IV. Tornerà per un controllo?
p. 29-32
Texte intégral
1«Tornerà per un controllo?» mi ha domandato quel giorno, alla fine di una seduta.
2Sconcertata per la domanda gli ho risposto stupidamente:
3«Un controllo di che?»
4«Torni per un controllo» è stata la sua risposta.
5Sono uscita e ho camminato per la strada alla mercé del vagabondare del mio pensiero, facendo una passeggiata per tornare al suo studio. Era chiaro, dunque, e senza rischio di equivoci che mi proponeva di fare un controllo con lui! La mia risposta, allora, dava conto del mio «Non voglio sapere niente» rispetto al mio desiderio di fare un controllo.
6Non gli avevo forse comunicato prima la decisione di rivolgere la mia domanda a uno dei suoi allievi che, nell’immaginario del gruppo di prestigio, godeva nell’essere uno dei suoi più fedeli?
7Questa proposta-domanda si era scontrata con un’aria di disdegno esageratamente pronunciato da parte di Lacan, affinché fosse chiaro che non convalidava la mia proposta.
8Senza comprendere troppo la sua risposta, ho rilanciato la questione del controllo un po’ più tardi. Questa volta ho evocato il nome di una donna che aveva elogiato pubblicamente dicendo «che lei conosceva il suo passo meglio di lui». La sua risposta è stata un «No» categorico. Davanti a questo rifiuto reiterato ero arrivata a credere di non essere ancora pronta per fare un controllo. Che occorreva che avanzassi di più nella mia esperienza di analisi.
9Era ora di finirla, ormai era tempo che assumessi il mio desiderio.
10Affrettando il passo per tornare subito da lui, mi sono resa conto che in nessun momento avevo pensato a lui come luogo a cui rivolgere la mia domanda di un controllo. Ma allo stesso tempo, dicendogli di fare un controllo con tizio o caio, gli stavo rivolgendo una domanda subdola, che non è stata ignorata.
11Non ero forse andata a chiedergli un’analisi, seppur per trattare il mio sintomo, mettendo anche soprattutto in primo piano il mio desiderio di formazione, domandandogli che mi conducesse fino alla fine di quell’esperienza per occupare degnamente il posto dell’analista? Il suo sorprendente invito, nel farsi ricevuta della mia domanda, ha avuto l’effetto di un risveglio. Dunque non c’era da indietreggiare di fronte al mio desiderio.
12Mi ha fatto passare. Ha preso posto sulla sua poltrona dietro al divano e con un gesto fermo mi ha indicato di stendermi. Ma come? Sono tornata per un controllo e mi indica il divano? Non ho detto niente e mi sono distesa. Ho parlato di uno dei miei pazienti, attraverso la presentazione molto breve di alcuni dati fondamentali nei quali ho ricordato le frasi di questo ragazzo che si lamentava del disagio e di una crisi a cui era sottoposto, parlando «di un’angoscia che mi strangolava (m’etranglait)». Lacan ha fermato proprio qui la seduta di controllo, si è alzato e ha detto: «è questo, mia cara!».
13Nel bagliore di quel lasso di tempo io avevo fatto un controllo! Questo controllo si è ridotto al taglio propizio per segnalare un S1, un significante padrone del soggetto, m’etranglait, che in francese si ascolta nell’equivoco omofonico essere inglese (être anglais). In effetti, l’angoscia soffocante di questo soggetto era arrivata al culmine dalla nascita del suo primo figlio. La sua paternità lo confrontava con la questione del padre. Riconosciuto e adottato dal marito di sua madre nel corso della sua prima infanzia, era frutto di uno sfortunato incontro di sua madre con un inglese che l’abbandonò quando era incinta. C’è voluto un tempo affinché l’analizzante istorizzasse questa congiuntura relativa al malinteso della sua nascita e al reale in gioco che la nascita di suo figlio era venuta a convocare.
14I miei controlli con Lacan sono continuati nella stessa maniera e sempre sul divano. Ogni controllo, a prescindere dal caso, era tanto straordinario quanto istantaneo. Non c’era posto per le elucubrazioni di sapere a proposito del caso, né per considerazioni diagnostiche, e ancora meno per gli slittamenti che prendessero come asse l’intenzione di significazione. Per quel che mi concerne, non ho mai ricevuto da parte sua né commenti né raccomandazioni. Al contrario, nel controllo Lacan faceva valere solamente la dimensione dell’atto. Praticava il taglio sulle mie parole, in relazione alle parole del paziente, senza fare elucubrazioni o piuttosto, in certi momenti, per confermare un’affermazione. Prendendo come asse le parole del soggetto che gli sottoponevo nel controllo era dunque questione di far sorgere ciò che risuonava nel significante.
15Secondo la mia esperienza, tanto in analisi quanto in controllo, Lacan esercitava la sua funzione nel più stretto rigore «materialista» (nel neologismo moterialiste, Lacan gioca con l’omofonia di mot, parola e materialismo per indicare la materialità delle parole nelle quali risiede l’inconscio)1. Il controllo diventava così una superaudizione2 mettendo l’accento su ciò che ascoltiamo, «nel senso uditivo del termine»3 come significante, isolato attraverso il taglio, al fine di farlo risuonare come disgiunto e senza avere alcun rapporto con quello che significa.
16Questa pulsazione che priva il significante del senso mirerebbe a produrre il passaggio dal significante alla lettera e dalla parola allo scritto. Il discorso analitico consiste in questa particolarità di introdurre alla lettura «di ciò che si legge al di là di quello che avete incitato il soggetto a dire»4.
17Il controllo sarà dunque il luogo dove si annodano il soggetto supposto saper leggere e il soggetto supposto sapere apprendere a leggere. Sarebbe dunque il luogo dove si mette alla prova «che un analista dipende dalla lettura che fa del suo analizzante»5.
18Nel testimoniare qui della mia esperienza di controllo con Lacan, estrema nel suo bagliore come lo era anche la sua pratica, concepisco meglio che l’orientamento di Lacan, d’accordo con il suo ultimo insegnamento, comportava una pratica senza uguali, al fine di trattare ciascun caso nella sua singolarità assoluta, fuori dalle routine, dai tipi, dalle classi, dalle categorie diagnostiche, dai saperi prestabiliti. In questo valgono le parole di Lacan: «Fate come me, non mi imitate». Ciascun analista, con ciascun analizzante, inventa e reinventa la psicoanalisi.
19Mi è capitato di fare controlli prima e dopo Lacan, traendo vantaggio ogni volta dalla nuova lettura che da essi risultava. Il controllo non risponde a uno standard unico. È molteplice all’interno della sua verità-varietà (varités) e si declina nelle sue variazioni secondo lo stile dell’analista controllore e la temporalità logica del praticante, la quale è relativa, a mio avviso, al grado di elucidazione conseguito nella propria esperienza analitica rispetto al fantasma, alla pulsione e al proprio modo sinthomatico di praticare la psicoanalisi.
Notes de bas de page
1 J. Lacan, Il sintomo [1975], “La Psicoanalisi”, 2, 1987, p. 20.
2 Id., Conférences et entretienes dans les univeristés nord-américaines, “Scilicet”, 6-7, Páris, Seuil, 1976, p. 42; trad. nostra.
3 Id., Il Seminario, Libro XX, Ancora [1972-1973] cit., p. 28. Nella traduzione leggiamo: «Distinguere la dimensione del significante assume rilevanza soltanto perché pone che quanto voi intendete, nel senso uditivo del termine, non ha alcun rapporto con quanto ciò significa».
4 Ivi, p. 25.
5 Id., Le Séminaire, Livre XXV, Le moment de conclure, “Ornicar?”, 17-18-19 aprile 1977, p. 12; trad. nostra.
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Tre secondi con Lacan
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