Le proprietà immobiliari urbane della Chiesa romana tra IV e VIII secolo: reddito, struttura e gestione1
p. 151-168
Résumé
Il contributo si sofferma a esaminare le testimonianze comprese tra IV e IX secolo, relative alle proprietà immobiliari detenute dalla Chiesa romana (ossia dal patrimonio della cattedrale di Roma) all’interno delle mura Aureliane. Si descrivono le modalità di formazione e inquadramento giuridico relative a queste stesse proprietà, nonché i dati in merito ai loro criteri di gestione. In una distinta parte del contributo si esaminano quindi le notizie riguardanti la redditività dei suddetti beni, collegando il problema a quello della incidenza della tassazione sulla formazione dei redditi immobiliari.
Texte intégral
1Luoghi di riunione all’interno della città e aree cimiteriali nei suoi immediati dintorni hanno costituito certamente i tipi di proprietà immobiliari che la Chiesa di Roma ha controllato anche anteriormente alla «pace» costantiniana. Data la scarsità di testimonianze in proposito, è difficile dire entro quale quadro giuridico la comunità cristiana romana fosse in grado di gestire tali beni. Sembra tuttavia chiaro che, già nel corso del III secolo, le proprietà immobiliari urbane non si limitassero a comprendere semplicemente i luoghi necessari allo svolgimento dei servizi religiosi, ma constassero anche di immobili che, donati alla comunità, fossero da essa gestiti come beni di rendita. Così sembra lasciare intendere il provvedimento di Gallieno che ordinava la restituzione dei beni ai Cristiani dopo la persecuzione di Valeriano1.
2La «svolta» costantiniana aprì, corne è ben noto, un nuovo capitolo della storia della Chiesa. È da credere che l'arrichimento patrimoniale del corpus christianorum romano procedesse con la stessa velocità della crescita del suo prestigio politico. Il Liber pontifìcalis2, e in particolare le vite dei pontefici Silvestro I, Marco, Damaso, Innocenzo e Sisto III, ci offrono le principali indicazioni per seguire le linee di sviluppo di questo fenomeno. All’intemo delle loro biografie si conservano, infatti, le liste delle proprietà e dei beni mobili aggregati a varie chiese romane, più o meno importanti, al momento della loro fondazione. È stata frequentemente analizzata, attraverso questa fonte, l’ampiezza della distribuzione geografica delle proprietà fondiarie della Chiesa romana, nelle sue varie articolazioni. Basterà, fra tutti, ricordare qui gli studi compiuti in proposito da Charles Pietri3. Fundi e massœ sono disseminate, come nei patrimoni della aristocrazia cittadina del tempo, tra il territorio romano, la Campania, la Sicilia, l’Africa settentrionale, con non trascurabili propaggini anche in Egitto e Grecia. Minore attenzione hanno invece ricevuto i dati sulle proprietà all’intemo della città di Roma, che la Chiesa ottenne nello stesso periodo di tempo, ed è su di esse che invece mi soffermerò in questa sede, suddividendo il mio esame in due parti: la prima riguardante il problema dell’inquadramento giuridico di questi beni, e quindi anche le regole che ne condizionavano la gestione; la seconda, avente per oggetto gli aspetti più propriamente economici di tale gestione, vale a dire la redditività e la sua evoluzione nel tempo, anche in relazione ai vari tipi di proprietà di cui le fonti ci tramandano la menzione.
Condizione giuridica e quadro della gestione
3La porzione più considerevole delle proprietà acquisite dai diversi santuari cristiani di Roma era frutto, in vari modi, della generosità imperiale. I beni intra urbem, per quanto ci è dato conoscere, furono acquisiti sia attraverso la generosità imperiale, che di privati, sia laici che ecclesiastici, e facevano parte delle dotazioni per il mantenimento tanto dei maggiori luoghi di culto romani, che di quelle fondazioni minori cittadine, più direttamente sottoposte alla giurisdizione vescovile, note come tituli, che da quegli stessi privati erano state volute. Per quanto riguarda i tituli, assistiamo a due tipi di intervento: da un lato abbiamo il pontefice che, autonomamente, promuove la realizzazione di nuovi tituli destinandovi risorse frutto di donazioni diverse, genericamente intestate alla Chiesa di Roma o al suo vescovo; in altre circostanze dei privati, che effettuano dei lasciti di una certa consistenza, ne impegnano a priori l’uso per la costruzione di una chiesa, utilizzando, se così si può dire, il papa e il clero romano come esecutori della propria volontà e come amministratori perpetui della pia fondazione, che porterà in generale il nome del benefattore4. Per il primo tipo di interventi abbiamo gli esempi del prete Equizio e di papa Silvestro che concorrono alla fondazione e alla dotazione del titulus Equitii; del papa Damaso che provvede alla dotazione del titulus suo omonimo; per il secondo, quello della inlustris femina Vestina, che provvede alla dotazione di un altro titolo, suo eponimo, al tempo di papa Innocenzo (401-417). Altri casi sono noti, fra IV e V secolo, anche se in minor dettaglio, illustrando ulteriori esempi di ambedue le modalità di intervento. (Marco, fra i papi; Pammachio, un aristocratico, fra i privati)5. In ognuna di queste circostanze, al di là delle immaginabili dotazioni di proprietà, di cui il titulus poteva godere, dobbiamo ricordare che alla base di tutto vi era quanto meno l’acquisizione dell'area urbana, ove la chiesa e i suoi annessi sarebbero poi sorti, nonché lo stanziamento di una somma in vista della costruzione. Le indagini archeologiche condotte all’interno degli antichi tituli hanno in generale dimostrato come queste imprese abbiano comportato interventi di profondo rimodellamento del tessuto edilizio sia dell’area su cui la chiesa è effettivamente sorta, che dei suoi immediati dintorni. E, in genere, la fondazione ha, se così si può dire, «disturbato» più di un preesistente edificio e, quindi, presumibilmente, più di un’unità proprietaria (come è ben evidente a San Clemente6).
4Riassumendo, i beni immobili che la Chiesa Romana mostra di possedere entro Roma fra IV e V secolo risultano tutti «aggregati» a singoli luoghi di culto definiti entro il quadro giuridico del titulus, che comportava una diretta responsabilità del vescovo nella gestione della singola fondazione al vescovo, ma allo stesso tempo l’inalienabilità del patrimonio assegnato. Ma non dobbiamo dimenticare che i mezzi con cui i pontefici dotavano questo tipo di chiese, quando erano loro a fondarle, dovevano essere tratti da un patrimonio centrale della diocesi, che era alimentato dalle offerte dei fedeli, da testamenti e anche da beni confiscati e trasferiti alla Chiesa. È il caso del patrimonio di un certo Basso, un ecclesiastico che aveva tentato di far incriminare papa Sisto III, i cui beni, quando le sue accuse furono dimostrate false, furono incamerati, per ordine di Valentiniano III, dalla ecclesia catholica7. Ci sono molte ragioni per ritenere che questa «cassa centrale» abbia teso col tempo a fondersi con quelli della basilica e del battistero lateranense.
5Fra l’ultimo quarto del V secolo e gli inizi del VI, i pontefici assunsero un indirizzo tendente a rafforzare il ruolo dell’amministrazione finanziaria centrale della diocesi, sia razionalizzando i criteri di ripartizione delle uscite, che riorganizzando la gestione delle entrate provenienti dai patrimoni immobiliari e fondiari che, infine, mirando ad estendere un controllo più forte sulle varie istituzioni religiose romane8.
6In concreto, le proprietà cittadine, probabilmente a partire da questo periodo, iniziarono ad essere inquadrate all’intemo di un unico patrimonium Urbanum, così come quelle esterne alla città vengono riunite in patrimonia ordinati su base geografica. La gestione di queste proprietà fra tarda antichità e VIII secolo, non sembra conoscere significativi cambiamenti. Apparentemente prevale l’abitudine di delegare la gestione delle proprietà ad affittuari, dietro annua corresponsione di una rendita stabile nel tempo. Il ricco dossier costituito dalle lettere di Gregorio Magno ci testimonia che in Sicilia, alla fine del VI secolo, era ancora praticata la locatioconductio a durata breve9. Mentre, per il Lazio, risultano solo locazioni a lunga scadenza, comprese fra i 29 anni e il tertium genus, tanto per beni fondiari urbani che rustici10. Attraverso i pochissimi casi di documenti conservati per intero, non si rileva che la durata del rapporto tra la Chiesa e il locatario determini variazioni della tipologia contrattuale «a lunga scadenza»: tale concessione avviene sempre dietro petitio del futuro locatario e si configura sempre come una conductio, la cui estensione nel tempo non deve mai porre in questione gli tura in re del legittimo proprietario, vale a dire la Chiesa, e deve garantire allo stesso tempo, la messa a profitto e/o il mantenimento di quanto dato in concessione. Non appaiono differenze nella struttura del patto, a seconda del tipo di bene in oggetto. Dal pochissimo che se ne può conoscere, il contratto di locazione stipulato con l’amministrazione pontificia è lo stesso sia per le proprietà immobilari urbane che per i fondi rustici. In qualsiasi caso, la clausola della melioratio della proprietà ricevuta in gestione, non comporta in alcun modo accrescimento di diritti del locatario. È da credere però che, per gli immobili in ambito urbano il problema dell’avanzamento di possibili diritti di superficie da parte del locatario si ponesse, visto che è esplicitamente detto in un contratto risalente all'epoca di papa Onorio I, per l’affitto di una domus cum horto presso le terme di Diocleziano, che la garanzia della stabilità nel tempo della pensio versata annualmente non permetteva neppure di reclamare indennizzi sulle migliorie eventualmente apportate alla proprietà11. Ben si sa che, tra le migliorie di una proprietà effettuabili da un locatario, quelle riguardanti eventuali modifiche o accrescimenti del costruito effettuate senza uno specifico dissenso del dominus potevano generare complessi conflitti che andavano dalla richiesta di risarcimento, da parte del locatario, all’avanzamento di pretese più consistenti sui diritti di proprietà12.
7Come si vede, in questi contratti confluiscono elementi appartenenti originariamente a diverse tipologie giuridiche: sembra che'il tendenziale appiattimento formale di tipi originariamente autonomi di patti locatori ad longum e ad longissimum tempus, che si è rilevato anche nelle procedure gestionali dei patrimoni fondiari del fisco imperiale a partire dal V secolo, abbia in certo modo «contagiato» anche la gestione dei beni pontifici.
8Altrettanto non si evidenziano differenze nella struttura dei contratti in dipendenza dei locatari con cui la Chiesa si trova a trattare: laici o ecclesiastici, essi dovevano essere comunque persone di status sufficientemente elevato da garantire una gestione e una solvibilità costanti nel tempo. Dalla documentazione che sopravvive si evince una cristallizzazione di quello che era stato il variegato mondo dei conductores di epoca tardoantica in una categoria più ristretta di notabili: socialmente parlando, assai più simile, ad esempio, a quella che, nella tarda antichità era costituita dai grandi enfiteuti del fisco imperiale13.
9Contemporaneamente vediamo sperimentati schemi giuridici che tendono a non indebolire i diritti eminenti, vale a dire la piena proprietà, deHamministrazione centrale pontificia sui beni immobili che vengono periodicamente stornati in perpetuo in favore di singole istituzioni religiose14. In sostanza, i papi, anche in ossequio a una serie di dettati sinodali e di disposizioni legislative imperiali, perfezionate soprattutto sotto Giustiniano, evitano di compiere atti che si possano pienamente identificare come vere e proprie dona zioni, e quindi alienazioni definitive, di beni immobili15. È sorprendente vedere come questo tipo di impostazione sia costante nel corso dei secoli, dal tempo di Gregorio Magno almeno sino all’inizio del X secolo, dando luogo, nei casi concreti, a ibride formulazioni che riconducono allo sforzo compiuto dall’amministrazone imperiale tardoantica per consentire una serie di concessioni più o meno ampie di possessio sui terreni fiscali, senza abdicare quasi mai completamente al dominium.
10Naturalmente questo tipo di procedure acquisirono valori diversi in relazione ai contesti in cui trovarono applicazione. Ma è indubbio che, se inizialmente esse servirono a regolare semplicemente i rapporti finanziari all’intemo della diocesi romana, con il proporsi del più vasto orizzonte, a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo, di una signoria papale su Roma e sul Lazio, esse costituirono uno strumento di primaria importanza al fine di imporre o consolidare il controllo politico pontificio su determinate zone. Quando Stefano IV, nell’817, emise una celebre carta di confirmatio bonorum a favore dell’abazia imperiale di Farfa, introdusse il pagamento di un canone annuo sulle proprietà del monastero, da versare annualmente nelle casse pontificie16. Questo canone che, nella forma, configurava l’idea della preesistenza di diritti di proprietà pontifici sui beni del monastero, ovviamente mai esistiti, nella sostanza agiva come un vero e proprio tributo, ed era probabilmente l’unico mezzo a disposizione per definire la supremazia politica che il papato intendeva affermare su Farfa17. Leone IV, nell’854, all’indomani della fondazione della Civitas Leoniana, vale a dire della cinta fortificata che andava a proteggere l’area vaticana, compì una vasta donazione di beni urbani e fondiari in favore di un monastero vicino alla basilica di San Pietro18. Questo monastero, nel quale il papa era cresciuto, veniva a porsi, con questa iniziativa, come il centro di coordinamento di quasi tutte le strutture assistenziali e di accoglienza per i pellegrini intorno al santuario petriano. Il fatto che i beni siano stati trasferiti al monastero in regime di donatio, non impedisce tuttavia che il papa imponga a quest’ultimo di pagare un canone annuo alle casse centrali pontificie, intaccando così nei fatti la natura stessa dell’atto appena compiuto19.
11Come si vede da questi esempi, il concetto stesso di patrimonium pontificio si modifica nel corso del tempo, adattandosi a coprire la necessità di offrire ai pontefici mezzi per definire il controllo politico sul territorio laziale. Per il poco che ci è dato di consocere dalla scarsa documentazione superstite, la parola stessa patrimonium, nel corso del periodo compreso fra 780 e 910 oscilla costantemente fra i due significati di insieme delle proprietà «private» pontificie in una certa area e embrione di circoscrizione amministrativo-tributaria della signoria della nascente signoria papale. L’impossibilità di dirimere nettamente i due aspetti nasce essnzialmente dal fatto che gli strumenti messi a disposizione dalla tradizione amministrativa dei patrimoni come beni privati erano infinitamente più efficaci e consolidati per esprimere la volontà di esercitare un concreto ius in re, fosse anche esso quello relativo a una più generale e complessa signoria territoriale, da stabilire sia all’interno della città di Roma, che nella regione circostante.
Redditività dei beni urbani
12Ripartendo ancora dal periodo tardoantico, varrà la pena di riesaminare la documentazione disponibile per cercare di estrapolarne i dati essenziali sulla redditività dei beni immobili pontifìci.
13Si può forse immaginare che il flusso di beni immobili di ambito urbano fosse fortemente alimentato da una generosità meno «ufficiale», rispetto a quella che consentì la realizzazione delle più grandi basiliche, e più radicata localmente, e, quindi, volta a favorire una diffusione capillare dei luoghi di culto all’interno della città. Pur se, ovviamente, queste fondazioni non potevano competere, per ricchezza di dotazioni, con quelle promosse dalla generosità imperiale, nondimeno tali datazioni raggiunsero livelli non disprezzabili. E ciò grazie al fatto che, nel complesso dei beni attribuiti, la quota di reddito annualmente prodotta dalle proprietà urbane costituisce una percentuale importante, poiché ciascuna di esse offre mediamente il doppio rispetto a un fundus rustico, testimoniandoci di un mercato immobiliare urbano piuttosto vivace e di prezzi correnti sostenuti, almeno sino alla metà del V secolo.
14Vediamo nel dettaglio quello che si può conoscere20. Va innanzitutto premesso che, tendenzialmente, le proprietà urbane, che vanno a costituire parte della dote delle nuove chiese, sembrano disporsi nelle vicinanze di queste ultime. Pur con tutta la prudenza del caso, se ne potrebbe inferire che ciò rispecchi una preesistente struttura «raggruppata», topograficamente parlando, dei patrimoni dei donatori. Le otto domus conosciute nel periodo compreso tra il pontificato di Silvestro I (314-335) e quello di Sisto III (432-440), si attestano tra un reddito minimo di 58 solidi e un tremisse a un massimo di 155 solidi per una domus cui erano annessi un balneum e un pistrinum, vale a dire un forno. E ciò a fronte di un reddito medio dei fundi agricoli, che si attesta intorno ai 55 solidi. L'unico caso di un hortus urbano segnala una rendita annua di 15 solidi, mentre due balnea rendono rispettivamente 27 e 40 solidi e un forno ne fornisce ben 61. Case e magazzini non descritti in dettaglio, offrivano al battistero lateranense la bellezza di 2300 solidi all’anno, vale a dire circa un quarto del totale delle rendite; mentre, per quanto riguarda i tituli, queste percentuali si attestano su livelli ancora più alti, superando in un caso (quello del titulus Vestinœ) il 50%. Non sembra di poter rilevare particolari oscillazioni nel livello di rendita garantito da questo tipo di proprietà fra l’età costantiniana e la metà circa del V secolo; ma il campione è comunque così ristretto da sconsigliare qualsiasi generalizzazione. Fra le varie proprietà elencate, appare anche una domus arbitrata. L’uso aggettivato di questo participio è abbastanza inusuale, a quanto mi consta: l’unica soluzione che sembra logicamente plausibile è di considerare che, per ragioni non descritte in dettaglio, la valutazione della rendita della domus in questione fosse ancora in via di definizione.
15Il Liber Pontificalis ci consente anche di proporre un confronto con il valore della rendita immobiliare in un’altra grande città dell’Impero: Antiochia. Infatti, tra le donazioni fatte da Costantino alla basilica martiriale di Pietro in Vaticano (tutte localizzate nelle regioni orientali del Mediterraneo21) si segnalano anche alcune proprietà all’intemo della metropoli siriaca. L’unica domus inclusa nella lista offre una rendita di ben 240 solidi: ci troviamo evidentemente in presenza di un edificio di un certo prestigio; di livello assolutamente inferiore dovevano essere le celœ (cioè camere d’affitto) e la domuncula incluse nella lista, che offrivano entrambe 20 solidi all’anno. Stupisce di vedere immobili di questo genere tra le proprietà della corona, ma si può supporre, come è stato sostenuto con buone ragioni, che il patrimonio imperiale, in questo tipo di operazioni, abbia potuto anche fungere da collettore di iniziative di privati. I due horti e l’unico balneum menzionati presentano livelli di rendita molto simili ai casi noti per Roma, dal momento che abbiamo rispettivamente 10 solidi per i primi e 42 per il secondo. Un forno ne rende 23, mentre una taverna 10. Balneum, forno e taverna sembrano comporre un insieme coerente di proprietà entro una medesima zona della città22.
16Un’informazione di grandissima importanza che ci proviene dalle liste del LP è quella riguardante la presenza di horrea nel gruppo dei beni offerti da Costantino al Battistero Lateranense. Il possesso di horrea – vale a dire di magazzini per lo stoccaggio di derrate alimentari – in città da parte di privati nel periodo tardoantico non è rappresentato da questo unico caso, dacché sappiamo che tanto Simmaco, prefetto di città alla fine del IV secolo, quanto Lauricio, cubicularius imperiale vivente alla metà del V, ne annoveravano tra le loro pertinenze urbane, per immagazzinarvi quanto veniva riscosso in natura nelle proprietà più distanti da Roma insieme a quanto poteva forse anche essere acquisito sullo stesso mercato cittadino23. Quelli che risultano qui donati al Battistero della Cattedrale di Roma potrebbero tuttavia essere i progenitori-se così si può dire – di quegli horrea ecclesioe che, al tempo di Gregorio Magno, svolsero un ruolo di fondamentale importanza per la sopravvivenza stessa della città. Venuto ormai a mancare il sostegno dell’annona imperiale, la popolazione romana, in una percentuale che non potremo mai definire, ma certamente significativa, fruì delle distribuzioni di quelle derrate che i papi conservavano nei magazzini di proprietà ecclesiastica. E, come è stato da molti posto in evidenza, il sostituirsi allo Stato in questa funzione, una delle più tipicamente «pubbliche» della Roma tardoantica, può essere considerato uno degli elementi che lentamente consolidarono il potere dei pontefici in città24.
17Vanno spese alcune parole per spiegare cosa significhi che una certa proprietà rende, prœstat, secondo il formulario che troviamo applicato dal LP, un determinato numero di solidi all’anno. Poche fonti sopravvivono, purtroppo, dai secoli della tarda antichità, per poter istituire dei confronti sufficientemente ampi con le liste del LP. Uno di quelli possibili è rappresentato dai frammenti papiracei Tjaderl datati al 445-446 riguardanti le finanze del cubicularius imperiale Lauricio25. Si tratta di dati posteriori in alcuni casi 110 anni rispetto a quelli del L.P, ma bisogna accontentarsene. I preziosissimi resoconti finali riguardanti gli ammanchi rispetto alle entrate previste, suggeriscono che, per ciascuno dei fundi o delle massoe comprese nel patrimonio di Lauricio, l’ammontare del reddito fosse stabilito una volta per tutte, in base, probabilmente, alle accertate capacità produttive medie del bene in questione e richiesto nelle successive indizioni. Naturalmente, non possiamo escludere aggiornamenti o adattamenti della redditività di un bene, ma il meccanismo che sembra suggerirci questo papiro è quello di una relativa stabilita. Analoga indicazione è fornita dal papiro Tjader 10-11 del 489, che contiene registrazione delle celebri donazioni di Odoacre al comes Pierio, e che calcola la restituzione di una somma di denaro da parte del primo al secondo attraverso la somma delle rendite di possessi fondiari in Sicilia e in Dalmazia.
18Un’ulteriore testimonianza databile agli anni 565-570 (papiro Tjader 2) ci permette di toccare il problema dell’incidenza del prelievo fiscale sul reddito di una proprietà. Questo documento copia la liste dei beni già della chiesa ariana di Ravenna con i loro redditi, che Giustiniano trasferì alla chiesa cattolica (quindi riproduce una situazione anteriore al 565-70, ed è un’evidenza aggiuntiva alla definizione di una redditività fissa per le singole entita fondiarie); al momento di trarre la somma dei redditi complessivi di queste terre, l’estensore del documento si preoccupa di ricordare che da essa vanno sottratti gli importi da destinare alla cassa del prefetto (1153,5 solidi) e a quella del comes sacrarum largitionum (85,5 solidi), il che comporta, su un reddito lordo di 2171,5 solidi, un’incidenza della tassazione di ben il 57%. Secondo quanto ha rilevato Lellia Ruggini, questa figura risulta essere superiore alla media presupponibile del l’incidenza fiscale sul reddito fondiario del VI secolo che sembrerebbe oscillare fra il 25 e il 33% del lordo. E’difficile proporre un rapporto sicurissimo fra dati del VI e situazione al IV e al V secolo: considerazioni di questo tipo servono solo a indicare dei riferimenti possibili26.
19La legislazione imperiale e i lacerti di formae censuales (vale a dire di catasti con annessi ruoli di imposta) sopravvissute della tarda antichità sembrano mostrarci d’altro canto che le proprietà (o i possessi) fondiari erano censiti dallo Stato secondo le indicazioni che su di essi fornivano i proprietari, e attraverso le verifiche dei funzionari statali, ed in base a questi dati, secondo dei coefficienti, venivano stabilite le imposte. Coefficienti ed elementi tassabili potevano variare nel tempo, ed in effetti erano periodicamente revisionati, ma sembra che esistesse un buon grado di prevedibilità di quanto lo Stato avrebbe estratto da una certa comunità. Pertanto, nelle formae censuales troveremo indicata l’entrata dalla tassazione per i singoli terreni, perché è ciò che interessa allo Stato, al lordo di eventuali ammanchi e suddiviso o meno nelle singole ripartizioni dell’imposta. È ovvio che nelle liste dei redditi di un privato troveremo, invece, il dato globale sul reddito dei singoli fondi che, relativamente al livello di dettaglio che il documento offre, potrà o meno a sua volta essere scorporato nel netto medio che dovrebbe entrare nelle tasche del proprietario, nell’incidenza della tassazione e potrà perfino fornire indicazioni sull’effettivo andamento delle singole annate27. Le liste del LP sembrano essere, in questo senso, il massimo della sintesi, e si può presupporre che indichino la rendita al lordo delle imposte. Ma va da sé che una risposta certa al 100% è improponibile, anche se sappiamo che, nel corso della tarda antichità, la tendenza fu quella di mantenere il più possibile costanti reddito e incidenza della tassazione, al fine di ridurre al massimo i faticosi aggiornamenti dei ruoli fiscali; quindi segnalare il reddito tout-court di una proprietà poteva comunque consentire di dedurne, grosso modo, quanto di esso sarebbe finito nelle tasche dello Stato e quanto sarebbe effettivamente rimasto al proprietario.
20È difficile dire quanto a lungo il sistema fiscale imperiale abbia continuato a funzionare nel Lazio dopo la riconquista bizantina dell’Italia completata nel 553, seguita a breve scadenza dall’invasione longobarda. Molti indizi lasciano pensare che, a Roma e nella regione circostante, entro il primo quarto del VII secolo l’esazione delle imposte non avvenisse più in maniera regolare28. Questo fatto, inserito in un più vasto contesto di recessione economica deve essere considerato tra le cause dell’apparente crollo verticale della redditività fondiaria e immobiliare che emerge, per i beni della Chiesa Romana, a partire dalla fine del VI secolo. Un crollo che va pertanto considerato effetto di un pesantissimo processo deflattivo, che non di un deprezzamento in assoluto del valore delle proprietà pontificie. L’epistolario di Gregorio Magno fornisce alcuni esempi di valori complessivi di lasciti per la dotazione di nuove chiese a Messina, a Lilibeo e a Tindari (in Sicilia), e a Fermo (nelle Marche)29: i capitali messi a disposizione sono assolutamente irrisori se messi a confronto con quelli indicati duecento-duecentocinquanta anni prima dalle liste del LP, pur considerando la minore importanza di queste fondazioni rispetto a quelle romane: si va da un massimo di una rendita di 10 solidi, cui si aggiungono un patrimonio costituito da tre giovani servi, tre paia di buoi, cinque mancipia alia, dieci cavalle, dieci vacche, quattro hastuloe di vigna, 40 pecore e altri beni che non vengono specificati, a un minimo di una semplice rendita annua di 3 solidi.
21È con il pontificato di Onorio I che troviamo il primo dato riferibile a valori di rendita immobiliare all’intemo della città di Roma: una domus cum horto dentro Roma, locata per 29 anni, rende 1 solido all’anno. Un valore che ritroviamo praticamente immutato alla fine del VII secolo, quando ci sono noti canoni annui d’affitto di 1 solido e 1/3 per ancora per una domus cum horto, 1 solido per una portio di domus cui è annesso un hortus vineatus; nel corso dell'VIII secolo è databile un canone di 3 solidi per una domus cum curie et horto vineato30. È interessante notare, sia pure in via del tutto sommaria, che la rendita unitaria media del fondo rustico sembra in questo periodo più vicina a quella di una proprietà urbana; contrariamente, quindi, a quanto si poteva constatare per la tarda antichità, quando il mercato degli affitti urbani doveva offrire al dominus margini di guadagno in proporzione assai più elevati. Pur se quantitativamente irrisori, questi dati indicano indubitabilmente una tendenza alla riduzione della circolazione monetaria. Il dato andrebbe ovviamente rapportato ad una analisi più generale del potere d’acquisto del solidus a Roma fra VII e VIII secolo, per tentare di stabilire in maniera più precisa quale fosse il livello di benessere che la proprietà fondiaria poteva a vari livelli garantire. Non disponiamo, anche in questo caso, di molti punti di riferimento. Per citare uno dei pochi, ricorderò che, nel 605 circa, in un periodo di carestia, per un solido si potevano acquistare 30 modii di grano, vale a dire 270 chili31; mentre il prezzo per l’acquisto di un sepolcro presso una delle basiliche più prestigiose del suburbio romano si attesta, nel corso del VI secolo, tra i 2 e i 3 solidi32. Contemporaneamente, i prezzi di acquisto di proprietà fondiarie, che nel corso del tardo VI secolo, sembrano essere scesi a livelli bassissimi, danno l’impressione di risalire nel corso del VII e dellVIII nelle aree bizantine d’Italia, anche se i dati a disposizione sono talmente pochi da impedire anche delle vere e proprie ipotesi.
Conclusioni
22La Chiesa Romana ha certamente mantenuto vaste proprietà all’interno di Roma anche dopo gli inizi dell’VIII secolo, pur se non abbiamo più dirette menzioni del patrimonium Urbanum. Le attestazioni conosciute di dotazioni compiute dai pontefici in favore di enti ecclesiastici romani nel corso dellVIII e del IX secolo, includono in generale proprietà tanto urbane quanto rurali, che purtroppo però non vengono mai descritte nel dettaglio.
23La crisi politica attraversata dal papato tra la fine del IX secolo e gli inizi del X dovette danneggiare notevolmente le capacità dell’amministrazione pontificia di garantire un controllo tanto sui beni ceduti in uso perpetuo ad altri enti ecclesiastici di Roma e dintorni, quanto su quelli dati in locazione temporanea a privati di condizione sia laica che ecclesiastica. Come hanno dimostrato gli studi di Étienne Hubert33, il panorama della proprietà immobiliare romana di nuovo leggibile a partire dalla seconda metà del X secolo, è caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di patrimoni, anche cospicui, di singoli enti ecclesiastici e, sebbene non altrettanto ben conoscibili, da analoghi nuclei controllati da proprietari di condizione laica: tutti gestiti in assoluta autonomia e libertà. Il grande assente è proprio il vecchio centralizzato Patrimonium sanctœ Romanœ ecclesice, gestito dal Laterano, erede delle donazioni imperiali e private della tarda antichità e, a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo, sorta di fiscus publicus della nascente signoria pontificia. L’alta giurisdizione pubblica pontificia sulla città di Roma non fu mai messa fondamentalmente in discussione; ma senza dubbio la dissoluzione del patrimonio privò per lungo tempo i papi dello strumento più concreto per il suo esercizio effettivo.
Notes de bas de page
1 Eusebio, Hist. eccl., VI, 13; simili idicazioni si recepiscono anche dalle decisioni prese da Massimino Daia (Eus. Hist. ecci, IX, 10-11) e da Galerio (Lattanzio, De mort. pers., XXXIV) al termine della persecuzione dioclezianea.
2 Le Liber pontifìcalis, ed. a c. di L. Duchesne, vol. I, Parigi, 1886 (d’ora in avanti citato come LP).
3 Sintesi degli studi del Pietri in merito in Roma cristiana, in Storia di Roma, vol. III/l, L'età tardoantica. Crisi e trasformazioni, a c. di A. Carandini, L. Cracco Ruggini e A. Giardina, Torino, 1993, p. 697-721. Le opere del Pietri fanno riferimento, per ciò che concerne la condizione giuridica delle proprietà ecclesiastiche, alla sintesi di J. GAUDEMET, L’Église dans l'Empire romain, Parigi, 1958. Sulle condizioni dello sviluppo dei patrimoni pontifici tra tarda antichità e alto medioevo mi permetto rinviare a F. Marazzi, Il Patrimonium sancti Petri, da possesso fondiario a entità politica. Studi sulla struttura giuridico-amministrativa tra IVe X secolo, in c.s. in Nuovi Studi storici, Roma.
4 Sul problema in genere della personalità giuridica delle «persone collettive» nella riflessione di epoca medio e tardoimperiale, si sono tenuti presenti E. Di Marzo, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1942, p. 56; E. Albertario, Corpus e Universitas nella designazione della persona giuridica, in Studi di diritto romano, vol. I, Milano, 1933, p. 97-121. Sull’argomento, più recentemente, si sono avuti alcuni interventi della Cracco Ruggini, in cui, fra l’altro, si esamina il problema della terminologia designante tali associazioni e il variare dell’uso di corpus e collegium, e in particolare si esprime l’idea che, nel procedere dei secoli II e III, si afferma una crescita nel mondo romano, dell’istituzione associativa, e un progresso della legislazione nel recepire il «sentito» reale in questo senso: Collegium e corpus: la politica economica nella legislazione e nella prassi, in Atti del convegno Istituzioni giuridche e realtà politiche nel Basso Impero (III-V secolo), Firenze, 1974, ed. Milano 1976, p. 63-94; Ead. Le associazioni professionali nel mondo romano-bizantino, in SCIAM, XVIII, Spoleto, 1971, ediz. ibid., 1972, p. 59-193; inoltre, F. De Robertis, Storia delle corporazioni e del regime associativo nell’Impero Romano, Bari, 1973, in part, le p. 64-89 del II vol., che trattano specificamente delle comunità cristiane in rapporto alla legislazione generale sui corpora e sui collegia e M. Sordi, I Cristiani e l'Impero Romano, Milano, 1990, p. 210-215. Sul progresso della riflessione giuridica romana in merito alla elaborazione di figure atte a identificare l'unità fittizia rappresentata da sodalizi di più individui, si veda R. Orestano, Il problema delle persone giuridiche in diritto romano, vol. I, Torino, 1968, in part. le p. 170-184, ove si discute dell'approdo al concetto di universitas, che implica la piena acquisizione di tale unità e supera quello di corpus, che contemplava comunque l’immagine mentale del concorso di più singoli. Per l’approfondimento del problema specificamente in relazione agli enti ecclesiastici, si lega alle ricerche dell’Orestano F. Fabbrini, La personalità giurìdica delle degli enti di assistenza (detti pice causœ) in diritto romano, in Atti del III colloquio «Diritto romano e canonico»: «La persona giuridica collegiale in diritto romano e canonico», Roma, aprile 1980, a c. di T. Bertone e O. Bucci, ed. in Utrumque ius. Collectio Pontificioe Universitatis Lateranensis, XI, 1990, p. 57-121. Sul problema specifico della rappresentatività giuridica della Chiesa in età tardoantica si vedano, per la fase precostantiniana, i classici contributi de De Visscher sul regime giuridico dei primi cimiteri cristiani: Le regime juridique des plus anciens cimetières chrétiens de Rome, in AB, LXIX, 1951, p. 40-54; Le droit des tombeaux romains, Milano, 1963, p. 268 e s. Il lavoro di G. Bovini su Proprietà ecclesiastica e condizioni giuridiche della chiesa in età precostantiniana, Milano, 1948, in part. le p. 135-164. Abbiamo avuto la possibilità di consultare la recente sintesi-attualmente disponibile solo in microfiche-di F. Bajo Alvarez, Formación del poder económico y social de la Iglesia durante los siglos IV-V, Occidente del Imperio, Madrid, 1986, in part. le p. 85-121. Sull’argomento si veda l’inquadramento generale fornito da F. De Martino, Storia dilla costituzione romana, vol. V, Napoli, 1967, cap. IV, con bibliografia sulla natura giuridica delle persecuzioni, e cap. XIX, § 10. Secondo le riflessioni di Ch. Munier (L’Église dans l’Empire romain (IIe-IIIe siècles), Parigi, 1979, in part. le p. 264-274), resta sostanzialmente oscuro e indefinibile il momento del passaggio dei cimiteri romani dal regime di fondazioni private, entro proprietà di particolari, a istituzioni in qualche misura sottoposte al governo della comunità, incardinato nella figura del vescovo. Nel corso del III secolo, questo tipo di detenzione «comunitaria» di proprietà appare estesa, oltre che ai luoghi di sepoltura, ormai anche a immobili utilizzati dall'insieme dei fedeli (luoghi di riunione, innanzitutto). Però tutto questo appare a un certo momento, attraverso le testimonianze di cui si dispone, come un fatto compiuto, senza che si possa cogliere nel dettaglio il «farsi» personalità giuridica collettiva da parte della comunità dei cristiani di Roma. Per il periodo a partire dal regno di Costantino e al definitvo riconoscimento del cristianesimo come religio licita, il vescovo si trova sostanzialmente a ricoprire le funzioni che, secondo Dig. III, 4, 1 (Gaius lib. III ad edictum provinciale), nelle associazioni lecite di qualsiasi tipo, sia a Roma che nelle province, venivano ad essere svolte dall'actor vel syndicus, vale a dire-similmente a come avveniva per chi rappresentava la Res publica-quod communiter agi fierique oporteat, nonché la defensio dei beni posseduti in comune. Si noti che non è il fatto in sé di possedere dei beni a richiedere la rappresentatvità della societas tramite un singolo personaggio, ma piuttosto la loro gestione; cosa questa che avrà, come si può ben immaginare, estesa importanza nel determinare-più che nel definire-vasti spazi di manovra del vescovo nel gestire il patrimonio diocesano. Nel caso specifico della realtà delle comunità cristiane, il ruolo del vescovo agisce come essenziale punto di raccordo nei riguardi di due esigenze, che nascono dalla difficoltà del mondo romano a definire la personalità giuridica collettiva: da un lato la necessità di conferire rappresentatività alla comunità dei fedeli, al corpus Chrisitanorum, come si è detto; e, dall’altro, di consentire altrettale rappresentatività alle pie fondazioni che nascevano per esigenze di culto o di beneficenza (vedi G. Savagnone, Le corporazioni-fondazioni, in BIDR, XVIII-XIX, 1956, p. 93-125 e F. Fabbrini, La personalità giuridica..., cit.).
5 Sulla cronologia di fondazione dei tituli e sulla loro distribuzione nello spazio urbano di Roma si vedano C. Pietri, Roma Christiana, Roma, 1976, ID. Recherches sur les domus ecclesiae, in REA, XXIV, 1/2, 1978, p. 3-21, R. Krautheimer, Roma, profilo di una città. 312-1308, Roma, 1981.
6 Per le indagini a S. Clemente si fa riferimento ai risultati pubblicati da F. Guidobaldi, in S. Clemente. Gli edifìci romani, la basilica cristiana e le fasi altomedievali, vol. IV/1 della S. Clemente Miscellany, Roma, 1992; per i rapporti tra tessuto abitativo e edifici di culto nella Roma tardoantica si vedano ancora i cantributi del Guidobaldi, L'edilizia abitativa unifamiliare nella Roma tardoantica, in SRITA, II, Roma-Bari, 1986, p. 165-238 e Roma. Il tessuto abitativo, le domus e i tituli, in Storia di Roma, cit., vol. III/2, Torino, 1993, p. 69-84. In occasione dell’ultimo Convegno Nazionale di Archeologia Cristiana (Cassino-Napoli, ott. 1993), M. M. Cecchelli ha presentato un ragguaglio sulle più recenti indagini archeologiche nelle chiese titolari romane.
7 LP, I, p. 232.
8 Sul clima politico e le difficoltà incontrate dai pontefici nel condurre in porto questa operazione restano fondamentali, oltre ai già citati, almeno altri due lavori del Pietri: Le Sénat, le peuple chrétien et les partis du cirque à Rome sous le pape Symmaque, in MEFR, LXXVI11, 1966, p. 123-139 e Aristocratie et société cléricale dans l’Italie chrétienne au temps d’Odoacre et de Théodoric, in MEFRA, XCIII-1, 1981, p. 417-467. Per una disamina della evoluzione dell’organizzazione amministrativa dei patrimoni pontifici fra il 425 e il 515 ca. rimando ancora al mio Il Patrimonium Sancti Petri....
9 La indicazione più suggestiva in questo senso è quella rappresentata dal passo della lettera I, 42 dell’epistolario di Gregorio (ed. Ewald-Hartmann in MGH-Ep., vol. I, Berlino, 1891), in cui il pontefice si lamenta che i conductores (ovvero i grandi affittuari) delle proprietà papali sull’isola mutavano troppo frequentemente. Si tratta di un indicazione sfortunatamente non troppo dettagliata, che non ci consente di conoscere a fondo i termini della questione. In genere, i contratti a breve durata avevano cadenza quinquennale.
10 Tutti i dati disponibili provengono da due fonti: 1) alcuni capi del libro III della Collectio canonum del cardinale Deusdedit (compilazione di XI secolo di fonti legislative dedicata a papa Vittore III), dal significativo titolo De rebus ecclesice, e precisamente i n. 138, 139, 140 e 208-258 (numerazione della edizione V. Wolf von Glanvell, Paderbom, 1905, corrispondenti ai n. 117-119 e 149 della ed. P. Martinucci, Venezia, 1869); 2) una formula (la n. 96) conservata nel codice Ambrosiano del Liber diurnus Romanorum pontificum (raccolta di formule, datata tra VI e VIII secolo, per la compilazione di lettere in partenza dalla cancelleria pontificia), ed. H. Forster, Berna, 1958. Per la bibliografia critica relativa alle due suddette fonti, si vedano RFMÆ, IV, Roma, 1976, p. 182; L. Santifaller, Liber diumus. Studien und Forschungen, Stoccarda, 1976; T.F.X. Noble, Literacy and the papal government in Late Antiquity and the Early Middle Ages, in The Uses of Literacy in Early Mediaeval Europe, a c. di R. Mc Kitterick, Cambridge, 1991, p. 82-108.
11 II testo del contratto, riportato da Deusdedit, CC, III, 138, recita in proposito: Proinde domum cum horto suo posita in hac Urbe Roma iuxta thermos Diocletianas regione IV... tibi in XXVIII annorum spatia ad unum auri solidum persolvendum singulis quibusque annis rationibus ecclesiasticis pensionis nomine possidendam concedimus; nec te exinde eici vel augmentum pensionis illic constituimus imponendum. Ita sane ut reparatio eiusdem domus in cunctis utlitatibus stadere sicut diligens paterfamilias debeas. Post vero XXVIIII annorum curricula eadem domus cum orto suo ad ius Sancte Romane Ecclesie, cuius est proprietas, sine dubio revertatur, nec aliquid ex his, que in eius meliorationem expensa fuerint, vel a te vel tuis heredibus sit repetendi licentia; quia rationis ordo non sinit, ut rei meliorationis expensam repetat, qui in eadem pensione augmentum non recepit.
12 Si veda la problematica relativa alla evoluzione dei diritti di superficie in epoca postclassica, che sembra prospettare una divergenza tra diritto «volgare» e «ufficiale», per cui il primo avrebbe teso a riconoscere una proprietà sul soprassuolo distinda da quella del suolo (quale poteva discendere non solo dalla costruzione ex-novo di edifici, ma anche dalle migliorie apportate a un patrimonio immobiliare già esistente, come testimonia Cass., Var., VII, 44); mentre il secondo, soprttutto attraverso la codificazione giustinianea «distinguendo nettamente tra proprietà e diritti reali a carattere dominicale, configura la superficie come ius in re aliena, di contenuto assai ampio sostanzialmente assimilabile al diritto di enfiteusi» F. Sitzia, Superficie (diritto romano), in Enciclopedia del diritto, dir. F. Santoro Passarelli, vol. XLIII, Milano, 1990, p. 1459-1463). L’atteggiamento dell’estensore del contratto dell’epoca di Onorio I, citato alla nota precedente, rientra nell’alveo della legislazione giustinianea sulla proprietà ecclesiastica (Novelle VIIe CXX). All'interno di essa, le modifiche dello stato di una proprietà, rientravano negli obblighi di miglioria previsti dal regime enfiteutico, il quale, proprio in materia di proprietà ecclesiastiche era stato definito con particolare cura in modo da non «annacquare» in alcun modo i diritti dominicali sui beni locati. Sull’argomento si vedano anche E. Levy, Western Roman Viulgar Law, Philadelphia, 1951, p. 43-54 e p. 77-81; I. Birocchi e M. C. Lampis, Superficie (diritto intermedio), in Enciclopedia del Diritto, cit., vol. XIV, Milano, 1965, p. 915-920; A. Paladini, Superficie (Diritto Romano), in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVIII, Torino, 1980, p. 941-944.
13 D. Vera, Enfiteusi, colonato e trasformazioni agrarie nell’Africa Proconsolare del Tardo Impero, in L’Africa romana, Atti del IV convegno, a c. di A. Mastino, Sassari, 1987, p. 267-293; Id. Conductores domus nostrae, conductores privatorum. Concentrazione fondiaria e redistribuzione della ricchezza nell’Africa tardoantica, in Atti della tavola rotonda «Institutions société et vie politique dans l’Empire Romain au IVe siècle ap. J.-C. », Parigi, 1989, ed. Roma, 1992, p. 465-490; J. Gascou, Les grands domaines, la cité et l’État en Égypte byzantine, in TM, IX, 1985, p. 1-89.
14 Vedi oltre i riferimenti ai singoli documenti esaminati in tal senso.
15 G. Barone Adesi, Il sistema giustinianeo delle proprietà ecclesiastiche, in Atti del convegno La proprietà e le proprietà, a c. di E. Cortese, Pontignano, 1985, p. 75-120.
16 II regesto di Farfa, a c. di I. Giorgi e U. Balzani, vol. II, Roma, 1879, doc. 224 (d’ora in avanti abbreviato in RF).
17 II tentativo pontificio di subentrare nel controllo della Sabina tiberina risale all’epoca di Adriano I (772-795). La concretizzazione di tale progetto passava attraverso l’incamerazione di tale area nelle pertinenze del patrimonium Sabinense della Chiesa Romana. Il Chronicon Farfense (ed. U. Balzani, 2 voi., in FSI, Roma, 1903,1, p. 183), ovvero Gregorio da Catino, che ne fu l’autore alla fine dell’XI secolo, riconobbe in maniera assai chiara come il diploma di conferma dei beni farfensi emesso da Stefano IV fosse in realtà un marchingegno per espropriare Farfa stessa del dominium sulle sue terre; e l’elemento fondamentale di tale marchingegno è costituito dalla imposizione di una pensio, che equivale a trasformare la confirmatio in una concessione d’uso. Per una più approfondita disamina della «querelle» romano-farfense rimando ancora a F. Marazzi, Il Patrimonium sancti Petri...
18 Sulla fondazione della Civitas Leoniana, e sulla sua valenza politco-simbolica, rimando al mio contributo, con bibliografia aggiornata, Le città nuove pontificie e l’insediamento laziale nel IX secolo, in Atti del convegno «La storia dell'alto medioevo (V-X secolo) italiano alla luce dell'archeologia», a c. di G. Noyé e R. Francovich, Pontignano, 1992, ed. Firenze, 1994, p. 251-278. Il documento in questione è edito da L. Schiaparelli in II cartario di S. Pietro in Vaticano, in ASRSP, XXIV, 1901, doc. II, p. 432-437.
19 II documento viene definito privilegium donationis; tuttavia, nella dispositio, questa caratteristica del documento viene ad ibridarsi: a presenti II indictione tibi (l’abate del monastero di S. Martino al Vaticano)... hec omnia que superius ascripta leguntur... per hanc nos tram apostolicam preceptionem seriem confìrmamus pro mercede animce nostrce in iam dicto venerabili dicto monasterio Sancti Martini... id est usque in fìnem seculi secura integritate sancimus detinendum atque possidendum a te tuisque successoribus singulis quibusque indictionibus pensionis nomine rationibus supradictorum locorum ecclesiasticis tres auri uncias sine omni difficultate in perpetuum persolvantur. Le perplessità sulla natura del documento erano sorte per tempo, dato che lo Schiaparelli lo considerò una donazione, il Kehr (Italia pontificia, vol. I, Roma, Berlino, 1906, p. 145), molto prudentemente si limitò a definirlo una «concessione di beni»; lo Ewald (Regesta pontifìcum Romanorum, II, ed., Lipsia, 1885, nr. 2653) lo classificò come «conferma di beni».
20 Tutti i dati proposti qui di seguito provengono da LP, I, vite di Silvestro, Marco, Damaso, Innocenzo e Sisto III.
21 Sulle presumibili ragioni di questa localizzazione «eccentrica» delle proprietà della basilica vaticana e di altri santuari romani si veda ancora Pietri, Roma cristiana..., cit. a nota 3.
22 Sulla città siriaca nella tarda antichità J.H.W. Liebeschuetz, Antioch. City and imperial administration in the Later Roman Empire, Oxford, 1972, p. 98-100 e 132-135.
23 Ancora dei lavori di D. Vera risultano decisivi per la conoscenza di questi due personaggi e delle loro ricchezze fondiarie: Simmaco e le sue proprietà: struttura e funzionamento di un patrimonio aristocratico del IV secolo, in atti del convegno Symmaque. À l'occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l'autel de la Victoire a c. di F. Paschoud, Parigi, 1986, p. 231-270; Id. Forme e funzioni della rendita agraria nella tarda antichità, in SRITA, I, Roma-Bari, 1986, p. 367-447 + note.
24 Sull’argomento, il dibattito recente è sintetizzato nei contributi di G. Arnaldi, L’approvvigionamento di Roma al tempo di Gregorio Magno, in SR, XXXIX, 1-2, 1986, p. 25-39; J. Durliat, De la ville antique à la ville byzantine. Le problème des subsistances, Parigi-Roma, 1990; F. Marazzi, Il conflitto tra Leone III isaurico e il papato fra il 725 e il 733, e il ‘definitivo’ inizio del medioevo a Roma, in PBSR, LIX, 1991, p. 231-257; Id. Roma, il Lazio, il Mediterraneo: relazioni tra economia e politica dal VII al IX secolo, in Atti del convegno La storia economica di Roma nell’alto medioevo alla luce dei recenti scavi archeologici, a c. di L. Paroli e p. Delogu, Roma, 1992, ed. Firenze, 1993, p. 267-285; P. Delogu, La storia economica di Roma nell’alto medioevo. Introduzione al seminario, in ibid., p. 11-29. Sul peculiare ruolo del vescovo, a partire dal V sec., come nutritore dei poveri, vedi P. Brown, Dalla plebs romana alla plebs Dei: aspetti della cristianizzazione di Roma, in Governanti e intellettuali. Popolo di Roma e popolo di Dio, Torino, 1982, p. 123-145; Id., Power and persuasion in late Antiquity, Madison-Londra, 1992, p. 89-102. La linea interpretativa attualmente più accreditata è quella che, ribadendo l’importanza del flusso dei rifornimenti che la Chiesa Romana traeva dai suoi patrimoni fondiari «lontani» (in Sicilia, Campania e Calabria, principalmente), tuttavi stempera l’idea che i pontefici siano subentrati tout-court nella gestione del sistema annonario imperiale che, in quanto tale, doveva essersi semplicemente estinto. Il dato storicamente rilevante è invece quello che vede la Chiesa emergere, tra la fine del secolo VI e gli inizi del VII secolo, come unica forza cittadina in grado di garantirsi (e fame quindi in qualche modo beneficiare la città intera) un afflusso di rifornimenti lungo quegli assi mediterranei che erano stati propri della città tardoantica. Per quanto concerne la base economico-produttiva locale della regione romana, dopo che la ricerca archeologica ha dimostrato come il declino della produzione e degli insediamenti sia da porre in stretta relazione con le vicende del centro urbano romano (con un declino dram¬ matico, quindi, della rete insediativa da porre nel VI piuttosto che nel III secolo), l’obbiettivo delle future ricerche sarà quello di individuare in che misura il territorio producesse per il mercato urbano tra sec. VI ex. e sec. VIII (per un approccio generale ai problemi vedi F. Marazzi, L'insediamento nel Suburbio di Roma tra IV e VIII secolo, in BISIM, XCIV, 1988, p. 251-313; H.L. Patterson, Un aspetto dell’economia di Roma e della Campagna Romana nell’altomedioevo: l'evidenza della ceramica, in La storia economica di Roma..., cit., p. 309-331.
25 J.O. Tjäder, Die nichtliterarischen lateinischen Papyri Italiens aus der Zeit 450-700, in AIRS, XIX, 1-3, 1954-1982.
26 L. Ruggini, Economia e società nell’Italia Annonaria, Milano, 1961, p. 558-563. Per un aggiornamento della problematica realtiva al peso della tassazione, soprattutto nel corso del IV secolo, si veda J.-M. Carrié, L’economia e le finanze, in Storia di Roma, cit., vol. III/l, p. 751-787.
27 A.H.M. Jones, Census records in the Later Roman Empire, in JRS, XLIII, 1953, p. 49-64; J. Gascou, Le cadastre de Aphroditô, in TM, X, 1987, p. 103-158.
28 P. Delogu, La storia economica di Roma..., cit.; F. Marazzi, Roma, il Lazio, il Mediterraneo..., cit. Tuttavia resta in parte insoluto il problema della costante presenza, in Roma, di numerario bronzeo, presumibilmente anche di coniazone locale, sino al periodo a cavallo tra VII e VIII secolo: era esso semplicemente funzionale a quell’ambito di transazioni commerciali definibile, con una generalizzazione «degli scambi minuti», che, diremmo per forza di tradizione, continuava ad essere, almeno in parte, risolto per mezzo dello strumento monetario? Oppure esso è il riflesso di una perdurante necessità di computare somme da destinare alle pubbliche esazioni? Su questi temi gli studi più aggiornati, nel confronto simultaneo dei dati offerti dalle fonti scritte e da quelle archeologiche si trovano in A. Rovelli, La moneta nella documentazione altomedievale di Roma e del Lazio, in La storia economica di Roma..., cit., p. 333-352. Ringrazio di cuore Alessia Rovelli e Lucia Saguì per gli scambi di informazioni avuti sull’argomento.
29 Greg., Reg. Epistol., cit. a nota 9: IX, 233, (Lilibeo); IX, 180 (Tindari); II, 9 (Messina); IX, 58 (Fermo)
30 dati provengono da CC, cit. a nota 10 e da un’epigrafe dell’età di papa Sergio I (687-701), edita da G.B. De Rossi, in BAC, II serie, I, 1870, p. 89-115.
31 LP, I, p. 315.
32 J. Guyon, La vente des tombes à travers l’épigraphie de la Rome chrétienne (IIIe-VIe siècles): le rôle des fossores, mansionarii, praepositi et prêtres, in MEFRA, LXXXVI-1, 1974, p. 549-596.
33 É. Hubert, Espace urbain et habitat à Rome du Xe siècle à la fin du XIIIe siècle, Roma, 1990.
Notes de fin
1 Abbreviazioni utilizzate nel testo:
AB = Analecta Bollandiana
AIRS = Acta Instituti Romani Regni Sueciae
ASRSP = Archivio della Società Romana di Storia Patria
BAC = Ballettino di Archeologia Cristiana
BIDR = Ballettino dell’Istituto di Storia del Diritto Romano «V. Scialoja», Roma
BISIM = Ballettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo
FSI = Fonti per la Storia d’Italia, ed. Ist. Stor. Ital. per il Medio Evo.
JRS = Journal of Roman Studies
MEFR = Mélanges d’Archéologie et d’Histoire de l’École française de Rome
MEFRA = Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité
MGH-Ep. = Monumenta Germaniae Historica, Epistolae
PBSR = Papers of the British School at Rome
REA = Revue des Études Augustiniennes
RFMÆ = Repertorium Fontium Medii AEvi, ed. Istituto Storico Italiano per il Medio Evo.
SCIAM = Settimane del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto.
SR = Studi Romani
SRITA = Società Romana e Impero Tardoantico, a c. di A.Giardina, 4 vol.
TM = Travaux et Mémoires
Auteur
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