Eco, Filomena e le favole antiche
p. 247-253
Texte intégral
Voci
L’analisi che segue, di alcuni versi della canzone Alla primavera, o delle Favole antiche, fa parte di una ricerca dedicata al concetto di voce (voce poetica, voce lirica) in Leopardi, sulla quale conviene fermarsi un momento prima di affrontare il testo in questione1. Si parte da un elemento che è spesso dato per scontato nella lirica romantica e nella poesia leopardiana in particolare: cioè, l’atto dell’enunciazione in un contesto poetico, e la sua realizzazione nella figura della voce. In termini generali, si tratta del momento preliminare, o veramente liminare, quello dell’enunciazione stessa, del “parlare” del poeta, quello che si presenta subito, anteriore a qualsiasi rimando, quello che non va via e ritorna sempre; anche quando in una lettura ci sentiamo assorbiti da quello che la poesia ci dice, non riusciamo mai a dimenticare del tutto il suo dire, il parlare. Anzi, questa è una delle differenze capitali fra la poesia lirica, almeno nella versione affettiva, fortemente personalizzata, che assume agli occhi di Leopardi, «dov’è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti» (Zibaldone di pensieri, 4417, 3 novembre 1828) e, per esempio, il romanzo: mentre la lettura del romanzo ci permette di addentrarci in una realtà altra, tutta immaginata e immaginabile, che lascia dietro di sé le sue fonti e i suoi punti di partenza, la poesia ci ricorda in continuazione che c’è un qualcuno o un qualcosa che la sta dicendo.
1Per i romantici questa differenza si costituisce in termini di esteriorità (del romanzo e delle forme narrative in generale) e di interiorità (del soggetto parlante della lirica). La personalizzazione della poesia concepita come estrema intimità raggiunge il suo culmine nell’Estetica di Hegel, per cui «Quello che è più completamente lirico [...] è un sentimento del cuore concentrato su una situazione concreta, perché il cuore sensibile è quello che è più interno e più proprio alla soggettività [das Innerste und das Eigenste der Subjektivität2]». I rapporti fra poesia e lettura sono visti in modo del tutto naturale come rapporti interpersonali, fra poeta e lettore, e in questa personalizzazione del rapporto si intromette quasi per forza un altro elemento, quello sonoro, della voce. La voce è una figura particolarmente privilegiata nella poetica e nella critica romantica, e si può dire anche nella lettura, per le garanzie che dà della presenza, dell’immediatezza, della “pienezza” del parlante, dell’atto comunicativo; garanzia anche dell’ascolto e dell’ascoltatore. Infatti, il poeta parla e il lettore ascolta. Ma il tipo di ascolto è particolare. Nella prospettiva romantica, il poeta non si rivolge direttamente all’ascoltatore, non cerca di spiegarsi o di entrare in un dialogo, anzi parla come se l’altro non ci fosse. Al lettore il compito di captare il significato delle parole che sono destinate altrove, che forse − questa l’interpretazione più diffusa − si ripiegano su se stesse.
2È questo il punto sottolineato dalla celebre sintesi di John Stuart Mill (1833) che illumina il rapporto fra l’interiorità su cui insiste Hegel e l’esteriorità rappresentata dalle esigenze di un pubblico: «Eloquence is heard, poetry is overheard3. Eloquence supposes an audience, the peculiarity of poetry appears to us to lie in the poet’s utter unconsciousness of a listener. Poetry is feeling confessing itself to itself, in moments of solitude4 ». Enormemente suggestiva, questa formula del parlare con se stessi, della solitudine − subito si riconosce la situazione emblematica di Bruto minore o di Saffo − dilaga per tutta la storia della poetica e della critica del romanticismo, almeno in quello inglese, giù giù fino al saggio fondamentale di M. H. Abrams del 1965 su Structure and Style in the Greater Romantic Lyric. Le poesie che Abrams intende raccogliere e analizzare sotto la rubrica della «grande lirica romantica»
presentano un parlante determinato in una scena esterna specificata e normalmente localizzata, che noi ascoltiamo (overhear) mentre lui, adoperando un vernacolo che facilmente si innalza a un livello di discorso più formale, svolge un colloquio sostenuto, di solito con se stesso, o con la scena esteriore, ma più spesso con un uditore umano silenzioso, presente o assente5.
3Ma se è naturale, romanticamente parlando, pensare alla voce della poesia come a quella di una persona, questo non significa necessariamente che sia alla persona, cioè al contenuto della voce, che il lettore si interessi. Poco meno forte della tradizione della voce personale è quella dell’impersonalità della lirica, dottrina formulata forse in chiave antiromantica ma che trova le sue origini nel romanticismo stesso e che assume forme molto diverse tra di loro: dalla molteplice esistenza del poeta-camaleonte a cui allude Keats in una lettera ( «Un poeta è la cosa meno poetica che esista: perché non ha nessuna identità − informa e riempie continuamente qualche altro Corpo6 »), all’immagine del poeta attraversato dalla voce della Natura e «imitatore di se stesso» in una maniera che tende a sminuirne la personalità proposta da Leopardi in un pensiero famoso (Zibaldone, 4372-73), alla reinvenzione preromantica del concetto di ispirazione. Anche Leopardi ebbe occasione di insistere sulla distinzione fondamentale tra chi vive e chi scrive, non a caso insistendo in quello stesso luogo del carteggio che sia proprio da una delle canzoni delegate a un’altra voce, quella di Bruto, che si debbano desumere i suoi «sentiments envers la destinée7 ».
4L’impersonalità, però, non è da vedersi come un semplice rovescio della personalità, una maschera, una persona travestita. Si tratta anche di riconoscere un altro versante dell’esperienza di chi legge, che non si interessi, o non immediatamente, all’idea di un qualcuno che parla, e che si vorrebbe, o dovrebbe, conoscere, o che, alternativamente, si nasconde e che si insegue per uno scenario di travestimenti e di riconoscimenti. È che più che un parlante, c’è un parlare; e che questo parlare, anziché segnare una presenza, segna più che altro un’assenza. Quello che si legge è appunto una traccia, un suono che riempie un vuoto che potrebbe anche non esserci, che anzi non c’è se non nel momento dell’ascolto. Il poeta che dice io, dice nello stesso tempo l’opposto, dice io qui non ci sono, non ci sono io, non c’è io. Parola e silenzio si evocano l’un l’altro. Si può aggiungere che la voce che il lettore sente, materialmente, nella lettura della poesia è necessariamente la propria.
5Ancora: per chi legge conta non solo quello che la poesia dice ma, ancora prima di ogni ricezione di un messaggio specifico e forse qualche volta più di questo, il fatto del suo dire, preso in sé. La trasmutazione dei segni sulla pagina in senso interiore, il dipanarsi del suono dal silenzio che avvengono ogniqualvolta quel testo si legga sono di per sé un coinvolgimento e un impegno del lettore non trascurabili. L’aprirsi di un dialogo tra lettore che leggendo fa parlare il testo inerte e poesia che parla nel silenzio del lettore rappresenta un momento privilegiato e come sospeso in tutto l’insieme delle relazioni complesse che intercorrono fra lettore e testo. Un silenzio è rotto, un rapporto è istituito, un significato si produrrà, una trasformazione avviene da una situazione preesistente a un’altra che non necessariamente avrebbe avuto luogo. L’annunciarsi della poesia, il suo farsi presente attraverso la lettura, è un avvenimento che ordinariamente assume la figura della voce, e corrisponde alla pura enunciazione.
6Alla luce di queste osservazioni, e con riferimento precisamente al mito (o a un certo mito), sarà utile soffermarsi su una delle poesie di Leopardi nella quale alla figura della voce si dia un’attenzione speciale. L’espressione figura della voce ha due sensi ai fini di questo intervento. In primo luogo, mi riferisco a quei momenti in cui la disposizione retorica del testo porta a una particolare coscienza della voce da parte del lettore, in cui c’è come un’attuazione della voce. Contemporaneamente, si deve tener conto di alcuni momenti nei Canti in cui la voce viene raffigurata in primo piano, drammatizzata e in qualche modo problematizzata: questo è il caso della Canzone VII, Alla Primavera, o delle Favole antiche, e precisamente dei versi 58-80:
Né dell’umano affanno,
rigide balze, i luttuosi accenti
voi negletti ferìr mentre le vostre
paurose latebre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse
delle tenere membra. Ella per grotte,
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,
musico augel che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,
e d’ira e di pietà pallido il giorno.
Ma non cognato al nostro
il gener tuo; quelle tue varie note
dolor non forma, e te di colpa ignudo,
men caro assai la bruna valle asconde. [...]
Eco e Filomena, la ninfa e l’usignolo
7In margine, all’ombra della sequenza e della strutturazione delle canzoni, Eco in particolare proferisce un legame, o qualcosa di più labile, una interazione, tra Bruto e Saffo. Nella sua incarnazione moderna, il «vano error de’ venti» (v. 62) echeggia a sua volta lo «invan la sonnolenta aura…» di Bruto minore, v. 15, il tropo che regge tutta la canzone. Alla stessa stregua, nella veste di «misero spirito, / cui grave amore, cui duro fato escluse / delle tenere membra» (v. 63-65) l’evocazione della ninfa richiama sia il destino di Saffo, sia la forma delle sue parole indirizzate a Faonte: «E tu cui lungo / amore indarno, e lunga fede [...]» (Ultimo canto di Saffo, v. 58-59). Al di là di queste riverberazioni nel sistema canzoni, però, è senz’altro vero che i personaggi capitali di Alla primavera, Eco e Filomena, generano di per sé la tensione drammatica della canzone che si manifesta in una serie di differenziazioni. Sia l’una che l’altra sono scisse in significanti letterali e simbolici all’interno della narrazione leopardiana della perdita delle favole antiche. Le due figure sono divise anche in un altro modo e in un altro senso. Eco da una parte, Filomena dall’altra sono voci senza corpo, disincarnate, incorporee, separate dalla loro interiorità (come ninfa, come donna). Un’altra diversità, infine, suggella i loro destini rappresentativi. Eco si caratterizza come figura che esprime l’affanno umano (al quale le «rigide balze» un tempo non erano indifferenti) e rimane nel circuito senza uscita della lingua: la netta distinzione in negativo fra «grave amor» (v. 64) e «vano error» (v. 62) viene dissolta nel parallelismo formale (strutturale e acustico) dell’eco medesima. Filomena, l’usignolo, al contrario, benché di origine umana, è trasformata in destinataria dei mali e dei lamenti umani. Mentre la natura nel presente, dal quale ogni significato umano è fuggito, manda la voce del «musico augel», il suo contrario, la natura umanizzata di un altro tempo, la natura del mito, racconta di una voce tagliata o mutilata, la lingua di Filomena strappata, il segno dell’oltraggio e del dolore, il tempo della denuncia e del lamento. Paradossalmente, la natura umanizzata, la natura la cui perdita si lamenta, viene riconosciuta come essa stessa la scena della perdita e della privazione. La voce originaria del genere umano, come ha scritto Geoffrey Hartman, nel suo studio sul mito di Filomena, «è intrinsecamente elegiaca8 ».
8Accanto alla voce di Filomena la canzone torna su quella di Eco (le due sono spesso abbinate anche nella poesia umanistica e successiva9), un’Eco che è stata, una volta, il mezzo di trasmissione dei «luttuosi accenti» (v. 59) dell’ «umano affanno» (v. 58) a una natura solo in apparenza insensibile (rigide balze, paurose latebre, grotte, nudi scogli e desolati alberghi), capace di dare una risposta (sonora), per quanto qualificata e debole: i «luttuosi accenti» non erano «negletti» (v. 59); le sue/nostre «ambasce» erano «non neglette» (v. 67, corsivo nostro). Questo ruolo non viene recitato più nel mondo demitizzato dei tempi moderni, ma è da notare che se l’eco non può più ripetere le querele umane, questa funzione rimane e viene assunta, anche se molto dubitativamente, dal parlante in prima persona alla fine della canzone quando si rivolge direttamente alla natura: «Tu le cure infelici e i fati indegni / Tu de’ mortali ascolta, / Vaga natura, e la favilla antica / Rendi allo spirito mio» (v. 88-91), con la natura come «spettatrice almeno» (v. 95). Non è il poeta che debba rendere consapevole la natura di tutti i mali umani, ma è quello che, parlandole, la rende potenzialmente disponibile all’ascolto.
9La canzone, presa nel suo insieme, è volutamente precaria grazie alla sovrimposizione di almeno tre cornici: le favole antiche e la loro credibilità o meno, la natura interpellata dal parlante, la costatazione radicale di una possibile non-vita anche della natura. La situazione è riassunta brillantemente da Gennaro Savarese:
Certo, anche la «primavera odorata», la «ciprigna luce», le «rigide balze», il «musico augel», erano stati teatro o testimoni o protagonisti, cioè in vario modo partecipi di un tempo «nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana», e Leopardi, calandosi per breve tempo con la fantasia nella persona di un «antico», aveva dato a quella vita di «tutte le cose di questa terra» i nomi e le vicende di vecchi miti irreparabilmente scomparsi. Scomparsi i miti, restava la natura [...]: ma anche la fede nella sua esistenza era ormai minata nel poeta da un dubbio radicale ( «se tu pur vivi»), e al suo posto si postulava l’ipotesi di un’inquietante, indefinibile entità non umana (una «cosa»!), senziente e vedente10.
Che sia spettatrice, ma non spettatrice pietosa, né indifferente.
10Ma i miti, se sono scomparsi, persistono in una specie di mezza vita, una vita che di tanto in tanto ritorna alla superficie, per chiedere ragione, per riproporre l’origine e il mistero del loro status poetico. E, per rispondere, nel mondo demitizzato la voce infragilita passa in eredità al poeta contemporaneo. Nel corso della tradizione, il lamento di Eco, che è e non è parola, è e non è voce, viene a confrontarsi con la privazione assoluta di voce e parola in Filomena, privazione però che dà luogo alla rappresentazione visiva della parola mancante, servendosi di altri mezzi. È forse qui possibile parlare di un’ «immagine della voce», intonandosi con le «voci del mondo», come fa Francis Bacon in pieno Seicento, quando scrive di un vero «discorso […] che riecheggia fedelissimamente le voci del mondo stesso, scritto come se fosse dettato dal mondo stesso, essendo nient’altro che la sua immagine e il suo riflesso, a cui non aggiunge nulla di sé, ma che soltanto reitera e sostituisce11 »? La purezza della semplice reiterazione rimanda ad un circolo perpetuo della significazione che, nella storia del mito, interagisce con una fluidità interminabile, in cui nessun significato è veramente fisso. Nel nostro caso, la storia di Eco si intreccia con quella di Filomena perché nella sua metamorfosi la chiacchierona (ricordiamoci che, secondo Ovidio, Eco è punita da Giunone che la condanna per le sue chiacchiere interminabili che avrebbero il compito di mascherare, alle orecchie di Giunone stessa, gli amori di Giove − un dettaglio omesso da Leopardi, che quasi elimina anche Narciso, se non fosse per il «gravo amor» della ninfa) è trasformata in immagine della voce. John Hollander, librettista e critico letterario che ha scritto un bellissimo libro su The Figure of Echo, osserva, seguendo il racconto di Ovidio, che non si può staccare la sua storia dal racconto di Narciso il quale gira intorno alla circolarità propugnata da Bacon: l’intrecciarsi reciproco fra «lo svuotamento e la plenitudine del soggetto, l’assorbimento e la riflessione», in perfetta sintonia con l’incorporeità della ninfa12.
11«Una ragazza muore, nasce il canto. […] La voce è intrinsecamente elegiaca» − abbiamo già citato questa bella formulazione di Geoffrey Hartman. Filomena deve perdere la sua voce per dare voce al telaio, o più precisamente alla spola, quella che, in assenza della lingua, narrerà l’orrore dello stupro che ha subito alle mani del cognato (ripreso con il suo seguito − Iti, il figlio della sorella Procne, ammazzato, cucinato e dato in pasto al padre tiranno − da Shakespeare nel Tito Andronico). La storia di Filomena, «gli antichi danni e scellerato scorno» (v. 75), l’atroce violenza di cui la giovane è vittima ma anche vincitrice, sono indicati da Leopardi, quasi si potrebbe dire son tessuti, con grande discrezione. Filomena deve perdere la sua voce per dare voce alla spola, Eco deve diventare il cavo, o la caverna, (le latebre) che risuona, riverbera. Questi racconti offrono un’etiologia della fiction (da dove vengono le parole dei poeti?), perché le parole in un testo (il tessuto, di nuovo) parlino, abbiano voce. Sappiamo che la nostalgia di una voce inviolabile è fondata sul fatto che una tale voce è una finzione. È sempre associata ad una perdita o ad una violazione precedente, come viene perfettamente espresso dal mito di Filomena.
Notes de bas de page
1 Una trattazione più estesa si troverà nel saggio «Voice, speaking, silence in Leopardi’s verse» in The Oxford Handbook of European Romanticism, a cura di Paul Hamilton, Oxford University Press, di prossima pubblicazione (2015).
2 G. W. F. Hegel, Werke, 15 (Vorlesungen über die Ästhetik III), Frankfurt-am-Main, Suhrkamp, 1970, p. 444.
3 Non è facile tradurre overhear. È qualcosa di più di un «ascoltare, o sentire, per caso» ma non è un «origliare». In ogni caso, il senso viene chiarito dal seguito.
4 J. Stuart Mill, What Is Poetry? (1833), ora in Essays on Poetry, a cura di F. Parvin Sharpless, Columbia S. C., University of South Carolina Press, 1976, p. 12: «L’eloquenza è sentita, la poesia è ascoltata come per caso. L’eloquenza presuppone un pubblico; la specificità della poesia ci sembra che consista nella totale inconsapevolezza da parte del poeta dell’esistenza di un ascoltatore. La poesia è il sentimento che si esprime a se stesso, in momenti di solitudine».
5 M. H. Abrams, Structure and Style in the Greater Romantic Lyric (1965), ora in Romanticism and Cosciousness, a cura di H. Bloom, New York, Norton, 1970, p. 201.
6 J. Keats, lettera a Richard Woodhouse del 27 ottobre 1818, in Letters of John Keats, a cura di Robert Gittings, Oxford, OUP, 1970, p. 157-158 (dove appare anche la frase «the camelion Poet»). Si veda anche l’introduzione di M. Ellmann al suo The Poetics of Impersonality. T. S. Eliot and Ezra Pound, [1987], Edimburgo, Edinburgh University Press, 2013.
7 Lettera a Luigi De Sinner del 24 maggio 1832.
8 G. H. Hartman, «Evening Star and Evening Land», in his The Fate of Reading, Chicago, University of Chicago Press, 1975, p. 163.
9 Cfr. F. Tateo, «Alla Primavera o delle favole antiche», in AA. VV., Letture leopardiane, a cura di M. Dell’Aquila, Roma, Fondazione Piazzolla, 1993, p. 29-48.
10 G. Savarese, «Alla Primavera, o delle favole antiche», in AA. VV., Lectura Leopardiana. I quarantuno Canti e I nuovi credenti, a cura di A. Maglione, Venezia, Marsilio, 2003, p. 139.
11 Francis Bacon, Of the advancement and proficiencie of learning: or the partitions of sciences [De dignitate et augmentis scientiarum: libri IX], London, Thomas Williams, 1674: «discourse… which echoes most faithfully the voices of the world itself, and is written as it were at the world’s own dictation, being nothing else than the image and reflection thereof, to which it adds nothing of its own, but only iterates and gives it back» (libro 2).
12 J. Hollander, The Figure of Echo: A Mode of Allusion in Milton and After, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1981, p. 8.
Auteur
Université de Birmingham
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