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X. Blues della maternità

p. 89-101


Texte intégral

Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori nelle gravidanze, con dolore partorirai i tuoi figli».
Genesi 3, 16

1Fin dalla notte dei tempi le donne partoriscono con pena e dolore. È il prezzo da pagare, la libbra di carne reclamata al loro corpo per far nascere un altro corpo. Nel mito biblico il dolore del parto ha la sua radice nel peccato: Eva, madre dei viventi, per aver provato il frutto dell’albero proibito, quello della Scienza, ricevette questa condanna dal Dio Yahweh. Ogni nascita commemora così, con il suo corteo di dolori, le pene e gli orrori sofferti da un corpo di madre, conseguenze della prima colpa, quella del peccato originale.

2Possiamo supporre che il mito biblico inanelli così, in termini di finzione, la parte di impossibile e di impensabile del parto, attribuendo al dolore il senso di un sacrificio conseguente alla mancanza.

3Ebbene, l’interpretazione biblica del dolore del parto legato al peccato, al primo peccato, non è presente oggi nelle menti delle donne della nostra società postmoderna. La scienza ha reso possibile, per mezzo dell’epidurale, il parto senza dolore; la contraccezione permette alle donne di avere un figlio o di non averlo secondo i loro desideri, con la possibilità di ricorrere all’aborto, la diagnostica per immagini permette di sapere con molto anticipo se la gravidanza sia o meno possibile. L’industria farmaceutica produce tutta una panoplia di pillole per calmare i dolori del corpo come quelli dell’anima. Si direbbe che nella nostra società ipermoderna e iperdelicata la scienza abbia fatto tacere il mandato divino, grazie a Dio! Una nuova proposta, diretta alle donne che vogliono partorire, si fa sentire: nessun dolore, quello che vuoi e il tuo desiderio prima di tutto, il tuo piacere e le tue scelte sono al primo posto. Però questo non significa forse che l’accesso alla maternità oggi proceda nel puro principio di piacere, sostenuto dall’abbagliante soddisfazione di un desiderio, rivestito con l’ornamento incandescente del sublime della maternità, siglando il successo nella vita di una donna?

Imperativo di essere madre

4I media e la stampa veicolano un’immagine ideale nella quale maternità e felicità vanno mano nella mano. Il bambino sembra essere un ornamento da favola, una specie di plus valore quando colei che partorisce è una star o una principessa. Così abbiamo visto elevare il bambino allo zenit sociale come valore aggiunto, oggetto che si deve ottenere prima di una certa età, in ogni caso prima dell’arresto dell’orologio biologico. Si può constatare come ai giorni nostri avere un figlio, essere madre, sia un imperativo sociale che non risponde all’affanno di altre epoche a proposito della conservazione di un patrimonio o all’assunzione della legge divina: oggi questo imperativo si inscrive piuttosto come risposta a un’immagine di riuscita e di completezza. Si impone come ciò a cui ogni donna dovrà attenersi per essere una vera donna. È quanto si ascolta dalle donne in analisi. È quindi molto difficile per una donna distinguere ciò che è relativo al suo desiderio e ciò che viene imposto dall’epoca, come un’esigenza che deve soddisfare. Inoltre, deve dimostrarsi efficace e perfetta nel suo essere madre: portare a termine una gravidanza senza problemi, partorire senza la minima sofferenza, occuparsi del figlio con allegria, allattarlo, riprendere in fretta il lavoro, occuparsi della casa e degli altri figli se ne ha, perdere velocemente i chili extra della gravidanza, essere bella, seducente, avere una vita sociale e trionfare professionalmente.

5Così, preso tra il discorso onnipotente della scienza che amplia i limiti di possibilità della maternità verso frontiere finora impensabili, e gli imperativi del discorso capitalista che contamina la maternità con i suoi criteri di efficacia, produzione e rendimento, il corpo delle donne si trasforma nel teatro di nuove sofferenze, la maternità può assumere la forma di un incubo ed essere accompagnata dall’insorgenza di nuovi sintomi. Il dolore che è stato fatto uscire dalla porta rientra dalla finestra, prendendo la forma di un dolore morale. Tutto fa pensare che il rovescio dell’affermazione del desiderio di «un bambino quando voglio, come voglio» appaia nella forma di un imperativo piuttosto feroce che apre per le donne la beanza della mancanza dove esse si perdono1. Non potendo essere la madre perfetta che dovrebbero essere, soffrono di non «essere una buona madre».

Blues maternità.net

6Questo è testimoniato da tutta una corrente, vero fenomeno della società, creata su iniziativa di donne per le donne. Esse parlano delle difficoltà incontrate da ognuna di loro nell’esperienza della maternità. Hanno preso l’iniziativa di scrivere non solo per farsi ascoltare ma anche per condividere con altre la propria esperienza, per incoraggiare le più timide a uscire dal loro isolamento al fine di trovare le parole capaci di esprimere l’indicibile dei loro dolori e delle loro sofferenze. Per farlo, dimostrano una sorta di attraversamento in cui il niente si intreccia con la maternità. Per questo sono stati creati numerosi siti web nella rete, dei quali non si riuscirebbe a dare una lista esaustiva, e sono stati pubblicati numerosi volumi, l’eco dei quali è riportata nelle riviste dedicate alle donne.

7Seguiamole nel loro percorso, facendoci insegnare da quello che testimoniano. La nostra lettura, arricchita dalle parole delle donne in analisi, mira a cogliere alcuni punti nodali.

8Queste testimonianze illustrano il rovescio della maternità gloriosa e ideale, idea nata dopo la Rivoluzione Francese, attribuibile all’Illuminismo2. Si tratta anche di contraddire tutte quelle concezioni della maternità che rispondono a un «istinto materno», idea già rifiutata dai movimenti femministi e divenuta definitivamente obsoleta nel corso delle ultime decadi del secolo scorso3. Questo mito propone un adeguamento delle risposte tra la madre e il suo bambino secondo un programma biologico nel quale l’impulso materno avrebbe le sue incontestabili radici nell’humus del regno naturale, vale a dire di quello animale. Il rovescio ricoperto dal mito rivela che l’amore materno per gli esseri parlanti non è programmato, che l’incontro di una madre con suo figlio può non risvegliare in lei un impulso materno e che per essere all’altezza di assumere lo status «di essere madre», una donna deve confrontarsi con ciò che la nascita del bambino svela rispetto all’impossibile. In mancanza di un programma istintuale l’amore materno si presenta come una supplenza di ciò che, non essendo scritto biologicamente, fa buco per gli esseri parlanti. È perfino necessario che possa trovare risorse diverse da quelle biologiche per presentarsi come madre, senza il soccorso di alcuna formula istintuale, la cui scrittura manca negli esseri umani. Le testimonianze mostrano quanto difficile e doloroso sia per una donna non potersi lasciar trasportare dallo slancio amoroso verso il bambino. Il difetto e il fallimento nell’amore vengono vissuti come un guasto, vissuto addirittura come se generasse una smentita del suo essere, in quanto introduce un annientamento dei suoi attributi materni e contribuisce all’irruzione immediata o progressiva di uno stato di catastrofe soggettiva.

Dire bene il tormento

9Come qualificare questi stati di dissoluzione dei riferimenti, di sofferenza senza limite, di profondo sconforto? Si constata una seconda osservazione in queste testimonianze: per le donne è necessario trovare nuovi nomi per qualificare e nominare questo tipo di tormenti materni. Senza disconoscere la pertinenza dei sintomi descritti dalla nosografia che proviene dalla clinica medica e psichiatrica, come tristezza post-parto, depressione o psicosi puerperale, sottolineando tanto uno stato fisiologicamente normale quanto un fenomeno patologico e deviato, le donne rifiutano la ristrettezza di queste categorie, eccessivamente impregnate del riferimento a una norma, con un obiettivo normativo della maternità.

10Al contrario, si tratterebbe per loro di mettere l’accento sulla molteplicità delle sfaccettature relative a ciò che non concorda con uno standard, ma che sono relative ai misteri che si svelano nel corso di un’esperienza intima e singolare, separata da ogni causalità univoca, e che non risponde a parametri prevedibili né a leggi che potrebbero chiarirsi e sarebbero valide per tutti questi fenomeni. Un’ambizione di singolarità le anima, nella ricerca di nomi che corrispondano a ciò che è più singolare di quanto è vissuto da ciascuna di loro.

11Questi stati possono sopraggiungere alla nascita del primo figlio, come pure in una madre che già abbia altri figli, in quella che abbia desiderato il bambino come in quella che non lo abbia desiderato, nelle donne sole o in coppia, nelle giovani o nelle donne mature, in quelle che abbiano avuto un parto facile come in quelle che abbiano avuto un parto complicato, in quelle che allattino come in quelle che diano il biberon, nelle donne contente come nelle donne tristi, in quelle che abbiano fatto un lavoro di analisi come in quelle che non lo abbiano fatto, nelle donne che lavorino e si realizzino professionalmente come nelle casalinghe, e così via. Di conseguenza, una molteplicità di circostanze fa obiezione a ogni approccio che pretenda di dar conto dell’universale normativo della maternità, facendo apparire in risposta uno spazio che, non essendo retto dalle regolarità che diano conto di una legge, renda presente piuttosto il regno dell’imprevisto, dell’imprevedibile, dell’incidente: insomma, della pura contingenza.

12Nel tentativo di trovare parole per nominare ciò che è più vicino all’esperienza vissuta da ciascuna di loro, si nota subito uno sforzo per cercare di nominare un innominabile, un incontro con l’indicibile che la venuta al mondo di un bambino, che non è necessariamente il primo figlio, fa germogliare.

13La mancanza, la colpa, l’angoscia, l’impossibilità di dire, di confidarsi perfino con le persone più vicine, così come un impedimento estremo a far fronte alle sollecitazioni e alle domande del bambino, si accompagnano a uno svilimento crescente di sé che sommerge il corpo in uno stato di fatica estrema: sono i tratti più significativi di questo stato di annientamento. È frequente che la morte, che sia della madre o del bambino, appaia loro come l’unica uscita. Così i termini che propongono per denominare questo stato sono diversi.

14Si parla di «difficoltà materna»4, di «tremori di madre»5, di «estraneità materna» o di «vicissitudini materne»6, come pure di burn-out materno e di altro7.

15Possiamo sottolineare che in questa serie il termine più impiegato è «difficoltà materna», che si distingue e differenzia, rendendo conto di uno sforzo di precisione. Al tempo stesso, riconoscendo che si tratta di un «termine relativamente impreciso», si pretende di designare «senza precisare e fissare i contorni»8, «l’insieme delle manifestazioni emotive, psichiche e somatiche che insorgono durante una gravidanza o dopo la nascita e i cui effetti e/o conseguenze saranno percepibili tanto nella madre come nel figlio»9. Senza pretendere di essere una definizione «unica ed esaustiva», sapendo che si «possono prendere diversi aspetti a seconda di ogni storia personale», «la difficoltà materna» pretende di indicare «un’esperienza esistenziale con molteplici sfaccettature»10 che si radicano «nell’inconscio della persona»11.

16Si impone così la constatazione che queste testimonianze si inscrivono nella topologia di un insieme aperto, fuori dalla norma del «per tutti», una serie di fenomeni tanto molteplici e vari quanto ciascuna delle donne che li patisce, fenomeni che hanno conseguenze sia nella madre che nel bambino, precisando che queste manifestazioni rendono conto della singolare messa in gioco dell’inconscio. Troviamo qui le tracce di un’esperienza dell’inconscio, ossia di un’esperienza di analisi, palpabile in alcune testimonianze che si saldano con uno sforzo di elaborazione e di trasmissione della vicissitudine materna.

17Approcceremo dunque alcuni punti estratti dalle parole di donne che testimoniano questi fenomeni e li ordineremo su tre assi: quello del corpo, quello della relazione all’oggetto e quello del godimento. Questi tre punti ci permetteranno di circoscrivere meglio «l’universo morboso della colpa»12, che può inondare e condurre al naufragio l’esperienza materna.

Il corpo messo alla prova

18La gravidanza e il parto per una donna pongono in primo piano la relazione con il corpo. È il corpo, perciò, che diventa luogo e scena dell’evento. Un corpo che cambia, che si fa «bizzarro», che sarà più o meno accettato, rifiutato o glorificato, a seconda dei vissuti che si associno a questo nuovo stato.

19La gravidanza suppone per la donna di poter rinunciare, solamente per un certo tempo, al narcisismo della buona forma dell’immagine del corpo e questo è possibile solo attraverso una sopravvalutazione, una sublimazione della gravidanza, ossia del bambino. L’Ideale materno investirà il corpo e per questo il ventre che cresce e si arrotonda diventa un luogo narcisistico privilegiato. Tuttavia non succede sempre così. Può accadere infatti che il bambino sia vissuto come un corpo estraneo e parassita, minaccioso e inquietante.

20È il caso di una giovane donna che fa domanda di analisi a causa di vomiti intensi e di un’angoscia insopportabile, unita a incubi di morte devastanti. Ha sempre vomitato e la sua tendenza anoressica è stata all’ordine del giorno fin dall’adolescenza. Siccome questi conati di vomito si sono intensificati negli ultimi mesi è arrivata a consultare un medico. Tornata in seduta indignata, quando il medico le ha annunciato che era incinta, ha risposto all’istante: «si sbaglia!». Un’ecografia ha confermato una gravidanza di due mesi e mezzo. Il suo ragazzo non voleva questo bambino, neppure la paziente, ciò nonostante non abortirà. Nel frattempo si è sentita estromessa da se stessa per la presenza nel suo corpo del bambino non desiderato e ha compiuto un tentativo abortito di suicidio. Si colpisce il ventre per attaccare il bambino e gli urla: «Tu mi irriti! Smettila di muoverti!». L’analista che la riceve ha cura di non adottare una posizione super-egoica e di accogliere il rifiuto di cui dà prova questa giovane donna, dandole così la possibilità di poter leggere un giorno questo rifiuto del figlio, della piccola che porta, come equivalente del rifiuto del suo proprio essere, del suo essere di bambina, che non ha mai accettato e la cui espulsione sintomatica presentificata dai conati di vomito si è stabilita sul filo della pubertà.

21Il bebè può essere un bambino investito dall’amore e un bambino desiderato, mentre la sua presenza all’interno del corpo della madre non è per lei segno di pienezza e di benessere. Così Agathe13 non sperimenta la gravidanza come un periodo magico e benedetto: il racconto di donne che sperimentano questo stato di allegria le pare provenire dalla fantascienza. Per lei, che prova orrore dall’essere incinta, si impone il sentimento di portare un «parassita» o di essere abitata da un «piccolo alien» o da un «piccolo vampiro». Sottolinea che, nonostante la sensazione di «soffocamento» e di annegare nel corso di questo «purgatorio lungo nove mesi», ama follemente sua figlia e ha fretta di incontrarsi con lei, di prenderla finalmente in braccio. Si disilluderà rapidamente a partire dalla nascita: i primi giorni il pianto del suo bebè diventerà un «incubo».

22Allo stesso modo il parto come esperienza soggettiva mette il corpo alla prova. Non solamente alla prova del dolore fisico, ma alla prova della sua unità, tanto fragile perché è sempre ortopedica. L’immagine dello specchio della quale ci si appropria, il riconoscimento come «mia immagine», necessita ancora per sostenersi e consistere di annodarsi al linguaggio e al reale del corpo.

23Il parto può essere una di quelle contingenze che fanno saltare in aria l’unità immaginaria del corpo per una donna o piuttosto rivelare una fessura che era già presente. Isabelle14 lo dice bene: «In un certo modo, con la rottura delle acque è tutto il mio essere che ha cominciato ad aprirsi. Questa apertura ha fatto collassare tutto, tutte le pareti che mi ero costruita per nascondere questo vuoto interiore». Dice anche che il suo corpo, che si è aperto per dare alla luce il bambino, poi «non è più tornato a chiudersi» e perciò si vive come «il guscio che si divide in mille pezzi per lasciar uscire il pulcino». E aggiunge con appropriatezza: «sono il buco attraverso il quale è passato Antoine e nel quale contemporaneamente sono stata aspirata».

24Questa testimonianza presenta il parto come fenomeno di corpo, dandoci un’idea della topologia del buco che il corpo implica. Com’è possibile che un corpo, come rivestimento, si apra per dare nascita a un altro corpo e possa subito tornare a chiudersi senza che, tuttavia, si riduca in pezzi separati, frammenti dispersi? L’esperienza di Isabelle, in quel che ha di estremo, ci permette di percepire come il parto metta alla prova la relazione con il corpo proprio nella misura in cui non si inscriva nel programma del corpo in sé. Come tale è un’esperienza che fa buco e che può mettere a nudo il buco che l’immagine del corpo ricopre. Di conseguenza, si può dedurre come il parto sia un reale che non è rappresentabile, né si può inscrivere in ciò che si articola come sapere nell’inconscio.

25L’inconscio delle donne non sa niente del parto. Può far sorgere nei sogni di soggetti femminili rappresentazioni che prendono la significazione del dare alla luce, senza che il parto come tale sia rappresentato. Così, un’analizzante incinta, che arriva alla fine della sua gravidanza, sogna di doversi sottomettere a un intervento estetico. Deve passare attraverso un’anestesia e sa che morirà. Angosciata, si sveglia. L’intervento estetico interpreta, vuol dire che la perdita del volume e dell’abbondanza del suo corpo e la morte che le si annuncia implicano, secondo lei, l’anticipazione di ciò che il parto segnerà come evento: un prima e un dopo irreversibile. Il nuovo stato dell’essere al quale avrà accesso, diventando madre, introdurrà il simbolismo della morte di colei che sarà stata prima della nascita di suo figlio.

L’incontro con il bambino

26L’incontro con il bambino appena nato e, soprattutto, le richieste che da lui giungono fanno supporre, a una donna, di essere all’altezza di rispondere nel luogo della madre. Attraverso le sue risposte al pianto del bambino, lo farà entrare nel circuito della domanda. Questo suppone che possa interpretarne il grido e, attraverso la sua risposta, trasformarlo in appello, dandogli la significazione della domanda.

27Introduce così il cucciolo d’uomo all’umanizzazione delle sue necessità, attraverso i suoi desideri e la modulazione della sua parola. Come potere di risposta la madre fa valere davanti al bambino l’andare e il venire della sua presenza e della sua assenza come primo taglio, come prima tacca suscettibile di introdurre la presenza del simbolo. Le risposte della madre e i suoi doni non sono programmati.

28La madre dà, in base alle circostanze, ma anche ciò che non ha, dato che l’esperienza della maternità la confronta non con quello che ha per rispondere, seno o biberón, cambi o abbracci, ma con quello che le manca. Cos’è che le manca? Agathe15 lo dice così: «Ho un problema con il pianto, da quando mia figlia piange ho male al ventre… Non so che fare con questo bebè, ho l’impressione di non avere il decodificatore».

29L’assenza di «decodificatore» e di «istruzioni»16 implica che ciascuna donna si trovi nella posizione di inventare in ogni momento la sua risposta materna. Ebbene, se non riesce a calmare il bambino, dopo qualche tempo la situazione può diventare rapidamente un dramma.

30Stéphanie Allenouonos dà una valutazione molto interessante dell’impotenza materna relativa alle domande del bambino17. Ella, che ha sempre desiderato essere madre, si ritrova sommersa quando, poco dopo la prima figlia, nascono i gemelli. Racconta il calvario, conosciuto da molte donne, della mancanza di sonno costante. Nel corso del secondo anno senza dormire comincia a sviluppare sentimenti negativi nei confronti dei suoi figli, che vive come «torturatori»18 e «mini-tiranni»19. Ha un unico desiderio, quello di «farli tacere». Così, insidiosamente, sentendosi aggredita, si fa torturatrice. In una miscela di orrore e di indifferenza, si mette in una strada senza uscita. Non senza lucidità dirà che questa situazione la confronta al fatto di «essere troppo presente, rispondendo troppo rapidamente alle domande e di sentirsi troppo piena come madre», il che, secondo la sua valutazione, produce paradossalmente una «mancanza di madre» per questi bambini. Mette in rilievo con sensatezza che se è tanto angosciata davanti alle domande dei figli è perché la mancanza arriva a mancare. Lei colma attraverso le risposte immediate le richieste dei figli. Loro diventano per lei gli agenti del tormento. Qui il bambino colma e angoscia, trasformandosi nella sorgente di una sofferenza senza limiti. Questo pianto che si vuole mettere a tacere evidenzia la presenza dell’oggetto voce. Altre testimonianze mostrano il bambino come un oggetto orale. Così Rose, allattando il suo bebè, sperimenta un’angoscia di divorazione: «Mi divorava letteralmente. Mi vampirizzava. Mi toglieva a ogni poppata la mia sostanza vitale»20. Di questa relazione tanto complessa con l’allattamento che fa apparire l’oggetto orale, il seno, come oggetto primordiale, la madre deve rispondere come soggetto. Di questo testimonia un’analizzante che parla delle sue difficoltà a svezzare la figlia. Sperimenta un dolore, un effetto di perdita e di lutto. Deduce quindi che è lei quella che allattando si nutre e che nello svezzamento si gioca la sua propria relazione vorace con l’oggetto orale.

31Inoltre, il bambino può implicare per la madre uno sguardo tanto penetrante quanto accusatore21. Una madre in analisi parlava delle difficoltà e dell’angoscia che le suscitava lo sguardo della figlia. Questo sguardo la interrogava: non sapeva cosa volesse sua figlia da lei.

32Ha potuto dire che era questione del suo stesso sguardo che interrogava la sua femminilità, sguardo che era preso nello sguardo del padre, il quale alla sua nascita, deluso per non avere un bambino, aveva rifiutato di vederla per molti mesi.

33Constatiamo dunque che il bambino può arrivare a occupare per sua madre il luogo di un oggetto «intimo», ma non potendo essere riconosciuto in questa interiorità che concerne la madre in quanto soggetto, sarà vissuto come esterno, estraneo tanto quanto straniero22. Il bambino in questo caso non si trova rivestito dagli orpelli dell’investimento narcisistico amoroso, ma irrompe nella soggettività della madre come colui che la espropria del suo essere e delle sue caratteristiche. Così, nell’essere espulsa fuori da sé, sloggiata dal suo posto, si sente risucchiata da un puro vuoto, da un buco. Assente da se stessa, si trova preda di una sofferenza senza limiti, una sofferenza devastatrice, una devastazione.

Rapimenti, devastazioni

34Questa sofferenza delle madri, non di tutte le madri, richiama la congiunzione indicibile di un «lo soffro» (je me deux)23, e questo «si soffre» (se douloir) assume per noi il marchio di ciò che nel corpo delle donne «si gode» a titolo di devastazione e di rapimento.

35Seguendo questa bussola possiamo leggere quello che dicono: «Fuggo da me stessa! Non sono più io! Non mi conosco più! Ma chi sono?, chiede una di loro»24. Oppure, perfino: «Mi sento estranea. Non del tutto qui», «non so più chi sono dalla nascita di Antoine. O meglio, non ci sono più. Non sono altro che meandri, abissi. Sono molto lontana»25. Troviamo una nota più accentuata all’estremo della perdita, in quanto perdita del vincolo col sentimento della vita, nelle parole di colei che descrive la sua esperienza dalla nascita del figlio in questi termini: «è stata una vera emorragia interna, una perdita di tutti i miei riferimenti…qualcosa scappava dalla mia vita e mi sfuggiva completamente»26.

36Se è difficile parlare dello stato di rapimento è perché, essendo questo un effetto della lingua sul corpo, sfugge a ciò che può essere articolato nel linguaggio. C’è una parte fuori senso che non passa attraverso le parole. È ciò che Lacan ha messo in luce come specifico del godimento femminile, «questo godimento che si prova e di cui non si sa nulla»27.

37Sono le mistiche che, sforzandosi di testimoniare ciò che sperimentano, hanno permesso di fare luce su questa zona che per Freud era rimasta nell’ombra. «Cosa vuole una donna?» condensava l’enigma della femminilità per lui, al di là del desiderio di un figlio come equivalente del fallo.

38Possiamo constatare dunque che una donna, in quanto donna, lungi dal trovare nell’essere madre una soddisfazione che la pacifichi nella relazione con il figlio, oggetto del suo desiderio, può invece avere l’esperienza della devastazione nell’essere risucchiata, portata via da se stessa, da parte di un godimento folle, enigmatico, fuori senso. Teresa d’Avila conferma il fuori senso di questa esperienza interiore quando fa riferimento al fatto che solo coloro che hanno conosciuto i rapimenti intenderanno quanto afferma su questo tema e aggiunge che parlare di questo impossibile a dire, in cui mancano i termini, può condurla «a dire cose folli»28. Constatiamo, nella testimonianza di un’altra donna, la conferma delle affermazioni di Teresa D’Avila quando, divenuta madre, incontra questo indicibile e lo esprime così: «Come spiegare, come trovare le parole, per ciò che sta più al di qua o più al di là delle parole? Quali frasi per scrivere la disperazione di essere madre?»29.

39Arrivati a questo punto, da queste esperienze materne possiamo estrarre un insegnamento. Di fronte alla chiamata del simbolico che l’«essere madre» convoca in loro, alcune donne, non tutte, si trovano confrontate in maniera passeggera o duratura con la parte del femminile che non può essere simbolizzata. Di conseguenza, in quanto donna, la madre è presa dall’essere non-tutta. Così Medea30 allontana la madre e l’amore si coniuga con la morte.

40Nei casi in cui il prodotto del suo ventre, il bambino, la spinge verso il senza limite di un rapimento devastante, la madre potrà dunque trovarsi trasportata al di là di quello che il linguaggio attribuisce come qualità dell’essere, verso la zona che rende conto del registro dell’ex-sistenza31, ossia di un reale il quale, in quanto fuori dal simbolico, si pone a cielo aperto come buco a causa della rottura della consistenza immaginaria del corpo. È l’origine del traumatismo, scritto da Lacan troumatisme (buco-trauma), che la venuta al mondo di un bambino uscito dalle viscere di una donna può, in alcuni casi, mettere a nudo. Questi casi limite, estremi e tuttavia sempre più frequenti, mettono in evidenza che la nascita fa buco e che da questo buco proviene l’inadeguatezza, la mancanza di armonia naturale della coppia madre-figlio. Perciò una madre non potrà mai dare le risposte che dovrebbero esserci, a causa dell’inesistenza di una relazione «naturale» con il figlio, che per gli esseri parlanti non si scrive. Dovrà inventare, dovrà inventarsi la sua maniera singolare di essere madre, e questo per ciascuno dei suoi figli, dato che ciascuno la metterà alla prova in maniera differente come donna desiderante e mancante.

41Questi sono i contorni del buco che oggi abbiamo voluto stringere. È il risultato della faglia istintuale negli esseri parlanti a lasciarli senza bussola nel sessuale, come uomini, come donne, come padri e come madri. Perciò il peccato e il peso della faglia si abbatte su di loro quando devono rispondere come tali. In mancanza di poter fare quello che «presumibilmente» si dovrebbe nel quadro di un programma naturale che non esiste, rispondono l’angoscia, la colpa, i sintomi e la devastazione.

Notes de bas de page

1 https://www.maman-blues.fr/la-difficulte-maternelle/; http://www.magicmaman.com; http://www.zen-et-organisee.com/categorie-11899002.html; http://www.magicmaman.com/quezako-le-burn-out-maternel,339,1103908.asp.

2 Y. Knibiehler, Histoire des mères et de la maternité en Occident, Paris, PUF, 2012, pp. 61-67.

3 E. Badinter, L’Amour en plus, histoire de l’amour maternel, xvii-xx siècle, Paris, Flammarion, 1980.

4 Maman blues, Tremblements de mères, Le visage caché de la maternité, Paris, Editions L’Instant Présent, 2010, p. 424; ed anche: https://www.maman-blues.fr/difficulte-maternelle/; trad. nostra.

5 Ibidem.

6 S. Marinopoulus, Dans l’intime des mères, Paris, Poche Marabout, 2013, p. 37; trad. nostra.

7 Questo termine, tradotto come sindrome da esaurimento, qualifica l’insieme di manifestazioni fisiche e psicologiche conseguenti a uno stress professionale, e si applica, per estensione, alle madri: V. Guéritault, La Fatigue émotionnelle et physique des mères: Le burn-out maternel, Paris, Odile Jacobe, 2008, pp. 27-43; trad. nostra.

8 https://www.maman-blues.fr/difficulte-maternelle/.

9 Maman blues, Tremblements de mères, Le visage caché de la maternité cit.

10 Ivi, p. 425.

11 https://www.maman-blues.fr/difficulte-maternelle/.

12 A. Hesnard, L’universe morbide de la faute, Paris, PUF, 1949.

13 Maman blues, Tremblements de mères, Le visage caché de la maternité cit., p. 48.

14 Ivi, pp. 100-127.

15 Ivi, p. 54.

16 Ivi, p. 337.

17 S. Allenou, Mère épuisée, Paris, Marabout, 2012; trad. nostra.

18 Ivi, p. 73.

19 Ivi, p. 77.

20 Ivi, p. 14.

21 Ivi, p. 53.

22 L’Étranger en moi, telefilm di Emily Atef, cattura l’estraneità di una madre di fronte al figlio appena nato, un oggetto estraneo e straniero per lei.

23 J. Lacan, Omaggio a Marguerite Duras, del rapimento di Lol V. Stein [1965], in Altri scritti cit., pp. 191-197. G. Apollinaire nel poema Le Gu ninno cazzoetteur mélancolique [1952] coniuga il verbo far male, farsi male, in un mi faccio male. Vedere il commento di Catherine Lazarus Mathet in J.-A. Miller, Los usos del lapso, Buenos Aires, Paidós, 2010, pp. 484-493.

24 Maman blues, Tremblements de mères, Le visage caché de la maternité cit., p. 94.

25 Ivi, pp. 113-114.

26 Ivi, p. 335.

27 J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora [1972-1973] cit., p. 72.

28 T. D’Avila, Vita di S. Teresa di Gesù scritta da lei stessa, Milano, S. Lega eucaristica, 1931.

29 Maman blues, Tremblements de mères, Le visage caché de la maternité cit., p. 208.

30 Euripide, Medea, in Medea di Euripide, Cappelli, Bologna 2008, vv. 1245-1250: “Avanti, o infelice mano mia, prendi la spada, prendila, vai verso il traguardo doloroso della vita, e non essere vile, non ricordarti dei figli, che sono carissimi, che li generavi, ma, almeno per questo breve giorno, dimenticati dei tuoi figli e dopo piangi; anche infatti se li ucciderai, comunque sono per natura tuoi cari: ed io sono una donna disgraziata”.

31 J.-A. Miller, L’orientamento lacaniano, L’essere e l’Uno [2010-2011] cit.

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