I. Tre secondi con Lacan
p. 11-16
Texte intégral
1Quel giorno, come ogni giorno alle sei in punto del pomeriggio, arrivo al numero 5 di rue de Lille, per la mia seduta di analisi. Dopo alcuni minuti di attesa, Lacan mi fa passare nel suo studio.
2Gli dico: «Ho sognato una donna che arrivava a Parigi…».
3Al che risponde immediatamente: «È questo», mentre, alzandosi dalla sua poltrona di analista e con un gesto deciso, apre la porta e io esco dal suo studio. Ancora una volta non ho potuto raccontare il testo del mio sogno. Sono riuscita soltanto a pronunciare una frase breve, molto breve, presentando il tema del sogno! Il racconto del mio sogno implica tuttavia un seguito. Ciò nonostante, una volta di più, attraverso il taglio netto praticato dall’analista, il mio sogno si è visto amputato della sua trama, della sua messa in scena, dei suoi spostamenti e delle sue condensazioni. Una volta di più non ho avuto altro che un pezzo di frase fra le labbra e la seduta si è conclusa. Il mio sogno di fatto si è ridotto a una frase interrotta, niente di più. Se avessi potuto arrivare fino alla fine del racconto avrei esposto una serie di avventure vissute a Parigi dalla donna menzionata, mettendo sicuramente in scena qualcosa dell’ordine del suo imbroglio.
4Ma no, niente di tutto questo. Era esasperante. Quanto tempo era durata quella seduta? Neppure tre secondi, «il tempo di dire one».
5Andavo tutti i giorni alle sedute, seguendo la condizione che l’analista aveva stabilito poco tempo dopo aver cominciato l’analisi con lui. Attendevo con frenesia il momento dell’incontro, sognando di parlargli del tema che avrebbe potuto suscitare il suo interesse, ma giorno dopo giorno lui frenava l’intenzione di significazione del mio blaterare.
6Per la giovane che ero a quell’epoca, le sedute con Lacan erano assolutamente traumatiche. Per la sua maniera di operare, l’incontro e l’attesa dell’incontro erano fonte di angoscia, per il fatto di non poter avere un’idea a priori che corrispondesse a quello che sarebbe realmente accaduto con Lacan; al di là della regolarità quotidiana di ciascun incontro, non c’era nessuna forma di routine. La sua pratica si reggeva sull’imprevedibilità. Ogni seduta era unica e in rottura di continuità con la precedente.
7In maniera tale che ogni giorno mi trovavo confrontata con l’esperienza del fuori senso più radicale. Per quanto tempo avrei potuto sostenere la mia perseveranza? Me lo chiedevo tutti i giorni. Volevo proseguire e allo stesso tempo volevo fuggire e uscire di corsa. Quello che più mi sconcertava era l’espulsione del senso con cui mi confrontava la sua pratica. In quel momento non comprendevo come un’esperienza di analisi si svolgesse al rovescio del principio dell’associazione libera, come dal mio posto di analizzante non potessi parlare di tutto quello che attraversava la mia mente, come non potessi prendermi il tempo necessario per sviluppare lì i miei pensieri. Ciò nonostante, perseveravo e ritornavo una volta di più ogni giorno, perché gli supponevo un saperci fare, i cui principi mi risultavano opachi.
8Dopotutto, se mi incontravo con lui era certamente perché gli avevo domandato che mi ricevesse, perché volevo andare al di là del punto in cui si era conclusa la mia analisi precedente.
9Nel corso dell’adolescenza avevo incontrato un punto di reale nella modalità del cattivo incontro, della contingenza. Questo troumatisme (buco-trauma) mi aspirò, espellendomi dalla scena del mondo. Rivolgendomi subito a un analista mi è stato possibile trovare un’uscita. Alla fine di quel primo percorso, ancora molto giovane, mi sono istallata come analista, iniziando inoltre una carriera nell’ambito dell’insegnamento universitario. Ma sotto il successo si annidava l’impotenza. In effetti, mi sono autorizzata come analista e rapidamente ho dovuto rispondere a un gran numero di domande. La mia pratica seguiva allora lo standard nel quale mi ero formata, che consisteva in sedute di cinquanta minuti, che terminavano con un’interpretazione più o meno «saggia». Con gran sorpresa constatavo che in un primo tempo c’erano effetti terapeutici che poi sfociavano in una follia del sintomo sotto transfert. Per alcune isteriche ciò poteva anche prendere la forma di una reazione terapeutica negativa e, in un caso di psicosi, avevo visto scatenare davanti ai miei occhi un’erotomania di transfert. I controlli a cui sottoponevo questi casi non mi aiutavano in nessun modo.
10Molto velocemente ho pensato che si rendesse necessaria una messa in discussione di quella modalità di praticare l’analisi, della modalità di interpretare, di intervenire e di maneggiare il transfert. Ero consapevole che qualcosa che sfuggiva alla dialettica significante, e che non si lasciava addomesticare dalla parola, veniva attraversato, e nella sua rigida fissazione condannava l’interpretazione all’impotenza.
11Qualcosa che in quel momento non sapevo nominare e che molto più tardi, nel corso dell’analisi con Lacan, ho potuto cogliere non essere nient’altro che il godimento. D’altra parte, nella mia analisi avevo l’esperienza dell’estensione senza limiti, di una sorta di guscio interpretativo che impediva che l’analisi arrivasse a una conclusione.
12Per queste ragioni è diventato per me urgente recarmi a Parigi per formarmi, urgenza che ha avuto bisogno della temporalità precedente del comprendere e del concludere. Non appena arrivata, telefonai a Lacan per un colloquio. La sua segretaria mi rispose che era negli Stati Uniti per tenere alcune conferenze, che non era disponibile. In ogni modo, fui invitata a chiamare nuovamente la settimana successiva.
13Lo chiamai una settimana dopo e Gloria, la sua segretaria, mi invitò a rinnovare la mia chiamata la settimana successiva. Non so quante volte io abbia chiamato, settimana dopo settimana, come se questa situazione si fosse trasformata in un’abitudine in cui mi ero accomodata, fino a quando un giorno la segretaria mi mise in comunicazione con Lacan. Mi presentai e gli chiesi un appuntamento. Mi disse: «Un appuntamento per che cosa?». Gli risposi di voler fare un’analisi con lui. Mi chiese se fosse urgente. Gli dissi di no, di poter aspettare. Rispose: «Venga immediatamente!».
14Ero disposta all’eternità dell’attesa e lui mi ha collocata subito nell’urgenza, introducendo la fretta. È stata la prima lezione clinica che ho ricevuto da lui.
15Mi ricevette immediatamente, il giorno stesso. Seduta in una poltroncina, mi rivolgevo a lui, che mi girava le spalle, seduto di fronte alla sua scrivania. Manipolava nodi, corde e camere d’aria. Mi chiese perché volessi fare un’analisi. Gli risposi velocemente e con grande convinzione di voler arrivare a essere analista. Gli spiegai che avevo fatto un’analisi, che avevo cominciato una pratica, ma che non sapevo se avessi fatto una vera analisi e se avessi una pratica di analista. La sua risposta a quel punto è stata: «E qual è il suo sintomo? Lei sa cos’è un sintomo, in altre parole, cos’è che la fa soffrire?».
16Balbettai, non ci avevo mai pensato, non sapevo quale fosse il mio sintomo. Lacan con la sua domanda mi ha indicato che si fa un’analisi non per essere analista ma per trattare un sintomo. Questa è stata la seconda grande lezione che ho ricevuto da lui quel giorno. Quindi proseguì: «Cosa le ha lasciato l’analisi che ha fatto con B.?». Stupidamente gli dissi: «Un certo sapere sul mio inconscio». Sempre occupato nel manipolare e nell’osservare i nodi borromei che si andavano accumulando sulla sua scrivania, ma dandomi la schiena, mi chiese: «E perché ha chiesto un’analisi a B. a diciannove anni?». Gli parlai delle circostanze che mi avevano condotta all’analisi, di quello che avrebbe potuto essere un atto irrimediabile, rimasto però nell’ordine di un evento che poteva interpretarsi come un appello. Lacan allora si alzò, prendendo la sua poltrona la collocò vicino alla mia e mise la sua mano sulla mia. Mi domandò con una voce molto dolce perché volessi fare un’analisi con lui, con lui e non con un altro. Non so cosa risposi. Fece di nuovo la stessa domanda più volte. Tre, quattro o cinque volte? Non lo so.
17Mi ha chiesto anche perché volevo analizzarmi con lui e non con Masotta. Questa domanda mi colpì molto. Gli ho risposto che avevo letto Masotta, ma che non mi era mai capitato di pensare a lui come possibile analista, e che inoltre non sapevo se Masotta praticasse la psicoanalisi.
18Introdurrò qui una parentesi. Oscar Masotta in quel momento si trovava a Parigi e poi mi ha contattata, dato che Lacan gli aveva comunicato il mio indirizzo. In quell’occasione mi disse che Lacan gli aveva riferito di aver ricevuto una signora di Córdoba che non sapeva se lui fosse analista. In questo incontro Oscar mi ha raccontato che Lacan credeva che anche lui fosse originario della città di Córdoba, a causa di un malinteso che rispondeva ad altre coordinate.
19Tornando a quella prima intervista con Lacan e di fronte all’insistenza della sua domanda sul perché analizzarmi con lui e non con un altro, so che alla fine gli dissi: «Sono venuta a trovarla per risolvere una faccenda con la morte e solamente lei, e non un altro, potrebbe aiutarmi». Con le sue domande ha fatto emergere il significante padrone di questa faccenda, e ciò ha costituito anche uno degli insegnamenti che ho estratto da questo primo colloquio.
20In seguito Lacan mi ha detto, sempre con una voce molto dolce: «Un’analisi non è cosa da poco. Prima di cominciare un’analisi propriamente detta pratico quella che è la norma nella mia scuola, i colloqui preliminari». E così mi ha congedata dandomi un appuntamento.
21Ero commossa. Mi aveva dato un’opportunità ed era cominciata la partita. Ma dovevo ancora dare delle prove prima di trasformarmi in analizzante. La mia domanda sarebbe stata messa alla prova, rigorosamente, giorno dopo giorno.
22Ho compreso molto presto che non sarei andata a vederlo per praticare lo stesso esercizio di parola a cui ero abituata. Era fuori discussione parlare del mio papà e della mia mamma, dei miei sogni, del mio partner, dei miei ricordi d’infanzia, delle mie difficoltà quotidiane in Francia, insomma, della mia stupida esistenza. Se, a volte, avevo l’insensata speranza che tale sogno o tale fantasma sarebbe potuto diventare oggetto della sua attenzione, lui mi disincantava molto velocemente. E ogni giorno, uscendo dalla seduta, attraversavo il cortile dell’edificio verso l’uscita, perplessa e contrariata.
23Un giorno gli ho inveito, irritata: «Signore, non comprendo affatto il senso della sua pratica!». Mi ha risposto: «Cara, è una messa alla prova».
24Era esasperante. Non aveva la prova del mio acconsentire, della mia buona volontà, della mia assidua applicazione a voler essere una buona analizzante? Analizzante modello, lo ero stata. Disciplinata nel rispetto dell’orario delle sedute e dell’associazione libera, trovavo senza sforzo il senso di «ciò che voleva dire» il mio inconscio il quale, d’altra parte, era talmente ben sistemato nell’ordine che risponde alla struttura del discorso del padrone e funzionava talmente bene nel dispositivo analitico, che apportava sempre risposte molto astute alle questioni sorte in ogni seduta.
25Ma con Lacan la mia chiacchiera era insoddisfatta. Lui opponeva alle mie elucubrazioni un finale di non-ricevuto, in maniera tale che io ormai non sapevo più cosa volesse dire fare un’analisi o «cominciare un’analisi propriamente detta», come mi aveva annunciato.
26C’è voluto del tempo perché «io ci arrivassi». In un’esperienza di rigore incrollabile, mi ha condotta a vivere l’esperienza del rovescio del discorso del padrone. C’è voluto del tempo per la mia uscita dal sogno del discorso dell’inconscio, sogno che una certa esperienza dell’analisi fa consistere, lasciando fuori la portata del reale. Godere del bla bla bla nell’associazione libera suppone non voler sapere niente del rovescio della sottomissione al dispositivo analitico, rovescio che dà conto della volontà di catturare l’analista nella ragnatela dell’ipnosi. L’operazione di Lacan è consistita nel disfarmi del discorso del padrone, riformulando la mia domanda al fine di condurmi a dare prova di un desiderio deciso.
27Così è arrivato il giorno di cui ho parlato all’inizio. Gli presentai uno dei miei sogni e gli dissi: «Si tratta di una donna che arrivava (venait) a Parigi». Mentre attraversavo il cortile verso l’uscita dell’edificio, sconcertata come sempre, all’improvviso ho ascoltato in un altro modo quello che avevo detto: «Una donna che vuole (veut) nasce (naît) a Parigi». Eureka! Mi sono messa a ridere a crepapelle. Una nuova dimensione si è aperta in me. A partire da quel giorno ho potuto prendere il sintomo per le orecchie, dato che non erano più tappate, chiuse dalla rotondità delle significazioni, solidali con la buona forma. Il tappo del senso si è distaccato, all’improvviso, come un guscio, liberando lalingua dall’involucro del linguaggio.
28La fugacità della seduta con Lacan implicava la sua riduzione all’esp d’un laps, allo spazio di un lapsus, e la sua operazione di taglio netto, chirurgico, bucando gli enunciati, mi consentiva finalmente di cogliere il passaggio della parola verso la scrittura. Giocando con l’equivoco, l’analista faceva risuonare altra cosa da quello che era stato detto con l’intenzione di dire. Ciò implica una maniera differente di scrivere quello che si ascolta e trasforma l’operazione analitica in esercizio di lettura, dando agli enunciati la consistenza della stoffa, della materia, del filo e della corda sulla quale si lavora per isolare l’Uno, il significante Uno solo, senza nessuna carica di senso. Esattamente a questo prezzo si ha un’opportunità di toccare il reale.
29Nel farmi soggetto del discorso analitico ho proseguito per sei anni il mio lavoro di analisi con Lacan nella rinnovata allegria della sorpresa e del Witz.
30Qui non presento altro che un esempio della mia analisi che dà valore a quel momento fecondo in cui si ribalta, si sovverte e si trasforma la topologia della superficie soggettiva nella quale, come parlessere, ero rinchiusa. Momento cruciale in cui si produce il passaggio dal vano «io penso» al poter cogliere un «si gode». Così, liberata dall’obbligo imposto dal godimento del sintomo, ho assistito alla nascita in me di un desiderio che ormai non era più un anelito (voeu) impossibile e senza conseguenze, ma un desiderio che si incarna in atto, un desiderio che vuole (veut), un desiderio convertito in volontà. Questo desiderio in atto, arrivato il momento, mi ha aperto la porta a un cambiamento di posizione soggettiva per poter assumere senza il parassita del dubbio la posizione dell’analista nella quale io faccio la scartità1, offrendomi ad altri nel luogo della causa del desiderio, con il fine di sostenere l’esercizio del soggetto supposto saper leggere, in altro modo.
Notes de bas de page
1 J. Lacan, Televisione [1973], in Altri scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Torino, Einaudi, 2013, p. 515.
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Tre secondi con Lacan
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