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7. Riflessioni conclusive su come contrastare alla radice le molestie di strada

p. 193-207


Texte intégral

7.1. Il messaggio culturale delle molestie di strada

Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dunque, l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico […] Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati.1

1È da queste premesse che si sviluppa una delle più importanti opere del Novecento, Massa e potere di Elias Canetti. Non intendo in questa sede riflettere su paura e potere nel solco tracciato da questo autore, quanto soffermarmi sull’aspetto antropologico del timore collegato all’essere toccati da estranei. La paura di essere toccati dall’ignoto segna profondamente l’esperienza umana, al punto da costringerci a trovare delle soluzioni per tenere la giusta distanza dagli altri. Eppure, nonostante la distanza, la paura può riattivarsi anche solo per l’uso di parole che evocano la possibilità di un contatto indesiderato. Nel passaggio dal possibile all’imminente si riversano angosce che segnano l’esistenza e persino i corpi. Non serve dunque che ci sia un contatto effettivo perché la salute e il benessere di una persona vengano compromessi. A volte, anzi, è proprio l’attesa del male che potrebbe accadere a peggiorare sensibilmente la qualità della vita. Non è un caso che le persone che vivono in contesti che vorrebbero asettici, come le gated comunnities, temono più di altri il contatto con chiunque altro, edificando la propria vita quasi esclusivamente sul rischio di contaminazione e su istanze di immunizzazione2.

2Se è vero che, come suggeriva Canetti, nulla l’uomo teme di più che essere toccato da ciò che gli è estraneo, la paura di un contatto indesiderato è una realtà quotidiana per molte donne, le quali vivono in luoghi intrisi di richiami evocativi di eventi spiacevoli che potrebbero accadere loro. Nella ricerca sulle molestie di strada e nei luoghi pubblici presentata in questo volume, in effetti, sono quasi esclusivamente le donne a riferire di aver vissuto esperienze negative di sexual harassment, e sono la stragrande maggioranza. L’essere toccate, insultate o esposte a commenti o atti sessisti sui mezzi di traporto, in luoghi affollati, per strada, sul posto di lavoro o di studio sembra costituire un’esperienza abituale per chi esce dalle proprie case per vivere lo spazio pubblico. D’altra parte, nemmeno la casa è davvero un luogo sicuro per coloro che, nelle risposte alle domande aperte presenti nel questionario, riferiscono di abusi e violenze subìti da familiari o amici di familiari anche in tenera età3.

3Ogni volta che si affiancano le molestie di strada a forme di violenza più grave sembra quasi di percepire una sorta di scala di priorità che spinge verso una normalità tutto sommato accettabile gli episodi di catcalling, di insulti o toccamenti sui mezzi di trasporto, di palpeggiamenti o baci indesiderati in ufficio. Il rischio, in altre parole, è quello di non dare troppo peso a questi fatti minori. È probabilmente questo il motivo per cui sono poche le ricerche che se ne occupano4 e sono rari i programmi di prevenzione e contrasto rivolti specificamente a questo fenomeno. Eppure, gli episodi di sexual harassment, anche nelle descrizioni delle ricadute comportamentali e nello stile di vita da parte di chi li subisce, peggiorano sensibilmente la qualità della vita di molte donne (e di qualche uomo, come si vedrà più avanti).

4Sono certamente atti meno gravi rispetto a una violenza sessuale, ma idonei a richiamarne costantemente la possibilità. È la de-umanizzazione, che avviene attraverso l’oggettivazione sessuale del corpo di una donna spogliata di ogni soggettività e di ogni altro progetto che non sia il compiacimento dell’uomo, a giocare un ruolo decisivo anche nelle molestie di strada: l’aggressione contro un corpo oggettivato è pensabile in quanto costantemente richiamato con i gesti o con le parole.

5Sono certamente atti meno gravi, ma proprio la loro frequenza li rende insidiosi: sono parte della vita quotidiana al punto da costituire un tratto culturale dell’esperienza urbana. A volte non sono nemmeno riconosciuti come molestie da chi li subisce5, perché parte integrante di un sistema culturale da cui è difficile prendere le distanze adottando un atteggiamento critico. Eppure, sono capaci di modificare abitudini e comportamenti di molte donne, che sono costrette a fare i conti con il costante rischio di incontri o contatti indesiderati, limitando le proprie libertà e comprimendo l’esercizio di propri diritti.

6Gli studi sugli hate crimes, come sono le violenze basate su stereotipi etnici o razziali6, insistono molto sul messaggio implicito di questi gesti, i quali rivestono un significato che fuoriesce dalla dimensione interpersonale per assumere un valore sociale. I crimini d’odio sono propriamente message crimes7, presentando uno statuto che interseca quello delle violenze collettive: chi li compie, anche nel caso in cui sia un singolo individuo che sembra agire per motivazioni personali (un lupo solitario), è o si sente parte di uno specifico gruppo sociale e agisce in quanto tale, concependo il proprio gesto violento su una vittima in carne e ossa in coerenza con una strategia condivisa di sottomissione del gruppo a cui appartiene la vittima. La violenza, anche se individuale, riveste un preciso significato collettivo: è un atto di dominio volto a ristabilire il “giusto” (tra virgolette, perché così inteso da chi agisce) ordine delle cose. Il tema si complica quando il messaggio esplicitato da un gesto violento incontra quello contenuto in leggi che, spesso in modo implicito, riaffermano rapporti di sovra-ordinazione e subordinazione. In questi casi, la rivendicazione degli attori violenti di agire “per rimettere ordine”, arrivando a percepire il proprio gesto come compiuto “in nome della legge”, risulterà meno folle e insensata agli occhi di molti, al punto da essere accompagnata da una debole riprovazione morale e sociale e da strategie discorsive giustificatorie. Se poi non è una singola legge, ma un intero sistema politico-culturale a legittimare forme di discriminazione di gruppi sociali, la violenza appare ancora più legittimata: chiunque può essere coinvolto nella riaffermazione di un ordine che si pensa minacciato, prendendo di mira le persone in quanto appartenenti a categorie e non per ciò che hanno fatto.

7In questo spettro di significati dell’agire violento, l’hate speech, che fornisce o rafforza argomenti e legittimazioni utili a chi decide di passare dalle parole ai fatti sentendosi parte di un gruppo, riveste un ruolo funzionale al rafforzamento del messaggio culturale ad esso sotteso, vale a dire quello di ristabilire il “giusto” rapporto di sovra-ordinazione/subordinazione tra i gruppi sociali. Al di là della sua rilevanza giuridica8, il discorso d’odio costruisce narrativamente ciò che la violenza esprime con un gesto: la volontà di sopraffazione che si esprime nella necessità del dominio.

8Questa breve digressione su hate crime ed hate speech come manifestazioni diverse di un odio fondato su stereotipi, aiuta a collocare nella giusta dimensione la rilevanza del fenomeno del sexual harassment. Innanzitutto, non dovrebbe apparire troppo ardito l’affiancamento tra crimini d’odio e violenze di genere: gli stereotipi razziali o etnici e quelli di genere sono riconosciuti come i più attivi nel generare discriminazioni e violenze9. La stessa definizione di violenza di genere come di una violenza sulla donna in quanto donna rimanda immediatamente all’operatività di forme di dominio basate sull’appartenenza di genere. Inoltre, l’odio contro le donne presenta alcune specificità, richiamate nella relazione della Commissione “Jo Cox”, tra cui vale la pena evidenziarne una: si tratta di un sentimento ostile che ha quasi sempre a che fare, anche solo implicitamente, con la sfera sessuale10.

9Quale rilievo rivestono dunque le molestie di strada? La proposta è di osservarle nell’intersezione tra message crime ed hate speech: al di là della gravità dei fatti e persino della loro rilevanza penale, le molestie di strada rivestono un significato che va oltre la situazione contingente per ristabilire un “giusto” ordine delle cose.

10Così, il messaggio culturale sotteso alle molestie di strada, anche quelle più blande o che troppo spesso vengono definite come bravate innocue o persino divertenti, è chiaramente volto a (ri)affermare la supremazia dell’uomo sulla donna. Le dinamiche del dominio, come si è detto, sono ben note a chi studia le violenze individuali e collettive; si fa più fatica invece a riconoscerle nelle molestie di strada, soprattutto quando si tratta di atti che vengono socialmente accettati o addirittura apprezzati in quanto lusinghieri. Eppure, il significato profondo espresso da questi gesti è lo stesso, sia esso coerente o meno con l’opinione comune: la sottomissione della donna nello spazio pubblico, attraverso il controllo costante dei suoi spostamenti, del suo stile di vita, del suo modo di vestire e persino del suo modo di parlare e attraverso la sua de-individuazione che avviene durante il processo di oggettivazione sessuale del suo corpo. Un corpo che può essere toccato senza il suo consenso, anche quando questa possibilità viene solo evocata a parole, generando fastidio, disagio o paura.

11Così come negli ultimi vent’anni la televisione ha continuato a veicolare messaggi che stereotipano e oggettivano le donne, ritraendole come passive, dipendenti dagli uomini e come oggetti sessuali11, le molestie di strada veicolano messaggi sulla costruzione del femminile funzionale al maschile, mettendo in atto forme di controllo delle dominate. Nel mondo dei mass-media e dei social media si va dall’affermazione di modelli comportamentali appropriati alla riprovazione morale per gli scarti da quei modelli; per strada si ricorda continuamente, a gesti e a parole, che la donna è costantemente monitorata e deve stare al suo posto, altrimenti da fata in un attimo può diventare strega. “Victims or vamps”12, “virgin or vamps”13, “madonna or whore”14: come sottolineano Oriana Binik e Adolfo Ceretti15 queste dicotomie riassumono gli ordini del discorso persino quando si parla di donne autrici di reato. Tradendo le caratteristiche stereotipate del femminile basate sulla docilità e sulla subordinazione, vengono rappresentate in modo polarizzato come mostri o come vittime disperate costrette a ricorrere al crimine. Si tratta di una narrazione che tende a rimettere in ordine quella confusione interpretativa, quello spaesamento causato dal loro essere “doppiamente devianti”, nei confronti dell’identità femminile e nei confronti della legge16.

12Al contempo, le molestie accadono anche a danno di uomini, sia pure in misura inferiore e spesso in connessione al modo di vestirsi17. Ma se le donne sono molestate in quanto donne, gli uomini quando sono molestati lo sono in quanto non abbastanza uomini secondo i canoni stereotipati del maschile. A ben vedere, anche in questi casi il messaggio è coerente con la supremazia di genere: in ogni progetto di dominio la sorveglianza morale si estende alla categoria dei dominanti, che non deve manifestare cedimenti. La mascolinità va dunque preservata nei suoi caratteri funzionali alla riproduzione dello stereotipo di genere e, laddove si presenti con accenti diversi anche solo nel modo di vestire, va ricondotta, a parole o con la forza, nel solco dell’“uomo vero”18.

7.2. Le molestie come cemento dell’ideologia sessista e le direzioni del cambiamento

13Quanto detto finora induce a osservare le molestie di strada – data la loro pervasività, la rilevanza delle loro conseguenze sulle abitudini comportamentali e la loro normalizzazione come atteggiamenti inoffensivi – come la manifestazione nel quotidiano dell’ideologia sessista, intesa come costruzione della superiorità maschile come dato di fatto oggettivo e dunque inconfutabile. Non solo: proprio in quanto atti che costruiscono quotidianamente lo stereotipo di genere, sono il cemento stesso dell’ideologia sessista: riaffermano lo spazio pubblico come spazio in cui le donne possono stare solo se incrociano le aspettative maschili e i canoni dell’appropriatezza per loro fissati.

14Se le cose stanno così occorre prendere sul serio le molestie di strada in quanto modalità fondamentali con cui viene quotidianamente riaffermata la disparità di genere come principio organizzativo della nostra società. E a ben vedere la presa di consapevolezza che è inaccettabile essere toccate senza aver prestato il proprio consenso, insultate o esposte a commenti o atti sessisti si sta facendo strada e, in alcuni ambienti, non è più qualcosa di cui sorridere o per cui fare spallucce. Il senso di normalità o inevitabilità di certe condotte sta lasciando il posto alla necessità di intervenire per contrastarne la diffusione. Con quali strumenti?

15Un passaggio del documento Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere elaborato dal movimento Non Una di Meno sottolinea la limitatezza, l’inconsistenza e la strumentalità delle politiche attuate finora:

Nel panorama nazionale e internazionale gli interventi istituzionali contro la violenza sono spesso inseriti all’interno di provvedimenti emergenziali per la sicurezza. In Italia, le misure attuate fino ad oggi si sono rivelate inconsistenti e parziali. Hanno infatti voluto mettere a fuoco solo singole, benché eclatanti, espressioni del fenomeno, come lo stalking e il femminicidio. Le istituzioni continuano a considerare la violenza di genere un fatto privato e, al tempo stesso, a utilizzarla in maniera strumentale e retorica, al fine di costruire, di volta in volta, un nemico esterno: ora il degrado, per giustificare misure repressive rispetto alle libertà di tutt@; ora il migrante, per legittimare politiche razziste e securitarie, che criminalizzano le persone migranti e propongono solo interventi repressivi. Sono stati adottati provvedimenti per una parità formale ma non sostanziale, senza mai porre realmente in questione i rapporti di potere vigenti, soprattutto, senza mai assumersi fino in fondo la responsabilità politica del problema della violenza.19

16Si denuncia una sostanziale sottovalutazione delle condizioni strutturali (e culturali) della violenza di genere che porterebbe a neutralizzare “la dimensione politica della violenza di genere, dietro cui si nasconde il tentativo di mantenere le donne in uno stato di vittimità e dipendenza invece di porre al centro la riaffermazione della loro autonomia e autodeterminazione”20. Da qui un rifiuto netto a un approccio repressivo ed emergenziale e l’apertura, in direzione contraria, a politiche di prevenzione capaci di incidere sulla violenza di genere in ottica sistemica. Per portare alcuni esempi: in campo educativo e formativo la prevenzione e il contrasto deve passare attraverso un ripensamento strutturale “perché la violenza sulle donne è un fenomeno sistemico che innerva la società nella sua interezza e interessa tutti i contesti educativi e formativi, dal nido all’università, fino alle scuole di alta formazione”21; “contro le logiche securitarie nei presidi sanitari” e per superare l’inadeguatezza e la dannosità di “interventi di stampo esclusivamente assistenziale, emergenziale e repressivo, che non tengono conto dell’analisi femminista della violenza come fenomeno strutturale”22 s’invoca un coinvolgimento dei Centri Anti Violenza nell’elaborazione di qualsiasi iniziativa in ambito sanitario; con riferimento ai temi economici legati al lavoro e al welfare, combattere la violenza di genere vuol dire “individuare ex ante strumenti e misure capaci di garantire materialmente l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, sottraendole in forma preliminare alla potenziale spirale di violenza data dalla dipendenza economica, dallo sfruttamento, dalla precarietà e dall’assenza di welfare e servizi”23; in chiave intersezionale, “è necessario scardinare la strumentalizzazione politica dei corpi delle donne native a fini razzisti e dei corpi delle donne migranti a fini securitari”24.

17L’impostazione del Piano d’azione, così chiaramente rivolto a una strategia di prevenzione di ampio raggio, mostra una profonda consapevolezza circa le radici strutturali e culturali del fenomeno della violenza di genere e, insieme, una grande attenzione al rischio di “manipolazione politica” per finalità altre rispetto alla promozione di diritti e libertà: con riferimento a questo rischio, è innanzitutto la risorsa repressiva a essere chiamata in causa. Vale la pena approfondire questo aspetto così cruciale, anche per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti.

18Il diritto penale, qui inteso come insieme di fattispecie incriminatrici, costituisce uno strumento particolarmente potente per segnalare il disvalore sociale di comportamenti ritenuti inaccettabili: fissa simbolicamente i confini morali di una collettività, segnalandone al contempo i cambiamenti di sensibilità; attraverso la punizione si rende evidente a tutti nel modo più immediato dove sta (ora) il limite di ciò che è legittimo fare. Così, il progressivo riconoscimento nel corso dei secoli dell’inviolabilità del corpo come misura della dignità umana fino al punto da considerare inappropriato toccare il corpo di un’altra persona senza il suo consenso25 è entrato nella Convenzione di Istanbul quando definisce il reato di violenza sessuale attorno alla nozione di consenso prestato liberamente. In assenza di un intervento esplicito del legislatore italiano che assuma appieno questa tendenza, la nozione di libero consenso è stata comunque idonea a orientare le decisioni giudiziarie; l’uso della costrizione fisica, la minaccia o l’abuso di autorità previsti dall’attuale formulazione dell’art. 609 bis del Codice penale non sono più ritenuti necessari in quanto si arriva a individuare il disvalore del reato di violenza sessuale nell’imposizione di atti sessuali a una persona il cui consenso non sia stato previamente verificato, senza neppure che sia la vittima a dover esprimere il proprio dissenso all’atto sessuale. In tale direzione, alcuni casi di molestie di strada, come palpeggiamenti e baci improvvisi, anche da parte di sconosciuti, sono stati ricondotti alla fattispecie della violenza sessuale, innovando rispetto al più consueto riferimento a fattispecie come stalking e diffamazione.

19D’altra parte, far ricorso alla risorsa penale è anche per chi governa la via più semplice e meno dispendiosa (introdurre un nuovo reato o aumentare le pene non richiede nell’immediato di trovare coperture finanziarie a nuovi costi) per dare conto alla collettività che di un certo problema ci si vuole fare carico. Da qui, il passo a ritenere che ogni problema possa essere risolto unicamente con l’uso della risorsa penale è tanto breve quanto pericoloso. Va rilevata infatti un’eccessiva enfasi mediatica, politica e istituzionale sulla risposta repressiva che finisce per mettere in ombra la necessità di piani di prevenzione capaci di operare cambiamenti sociali e culturali profondi.

20Se è vero che il campo penale risulta la risorsa più facile e immediata da attivare per rassicurare sul fatto che le istituzioni si stiano occupando prontamente di un problema emergente, il rischio è che anche il tema delle violenze e delle molestie di genere venga risucchiato nella logica emergenziale tipica delle politiche di sicurezza che si sono affermate in Italia a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. I “pacchetti sicurezza” del 2001 (l. 26 marzo 2001, n. 128), del 2008/2009 (l. 24 luglio 2008, n. 125, L. n. 38 del 2009 e L. n. 94 del 2009), del 2017 (l. 18 aprile 2017, n. 48) e del 2018/2019 (l. 1° dicembre 2018, n. 132 e L. 8 agosto 2019, n. 77), la legge in tema d’immigrazione “Bossi-Fini” (l. 30 luglio 2002, n. 189), le leggi in tema di legittima difesa (l. 13 febbraio 2006, n. 59 e L. 26 aprile 2019, n. 26), la legge “ex Cirielli” in tema di recidiva (l. 5 dicembre 2005, n. 251), e la legge “Fini-Giovanardi” in tema di sostanze stupefacenti (l. 21 febbraio 2006, n. 49), per citare solo alcuni dei principali interventi legislativi, hanno introdotto misure che tendono principalmente a estendere l’area penalmente rilevante e anticipare la soglia della punibilità26, ma anche ad ampliare il raggio d’azione delle agenzie di controllo, attraverso l’estensione delle misure di prevenzione e l’introduzione di provvedimenti di carattere amministrativo volti a restringere le maglie del disciplinamento urbano, come ordinanze, ordini di allontanamento e Daspo. Si tratta di misure che utilizzano la risorsa penale e amministrativo-punitiva per rassicurare nella forma del “per fortuna qualcuno sta facendo qualcosa subito”. A tal proposito, sempre più spesso si parla di populismo penale: è un’espressione che, in prima battuta, rimanda alla tendenza delle società mass-mediatiche a discutere dei casi giudiziari al di fuori delle aule dei tribunali (c.d. processi mediatici), ma, più ampiamente, fa riferimento a un orientamento di politica criminale di tipo espressivo, in base al quale s’interviene in modo esemplare per rassicurare i cittadini: ogni evento perde la sua specificità e viene decontestualizzato per assurgere a caso emblematico su cui riversare le istanze punitive di un intero popolo ferito e tradito e da cui trarre utilità nei termini di visibilità, popolarità e consenso. Da questa prospettiva il populismo penale si caratterizza per la “durezza” delle misure, eccedendo così i limiti del sistema penale liberale: uso ipertrofico della legislazione penale (versus diritto penale come extrema ratio), aumento della severità delle pene (versus proporzionalità e umanità della pena), compressione dei diritti e delle garanzie processuali. Questo approccio emergenziale, d’altra parte, raggiunge raramente gli effetti annunciati, spesso legati a roboanti promesse di eliminazione del problema, pretendendo che la risposta penale possa operare da sola quei cambiamenti socioculturali che sono alla radice dei fenomeni criminali.

21L’ambito delle discriminazioni e delle violenze di genere non è immune da queste tendenze. L’introduzione di nuove fattispecie può servire per segnalare un cambiamento di attenzione politica e di sensibilità sociale nei confronti di fenomeni per cui si richiede d’intervenire (si pensi a titolo esemplificativo allo stalking o alla diffusione illecita di immagini sessuali esplicite, impropriamente conosciuta come revenge porn), indicando nel modo più netto che si ha a disposizione la non tollerabilità di certi comportamenti. Ma l’aspettativa creata dall’introduzione di una fattispecie penale è quella di risolvere immediatamente un problema, quando in concreto la giustizia penale agisce su casi singoli e perdipiù su un numero ristretto di essi, quelli che emergono alla sua attenzione e che, date le risorse, riesce a gestire. La frustrazione di un’aspettativa di tutela penale può essere devastante tanto quanto la percezione di inefficacia della stessa fattispecie penale nel contrastare il fenomeno. Talvolta, con la finalità dichiarata di rendere più efficace la tutela penale, si ricorre all’aumento delle pene, ma con l’unico effetto di riprodurre su una nuova scala frustrazioni e senso d’inefficacia della giustizia penale. Va considerata, inoltre, la pretesa di natura quasi fideistica che basti un periodo di detenzione carceraria a modificare il modo di essere, di pensare e di agire di una persona. Fatte salve alcune riforme che hanno aperto o stanno aprendo il campo penale ad altre logiche (gli esempi sarebbero molti, ma mi limito a richiamare sommariamente le alternative al carcere, la messa alla prova, la peculiarità del sistema minorile e la giustizia riparativa), all’intervento penale si continua a richiedere perlopiù di punire colui che è stato accertato come responsabile di un fatto che costituisce reato, dando per scontato che la punizione di per sé produca una consapevolezza nel soggetto – e per estensione nel suo gruppo sociale di riferimento – circa il disvalore sociale del gesto compiuto. Quasi un secolo di riflessione penalistica e di ricerca criminologica ha messo in luce come il carcere sia piuttosto deludente rispetto alla finalità rieducativa indicata in Costituzione e i tassi di recidiva ne danno conto costantemente. Anche rispetto alle violenze di genere il carcere mostra i suoi limiti: la detenzione può neutralizzare il perpetratore per il tempo della permanenza in istituto, ma se, seguendo logiche diverse da quelle della punizione, non si è in grado di attivare percorsi di messa in discussione dei codici culturali dell’attore violento, estendendo l’intervento al suo ambiente di vita, difficilmente otterrà qualche effetto positivo. L’ingresso in carcere, d’altra parte, soprattutto per comportamenti di lieve gravità, può risultare controproducente, finendo per consolidare tratti identitari violenti.

22Rimane il fatto che, riprendendo la metafora di Bourdieu, ogni volta che si tende a dare rilevanza alla mano destra dello Stato, culturalmente e materialmente la mano sinistra arretra: il ricorso sempre più diffuso alla repressione è accompagnato da un discorso pubblico che svilisce ogni altro possibile intervento, sia esso di natura sociale, educativa e culturale, volto alla prevenzione nel segno della promozione dei diritti, e si sostanzia nello spostamento di fondi dalle politiche di welfare a quelle punitive o del controllo. Interventi esterni al campo penale diventano sempre più impensabili e irrealizzabili; parimenti si assiste a un impoverimento del cd. welfare penale, a indicare sinteticamente tutti quegli interventi volti a dare un senso alla pena perché non sia semplice contenimento.

23Così, anche nell’ambito della promozione del rispetto e della parità di genere, il fatto che le iniziative politiche e legislative convergano sempre più verso il campo penale rende progressivamente meno concepibili e praticabili proposte istitutive di programmi educativi, sociali e di assistenza a persone in condizioni di vulnerabilità.

24Proprio rispetto ad atti di street harassment, spesso non gravi presi di per sé ma così frequenti da costituire un’esperienza ordinaria per molte persone, quasi sempre donne, e da costituire un incisivo strumento per riprodurre stereotipi e legittimare discriminazioni, occorre recuperare un po’ d’immaginazione politica e dare corso a interventi che si pongano prima e al di fuori della sfera d’intervento della giustizia penale.

25La ricerca scientifica, se si è disposti a darle credito fino in fondo, può supportare questo sforzo immaginativo. È pur vero che la scarsità di indagini sulle molestie di strada rende ancora più difficile l’indicazione di policy, ma le tre spiegazioni del sexual harassment avanzate dalla letteratura psicologico-sociale e criminologica27, vale a dire la ricerca di eccitazione e/o soddisfazione sessuale, l’espressione di un desiderio di dominio e la protezione della propria identità di genere che si percepisce minacciata, tracciano già una linea di azione per attuare un cambiamento culturale profondo.

26In questa direzione, un piano d’azione contro le molestie sessuali dovrebbe articolarsi attorno a percorsi di educazione sessuale e all’affettività fin dall’età precoce, per abituare a riflettere su un tema così decisivo nel processo di crescita di ogni individuo. Nonostante ci sia una maggiore consapevolezza sul fatto che la sessualità vissuta, percepita e raccontata contribuisca in misura maggiore di altre dimensioni alla complessa costruzione del benessere individuale e si possa parlare in generale di un epocale cambiamento culturale in questo ambito28, il rapporto dei giovani con la sessualità non sembra essere per niente risolto, rimanendo intriso di stereotipi di genere soprattutto in considerazione della diffusione di quei prodotti culturali, come i porno, che sono usciti dalla sfera del proibito, diventando fenomeno di massa, e la cui fruizione costituisce la principale modalità attraverso cui i giovani apprendono in ambito sessuale29.

27Questi percorsi dovrebbero essere parte di un più ampio progetto sulla parità di genere. Decenni di ricerca scientifica hanno mostrato in modo inequivocabile come le disparità di genere siano ancora molto diffuse nel mondo e nel nostro Paese, comportino forme di subalternità, quando non di soggiogazione e sfruttamento, e portino a un impoverimento culturale e sociale, con forti ricadute anche in ambito economico. Passi in avanti si sono fatti, certamente a livello di una maggiore attenzione e sensibilità alle tematiche di genere, ma le inerzie politiche, istituzionali e culturali sono ancora molte e l’emergenza connessa alla pandemia da Covid-19, con le crisi da essa innescate, rischia di frenare ulteriormente il riconoscimento in concreto di diritti e di opportunità. Il periodo appena trascorso ha già compromesso in modo pesante la situazione. L’incremento della disoccupazione femminile mostra l’estrema precarietà e lo stato di dipendenza di molte donne, così come le violenze domestiche e sessuali sono state definite un’emergenza nell’emergenza che non va lasciata nell’ombra o considerata alla stregua di effetti collaterali inevitabili della pandemia. È necessario, dunque, lavorare sulla parità di genere in tutti gli ambiti della vita sociale, in particolare recuperando lo spazio pubblico come sistema articolato di luoghi fruibili da tutti, senza ghettizzazioni dirette o indirette. La città stessa deve trovare una nuova immagine di sé come accogliente e inclusiva. L’investimento nella costruzione di reti a maglie strette di supporto delle vulnerabilità, di ascolto delle fragilità, di mediazione dei conflitti e di promozione dei diritti potrebbe costituire l’asse attorno a cui risignificare la vita cittadina, costruendola non sull’utente più forte ma sulla persona più bisognosa di attenzione, non sul dominio ma sul rispetto.

28Quanto detto indica la necessità di lavorare più specificamente attorno alla decostruzione degli stereotipi di genere per favorire l’uguaglianza attraverso la promozione dell’unicità di ogni persona30. In questo ambito le università possono fare molto e non tanto perché in esse il fenomeno delle molestie, delle discriminazioni e delle violenze di genere sia più presente che altrove (i dati di ricerca presentati in questo volume sembrano andare in direzione opposta), quanto perché si prestano meglio di altre istituzioni a essere luogo di costruzione di consapevolezza e di sperimentazione di azioni di promozione della parità di genere da estendere successivamente all’intera società.

7.3. L’uguaglianza di genere nelle università

29A partire dalla Conferenza Mondiale sulle Donne di Pechino del 1995, la parità di genere viene affrontata in un “doppio approccio” che vede sia una prospettiva di genere integrata all’interno di tutte le politiche (gender mainstreaming) sia l’attuazione di specifiche misure volte a prevenire e/o porre rimedio alle disuguaglianze di genere. L’Agenda 2030-ONU indica la parità di genere tra gli obiettivi prioritari a livello globale, per uno sviluppo sostenibile e intergenerazionale a favore delle Persone, della Pace, del Pianeta, della Prosperità e delle Partnership (5P); la identifica, in particolare, come goal trasversale a tutti i diciassette Millennium Development Goals. L’Unione Europea la riconosce come condizione necessaria nella Strategia 2020-2025 così come per il raggiungimento degli obiettivi di crescita, occupazione e coesione sociale. A livello nazionale la “Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026” del 2021 afferma che l’equità di genere è “uno straordinario motore di crescita”31 e identifica diversi strumenti a supporto delle pari opportunità “per l’integrazione della prospettiva di genere in tutti gli ambiti della vita sociale, economica e politica”32.

30Alla luce di questo breve e necessariamente incompleto richiamo delle fonti, sono innanzitutto le istituzioni a essere chiamate a dare un contributo effettivo all’obiettivo della gender equality. Le Università, in quanto istituzioni che ricoprono il ruolo peculiare di agenzia educativa, culturale e sociale, costituiscono un luogo d’eccellenza per la realizzazione della parità di genere. Questa consapevolezza emerge dal documento “Analisi e Proposte sulla questione di Genere nel mondo universitario italiano” elaborato dal Consiglio Universitario Nazionale (CUN) il 17 dicembre 2020 quando nelle conclusioni afferma che l’Università deve: a) adottare strategie per accelerare il processo di parità di genere al suo interno; e b) svolgere il suo ruolo di presidio culturale, promuovendo politiche innovative per risolvere la disparità di genere nella società.

31In tal senso, la parità di genere deve costituire sempre di più un principio organizzativo della vita accademica (per esempio, monitorando le assunzioni, le progressioni di carriera, le composizioni degli organi decisionali per mettere in atto iniziative volte a rimuovere gli ostacoli che impediscono una piena parità di trattamento) e, al tempo stesso, deve essere un oggetto di ricerca scientifica in modo che si proceda sul piano della conoscenza, della sperimentazione e valutazione delle politiche, e della consapevolezza diffusa attraverso la didattica e le attività di terza missione.

32Il rapporto She Figures 2018, pubblicato dalla Commissione Europea nel febbraio 2019, testimonia un miglioramento generale della situazione negli Atenei, con l’aumento, in particolare, del numero di ragazze che ottengono un dottorato di ricerca e del numero di donne presenti ai livelli più elevati della carriera accademica. Purtuttavia ammonisce sul fatto che il processo di miglioramento nei settori della ricerca e dell’innovazione è ancora troppo lento e che le donne subiscono ancora condizioni di lavoro più precarie degli uomini, sono meno pagate, faticano a raggiungere posizioni apicali nella carriera, ad essere riconosciute come autrici di invenzioni brevettabili e infine a trovare fondi per le loro ricerche. D’altra parte, gli studi di genere rimangono ancora marginali in molti settori di ricerca, così come gli insegnamenti su tematiche di genere e le attività di terza missione risultano poco presenti nell’offerta didattica e formativa degli Atenei.

33In questo scenario, il Bilancio di genere, già previsto dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 3 luglio 2003 (2002/2198(INI)), rappresenta uno strumento fondamentale per affrontare la disparità di genere nell’ottica del gender mainstreaming, attraverso la leva specifica costituita da una valutazione di genere della politica dell’istituzione, ma per le università può costituire anche l’occasione per promuovere e dare rilevanza a quelle ricerche e a quelle attività didattiche e di terza missione che sono state svolte nei diversi dipartimenti sulle tematiche di genere. A integrazione del Bilancio di genere, il Gender Equality Plan costituisce il documento programmatico e strategico di ogni singolo Ateneo, composto da una serie di azioni innovative che si aggiungono a misure già previste dalla normativa europea e italiana (come l’istituzione della Consigliera di Fiducia, chiamata a operare anche nell’ambito delle molestie sessuali e delle discriminazioni di genere) e che abbracciano diverse aree tematiche: equilibrio tra vita privata/vita lavorativa; equilibrio di genere nelle posizioni di vertice e negli organi decisionali; uguaglianza di genere nel reclutamento e nelle progressioni di carriera; integrazione della dimensione di genere nella didattica; integrazione della dimensione di genere nella ricerca; cultura dell’organizzazione e comunicazione di genere; contrasto alle molestie sessuali e alla violenza di genere.

34In questo volume è stata presentata e discussa la survey sulle molestie di strada promossa dal Comitato unico di garanzia (CUG) dell’Ateneo di Milano-Bicocca su sollecitazione della componente studentesca: si tratta di uno strumento prezioso a disposizione della comunità per riflettere su come realizzare iniziative interne all’Ateneo e suggerire politiche ad altri enti volte alla riduzione di comportamenti indesiderati. In breve, è già questo un esempio particolarmente significativo del ruolo che le università possono rivestire nella promozione dell’uguaglianza di genere.

Notes de bas de page

1 E. Canetti, Masse und Macht, Hamburg, Claassen Verlag, 1960 (trad. it. Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981, p. 17).

2 Cfr. A. Ceretti, R. Cornelli, Oltre la paura, Milano, Feltrinelli, 2018.

3 Cfr. capitolo 4.

4 Cfr. capitolo 2.

5 Cfr. capitolo 1.

6 Cfr. R. Cornelli, Pregiudizi, stereotipi e potere. Alle origini delle pratiche di disumanizzazione e delle politiche dell’odio, “Rassegna Italiana di Criminologia”, 13, 2019, pp. 206-216.

7 Cfr. B. Perry, In the name of hate. Understanding hate crimes, New York, Routledge, 2001.

8 Per un approfondimento sui discorsi d’odio da una prospettiva giuridico-costituzionale cfr. P. Tanzarella, Discriminare parlando. Il pluralismo democratico messo alla prova dai discorsi d’odio razziale, Torino, Giappichelli, 2020.

9 M. Santerini, La mente ostile. Forme dell’odio contemporaneo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2021.

10 Ivi, p. 183.

11 Cfr. capitolo 2.

12 C. I. Keitner, Victim or vamp-images of violent women in the criminal justice system, “Columbia Journal of Gender and Law”, 11, 2002, pp. 38-87.

13 H. Benedict, Virgin or vamp: How the press covers sex crimes, Oxford, Oxford University Press, 1993.

14 A. Bass, Getting screwed: Sex workers and the law, Lebanon, University Press of New England, 2015.

15 A. Ceretti, O. Binik, Fare ricerca su genere e crimine oggi. Stereotipi, dibattiti, prospettive, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3, 2020, pp. 453-478.

16 Cfr. E. Giomi, S. Magaraggia, Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, Bologna, il Mulino, 2017.

17 Cfr. capitolo 4.

18 Cfr. C. Volpato, Psicosociologia del maschilismo, Roma, Laterza, 2022.

19 Non Una di Meno, Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, 2017, p. 7.

20 Ivi, p. 8.

21 Ivi, p. 21.

22 Ivi, p. 25.

23 Ivi, p. 27.

24 Ivi, p. 37.

25 Cfr. R. Cornelli, La forza di polizia. Uno studio criminologico sulla violenza, Torino, Giappichelli, 2020.

26 Oltre alle leggi già citate, sono molti i provvedimenti che negli ultimi decenni si collocano in questa prospettiva politico-criminale: si pensi, solo per citare alcuni esempi, alla legge sull’omicidio stradale (l. 23 marzo 2016, n. 41), alla legge “spazzacorrotti” (l. 9 gennaio 2019, n. 3) (9) e, per l’appunto, all’introduzione del “Codice rosso” (l. 19 luglio 2019, n. 69). Non va dimenticata l’introduzione di due fattispecie di false dichiarazioni per l’ottenimento del reddito di cittadinanza (art. 7 L. 28 gennaio 2019 n. 4) con pene fino ai 6 anni. Cfr. A. Ceretti, R. Cornelli, Del diritto a non avere paura. Note su sicurezza, populismo penale e questione democratica, “Diritto Penale e Processo”, 11, 2019, pp. 1481-1491.

27 Cfr. capitolo 2.

28 Rapporto Censis-Bayer sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani, 23 maggio 2019, disponibile sul sito internet https://www.censis.it/welfare-e-salute/rapporto-censis-bayer-sui-nuovi-comportamenti-sessuali-degli-italiani-1 [ultima consultazione 17.01.2023].

29 A. Ramírez-Rubio, L. Villanueva-Moya, M. D. Sánchez-Hernández, M. C. Herrera, F. Expósito, Social perceptions of women in pornography: Attitudes and gender stereotypes, “Psicologia Sociale”, 2, 2022, pp. 277-307.

30 Cfr. J. Lorber, Oltre il gender, Bologna, il Mulino, 2022.

31 Cfr. documento “Strategia nazionale per la parità di genere 2021-26”, 2021, p. 2, consultabile al link: https://www.statoregioni.it/media/3896/p-3-cu-atto-rep-n-89.pdf [ultima consultazione 17.01.2023].

32 Ivi, p. 18.

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