L’anno mille: approcci culturali
p. 317-332
Texte intégral
1Nella diocesi di Treviri c’è un monastero femminile, detto di Lutzerath. Colà vengono accolte bambine non prima dei sette anni perché conservino la loro semplicità. In quel monastero di Lutzerath viveva una vergine adulta ma così ingenue nelle cose del mondo che a stento sapeva discernere un uomo da una pecora, e questo perché prima della sua conversione non aveva alcuna esperienza del mondo. Un giorno la ragazza vede affacciarsi una capra sul muro di cinta del monastero. Non sapendo cosa fosse, va da una consorella e le chiede «Che cos’è?» L’altra, sorridendo a tanta semplicità, risponde «Quella è una donna laica! Quando invecchiano, crescono loro la barba e le corna!» Altro episodio: «Nella strada pubblica che porta a Roma due vecchiacce, ubriacone e fetide, vivevano insieme in un tugurio. Quando uno straniero si fermava presso di loro, lo tramutavano in asino o in maiale e lo vendevano ai mercanti per sete di soldi. Una notte arrivò da loro un giovane che sbarcava la vita facendo l’istrione. Era un plebeo e lo tramutarono in asino». Queste due brevi «scene» si direbbero tipiche di un’età medievale dove la paura del futuro e l’inganno delle sembianze sono molto prossime alla paura per la vita. Si direbbero quadri tipici del Mille, ed invece il racconto della capra/donna è di Cesario di Heisterbach (1180-1240), il secondo racconto dell’istrione mutato in asino è di Guglielmo di Malmesbury (1080-1140): xiii e xii secolo allineano storie provenienti da un Medioevo ormai così maturo, così sapiente e sicuro di se stesso, da poter permettersi di giocare con le metamorfosi, con le anamorfosi e con i terrori delle trasformazioni. Questa alterazione delle sembianze viene forse da lontano? In una pagina di Raoul Glaber sta scritto: «Al tempo in cui vivevo nel monastero di Champeaux, una notte… comparve davanti a me, ai piedi del mio letto, una specie di nano orribile a vedersi. Era di statura modesta, con un collo gracile, un volto emaciato, occhi nerissimi, la fronte rugosa e aggrinzita, il naso schiacciato, la bocca prominente, le labbra tumide, il mento stretto e sfuggente, una barba caprina, le orecchie pelose ed aguzze, i capelli irti e scomposti,, i denti di cane, il cranio a punta, il petto gonfio, il dorso gibboso. Le natiche frementi, le vesti sordide… tutto il corpo curvo in avanti… Questo essere afferrò l’estremità del materasso e scosse violentemente tutto il letto…»: un’iconografia letteraria già preparata per tutte le diavolerie e la drolerie descrittiva dei secoli seguenti. Nella letteratura dell’anno Mille le trasformazioni sono soprattutto una caratteristica, quasi una prerogativa, del Diavolo e, considerando i testi fra x e xi secolo, è possibile riferirsi ad un quadro ben più complesso, del tutto lontano dalle emozioni spesso attribuite al caso del Mille.
2E’ stato ormai dimostrato come il sentimento del tempo, nel x secolo, diventi un sentimento dell’io e nasca da motivazioni prevalentemente autobiografiche: lo testimoniano scrittori come Liutprando di Cremona, messo imperiale degli Ottoni, che si serve della propria cultura per narrare le esperienze difficili ed amarissime dell’esilio (Antapodosis) e del suo soggiorno in un mondo inospitale e nemico (Relatio de legatione constantinopolitana); oppure Raterio di Verona, autore di Phrenesis e Confessio, opere che assegnano una precisa identità a tutta le generazione che vive il passaggio del primo millennio. Otlone di Sant’Emmeram (1010-1070) non è diverso in quest’affermazione della fragilità dell’individuo: il Liber de temptationibus suis è il manifesto della debolezza delle cose dell’uomo e della storia, dell’incertezza del futuro e dell’insicurezza del passato. La phrenesis prefigura l’inquietudine per quello che verrà e un globale disadattamento del singolo. Ma non c’è bisogno sempre dei terrori del Mille: sangue e ragnatele sono piovute dal cielo anche in età merovingia e carolingia, i malesseri eretici hanno serpeggiato lungo tutto l’alto Medioevo, invasioni e castighi di Dio hanno toccato il pubblico e il privato e già Gregorio di Tours, alla fine del vi secolo, ricorda che se due coniugi s’accoppiano in Quaresima nascerà un bambino mostruoso, come un sacco senza scheletro. Dunque non l’emozione deve suggerire l’approccio a quel segmento di tempo fra x e xi secolo; perché proprio in quel segmento di Medioevo sta la scoperta di durature certezze: la scienza, il rinnovamento etnico-culturale, le rivoluzioni ideologiche ed ecclesiologiche, il gusto per le culture altre. E mentre l’oralità si dispone secondo un circuito che sembra rispettare i cinque momenti fondamentali di produzione, trasmissione, ricezione, conservazione e ripetizione, i temi della pace, dell’espiazione, del pellegrinaggio e del riannuncio di Dio pareggiano in quella civiltà del legno i passaggi, le distruzioni, le regressioni demografiche, i pochi manufatti in ferro considerati autentica ricchezza (i racconti altomedievali spesso fotografano contadini disperati per aver perduto il falcetto caduto nel pozzo…). Tutto questo delinea un sentimento globale del «passaggio» dove alla fame, alle carestie, ai peccati ed alle purificazioni provvedono i santi, gli angeli, i segni del cielo, le preghiere dei pellegrini, i programmi di rinnovo degli ecclesiastici. Nella letteratura fra x e xi secolo si scopre che il miracolo opera spesso in chiave di soccorso medico o alimentare. Qualcuno guarisce a Salerno, ma occorreva arrivarci!, e pochissimi ci riuscivano, pur nobili, arcivescovi o re. A Chartres Richero di Reims studia gli Aforismi d’Ippocrate, ma per arrivarci quali inenarrabili fatiche, e quanti pericoli passati in mezzo al nubifragio, con i ponti a pezzi e perduto nel bosco. Cordoba è lontanissima, accessibile solo con lettera di presentazione: forse Gerberto, secondo Guglielmo di Malmesbury, vi trascorre qualche tempo, ma finché non arrivano le traduzioni di Costantino Africano anche quella cultura araba è poco praticabile. L’apocalisse, il disagio della condizione umana nel x secolo sta nella pratica del giorno-dopo-giorno, e chbi vive dentro quei giorni non ha quasi modo di capire quei mesi febbrili: Singuli dies singulos mihi annos efficiunt, «i giorni mi valgono anni»: la frase di Gerberto d’Aurillac è scritta nel giugno/luglio del 997 all’imperatore Ottone III. Gerberto è in esilio in Germania, risiede presso la Corte ottoniana in qualità di consigliere personale per gli affari politici, e di lì a pochissimo tempo lo aspetta la nomina ad arcivescovo di Ravenna, poi, nel 999, l’elezione al soglio pontificio. Ma i quei giorni che valgono anni Gerberto si sente plenus curarum e plenus sollicitudinum nell’affrontare dies noctesque; i suoi legati non tornano ancora a dargli notizie e nessuno dell’entourage imperiale lo ha contattato: Gerberto si sente solo, ammira la pazienza di Ottone ed è convinto che i torti da lui subiti da parte dei potenti italici siano in realtà rivolti alla persona stessa dell’imperatore. La sensazione che quei giorni siano lunghi come anni introduce il tema del sentimento del tempo avvertito passare e vissuto autobiograficamente da uomini ormai alle soglie dell’anno Mille. Abbone di Fleury, con il suo cattivo carattere, riesce a tenersi più distaccato dalle cose del mondo, ma usa il suo Apologeticus contro Roberto il Pio, re di Francia: l’opera è ironicamente dedicata a lui, ma poi tutta la narrazione risente della follia collettiva che si sparge in Lorena: un prete va dicendo che quando il 25 marzo, giorno in cui la Chiesa celebra l’Incarnazione di Cristo con l’Annuncio alla Vergine Maria, sarebbe coinciso con il Venerdì santo, allora sarebbe finito il mondo. Era però già successo due volte, nel I secolo e nel 992, e nulla era accaduto. Abbone è un sapiente troppo lucido e di troppo complessa fede per credere al millenarismo. Sono i tempi della vita incestuosa di re Roberto con la regina Berta nonostante l’anatema della Chiesa; tempi di Arnolfo, vescovo d’Orléans, lui così ambizioso e vanitoso, il quale proclama che tutta il regno dei Franchi è nella morsa dell’Anticristo: propaganda, e nessuno ci crede davvero. Abbone afferma che tutto questo si deve all’imbecillità degli uomini, alla loro nequizia. Nel 999 Gerberto, ormai papa, si occupa di utt’altro. È stato assassinato un vescovo in Italia settentrionale, c’è grande fermento intorno alla proprietà ecclesiastica e Ottone III, Roma, fa grandi progetti per il futuro: il restauro dei monumenti antichi dell’Urbe, la costruzione d’una grande chiesa dedicata a san Bartolomeo da edificare sull’Isola Tiberina (ma l’imperatore non sa che i Beneventani gli hanno rifilato un falso consegnando le reliquie di san Mauro al posto di quelle di san Bartolomeo!). La Polonia, ieri come oggi, è al centro dell’attenzione: Silvestro II si prepara a nominare un nuovo arcivescovo e Ottone III gli propone di ritrovarsi pellegrini a Gniezno, la santa città dove sono custodite le reliquie di Adalberto di Praga, grande amico di Gerberto. Giorni di programmi e di ricchezze scambiate fra re Boleslao e Ottone; intanto circolano voci che dicono Carlo Magno ancora miracolosamente in vita, non defunto ma solo addormentato, come uno dei Dormienti, contributo del Mille al mito dell’Antichità; una bella storia che sarebbe servita all’implacabile penna delle barzellette carolingie di Notkero il Balbo. E per cominciare il secolo senza miti troppo ingombranti Ottone III fa aprire la tomba di Carlo ad Aquisgrana: «Entrammo fino a raggiungere Carlo… Egli non giaceva steso, come gli altri defunti, ma sedeva su di una sedia come fosse ancora vivo… Una corona d’oro sul capo, uno scettro fra le mani coperte dai guanti attraverso i quali erano cresciute le unghie… Ci inginocchiammo e lo adorammo. L’imperatore Ottone coprì il corpo di Carlo con una veste bianca e gli fece tagliare le unghie. Nessuna delle sue membra era corrotta o disfatta, tranne un piccolo pezzo della punta del naso: Ottone ordinò che questa venisse risistemata con l’oro. Poi l’imperatore prese un dente dalla bocca di Carlo Magno e si allontanò». Si dice che dopo l’incontro con il corpo incorrotto di Carlo Ottone III cominciò a soffrire di incubi, e quando nel mese di giugno dell’anno Mille i monaci della Reichenau offrirono all’imperatore una serie di quaranta illuminazioni dedicate a scene tratte dall’ultimo libro della Bibbia Ottone capì che stava per compiersi il tempo suo; poi, per fortuna, dimentica. Tornato a Roma presso l’amico e maestro Silvestro II ritrova la fiducia: il mondo non sarebbe finito. Dentro questo sentimento del tempo e del passaggio del Mille si squaderna il più complesso interrogativo su come sia inteso il fluire della condizione umana sbarrata dalla visione apocalittica di Giovanni eppure tutta inarcata verso l’oltre, verso un’espansione dell’esistenza che già il x secolo prefigura.
3Non la Visio Danielis, non gli ammonimenti delle Beatitudini: per arrivare al De Antichristo di Adso di Montier-en-Der occorre muovere dalla Rivelazione (Apokalypsis): una voce suggerisce a Giovanni di mettere per iscritto ciò che avrebbe visto e di mandarlo alle Sette Chiese della provincia d’Asia; egli vide sette lampade d’oro intorno ad una figura con i capelli bianchissimi, gli occhi fiammeggianti, i piedi incandescenti come il metallo quand’è fuso, e la sua voce era immensa e clamorosa. Nella destra reggeva sette stelle, dalla bocca gli usciva una spada. Poi Giovanni vide una porta nel cielo, oltre la porta un trono dov’era seduto un essere come avvolto da un nembo iridescente e smeraldino. Accanto al trono ventiquattro figure di vegliardi, davanti sette lampade ardenti; comparivano anche un leone, un’aquila, un toro, un uomo. A destra dell’abitatore del trono stava un libro con sette sigilli che nessuno poteva aprire. Poi venne un Agnello, di sette corna e sette occhi, adorato dagli esseri intorno al trono che offrivano coppe d’oro, profumi, suoni d’arpa mentre risuonava un coro d’angeli innumerevoli. L’Agnello aprì il primo sigillo: un cavaliere vittorioso in groppa ad un cavallo bianco; il secondo sigillo liberò un cavallo fulvo con sopra un guerriero agitante una grande spada; il terzo sigillo diede un cavallo nero e un cavaliere con la bilancia in mano; il quarto sigillo fu la Morte che montava un cavallo nero; al quinto sigillo apparvero i martiri, al sesto si scatenò un terremoto senza fine, il sole diventò nero, la luna di sangue, le stelle caddero e il cielo si arrotolò su se stesso mentre i viventi fuggivano senza sapere dove, e quello fu il dies irae. Poi tutto tacque e si fermò; apparve una folla infinita coperta di candide vesti: erano gli Eletti di Dio, e c’era silenzio dovunque. Infine i sette angeli ritti davanti al trono di Dio suonarono le sette trombe; per ognuna accadeva qualcosa: grandine e fuoco, la terza parte del mare diventava sangue, morivano tutti i viventi, cadevano gli astri, si apriva l’abisso e ne uscivano fumi spessi e nuvole di cavallette. Si vedevano angeli alla testa d’eserciti dalle corazze di fuoco, cavalli con testa di leone e serpenti per coda. Prima che suonasse la settima tromba ecco apparire un altro angelo recante un piccolo libro e lo offre da mangiare a Giovanni: è la sua investitura profetica, secondo il modello di Ezechiele. Il libro in bocca sapeva di miele, ma nelle viscere era amarissimo. E mentre due innominati testimoni (sono forse Pietro e Paolo) muoiono, suona la settima tromba e, fra tuoni, fulmini, urla e preghiere, appare l’Arca dell’Alleanza e si verificano sette prodigi: una Donna, vestita di sole e di luna, con dodici stelle a corona; un Drago rosso con sette stelle coronate da diademi e dieci corna; il Figlio è assunto in cielo accanto a Dio; una battaglia terribile si scatena fra Michele arcangelo, gli angeli e il Drago, che tenta di colpire la Donna e si ferma sulla riva del mare; dal mare sorge la Bestia, con dieci corna e sette teste, una pantera anfibia con zampe d’oro e fauci di leone; la terra intera rende omaggio alla Bestia e manda bestemmie contro Dio. La Bestia uccide i Santi, mentre un’altra Bestia, sorta dalla terra, rende succubi tutti i viventi. Ma arriva l’ora della riscossa: appare l’Agnello con centoquarantaquattromila Eletti e gli Angeli annunciano la caduta di Babilonia e la fine d’ogni confusione; sopra una nuvola bianca si presenta, giudice supremo, una figura coronata che porta una falce affilata come tutti gli Angeli che le stanno intorno. Adesso c’è solo sangue e massacro: sette flagelli abbattono la Bestia. Nel cielo si apre la Tenda della Testimonianza e gli Angeli dei sette flagelli portano sette coppe dell’ira di Dio e, appena quella si versa in terra, sparge terrore, morte, ulcere maligne per l’uomo, sangue di morti che tramuta l’acqua del mare, il sole brucia i sopravvissuti, il buio piomba dovunque insieme all’arsura; dalla bocca del Drago e delle due Bestie escono tre spiriti maledetti in forma di rane. Tutti i re della terra sono chiamati alla battaglia finale tra le forse del Male e del Bene; Babilonia è vinta, l’ira di Dio assume le sembianze trionfatrici d’una Donna seduta sulla Bestia scarlatta con sette teste e dieci corna; la Donna è vestita di porpora, oro e gemme, e reca un calice dove si racchiudono tutte le impudicizie. Babilonia è caduta mentre accadono gli ultimi prodigi: un cavallo bianco nel cielo, guidato da un Cavaliere, conduce bianchi eserciti che imprigionano la Bestia e i suoi seguaci: precipitano tutti in un lago ardente di zolfo. Il Drago è incatenato da un Angelo dentro l’Abisso; il Drago è Satana, e dopo mille anni tornerà brevemente per sedurre le genti, ma sarà ancora sconfitto e per sempre e scagliato nella palude di zolfo. Allora Cristo e i suoi Beati regneranno per mille anni. A questo punto si attuerà il Giudizio Finale e tutti saranno riuniti per essere distinti in Eletti e Dannati. Alla fine della visione di Giovanni appare, in discesa dal cielo, la Città Santa, la Gerusalemme Celeste, la Sposa, la Donna dell’Agnello, con le sue mura di cinta, retta su dodici basamenti, ciascuno con un nome dei Dodici Apostoli, città costruita nell’oro puro con fondamenta di gemme. Diaspro, calcedonio, smeraldo, sardonico, zaffiro, crisolito, berillio, topazio, sardio, giacinto, ametista, crisoprazio. Dal trono di Dio sgorga una sorgente salvifica mentre Giovanni ascolta per bocca d’un Angelo le profezie sulla salvezza finale e l’esortazione a divulgare la sua visione.
4Colori, sensazioni, riverberi: l’emotività tutta visiva di queste descrizioni prepara un immenso tessuto iconografico ove esseri, comportamenti, strutture di corteo, gesti e ruoli di personaggi offrono un landscape ideale per l’analisi delle composizioni e delle rappresentazioni dei treni apocalittici. L’idea medievale è che nel futuro del mondo si sarebbero succeduti l’avvento dell’Anticristo, il Giudizio Finale e l’affermazione della Gerusalemme Celeste. Gioacchino da Fiore teorizza, invece, le «tre età»: del Padre (i fatti del popolo d’Israele), che è Età della Legge; del Figlio, che è Età della Grazia, ancora in corso; e la terza, Età dello Spirito e dell’Amore, che si lega all’attesa del ritorno di Cristo. Una formulazione siffatta, di tanta portata allegorica, diventa un ideale ipertesto per tardoantichi e medievali, un’occasione eccezionale e rivelata attraverso similitudini, metafore e simboli che rappresentano una straordinaria officina compilativa per opere che, fin dal ii/iv secolo e oltre, costituiscono il significativo corpus delle Apocalissi apocrife alle quali, non meno significativamente, il x secolo aggiunge un’opera, il De consummatione mundi et de Antichristo et secundo adventu Domini nostri Jesu Christi falsamente attribuito al beatissimus Hippolytus episcopus, che è tutta una tremenda tirata contro gli Ebrei identificati con gli Empi e dove si contamina la figura dell’Anticristo identificandola con Satana, mentre la koinè canonica ha necessità di credere l’Anticristo un uomo. Tertulliano, Ireneo, Lattanzio, Gerolamo, Agostino, Beato di Llebana provano le loro chiavi di lettura nell’interpretazione d’un testo che può essere affrontato, nel trascorrere dei secoli, senza avvertire come troppo imminente il computo dell’ora, lo scoccare del destino. Questo spiega bene perché una cosa sia ragionare dell’Apocalisse e della cadenza millenaristica, e tutt’altra cosa sia ragionare del Mille. Qui si sommano due vettori: l’uno è un terribile ma salutifero Concorde decollato da Patmos mille anni prima, l’altro è un volo charter che ogni sera parte dalle ultime piste praticabili del x secolo, dove gruppi differenti gestiscono privati aeroporti e nessuna forza internazionale di pace governa il mondo. Quasi tutti gli scrittori dell’anno Mille sono su questi voli charter senza domani, altri, più colti e pazienti, aspettano che il Concorde da Patmos faccia scalo nel x secolo e salgono sui pochissimi posti rimasti. Sul Concorde non c’è Raoul Glaber, ma ci sono Gerberto d’Aurillac ed Abbone di Fleury; altri voli charter di Longobardi, Franchi e Sassoni sono caduti o non danno più segnali sugli schermi della letteratura; i Normanni, che non sanno volare, hanno preferito navi, cavalli e carri.
5Questa ciclicità delle presenze collettive ed individuali appartiene alla struttura stessa dell’Apocalisse dove si legge che la Bestia, o Babilonia, è abbattuta, ma in un altro segmento narrativo la sua forza simbolica continua a fabbricare l’icona emotiva d’un modo che ha il Medioevo d’intendere la storia e, ben più ampiamente, d’intendere una nozione atemporale di «tempo» entro cui agisce l’incessante meccanismo della storia come dinamica di accadimenti. L’Apocalisse fissa il problema della storia, e la cultura cristiana inaugura la questione della storia; la cultura pagana, invece, è una cultura priva di storia, per i medievali: gli Dei pensano soprattutto ai fatti che li riguardano, intervengono nei fatti dell’uomo quasi come in più o meno cruente baruffe di campielli, ma il corso del tempo e del mondo non si sa cosa siano. Il mito è una visita ai Propilei delle Divinità, gli interventi sull’umano sono rivolti a casi singoli, piccoli gruppi; l’unica volta che nella cultura pagana si affronta il tema del destino accade grazie a Virgilio: per questo il Medioevo lo ama tanto. L’Eneide è la promessa d’una Dea al suo Eroe per la storia che verrà al suo popolo, la Quarta Ecloga, pur riferendosi certo al presente, è leggibile e subito letta dai medievali in chiave pesantemente escatologica. Per una cultura pagana senza la storia, c’è la cultura ebraica intrisa di profetismo, eppure si tratta di profezie applicate al destino d’un popolo e non al destino del mondo, non al sentimento del tempo. Occorre aspettare che nasca Cristo e, con Lui, il tema della Redenzione. Il Cristianesimo e l’Islam vivono completamente questa filosofia del tempo «nuovo»; nel 1997 Youssef Cahin, con il suo film Il destino, ha ben individuato il disperato merito e la disgraziata fortuna del Medioevo fra x e xii secolo d’aver finalmente legato alle idee e al sapere un sentimento della storia e del tempo che travalicasse l’effimero. La Creazione, il Peccato, la Redenzione: una prospettiva di viaggio storico con un suo check-up a mille anni, quasi fossero i primi mille chilometri del tempo vero. Anni misurati in distanza, nella dimensione fragile dell’individuo, che diventano i «giorni come anni» di Gerberto d’Aurillac. Il maestro di Reims aveva imparato questo dai suoi libri, dalle sue letture di Antico e Tardoantico, da quando la tradizione patristica scopre che l’Apocalisse, così visionaria e così profetica, è tutta costruita sul tempo che verrà, su quel che deve accadere, additando alla coscienza dell’uomo medievale i modi d’educarsi al futuro. Le due visioni, di Daniele e di Ezechiele, che ne costituiscono l’antefatto letterario, preparano per l’Apocalisse il doppio percorso che il Medioevo le assegnerà: il primato teologico espresso dal De Civitate Dei, con quel che ne consegue, ma, insieme, avvio per tutti i dibattiti ereticali che interpretano le allegorie del testo di Giovanni in forma di contestazione al potere d’una Chiesa ritenuta erronea. E proprio a partire dal x secolo questo percorso conosce molti frequentatori. Come dire che il sentimento del tempo implica un sentimento della fine dei tempi (l’apocalisse, appunto): da questo è posta in discussione la nozione stessa di «storia». Il capitolo 20 dell’Apocalisse è forse il testo che il Medioevo ha più a lungo dibattuto: si tratta del capitolo dell’Angelo che afferra Satana e lo lega per mille anni. Sulla base di questo racconto il Cristiano, nell’alto e centrale Medioevo, sa che ci sarà una Seconda Venuta, una nuova Età dell’Oro, un secondo prevalere del Diavolo e del suo profeta, l’Anticristo; infine verrà il tempo del Giudizio Finale. Da quando vadano calcolati i mille anni è trascurabile: dalla Nascita di Gesù, dalla Passione, dall’inizio o dalla fine delle Persecuzioni possono allora diventare mille, milletrentatre, millequattrocento, diecimila, ma resta che al Medioevo quegli anni sembrano brevi e vicini come giorni. E poi, calcoli a parte, la certezza assoluta resta sullo psuedo-profeta compagno di Satana, cioè l’Anticristo. Ippolito, Tertulliano, Giustino, Ireneo di Lione, Origene, Lattanzio, Ticonio, Agostino: i primi secoli dopo Cristo sembrano già cominciare a prepararsi alla Fine dei Tempi, che sia il Mille o quando è altra cosa, ma che il sentimento del tempo di questi secoli sia millenaristico è sicuro. Con il trascorrere dei secoli l’alto Medioevo scopre una realtà inattesa, culturalmente non prevista: l’esistenza dell’apocalisse nel vissuto quotidiano.
6Con più basso profilo di scrittore capriccioso ma partecipe, Raoul Glaber, sempre pronto a dileguarsi in tutti i monasteri (in questo di tempra molto più fragile di Otlone di Sant’Emmeram), decide di raccontare a proprio modo il tempo suo: «Stava approssimandosi l’anno millesimo dell’Incarnazione di Cristo, millesimo dalla Passione dello stesso Salvatore…» e di seguito la descrizione, celeberrima, di desolazioni infinite: carestie, piogge, la terra cambiata in fango, erbe selvatiche e zizzania dovunque… Mangiati gli uccelli e la selvaggina, gli uomini si ridussero alle carogne, ad altre orribili cose, alle radici, alle erbe dei fiumi, perfino al cannibalismo; Raoul scrive così: «I viaggiatori venivano rapiti da gente più forte… le loro membra erano fatte a pezzi, cotte e mangiate… Molti, che si spostavano per sfuggire alla carestia e, strada facendo, avevano trovato ospitalità, furono sgozzati di notte e servirono da cibo a quelli che li avevano accolti. Altri, adescando bambini con la vista d’un frutto o di un uovo, li attiravano in luoghi appartati, li massacravano e li divoravano… Così erano quasi più sicure le pecore che gli uomini. A tal punto ci si era abituati a mangiare carne umana che qualcuno ne portò di cotta per venderla in piazza…»; il pane di terra d’argilla e di crusca, i corpi insepolti, le facce scheletrite dei vivi, i corpi gonfi… La peste di Raoul ha molti nomi nell’alto Medioevo popolare e orale in attesa della fine dei tempi: lebbra, ulcere, eczemi (noti come «fuoco di sant’Antonio»), ed in giro solo ciechi, storpi, pazzi, epilettici, dementi. Nel x secolo si contano in tutt’Europa appena ventidue milioni d’abitanti e una città è detta grande quando dall’una all’altra porta si misurano quattrocento passi. Accanto ai disastri naturali, alle fosse comuni, alla fame, il resto lo fanno le guerre. Molti anni fa una Settimana di studi di Spoleto ha dimostrato che dal x secolo comincia una rinascita dell’Europa medievale grazie a nuove, intense colture di lenticchie, fagioli, fave e piselli; sul piano intellettuale, però, accade qualcosa di più complesso e di meno legato ai consumi che dicono molto ma non abbastanza sul cambiamento della qualità della vita. Nel totale silenzio di scrittori illustri quali Ademaro di Chabannes, Richero di Reims, Adalberone di Laon, è certo la descrizione di Raoul Glaber che può apparire «bassa» ma vera, e chi leggeva l’Apocalisse poteva davvero credere che quella fosse la prova generale per la messa in scena del testo. Poi, il 1° gennaio del Mille nulla accade e «tre anni circa dopo l’anno Mille la terra prese a coprirsi d’un bianco mantello di chiese»: così Raoul. Da queste margherite benedette che coprono il mondo nasce una vita nuova dove, tuttavia, si rimeditano inquietudini antiche. Al Mille e al millenarismo, fin ad allora, si allude a tratti: nel vii secolo il monaco Marculfo ricorda un terminus mundi appropinquans; nel Concilio di Trosly, del 909, si esortano vescovi e fedeli a prepararsi al Giorni del Giudizio; Adso di Montier-en-Der, nel 954, scrive il Libellus de Antichristo per precisare che l’Anticristo è un ebreo, figlio d’una puttana e d’un disgraziato educato in Palestina alla magia nera dopo che il Diavolo aveva presenziato a quel nefasto concepimento. Adso non è un grande scrittore, forse lavora ben pagato su committenza del re dei Franchi, forse è in mala fede ed usa l’Anticristo per spaventare i dissidenti e chiamare all’unità sotto la Corona. Ma il problema vero restano le successioni regie, le lotte fra Carolingi e Capetingi; Gerberto le vive tutte sulla propria pelle: come ha bene spiegato Riché, egli sta tutto all’interno della bufera di questi dissidi politico-ecclesiologici. In Anglia gli enciclopedisti registrano gli eventi sentendosene lontani; in Italia la storiografia sembra ignorare tutto questo ed anche la critica ha poco spiegato il perché di quest’assenza d’attenzione nella letteratura altomedievale; in Germania tutt’altra musica: Tietmaro di Merseburg scrive: «Arrivato il millesimo anno dal parto salvatore della Vergine senza peccato, si vede brillare sul mondo un mattino radioso». Il «mantello di chiese» di Raoul Glaber sembrerebbe confermare un nuovo caos intorno al 1033, ma forse Raoul non capisce il senso del sorgere delle eresie e, in coscienza, egli stesso ha forse qualcosa da farsi perdonare per la propria incompostezza nell’Ordine. Egli è stato spesso emarginato e la sua opinione conferma ancora quanto l’approccio con il Mille sia connotato dal coinvolgimento autobiografico.
7La letteratura è oltre la storia, ne rappresenta un’elaborazione dove gli accadimenti si dispongono su di un registro critico e creativo di maggiori implicanze. Nel Medioevo questa separazione, questo apparente dissidio non possono esistere perché la storia è ingrediente di ogni narrazione e, con l’evolversi della coscienza degli scrittori, perfino il sentimento dell’io serve a perimetrare la storia: la frase di Gerberto ricorda quanto sia riuscito il Medioevo, nel x secolo, a scandire il tempo storico sulla base del tempo personale. Stessa cosa vale per il Liutprando della Relatio de legatione constantinopolitana, dove i tempi del proprio malessere personale si sovrappongono, nello scrittore, alla valutazione dell’andamento politico dei fatti; e identico comportamento si riscontra in Raterio che scandisce la propria avventura politica in relazione agli accidenti personali; così Richero di Reims, così Reginone di Prum… Tutto questo non sarebbe mai potuto accadere prima del x secolo, anche se forse Reginone di Prum aspetta un nuovo esegeta che ne valuti le possibili originalità, le auspicabili eterodossie.
8Il sentimento della storia diventa, nel x secolo, un sentimento dell’io; la finitezza dell’individuo diventa metafora della fragilità delle cose umane, e questa fragilità è anticipo dell’esposizione costante all’ostilità del futuro, e dentro il futuro pulsa l’inquieto ronzio delle profezie sulla morte, il sentimento della fine che verrà. Tutti ingredienti del millenarismo se non del Mille, ma tutti ingredienti di quella phrenesis che sta dentro il x secolo e forse si capisce anche da questo il perché. Ma per lo storico l’apocalisse può stare dentro ogni giorno. Mentre il Mille di Duby indaga dentro l’oralità di una psicologia collettiva e l’altro di Le Goff si salda all’evoluzione degli oggetti e delle tecniche, il merito maggiore del Mille di Focillon sta nel dimostrare che il mondo dei medievali compone, nei testi, un più grande testo emotivo dove le immagini della scultura e della miniatura concorrono ad una rappresentazione della partecipazione popolare. Mille e millenarismo sono due formidabili ipertesti dove la concomitanza fra emotività popolare e tradizioni orali, fondamentali per la scrittura di Raoul Glaber, rappresentano il perimetro entro il quale è possibile situare paure ed ansie al di fuori delle quali, tuttavia, si fissano importi di sapere, di dottrina e di conquiste della coscienza che restano in eredità ai tempi seguenti. Ottone di Frisinga, Ruperto di Deutz, Anselmo di Havelberg, ma soprattutto l’Ildegarda di Bingen del Liber Scivias meditano ancora l’Apocalisse, ma non si tratta più di Mille e di millenarismo, bensì di riflessione sul senso della Rivelazione dove l’astronomia e la concezione di sfere, città celesti, segmenti di cielo sembrano recuperare la migliore tradizione del Gerberto scienziato; Abbone scrive: «Di quel giorno e di quell’ora nessuno sa…», poi, citando l’Epistola ai Tessalonicesi, aggiunge: «Il giorno del Signore viene come una ladro nella notte»; perfino il caso della venuta dell’Anticristo, ricordato nel Der Antichrist di Frau Ava, prima poetessa di lingua tedesca, del xii secolo, è ben inquadrato dalla lucidità di Vincenzo di Beauvais che, nel secolo seguente, nello Speculum Historiale fa dei segni della fine dei tempi un ideale menabò sul quale sia ancora possibile, per esempio allo Jacopo da Varazze della Legenda aurea, ripercorrere tutte le attese e le inquietudini d’un Medioevo non ancora finito. Nella Concordia Veteris et Novi Testamenti Gioacchino da Fiore sviluppa gli stessi temi e li applica ad una ricalcolata nozione del tempo storico e del tempo profetico.
9Davvero «giorni come anni» per chi vive a ridosso d’un possibile abisso che la scienza sa impossibile: è questo il caso di Gerberto, e chissà che la scienza non sia egualmente esposta alle sorprese dei gesti di Dio. Anni anche veloci come giorni, quando si bruciano con il trascorrere del tempo tutte le paure antiche, magari per soffrirne di nuove: ma quelle antiche, poi, si superano davvero? E c’è un punto nel quale il sentimento della morte riesce a biodegradarsi? Basta leggere il De contemptu mundi di Lotario di Segni, scritto negli ultimi anni del xii secolo, per capire quanto l’uomo sia sospeso ad un filo oscillante sopra il baratro.
10La questione dell’anno Mille si risolve con una serie di voli a bassa quota, anche charter per la gran folla casuale di passeggeri, sulla quotidianità medievale; il problema del millenarismo, invece, viaggia in quell’immaginario Concorde decollato sull’esegesi biblica dalle piste più importanti del Tardoantico e dell’alto Medioevo e che attraversa i tre campi gravitazionali più forti di tutto il Medioevo: le tradizioni, le influenze, le esperienze. Le tradizioni, forze verticali provenienti dal profondo dei tempi, agiscono sul mutare delle cose della storia dove, grazie alle reciproche influenze, gli individui organizzano progetti d’esistenza più o meno eterodossi. Le esperienze rappresentano i meccanismi d’orientamento delle società, hanno la capacità di arricchire e rinnovare, nel bene o nel male, la storia. Il merito imbattibile dell’età del Mille è quello d’aver misurato il sentimento del tempo e della storia sul ben più fondamentale sentimento dell’individuo che impara a leggere l’Apocalisse senza temere di perdersi nell’infuriare dei simboli, ma rimanendo consapevole che senza la scienza e senza la fede può davvero accadere tutto. Per questo Sigeberto di Gembloux e il cronista di Saint-Mèdard di Soissons non temono il Drago nel cielo e il terremoto annunciatore. Accanto all’eresia di Lieutard, nel villaggio di Vertus, o ai Manichei d’Aquitania e d’Orlèans, pulsa anche il quieto mondo di Lournand, nei cui studi di Bois e di Bonassie sembrano acquietarsi le pulsanti psicologie collettive di Duby. Ancora d’aiuto può tornare una frase di Gerberto: «Entrati in un mare in tempesta, abbiamo fatto naufragio e ci lamentiamo: mai una spiaggia sicura ci soccorre, mai un approdo…», Mare fluctuans ingressi, naufragamur et ingemiscimus. Nusquam tuta littora, nusquam portus occurrit (Ep. 166, marzo 990): sembra un addio, la cronaca d’un sconfitta: invece è il contrario, perché in queste parole, rivolte nel 990 ad un confidente rimasto sconosciuto, si alimenta la certezza di come sia dunque necessario ancora per molto tempo affrontare le prove della vita utilizzando l’ingegno e il proprio sapere. Il messaggio nella bottiglia gettato da Gerberto nel mare dell’esistere contiene decisive formule di sopravvivenza.
11Per il tempo che muta, che corre insieme agli uomini che cambiano, senza però diventare capre o asini, non c’è mai pace: i vettori di questa cultura sono altri e sono altrove; sono nel mare mai calmo dove galleggia incessante quella bottiglia di Gerberto. Sono i Normanni, sono gli ultimi Longobardi, sono gli Ungari convertiti, sono le regole del Corrector di Burcardo di Worms, che ben si accordano con i luoghi nuovi dei nuovi riferimenti culturali: Cluny, la tradizione intellettuale di arcidiocesi quali Reims, Fleury, Bec, Magonza, Hildesheim, Montecassino, le scuole dei traduttori fra Napoli e Costantinopoli. Come in un grande teatro le linee di forza di una regia sconosciuta compongono segmenti tutti intrecciati ma autonomi. Il teatro c’è davvero: l’eredità della Cena Cypriani, manipolata e rinnovata da Giovanni Immonide (quanta e troppa critica sulla Cena…), sembra passare nelle anamorfosi zoomorfe dell’ Ecbasis cuiusdam captivi (quanto poca critica su quest’opera fondamentale per la mimesi altomedievale…), nel teatro didattico di Roswitha, nelle maschere grottesche della scurrilità di Liutprando, nei versi dei Gesta Apollonii o del Within piscator. Altri versi, ma sensibili all’epica o all’agiografia, celebrano le gesta di Walter Manufortis (Waltharius e Chronicon novalicense), degli Ottoni, o di santi uomini narrati da Purcardo di Reichenau, Walther di Speyer, Giovanni di Gorze (De gestis Witigowonis abbatis, Vita et passio sancti Cristophori, Vita Adalberti). Ma non si tratta qui di fare una storia della letteratura o degli scrittori, molto numerosi, attivi intorno all’anno Mille. La circolazione dei testi «orali» è peraltro ben maggiore rispetto alla conoscenza dei testi scritti: prima d’un testo scritto esistono, infatti, molti testi «orali», molti testi «mentali» che costituiscono le prime fasi di un assemblaggio narrativo. Ciò che caratterizza la letteratura di questo periodo sono linee direttirici di questo tipo: l’asse, da Cluny, Bernone (910-927)/Odone (927-942)/Emardo (942-954)/Maiolo (954-994)/Odilone (994-1049) rappresenta una presenza cluniacense che, incrociandosi con le sapienze di Reims, Fleury e Chartres, ribalta completamente l’orizzonte dottrinale dell’xi secolo; altro asse portante dell’anno Mille è una provenienza lontana: quei pyratae o pyrati Nortmanni, che figurano in tutte le cronache franche tra ix e x secolo, giungono ad una maturità storiografica tale da da biforcarsi verso Nord e verso Sud: Dudone di Saint-Quentin, Guillaume de Jumièges, Guy d’Amiens, Abbone di Saint-Germain fabbricano il mito dei discendenti di Rollone e Gurim e di là si saldano alla generazione di Guglielmo il Conquistatore, alla feretas nuova di chi marcia contro le schiere di Aroldo facendosi precedere da un cantastorie, quel Tagliaferro che poi passa alla furia di elmi e teste spaccate con laspada. Nel Mezzogiorno mediterraneo il Chronicon Salernitanum cerca d’illudersi che il mondo non stia cambiando: le storie d’Ilderico (perché così si chiama l’Anonimo del Chronicon Salernitanum, secondo gli studi della Taviani) sono l’essor evénémentielle per trovare un senso alla storia, ai silenzi che l’individuo si porta dentro. Accade così per Nannigone («Va’ – dice alla moglie stuprata dal principe – vèstiti, truccati, torna ad essere la ragazza che eri…», ma «lui da quel giorno non rise più». Poi si saprà chi cercare per ammazzare il principe! O quello che fa finta d’essere assorto al gioco, ad tabulam ludebat, quando gli dicono che la moglie è portata in giro per l’accampamento con le gambe nude fin su). Ilderico racconta i silenzi, ma anche i suoi principi longobardi parlano sempre meno; Amato di Monteccasino, cinquant’anni dopo, fa molto di più: a metà dell’Historia Normannorum decide che occorre accettare il nuovo: times are changin’, e Amato narra il sogno profetico di Roberto il Guiscardo dove si anticipa la grande stagione degli Altavilla: dalla base dell’albero, in cima al quale sta Maria, scaturiscono tre fiumi; Roberto li beve tutti: Bizantini, Normanni e Cristiani hanno trovato un nuovo signore, anche se poi il vero re diventa il fratello Ruggero.
12Nel settentrione europeo Widukindo di Corbie rimedita l’eredità di Reginone di Prum e prova a trattare i Sassoni, come fa anche Tietmaro, alla stregua d’un popolo chiamato dalla nuova età a compiti esemplari. Ma questi tre scrittori sassoni non rappresentano una risposta forte all’altro trinomio letterario franco costituito idealmente da Flodoardo di Reims, Richero di Reims e Ademaro di Chabannes le cui opere sviluppano, per linee differenti, direttrici ecclesiologiche, monarchiche e mitologiche legate alla cronaca del quotidiano. E in quest’affermazione della prassi si attenua molto quel topos emotivo del Mille a favore del sorgere di nuovi temi e nuovi argomenti: il calcolo frazionato, la misurazione dei volumi dei solidi, l’altezza degli astri sulla linea dell’orizzonte, la forza-vapore, la forza motrice dell’acqua; la medicina fa scoperte decisive: cura la cataratta con il bisturi, le emorroidi con impacchi d’erbe, le fistole con zolfo, calce, arsenico e sapone; periodiche flebotomie dopo i diciassette anni perché aprire le vene chiarisce la mente, purga il cervello, risana gli occhi. Il mese più adatto per tutto questo è maggio, quando il corpo, come la natura, è in piena fioritura.
13Anche il rapporto con il testo biblico muta: Bernone di Reichenau e Brunone di Wurzburg aggiungono nuove salmodie all’esegesi, il latino liturgico fissa nuovi schemi metrici, prosodici e melici: nel nome di Gregorio Magno la musica e il canto ripropongono nell’xi secolo nuove certezze di permanenza per il latino assediato dai clan etnici che si misurano con una scolarità ritrovata grazie agli effetti della riforma carolingia. Acca de tuttavia che le nuove etnie, ormai convertite al Cristianesimo, diventano esse stesse rinnovatrici dall’interno della latinità medievale con il contributo di parlate e associazioni mentali nate al di fuori della tradizione classica. Se l’oralità è la biblioteca della memoria, grazie alla memoria, contaminata con la scrittura, si giunge al ruolo insostituibile della letteratura che salva la memoria e perimetra i livelli di scrittura: le testimonianze non sono più fonti, ma testi. A tal proposito gli approcci culturali espressi intorno alle trasformazioni dell’anno Mille si pongono come isole di cultura nel mare dei linguaggi, cioè in un mare di culture «altre» dove il racconto corre più veloce della pagina, costa meno, si trasmette e si ricorda di più, consente arricchimenti o deformazioni d’ogni tipo e non ha bisogno di tramiti litterati. Dalla letteratura, come dalla rappresentazione iconografica e visiva, tanto decisive intorno al Mille, nasce la possibilità di spiegare i grandi circuiti delle oralità e delle patologie individuali e sociali. Leggendo Otlone si svelano le sue malattie, il Kunsemuller, nel 1963, scoprì il difetto d’udito dello scriba al quale Benedetto del Soratte detta nel x secolo il suo Chronicon e stabilisce per l’autore l’incapacità a rileggere la sua opera. Il x secolo che conduce al Mille non solo tempo di grandi personaggi: il Chronicon di Benedetto, ad esempio, riassume un originale tentativo di trovare un punto di concordia tra indefiniti reges Persarum e la grande vocazione dei popoli germanici convertiti; il Carlo Magno del Chronicon non va in Oriente con l’intento di togliere il primato imperiale al Basileus, ai Niceforo, ai Michele, ai Leone; Carlo vuole soltanto riscattare il primato dei Franchi, la loro gloria semper suspecta Romanis et Graecis: una buona indicazione di percorso per il mondo capetingio e cluniacense dell’xi secolo, e un’eloquente proposizione ideologica per l’Europa normanna che verrà. Così com’è costruito il Chronicon di Benedetto è tutto una lenta ascesa verso un’illusione millenaristica: Francos habeto amicos, e se poi questi Franchi si fermano a Roma, reduci da Costantinopoli, e portano doni alla tomba di Pietro, allora sarà possibile credere che dall’età di Carlo all’età degli Ottoni Roma ha ancora la speranza d’essere simbolo di continuità. Liutprando non ci avrebbe mai creduto: «romano» era solo lui, «Romani» erano solo gli Ottoni, e quei Bizantini un popolo di malfattori, usurpatori, di gente fatua e bugiarda.
14Dove sta il nuovo, allora? Nel Liber de pressuris ecclesiasticis o nel Perpendiculum di Attone di Vercelli è racchiusa una risposta intellettuale che può anticipare il necessario rinnovamento della Chiesa: «Fratelli carissimi, non giudicate secondo le apparenze, ma seguendo un giusto parere, e coloro ai quali non è ancora bastato imparare i rudimenti della natura umana non temono d’elevare a questo magistero altri che mettono a giudici delle anime senza che possano neppure capire cosa sia l’anima…», poi nel Perpendiculum scrive: «I sofisti non spiegano il caos. Io cercherò di correggere l’errore sempre presente nel mondo… Stanco di tutto questo ioi porrò un filo a piombo, la cui voce il ferro non farà tacere…». Attone forse crede davvero che il suo sia il «secolo di ferro» e accusa il tempo suo d’essere tempo di chronici, fallibili sapienti che ingannano gli individui; si sente vivere in un’età di cyrrati, a cirris capillorum dicti, perché s’intenda da quei lunghi capelli ricciuti a quanta trascurata dottrina s’ispiri la loro cultura. Ma non sono né chronici, né cyrrati i sapienti che, nel Natale del 980, intervengono a Ravenna al cospetto dell’imperatore Ottone per assistere al celebre dibattito fra Otrico di Magdeburgo e Gerberto d’Aurillac intorno alla proprietà della scienza in rapporto alla filosofia. Richero di Reims, là presente, prende appunti febbrili in diretta e nelle Historiae racconta con cura l’intera disputatio. Nella discussione Gerberto spiega che i valori della mathesis (aritmetica, fisica, storia naturale, medicina) sviluppano un concetto nuovo di rationale ove l’eredità di Platone deve confrontarsi con i processi della sperimentazione. Gerberto lo scrive anche nel Libellus de rationali et ratione uti: è l’inizio di un’autentica rivoluzione del sapere e ars e mathesis diventano le funzioni d’un modo nuovo d’essere credenti. I numeri rappresentano le quantità del mondo, la geometria esprime nuovi spazi per l’uomo; scrive Gerberto: «La geometria è la disciplina delle grandezze delle forme. Ma la geometria è anche, nelle grandezze razionabili proposte, la scienza della dimensione probabile investigata grazie alla ragione». La definizione più generale della cultura nell’anno Mille è quella d’una scienza nuova dalle dimensioni probabili investigate attraverso la ragione. Per questo Raoul Glaber, sebbene più giovane di Gerberto, appare più vecchio di lui, più schematicamente medievale. Cosa salvare del Mille di Raoul? L’apparire delle balene? Ma quelle navigano già nei Libri monstrorum altomedievali, in Letaldo di Micy e, più tardi, in Adamo di Brema… La pazzia eretica, le reliquie dei santi, la straordinaria attività di Guglielmo da Volpiano, le grandi carestie, l’eclissi di Sole e i pellegrini verso Gerusalemme? Sono fatti, questi, che attraversano tutti i secoli del Medioevo, ed eretici, prodigi, simonie vinte trovano sempre una loro risposta in nuovi eretici, nuovi prodigi, nuovi scandali: di vendette e perdoni è piena la letteratura medievale. Perfino un uomo curioso ma modesto come Richero esprime interrogativi e interessi scientifico-sapienziali più originali delle emozioni di Raoul Glaber. Il Medioevo dei monstra, prodigia, portenta e miracula sta passando, e nemmeno i tempestarii carolingi di Agobardo di Lione vanno più di moda. Tutto ciò è l’arredo delle teratologie, più o meno minacciose o agiografiche, della predicazione e della letteratura omiletica che si scaraventeranno addosso a indifesi fideles, ma non per molto ancora e non più nelle città dove ormai si respira la nascita dello spirito laico, della cultura laica.
15Il Mille proietta la propria eredità in un complessivo quadro di culture popolari, orali e scritte che prevedono nuove «dimensioni probabili». Nell’indicazione di questa probabilitas sta tutta la complessità d’un mondo già disponibile al cambiamento e che ha imparato ad accettare il nuovo, a ridere del non-senso della storia, pronto a dire, nel xii secolo, Potemus invece di Oremus, Et cum gemitu tuo invece dell’ Et cum spiritu tuo, disponibile all’ Introibo ad altarem Bachi invece che all’ Introibo ad altarem Dei, com’è scritto nei Carmina Burana. Sembra già il mondo di Walter Map (Curia est Infernus, scrive nel De Nugis Curialium, e forse glielo aveva fatto capire il Pier Damiani degli Opuscula o i Libelli de lite ove il sacerdote impartisce l’eucarestia con le mani ancora profumate dall’amante!). Invece questo è il mondo che veniva da lontano, da quel Mille dove gli uomini imparano a non fidarsi più delle loro emozioni e, forse, a non fidarsi del loro Medioevo.
Bibliographie
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Auteur
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