III. Il prezzo della seduta
p. 25-28
Texte intégral
1Come dire con precisione, senza cadere nell’aneddoto, quello che è stato l’uso e il maneggiamento del denaro da parte di Lacan, così come l’ho sperimentato nel corso della mia analisi?
2Testimoniarne suppone una scommessa. La sfida consiste nel rendere leggibile l’esperienza che, per Lacan analista, il denaro era uno strumento dell’atto analitico. Non ignoro come lasciarsi andare a raccontare ad altri qualcosa di questo possa provocare nell’interlocutore sia la risata, per un effetto di Witz, sia lo sconcerto o addirittura il puro orrore, effetto dell’atto analitico. E non senza ragione, dal momento che è l’unico atto che sovverte i sembianti «per cui sussistono religione, magia, pietà, ogni forma dissimulata dell’economia del godimento»1. L’atto analitico mette a nudo ciò che fonda tale economia nel suo versante più intollerabile, dato che si tratta del godimento. Non si tratta qui del godimento dell’analista sul quale viene versato di buon grado il prezzo dell’atto analitico, ma piuttosto dell’economia del godimento dell’analizzante che l’atto arriva a svelare. Questa operazione suppone di estrarre l’uso del denaro dal suo valore di scambio, retto dalle leggi dell’economia di mercato impartite dal discorso capitalista. L’assolutizzazione del mercato come effetto di questo discorso, il lavoro e il sapere si sono tramutati in merci. Ebbene, il prezzo di una seduta di analisi non paga il prezzo del tempo di lavoro dell’analista, né il prezzo del suo sapere. Pertanto, il discorso analitico si mostra come il rovescio del discorso del padrone e della situazione professionale che ricopre, nella misura in cui è l’analizzante quello che lavora e paga il prezzo del suo lavoro, da cui risulta come conseguenza un’articolazione di sapere, nel luogo della verità, mentre il luogo del prodotto di questo lavoro è occupato dal significante S1, il significante padrone che si stacca come lettera di godimento.
3Quando sono andata a fare visita a Lacan per chiedergli un’analisi, nel novembre 1975, avevo fondato la mia domanda sull’anelito di «arrivare a essere analista». Non era la mia prima domanda di analisi, dato che avevo avuto un’esperienza di analisi nel mio paese di origine e avevo anche ricevuto analizzanti in istituzione e nel mio studio per alcuni anni. Ciò nonostante non mi sentivo legittimata in quel posto. La lettura del Discorso di Roma2, come anche L’istanza della lettera dell’inconscio3, che hanno avuto l’effetto di una rivelazione, hanno provocato in me la supposizione che la vera analisi fosse «altra cosa», quest’altra cosa alla quale io volevo accedere.
4Nel corso del mio primo colloquio, abbastanza lungo, Lacan mi ha portato a parlare del mio sintomo, interessandosi a quale fosse stato il sintomo che mi aveva portato a chiedere una prima analisi, interrogandomi anche su ciò che avevo potuto estrarre, mettere in chiaro e ottenere come saldo di quell’esperienza. All’inizio ha spostato la domanda esplicita, mettendo l’accento sul sintomo, dimostrandomi in atto che questo è il vero asse di una domanda di analisi.
5Alla fine del colloquio mi ha fatto sapere che accettava la mia domanda di analisi e ha fissato un primo incontro. Sulla soglia della porta mi ha detto: «Mi darà qualcosa per questo colloquio?».
6Questo per me era il momento più temuto, nel quale si sarebbe dovuta approcciare la questione del pagamento, nella misura in cui mi trovavo a Parigi senza grandi risorse e senza ancora un impiego. Quindi gli ho risposto: «Non ho niente». In effetti quel giorno non avevo con me neppure un franco, e non perché mi fossi dimenticata di portare i soldi, ma proprio perché non ne avevo! Nel momento in cui avevo immaginato mi dicesse che in quelle condizioni non sarebbe stato possibile niente, mi ha detto: «Mi dia quello che lei vuole». Non mi ha detto: «Mi dia quello che può», che sarebbe stata una risposta diretta alla carente, la bisognosa, risposta che mi avrebbe confortata in quella posizione, facendola consistere. Nel dirmi «quello che lei vuole» ha messo l’accento sul mio desiderare e, ancor di più, nel darmi la possibilità di dare prova del fatto che volevo quello che desideravo. E in questo modo ha fatto sì che per me fosse possibile cominciare un’analisi con lui. La volta successiva gli ho dato quella che per me era la somma massima e che in realtà non era molto.
7Un anno dopo, considerando che il periodo dei colloqui preliminari, che mi aveva annunciato quando nel primo incontro aveva accettato la mia domanda di analisi, era durato già abbastanza tempo, ho deciso di non sedermi più sulla poltrona e ho preteso che mi facesse passare al divano, a costo di rimanere in piedi di fronte a lui fino a nuovo ordine. Ha acconsentito e con un gesto mi ha indicato di passare al divano. Mi sono distesa, felice di avere conquistato il passaggio al celebre divano, ho fatto la mia seduta, che è stata molto breve, e alla fine della stessa mi ha annunciato che a partire da quel momento gli avrei dato tot per ogni seduta. Era il doppio della somma che gli avevo pagato fino a quel momento. Mi ha fatto pagare il prezzo della mia insolenza? No, mi ha fatto pagare il prezzo di quello che volevo, non essendo ancora pronta per assumerlo. In effetti, avevo immaginato che il divano fosse il posto dove si poteva parlare senza peli sulla lingua e che, una volta sdraiata, l’analista mi avrebbe ascoltata senza interrompermi. Se avevo sognato il dispositivo del divano come un puro godimento della parola, senza taglio, si deduceva che il divano era per me il luogo dove lui e io saremmo stati Uno, senza divisione, senza resto, senza perdita. Era evidente che se tale credenza albergava in me era perché ancora non ero aperta alla lettura dei miei enunciati e mi aggrappavo con tutte le mie forze al registro delle significazioni, rifiutando quello della lettera fuori senso. Con il suo atto Lacan ha marcato un taglio così come una rottura, facendo andare all’aria il mio sogno di completezza.
8Da allora il ritmo dell’analisi si è accelerato e sono stata invitata ad andare ogni giorno.
9Un giorno sono andata a lamentarmi, presentandogli le mie tribolazioni di straniera in Francia e rimpiangendo il mio paese, l’Argentina. Non appena pronunciata questa parola, si è alzato di scatto, interrompendo la seduta, e mi ha detto che da quel momento gli avrei pagato tot importo per ogni seduta. Era il doppio del doppio che già pagavo. Mi ha fatto pagare la mia ingratitudine verso la Francia, il mio paese di accoglienza, la mia seconda patria? No, quel giorno ha messo a nudo un godimento ignorato da me stessa che emanava in tutto il suo splendore attraverso il significante Argent (denaro in francese) incluso nel nome del mio paese e anche la condizione di cittadina di quel paese: io ero una argent-ina, come si dice comunemente. Quel giorno è stato toccato il mio essere (mon être) di argentina, che in francese si può ascoltare nell’omofonia di «m’etre» di argentina, come maître, padrone, in quanto significante padrone, lettera di godimento dalle molteplici risonanze, che si annidava nel significante che nominava la mia cittadinanza di origine. Ho capito, dunque, che il mio disprezzo del denaro, il mio disprezzo dell’avere, era un alibi per godere della mancanza. E il peggio era che facevo equivalere la mancanza alla mia condizione di donna per meglio mascherare la costosa strategia di trovarmi al servizio dell’eccellenza dell’essere, nello splendore dell’ideale. La nevrosi era costruita sull’impalcatura dell’Uno immaginario al servizio del rifiuto dell’incompletezza e dell’inconsistenza dell’Altro. Lo splendore dell’essere ricopriva il buco del significante che manca nell’Altro.
10L’atto analitico mi ha strappata dal dominio dell’insufficienza. Quel luogo in cui credevo che non fosse possibile, che non potevo, che toccavo i limiti di ciò che mi era permesso ottenere, si è rivelato una pura illusione. Ho potuto trovare altri lavori e pagare le mie sedute. L’impossibile, in effetti, non stava lì. In quel modo, in quel momento, si è materializzata per me l’esperienza di superare la schiacciante impotenza, la quale, vissuta come insufficienza, veniva a mascherare il mio non volerne sapere niente dell’impossibile. Superare i miraggi dell’essere e accedere all’impossibilità logica che dà conto dell’Uno dell’esistenza, dell’Uno solo che si-gode nell’impossibilità di fare Uno con l’Altro, è stato il saldo dell’atto analitico.
11Accedere, come conseguenza dell’iterazione dell’atto analitico, alla differenza assoluta che segna la singolarità del sinthome, ha necessitato tempo, anni di lavoro, nel corso dei quali la dimensione della scommessa mi confrontava con una messa alla prova rinnovata del mio volere, nel corso di ogni seduta.
12Durante quel tempo l’analista non ha mai ceduto all’alibi dell’insufficienza come fortezza difensiva davanti all’impossibilità. Ed è stato necessario pagare il prezzo di tale sovversione soggettiva, unica nell’instaurare la possibilità dell’esercizio dell’atto analitico.
Notes de bas de page
1 J. Lacan, Discorso all’École freudienne de Paris [1970], in Altri scritti cit., p. 277.
2 Id., Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi [1953], in Scritti cit., pp. 230-316.
3 Id., L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud [1957], in Scritti cit., pp. 488-523.
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Tre secondi con Lacan
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