che si limita a lasciarsi dimostrare ha poco valore» (Nietzsche, GD [«Il problema Socrate» § 5], p. 65).
27 I due capitoli seguenti mostreranno più in dettaglio l’andamento di questo percorso. Ma già ora una cosa è chiara: è la riflessione, la svolta della ragione contro se stessa, a far sorgere in Nietzsche la sua passione e ad alimentare la sua forza linguistica, non una «guerriglia orale» come se l’immagina Sloterdijk: «Più nessuna semantica, solo più gesti. Più nessuna idea, solo più figure energetiche. Più nessun logos, solo più oralità. Nulla più di sacro, solo più palpiti del cuore. Nessuno spirito più, solo respiro. Nessun Dio più, solo più movimenti con la bocca. […] È il linguaggio dell’uomo post-metafisico – forse anche solo un tipo di linguaggio infantile – un ritorno della gaia oralità al culmine della cultura?» (P. Sloterdijk, Der Denker auf der Bühne. Nietzsches Materialismus, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1986, pp. 131 sg.). Nietzsche meno semantica, logos, spirito – ridotto a un carattere orale per il quale la «disciplina dello spirito» (AC § 36, OFN VI***, p. 211) è una parola straniera, dotato di un linguaggio che come un gaio rutto spirituale dopo la morte di Dio di punto in bianco si lascia alle spalle ogni metafisica: questo è il Nietzsche postmoderno, in vendita a prezzi stracciati.