Forme di gestione immobiliare a Bologna nei secoli centrali del Medioevo tra normativa e prassi
p. 41-69
Résumé
Il concetto di proprietà dissociata rappresenta anche per lo storico una costruzione stratificata e frammentata di iura e di res, in particolare se si approfondisce lo studio della proprietà immobiliare cittadina nei secoli XI-XIII, che coincidono per l’Italia del Centro-Nord con un periodo di massima espansione edilizia e socio-economica. A questi secoli rimandano le osservazioni relative alla città di Bologna ed all’immediata fascia del suburbio, basate su una campionatura significativa di concessioni terriere e immobiliari ; si tratta di contratti di enfiteusi, di solito a lunga scadenza, accordati da enti ecclesiastici – assai più radi quelli emessi da privati laici –, che consentono di cogliere piste di ricerca ed nodi problematici di grande interesse. E ciò soprattutto relativamente al diritto di superficie, che, in un’età di intenso sviluppo demografico ed urbanistico sembra costituire, per la realtà esaminata, un’apertura quasi inevitabile del diritto enfiteutico di consolidata, plurisecolare tradizione. Lo ius superficiel lo troviamo anzitutto applicato, anche se in forma ancora incerta (secoli XI-XIII), nei borghi in cui si procede ad un’energica colonizzazione urbana, dove si costruisce ex novo, dove la città cresce, in ogni settore, appropriandosi delle terre coltivate e degli spazi vuoti per costruirvi le abitazioni di nuove famiglie.
Texte intégral
«Propriété, propriétaire: que voilà appliqués au Moyen Âge des mots lourds d’équivoques» (Marc Bloch, 1937)
1Il concetto di proprietà dissociata evoca anche nella mente dello storico una costruzione stratificata e frammentata di iura e di res, di grande efficacia realistica. In particolare, se ci si addentra nello studio della proprietà immobiliare cittadina, nei secoli di più forte espansione edilizia e socio-economica degli stessi nuclei urbani. Mi riferisco in tal senso, per l’Italia centro-settentrionale, all’età che precede l'affermarsi dell’istituto comunale, il secolo XI, ed ai secoli immediamente successivi, il XII e il XIII, in cui il nuovo ordinamento politico-amministrativo, un po’dovunque, raggiunge su molti versanti il proprio massimo consolidamento.
2A questo periodo rimandano gli esempi e le osservazioni, tratti da una campionatura significativa, anche sul piano quantitativo, di concessioni terriere e immobiliari, effettuate da enti ecclesiastici, in misura assai inferiore da privati laici, nella città di Bologna e nell’immediata fascia suburbana. Su queste basi si cercherà di evidenziare piste di ricerca e nodi problematici per lo studio di una questione sino ad ora indagata ai margini del più ampio, generale sistema organizzativo della proprietà fondiaria, una tematica che, in altri termini, nelle sue implicazioni sociali ed economiche sembra richiedere ancora una precisa definizione.
Le basi contrattualistiche
3In tema di dissociazione della proprietà, ma non solo per questo, lo studio della realtà bolognese, cittadina e rurale, deve necessariamente fare costante riferimento al contratto d'enfiteusi1. La sua struttura, già ben definita nel secolo X, riproduce in modo diretto ed inequivocabile il modello dell’enfiteusi-peticio ravennate. All'aprirsi del Medioevo e sino al IX-X secolo essa fu, proprio a Ravenna e nell’Esarcato, uno strumento valido di affermazione politica ed economica, nelle mani dei maggiori enti ecclesiastici, segnatamente della potente Chiesa ravennate2.
4L’enfiteusi bolognese ha mantenuto pressoché inalterata la struttura espositiva e dispositiva della peticio – come richiesta avanzata dal concessionario al concedente – sino ad inoltrato secolo XII, per essere poi soppiantata, negli ultimi decenni del secolo, da un testo contrattuale che mostra talune varianti, quantomeno nella formulazione della domanda-offerta tra le parti, alla base dell’accordo stesso. La persistenza dell’enfiteusi ha interessato sia le terre del contado sia quelle della città, e in entrambi i contesti essa ha giocato, particolarmente tra XI e XII secolo, un ruolo chiave dominante. Ciò non solo a Bologna ma, di fatto, in tutti i territori dell’Emilia orientale. Nella Romània, di antica dominazione bizantina, il forte radicamento di questa prassi contrattuale segnò per gran parte del Medioevo, congiuntamente a numerosi altri fattori di ordine economico, sociale e culturale, una netta separazione dall’Emilia occidentale, dove la prolungata vitalità del Regno longobardo aveva favorito il consolidarsi di consuetudini e tradizioni ben distinte da quelle romanico-bizantine, testimoniate sino all'aprirsi dell’Età Moderna3.
5Il ruolo dominante del patto enfiteutico, emergente dallo spoglio delle fonti notarili prodotte nel periodo qui considerato, impresse ai meccanismi della società e dell’economia locali tendenze specifiche, che dobbiamo anzitutto inquadrare nella politica gestionale degli enti ecclesiastici, regolari e secolari4. Questi, secondo un calcolo approssimativo che non si allontana molto dalla realtà, controllavano nel Bolognese, durante il secolo XII, almeno i 2/3 dei beni fondiari, nelle campagne, nella cintura suburbana e nel cuore della città stessa: un patrimonio, dunque, straordinariamente ricco, affidato ad enfiteuti laici in virtù di accordi a lunga scadenza, talvolta di durata perpetua5. Sulle terre ecclesiastiche e sui modi di conduzione che i religiosi, di fatto, imponevano ai concessionari, di norma non coltivatori, faceva leva, dunque, la capacità produttiva del contado, all’aprirsi dell’età comunale ed oltre: erano i decenni in cui l’affermazione della città sul territorio comitatino veniva consolidandosi su tutti i fronti, mentre la crescita demografica, sostenuta da un incalzante flusso migratorio, alimentava la pressione delle richieste di beni di prima necessità6.
6Gli enfiteuti di terre monastiche o di proprietà spettanti a chiese o a collegi canonicali appaiono detentori di diritti non sempre facili da definirsi, imperniati sull’esercizio dell’uti piuttosto che su quello del fruì, di prerogative riconducibili, dunque, al concetto di utile piuttosto che a quello di sfruttamento7. Il patto iure emphiteosin rappresentò uno strumento decisivo per questi concessionari, di ceto medio, segnatamente per il loro arricchimento e la loro affermazione ai vertici della società cittadina. Il fenomeno va colto in tutta l’ampiezza del suo dispiegarsi: così, nelle campagne, da cui provenivano non pochi gruppi familiari, emergenti in piena età comunale, emigrati da tempo in città, e in ambito urbano, dove mercanti ed artigiani, tra XI e XII secolo, soprattutto, incamerarono, tramite accordi enfiteutici, cospicue proprietà ecclesiastiche, in città come nel contado8.
7Dal punto di vista quantitativo, il patto enfiteutico dominò lo scenario contrattuale, e sino a tutto il secolo XII non rinveniamo altre forme scritte di concessioni fondiarie ed immobiliari; un’emergenza quantitativa che risalta anche dal confronto diretto con gli atti di compravendita, numericamente assai inferiori anche per i noti vincoli che impedivano o, quantomeno, limitavano fortemente l’alienazione e la vendita di beni ecclesiastici.
8Alla luce di queste osservazioni dovremo guardare alla città senza stupirci di fronte alle iniziative dei religiosi, attivi promotori di un piano razionale di urbanizzazione, soprattutto tra XI e XII secolo, quando l’area cittadina, in piena crescita, si allargava nel suburbio invadendo molti spazi agricoli. Un progetto ben calcolato, si badi, di urbanizzazione che aveva come obiettivo, nel lungo periodo, una duplice forma di controllo: sull’utilizzazione o lo sfruttamento delle terre-già edificate, in parte o completamente, oppure destinate ad esserlo-e sull'insediamento della popolazione. Un controllo sulle persone fisiche, quindi, che sembra talora prevalere sulla ragione economica; a ben vedere, esso si esprimeva, in questi stessi termini, anche attraverso l’enfiteusi, che sanciva appunto una certa forma di controllo esercitata dal dominus sul possessor, sull’utilista, delineando, così, un rapporto complesso tra le parti, fondamentalmente gerarchico. Il dominus, in virtù del patto enfiteutico, non rinunciava al dominio sulla terra, anche se questa era stata ceduta ad un possessor, che godeva di diritti consolidati, per lungo tempo, per sé ed i propri discendenti9.
9Il dominus, nel nostro caso ecclesiastico, può dunque disporre senza vincoli dei terreni, abbattere edifici, muri, colmare fossati che non servono più; può decidere di realizzare una capillare lottizzazione e destinare i solos terre contigui all’edilizia abitativa; oppure, all’opposto, può imporre all’enfiteuta di tenere vacua la terra, cioé libera da costruzioni e, talora, coltivata ad orto o vigna. Tra divieti ed imposizioni, che scandiscono con forza il significato di parecchie centinaia di atti enfiteutici, certamente ripetitivi, l’abate di un monastero o il priore di un istituto canonicale è dunque in grado di dirigere la nascita di un borgo cittadino, affiancando la propria pianificazione urbanistica a quella delle magistrature civili: nel nostro caso, quest’ultima fu attivata più tardi, ad iniziare solo dal pieno XII secolo, nella sfera progettuale legata all’espansione del tessuto urbano ed attenta, in primo luogo, al potenziamento dell’edilizia pubblica10.
10Le indagini per ora hanno rivelato in tal senso un’equilibrata sintonia degli interventi, da parte degli organi civili ed ecclesiastici. Tuttavia, nell’intensa e costruttiva attività urbanistica dei religiosi possiamo rintracciare le basi, quantomeno topografiche, di quella distrettuazione parrocchiale che solo nel ’200 vedremo applicata con regolarità.11 Tra l’altro, le abbazie e le chiese cittadine impegnate nel programma urbanistico contribuirono, tramite le clausole ed i vincoli spesso rigidi, inderogabili siglati in sede contrattuale, a rafforzare quei sodalizi tra i residenti che sarebbero sfociati, in seguito, nell’istituto della vicinia: in pieno’200, i vicini avrebbero svolto funzioni decisive, pienamente inserite nei meccanismi dell’ordinamento comunale, soprattutto sul versante del controllo e dell’ordine sociali12.
11I contratti enfiteutici accordati dai monaci di S. Stefano, una delle più antiche e facoltose fondazioni monastiche della città, forniscono uno scorcio prospettico interessante, particolarmente tra gli anni ’60 dell’XI secolo ed il 1180 circa. La documentazione, in gran parte inedita, va necessariamente collegata a quella prodotta da altre istituzioni, proprietarie di terreni urbani, come la centralissima chiesa di S.Giovanni in Monte, sede di canonici regolari13. A Giorgio Cencetti ed ai suoi studi sulle enfiteusi ecclesiastiche di ambito bolognese siamo ancora oggi profondamente debitori. Negli anni ’30 del nostro secolo, mentre curava l’edizione diplomatica degli atti superstiti più antichi, egli approdava ad una serie di riflessioni, mai più riprese con altrettanta puntualità metodologica e forza intuitiva: la solida esperienza, maturata nel campo delle rogazioni notarili, suggeriva allo storico l’intreccio costante tra i dati della normale prassi contrattualistica ed i nodi problematici maggiormente discussi nei testi giuridici del XII e XIII secolo:
12«Per essi – i giuristi ed i glossatori della Scuola cittadina, scriveva Cencetti in una riflessione di sintesi – l’enfiteusi raccoglie sotto un nomen generale una infinita varietà di tipi locali, che vanno dalla precaria al livello, ammessi dalla dottrina, per lo meno come nomi... Ciò costituisce uno sforzo di unificazione» – positivo, sostiene l’A., perchè colloca entro un certo sistema concettuale quei patti non previsti dalla legislazione e li racchiude, come meglio può, nella sfera del diritto romano comune-. «Ma – prosegue – non riesce a fondere e ad assimilare tipi contrattuali che in realtà hanno vita autonoma e contenuto diverso, anche se caratterizzati tutti da un intenso potere sul suolo, per lo più configurabile come dominio utile». E questo dominio utile, precisa l’A., «è costituito dalla elevazione a diritto autonomo sulla cosa della somma di diritti di godimento trasferiti dal proprietario all’enfiteuta, e dalla sua assimilazione alla proprietà»14.
13Una definizione giuridica lenta e tortuosa nelle proprie formulazioni contrassegnò, di fatto, il dibattito tecnico, nel contesto di quel Rinascimento dottrinale che, anche a Bologna, cercava di giustapporre, a fatica, il diritto romano alla dinamica complessità di iura e dominia radicatisi tra le consuetudini dell’alto Medioevo. Nella fattispecie, in materia di enfiteusi, i commentatori tendevano a disperdersi, elaborando teorie ed interpretazioni talora contrastanti. Gli ostacoli, in tale ambito, sorgevano sia di fronte alla difficoltà di applicare rigidamente la normativa classica della romanità, sia nel confronto più diretto con l’estrema varietà di usi e di pratiche, quasi sempre di valore locale, che caratterizzavano proprio il modello enfiteutico, tra la fine dell’XI e durante il XII secolo15. Anche in questo senso, il contratto propriamente designato iure emphiteosin giocò un ruolo dominante, tanto che, in avanzato secolo XII, non solo le interpretazioni dei giuristi ma gli stessi accordi contrattuali mostravano, tendenzialmente, di non fare alcuna differenza tra enfiteusi, precaria (iure enfìteotecario et precario) e certi tipi di concessioni livellarie. Tuttavia, «combinazioni negoziali» analoghe sono già documentate, seppure sporadicamente, negli atti notarili del X e XI secolo16.
14Dalle fonti private di questi decenni e dalla coeva ricerca giuridica17 prendevano gradualmente corpo le prime raccolte statutarie cittadine (1245-’67 e 1288), dove – è bene segnalarlo sin d’ora – rintracciamo, tra gli altri nodi salienti, la sistemazione di alcuni termini contrattuali propri dell’enfiteusi, ed una definizione in fieri del la figura e dei diritti del superfìciarius18. E dove, ancora, si dà l’assoluta, sintomatica priorità alle enfiteusi delle res ecclesiastiche, riconoscendo esplicitamente come l’enfiteusi stessa avesse ormai assorbito altre forme contrattuali: «et predicta locum habeant etiam in precariis», recita un capitolo normativo del 128819.
La crescita della città
1) «... do et concedo tibi solo uno terre cum casa...»: le proprietà cittadine di S. Stefano tra XI e XII secolo
15Nei patti enfiteutici di terreni cittadini, conclusi tra XI e XII secolo, è ricorrente la distinzione, quantomeno a livello terminologico, tra il nudo suolo e ciò che la superficie su di sè contiene, il cosiddetto soprassuolo; un’attenzione particolare viene espressa per la sua destinazione d’uso, segnatamente se si prefigura la possibilità di sfruttamento edilizio. In altri termini, tali formule notarili, che si affermano nella prassi proprio in questi anni, suggeriscono l'esistenza di diritti di superficie goduti dall’enfiteuta, diritti che in avanzato secolo XII le fonti dottrinali avrebbero esaminato – o riesaminato se si considera la normativa già vigente in età romana –20. Solo più tardi, dai primi decenni del ’200, le transazioni fondiarie bolognesi, concernenti il suolo edificato urbano, menzioneranno espressamente taluni proprietari d’immobili come detentori dello ius superficiei21.
16Anche se in forma indicativa e prive di una specifica definizione giuridica, le testimonianze relative ai diritti del soprassuolo tendono ad infittirsi parallelamente all’espansione edilizia cittadina, confermando così le tesi formulate da alcuni storici del diritto in materia di recupero dello ius medesimo22. Al di là della sua origine e di talune correlazioni con quanto prescritto dalla normativa romanobarbarica, soprattutto da quella longobarda23, è innegabile che al diritto di superfìcie, alla sua definizione, nuova o rinnovata, si iniziò a lavorare, sui piani teorico e pratico, sotto l’impulso di necessità pressanti, legate alla progettualità ed allo sviluppo urbanistici.
17La locuzione che abbiamo sopra evidenziato più efficacemente di altre segnala uno spiccata attenzione per le forme dissociate della proprietà. Molto spesso essa introduce l’accurata descrizione della res ceduta in enfiteusi; ma non sempre, quasi a comprovare un’oscillazione della prassi legata all’incertezza formale e giuridica negli anni di passaggio tra i due secoli24. La consuetudine locale prevedeva stesure negoziali straordinariamente ricche di dati topografici ed onomastici – puntuale la registrazione dei nomi dei confinanti e degli eventuali consortes –, e di precisi, a volte puntigliosi riferimenti alle dimensioni del lotto25.
18L’attività dei notai cittadini, operanti in questo periodo presso i maggiori enti ecclesiastici, contribuì in modo decisivo alla graduale elaborazione di quel modello di enfiteusi che, di lì a poco, la normativa statutaria del secolo XIII avrebbe presentato e codificato, recepite le coeve esperienze dottrinarie di commentatori e glossatori26. Trasformazioni, aggiustamenti, alcuni sostanziali, altri marginali, caratterizzano la struttura del contratto di enfiteusi, soprattutto nel corso del XII secolo. Per i beni urbani e rurali del già ricordato monastero di S.Stefano disponiamo di un fitto materiale documentario, alla cui redazione collaborarono i più esperti e conosciuti notai, che svolgevano prevalentemente la professione in città e nella vicina area del suburbio27. Le enfiteusi superstiti, relative alle terre cittadine, rogate tra il 1063 e il 1180 raggiungono le 80 unità circa, ma le perdite, difficili da quantificare con precisione, sono state nel tempo cospicue28.
19Solo di rado, le concessioni dei monaci appaiono intercalate da patti enfiteutici conclusi tra laici, privati (5 in tutto l’arco temporale)29 e da cessioni di beni e diritti enfiteutici a terze persone, di condizione laica: si tratta di negozi che i notai qualificano genericamente come instrumenta concessionis30. In questi casi, il richiamo al dominacione, interpellato in sede contrattuale per il consenso da accordare affinché subentrino altri nella gestione diretta della res, va interpretato nei termini di quella requisitio domini, strettamente correlata all’esercizio del diritto di prelazione, che trova in questa forma una propria regolamentazione anche nella letteratura giuridica del periodo e negli statuti duecenteschi31.
20I diritti reali acquisiti dall’enfiteuta all’atto della stipulazione negoziale, permangono, senza varianti di rilievo, ancorati a quei principi del possesso enfiteutico esercitato dall’utilista, espressi dalla ricorrente locuzione ad habendum, tenendum et possidendum, cui si affianca quidquid vobis placuerit oppure utilitas est / oportum fuerit, fatta salva la iusticia domnica. A quest’ultima si collega immediatamente, anche sul piano dell’esercizio stesso dello ius domnico, l’obbligo del persolvendum, ossia del versamento della pensio annua, che racchiude, prima di ogni altra, una valenza ricognitiva del dominium stesso32.
21Nelle transazioni esaminate la clausola del divieto di concessione o di subconcessione ai potentes ed ai loro servi rappresenta una delle costanti principali, attestando, tra l’altro, il pericolo che dinamiche legate al clientelismo politico si innnestassero tra i rapporti patrimoniali istituiti ad personam dagli ecclesiastici con i cittadini, intralciandone la stabilità. I richiami espliciti ai maiores, che nei decenni centrali del XII secolo si diradano per poi scomparire, sono riservati agli esponenti dell'antica famiglia comitale, in particolare a Bonifacio ed al figlio Adelberto, vissuti tra la seconda metà del X ed i primi decenni dell’XI secolo33. Si tratta, ovviamente, di una formula cristallizzata, dettata dalla prassi e sostenuta dalla memoria di certi avvenimenti e personaggi, tuttavia non svincolata da una realtà che, tra XI e XII secolo, denunciava certamente soprusi e prevaricazioni da parte di forze sociali di vecchia e di recente affermazione34.
22La durata dell’accordo enfiteutico a 3 generazioni diviene in questi decenni prevalente, sostituendosi a quella a 2 generazioni, in uso precedentemente35. Per il rinnovo, alla scadenza del contratto, si istituisce il versamento di una somma di danaro prefissata, che sembra per lo più rapportata alle dimensioni del lotto. Le clausole di tipo penale, basate su una casistica generica, sostanzialmente invariata rispetto ai secoli precedenti, si assestano su una sanzione in danaro estesa ad entrambe le parti in quote identiche36.
23I caratteri contrattuali che sinteticamente abbiamo ricordato ricalcano la pratica enfiteutica del periodo nella sua globalità; una segnalazione particolare meritano, nel quadro generale, i patti accordati dai canonici cittadini di S. Giovanni in Monte, relativi a terreni di fatto contigui a quelli appartenenti ai monaci di S. Stefano37. Tuttavia, l’operosità di questi ultimi sul versante fondiario ed immobiliare consente, più agevolmente di altri esempi, di seguire l’espansione urbanistica di uno dei principali settori cittadini e suburbani, di antico e stabile insediamento, un’espansione – è bene ribadirlo – programmata e controllata dai monaci stessi. Ne sono interessate, nell’arco temporale più volte menzionato, le aree orientale e sud-orientale, disposte a raggera attorno al monastero; i lotti di terreno oggetto delle transazioni si dispiegano lungo la direttrice stradale portante, la via Emilia (strata Maiore in questo tratto cittadino), e lungo le vie laterali, centralissime, quelle stesse che già ad iniziare dall’XI secolo influenti gruppi parentali, esponenti di spicco dei settori mercantile-finanziario ed artigianale avevano eletto a propri quartieri di residenza38.
24Nelle mani dei monaci, queste realtà insediative che possiamo definire intermedie, anche per alcuni tratti peculiari del paesaggio rurale, tra l’urbs propriamente intesa, racchiusa entro le mura, e l’immediato suburbium, diventano progressivamente borghi. Dotati, in questi stessi decenni all’insegna del loro massimo sviluppo, di strutture ed infrastrutture autonome, come fossati, recinti, muri di recinzione, pozzi e passaggi di uso comune anche per il transito di carri, puntualmente registrati dagli atti enfiteutici, i nuovi agglomerati imprimono nel loro insieme all’attività dei religiosi i caratteri di un’autentica colonizzazione urbana39.
25Il punto di partenza fu, senza dubbio, la lottizzazione, nei termini della creazione di appezzamenti di terra dalle dimensioni e dalle forme il più possibile regolari. Così, sempre più spesso nei contratti scritti, la res ceduta viene misurata in chiusi (= mq. 20,80), mentre, parallelamente, si accentua la distinzione tra il suolo e le sue caratteristiche di superficie, quelle che più direttamente interessano l’utilista-enfiteuta. Al di là dell’effettivo esercizio dello ius superficiel differenziato da quello del nudo suolo, che in tale contesto andrà verificato caso per caso, i patti tra i contraenti precisano sempre: cum casa, curri casa et orto, cum vacuamenta, cum ingambaturia sua, cum casamenta, cum tuvadis – per citare le attribuzioni più frequenti –40. Quasi all’opposto, si segnalano le assenze, con la locuzione solum unum terre vacuum, ossia vuoto, con riferimento specifico, nella maggior parte delle testimonianze, agli edifici, non alle colture che, se presenti, vengono registrate – vigne ed orti soprattutto –41. Nel complesso, il solum terre costituisce un tratto distintivo di queste enfiteusi, ma ad esso, dal secondo-terzo decennio del secolo XII, tende ad affiancarsi una terminologia più generica, incentrata sull'espressione quandam terram cum casa oppure vacuam42.
26La patrimonialità del suolo si mantiene quindi, anche con le modifiche lessicali apportate, ben distinta da quella della casa, così almeno sembra, anche se il proprietario è unico, come nel caso appunto dei monaci di S.Stefano, cui talora appartengono suolo e soprassuolo43. Usi linguistici che riflettono, tra gli altri aspetti, una mentalità abituata a dissociare i diritti di proprietà e di possesso vincolati alla res: ed accanto alla distinzione tra dominio utile e dominio eminente, sancita dal patto enfiteutico, il linguaggio tecnico si fissa, più concretamente, sugli elementi che compongono la res medesima, ossia, nel contesto urbano, il nudo suolo e gli edifici.
27Le dimensioni dei terreni concessi dai religiosi variano, ma la presenza di case o di altre costruzioni, con tutta probabilità intercalate da aree ortive, sembra non incidere in modo considerevole sulla grandezza dei lotti. Di questi viene indicata, di norma, la superficie, in chiusi come si è detto, e su tale base si tende sempre più spesso durante il secolo XII a stabilire la quota della pensio annua (1 danaro a chiuso)44. Tra la fine dell'XI e la prima metà del XII secolo, le dimensioni dei singoli lotti oscillano tra un minimo di 1 chiuso – 1 chiuso e mezzo (20-30 mq.) e un massimo di 12 chiusi (250 mq. circa); mediamente, la superficie si attesta sui 3 chiusi (poco più di 60 mq.). Tuttavia, nella seconda parte del secolo XII, in coincidenza con un marcato infittirsi degli edifici e con il variare, altrettanto evidente, della loro tipologia, registriamo un’estensione media più alta, compresa tra i 4 e i 6 chiusi (83-125 mq. circa).
28Le enfiteusi stipulate dal cenobio cittadino accompagnano due fasi assai vicine dell’espansione urbanistica, che, nella fattispecie, interessano la zona orientale della città stessa. Fino agli anni ’30 del secolo XII i contratti riguardano, in gran parte, il burgo Strate Maioris altrimenti definito burgo monasterii S. Stefani o semplicemente burgo S. Stefani, ossia i terreni a ridosso del monastero stesso e degli orti abbaziali: qui, attorno al complesso monastico, è necessario intervenire prima che altrove, per programmare e vigilare l’insediamento. Il controllo viene, anzitutto, esercitato per garantire il pieno rispetto degli spazi occupati e gestiti direttamente dai religiosi, come evinciamo da talune norme, introdotte nei testi contrattuali, che, tra la fine dell’XI e la prima metà del secolo XII, disciplinano prevalentemente l’utilizzazione del terreno e delle vie di accesso o di transito, con un richiamo abbastanza palese alle attività svolte dalle famiglie residenti45.
29Il borgo monastico sorgeva foris civitatis; ma dopo questi anni, in stretta sintonia con gli interventi del cenobio, esso venne in parte racchiuso all’interno della città, da un nuovo muro di cinta che probabilmente coincideva con un tratto della seconda cerchia di mura urbane, portata a compimento, nel suo tracciato globale, forse negli ultimi decenni del secolo. Ma la pianificazione urbanistica dei monaci non si fermò a questo stadio e di lì a poco si trasferì ancora una volta fuori, ma a ridosso del perimetro cittadino, extra seralia, seguendo sempre come asse portante il percorso della via Emilia: qui, tra gli anni ’50 e'60 del secolo XII, soprattutto, fu organizzata la costruzione di nuovi edifici ed infrastrutture, e, come nei decenni passati, venne promossa la realizzazione di nuovi borghi. Furono colmati fossati vecchi, ormai inutilizzati, e ricavati altri lotti edificabili46; ai nuovi enfiteuti si chiedeva spesso di costruire o di curare la manutenzione di muri che li separassero, anche a vista, dagli spazi monastici47, mentre più precise si fecero, attraverso le enfiteusi, le norme che imponevano un comportamento, per così dire, più decoroso ed urbano, che vietavano rumori, schiamazzi e la raccolta incontrollata di rifiuti48.
30Negli stessi anni i monaci si occuparono della lottizzazione di terreni posti nel vicino borgo di Castiglione (in direzione sud e sudest), dove il controllo maggiore, anche sul versante patrimoniale, spettava ai canonici di S. Giovanni in Monte49. In un’area intermedia tra questo borgo e quello di S.Stefano (o di strata Maiore), i religiosi effettuarono alla metà del secolo XII un’operazione urbanistica di grande interesse: fecero colmare un esteso vivaio monastico per l’itticoltura, lottizzarono i nuovi spazi e li concessero in enfiteusi come terra vacua oppure già costruita. Nel corso di una decina d’anni, venne fondato il burgo Vivaro, successivamente conosciuto come residenza dei Pepoli, signori della città nel secolo XIV50.
31Tra il 1149 e il 1153, sul vivaio di S.Stefano già definitivamente cancellato dal tessuto urbano, rintracciamo un gruppo di superficiarii, quantomeno identificabili come tali, proprietari di edifici innalzati su terreno del monastero ricevuto in enfiteusi. A questi anni appartiene una prima serie significativa di contratti, la cui interpretazione non sembra lasciare dubbi; così, esemplificando, nel maggio del 1149 Bononio, abate, cedeva a due fratelli, di recente immigrati in città da un luogo dell’Appennino, un solo terre hubi casam habetis elevatam super se in Vivaro, in burgo Sancti Stefani et orto post earn51.
32La figura del superfìciario, cittadino, di condizione laica, residente su suolo di enti ecclesiastici, sembra affermarsi ad iniziare dalla metà del XII secolo, in forma abbastanza compiuta, legittimata da quella prassi notarile su cui si fondano gli atti enfiteutici esaminati. Va tuttavia osservato che negli anni precedenti i divieti di edificare case su taluni lotti monastici, oltre ad emergere come segnali del controllo urbanistico esercitato dall’ente, lasciano supporre come gli enfiteuti potessero, normalmente, costruire ed esercitare, forse, sugli immobili, dove di solito risiedevano, diritti di proprietà: a meno che i domini, espressamente, non lo proibissero52.
33I contratti accordati a questi superficiarii sono enfiteusi consuete, non contemplano per i concessionari prescrizioni particolari, al di là di quelle norme che vengono imposte anche ad enfiteuti non superficiarii, e, soprattutto, non prevedono aggravi di spese. I dati sulle provenienze e le professioni svolte, principalmente nel settore artigianale, e sulla tendenza ad acquisire altri lotti di terra contigui, costituiscono, nel loro insieme, elementi di identificazione del tutto assimilabili a quelli concernenti gli enfiteuti semplici del monastero. Così, anche per la composizione dei nuclei familiari, dal momento che assai di rado il concessionario è solo: ed a fianco di coppie di coniugi, incontriamo fratelli e gruppi parentali più estesi, allargati a figli e nipoti, cognati e cugini53. Insomma, intere famiglie – si profila talvolta la struttura ereditaria legata alla scadenza a 3 generazioni del patto scritto, rinnovabile – assicurano ai monaci-domini continuità abitativa, e, dunque, stabilità dei rapporti patrimoniali e sociali. Le garanzie che, in tal senso, il patto enfiteutico può offrire sono tante: l’istituzione, nuova o riabilitata, dello ius superficiei, inserita in una cornice di solide stratificazioni patrimoniali, pare costituire, in un’età di forte sviluppo demografico ed urbanistico, un’apertura per molti aspetti inevitabile dello ius emphiteotico.
2) «... vendo et concedo tibi pro pretio ...»: le proprietà suburbane di Ildebrando negli ultimi decenni del secolo XII
34I destinatari di una serie di cessioni enfiteutiche accordate da un influente cittadino, Ildebrando, tra gli anni 70 e’90 del secolo XII, erano con ogni probabilità proprietari di immobili, costruiti su terreni che avevano ricevuto in concessione come nudo suolo. I documenti non li menzionano come superfìciarii, anche se la distinzione dei diritti patrimoniali esercitati dalle parti – Ildebrando e gli enfiteuti, appunto – si configura abbastanza esplicita.
35Le testimonianze superstiti non sono numerose: una decina di atti relativi agli anni 1171-1192 confluiti, forse poco dopo la morte di Ildebrando, nell’archivio dei canonici, più volte citati, di S. Giovanni in Monte, che allora erano uniti ad un altro collegio canonicale, quello della chiesa suburbana di S. Vittore54. Ad essi, peraltro, dovette pervenire una quota considerevole del patrimonio di Ildebrando, sia dopo la sua morte, avvenuta attorno al 1196, sia dopo quella della moglie55.
36Questo secondo gruppo di contratti, che abbiamo selezionato per mostrare, a titolo esemplificativo, le vicende della proprietà immobiliare cittadina e degli iura ad essa correlati, rappresentano un «segmento» interessante anche per la nostra storia urbanistica. Essi consentono inoltre di osservare, sulla base dei testi contrattuali, le modificazioni formali e sostanziali del patto enfiteutico, in sintonia con le sollecitazioni che emergevano dagli studi dottrinari dei commentatori dello Studio. I contratti qui considerati ricalcano il modello delle peticionibus emphiteotecarii annuendo: largamente diffuse nella seconda metà del XII secolo, esse rimandano ad un’elaborazione giuridica attribuita con certezza ad Irnerio ed alla sua scuola56.
37Non è frequente rintracciare, fra le enfiteusi del periodo, in un contesto cronologico e contrattuale nel quale, di fatto, gli enti ecclesiastici esercitano un forte monopolio, serie documentarie significative, anche sul piano quantitativo, concernenti la patrimonialità e le iniziative, per così dire imprenditoriali, di cittadini laici. Ildebrando, figlio di un giurista, magister Walfredo, ricordato tra i componenti dell’entourage imperiale57, ricoprì la carica di podestà cittadino l’anno 118658. È possibile che tra le proprietà acquisite nel tempo, le terre situate a ridosso della strata Maiore – ci troviamo ancora nella parte orientale della città –, all’esterno della seconda cinta muraria, costituissero il nucleo fondiario più cospicuo, soprattutto per le «quotazioni di mercato», che presumiamo elevate in ragione delle richieste pressanti, in quegli anni, di terreno edificabile nell’immediato suburbio59. I terreni erano contigui a quelli dei monaci di S.Stefano e localizzati in Turlioni, come precisano i testi; l’area, che complessivamente non era estesa, sarebbe stata inglobata dalla città solo alla fine del’200, in seguito al completamento della terza cerchia muraria.
38Il maggior numero di patti enfiteutici stipulati da Ildebrando si concentra nell’anno 1171: di lì a poco, tra il 1173 e il 1179, Turlioni verrà espressamente menzionato come burgo60. Altri interventi, accanto alle lottizzazioni compiute da Ilbebrando, dovettero contribuire alla creazione ed al riconoscimento, pubblico e circostanziato, del borgo – una categoria insediativa non generica ma specifica, in questi anni, sia per i centri sorti accanto alla città, sia per quelli comitatini –; ma è certo che il nostro si impegnò con sistematicità, anzitutto per regolare la distribuzione e le dimensioni dei lotti, con una cura, dunque, particolare per la pianificazione edilizia e l'impianto di strutture di servizio ed uso comuni. Ildebrando si occupò, così, della lottizzazione del suolo, in modo da ottenere appezzamenti di forma stretta ed allungata, allineati sulla via di transito, la strata Maiore appunto, espressamente menzionata nei contratti.
39In questo modo, all’insediamento fu conferita una struttura modulare, che riproduceva la regolare disposizione dei lotti rettangolari, misurati in chiusi, con superfici oscillanti tra 125 e 310 mq. circa. La tipologia delle case, costruite quasi certamente poco dopo l’assegnazione del suolo, dovette rispecchiare la forma dei lotti stessi e ricalcare, così, il modello edilizio più diffuso nelle città del Centro-Nord, in piena età medievale61. I fabbricati, stretti ed allungati, si affacciavano sulla via principale con il lato più corto, mentre si sviluppavano maggiormente in profondità. Gli edifici di Torleone si segnalano, nei dati della progettazione, per una lunghezza variabile, mediamente assestata sui 10-12 piedi (= m. 3,8-4,5 circa), ed una profondità fissa assai superiore, poiché ciascun lotto è detto misurare 120 piedi (= m. 45,6): un’evidente sproporzione, dunque, caratterizza questi moduli abitativi, dove una parte del suolo era destinata ad altri usi, prevalentemente a colture orticole sul retro dell’edificio stesso, secondo una tipologia diffusa in tutta la città.
40Per la terra così frazionata, ceduta in enfiteusi come nudo suolo, era richiesto il pagamento di un prezzo di entratura rapportato alle dimensioni: una quota oscillante tra 7 e 10 soldi a chiuso. L’ultima concessione pervenutaci, accordata da Ildebrando l’anno 1192, mostra un rilevante aumento della richiesta di danaro, complessivamente 15 libbre come predo in possessionem intrandum: ma la res ceduta, a differenza di quelle assegnate negli anni precedenti, comprendeva la casa – cum solo et edifficio, recita il documento –, dunque suolo e soprassuolo insieme62. Tutti gli enfiteuti, per i quali era previsto il rinnovo contrattuale allo scadere della terza generazione, erano tenuti al pagamento di una pensio annua di importo modesto (1, al massimo 2 denari): come di consueto, essa fungeva da elemento ricognitivo del potere dominicale.
41I patti, nella loro veste formale, recano talune importanti modificazioni rispetto alle enfiteusi dell’XI e della prima metà del XII secolo, e sono per molti aspetti assimilabili alle cessioni enfiteutiche coeve emesse dagli enti ecclesiastici, che quindi non si sottrassero alle novità contrattuali, maturate nella prassi notarile e, parallelamente, nelle riflessioni teoriche dei giuristi. Nel loro insieme, gli accordi negoziali comprovano, tra l’altro, l’affermarsi di un «percorso» e di una terminologia giuridici imperniati, assai più esplicitamente che in passato, sulla transazione del possesso. Accanto all’inequivocabile menzione dell’accesso in possessionem, sancito dal pagamento del prezzo d’entratura – un’imposizione che, in questi anni, si badi, non rintracciamo nelle enfiteusi ecclesiastiche – cogliamo nel testo dispositivo la duplice formulazione della concessio e della vendita, bene espressa dal vendo et concedo, spesso riferiti allo iure emphiteosin63.
42L’attività di Ildebrando, sul versante fondiario ed immobiliare che qui abbiamo mostrato, testimonia l’intenzione di gestire, con precise modalità speculative, un piano di lottizzazione suburbana capillare, anche se circoscritto nello spazio. In questa cornice si innestano taluni suoi interventi, diretti a prescrivere al vicinato regole circa l’uso comune di determinate strutture: norme dettate in nome della salvaguardia della collettività e forse, anzitutto, del rispetto di un comportamento più urbano e decoroso, sensibile a quei canoni dell’estetica cittadina che iniziava a delinearsi proprio in quegli anni. Come i proprietari ecclesiastici, che nella nostra città anticiparono, in tal senso, sia le iniziative dei cittadini laici, sia le prescrizioni contemplate dalla normativa statutaria, dalla metà del ’200 in avanti, Ildebrando richiedeva ai propri enfiteuti la manutenzione del fossato del borgo, che personalmente pure lui si impegnava a mantenere cavatura, mundatum atque paratum64.
43Il carattere speculativo dell’operazione, nel suo complesso, è qui più evidente che nelle lottizzazioni attuate, tra i secoli XI e XII, dai benedettini di S. Stefano e da altre locali comunità religiose. È, principalmente, la richiesta esplicita del prezzo d’entratura, previsto da queste enfiteusi e strettamente rapportato al valore effettivo della res ceduta, che consente di cogliere un preciso calcolo economico, focalizzato sulla valutazione di mercato, per così dire sulla commerciabilità del terreno, edificabile o già edificato: la somma, il precium in possessionem intrandum, costituisce un elemento per molti aspetti nuovo per la pratica enfiteutica locale, ed è in questo senso probante65. L’esercizio del diritto di superficie ne esce, forse, meglio connotato rispetto ai decenni precedenti, ma ancora privo di una propria ufficiale collocazione nella sfera giuridico-formale, tanto da essere del tutto assente dalla nomenclatura contrattuale, ancora al chiudersi del secolo XII.
44I preliminari dello ius di superficie sembrano, ancora una volta, maturare là dove più intensamente si procede alla colonizzazione urbana, dove si costruisce ex novo, dove la città cresce in ogni settore, appropriandosi, talora con voracità, delle terre coltivate e delle aree cosiddette vacue, per costruirvi le abitazioni di nuove famiglie. Una crescita che ci appare segnata con decisione, tra XI e XII secolo, proprio nei borghi orientali a ridosso della via Emilia, dall’accoglienza di nuovi cittadini, immigrati nella maggioranza dei casi dal vicino territorio rurale.
3) Le origini dell’insediamento dei Domenicani all’aprirsi del ’200
45Tra gli anni 1219-1240, i Domenicani bolognesi gettarono le basi fondamentali del vasto complesso conventuale che, fra ’300 e ’400, avrebbe costituito una delle più prestigiose emergenze ecclesiastiche della città66. Nella prima metà del ’200, il nucleo edilizio originario fu ampliato dai Predicatori a ridosso di costruzioni preesistenti, che in taluni casi vennero col tempo abbattute. Ne fu interessato un settore suburbano, orientato verso sud, non distante da quei borghi che avevano conosciuto, già in pieno XI secolo, sotto la spinta urbanistica di monaci benedettini e di canonici regolari, alcune fasi di incessante sviluppo.
46Le tappe preliminari dell’insediamento domenicano coincidono con gli anni 1218-1219, quando alcuni confratelli al seguito di Domenico di Caleruega, giunto a Bologna proprio nel 1219, alla ricerca di una sede in Bologna concentrarono il loro interesse su un’area addossata alla cinta muraria del secolo XII più volte ricordata. Una zona affacciata sulle prime propaggini collinari che, per tutto l’alto Medioevo e per buona parte del secolo XII, era restata ai margini di quel capillare processo di urbanizzazione che consentiva di identificare, già all’aprirsi dell’età comunale, nei borghi orientali disposti lungo la via Emilia, i luoghi più vitali del tessuto urbano67.
47La scelta dei Predicatori cadde sulla chiesa di S. Nicolò delle Vigne, soggetta al giuspatronato di un facoltoso ed influente gruppo parentale, i Carbonesi-Andalò, i cui membri ricoprivano spesso, in quegli anni, alti incarichi pubblici. Com’è ovvio, si trattò di una scelta oculata, rispondente ad obiettivi ben conosciuti. La missione dei confratelli, protesa anzitutto allo sradicamento di quelle che potremmo indicare come «deviazioni» in materia di fede, e diretta, in una prospettiva più ampia ma pur sempre stringente, alla cura d’anime, imponeva un luogo d’insediamento centrale in tutti i sensi, che consentisse di penetrare tra le fitte maglie della società cittadina. Ma richiedeva anche lo spazio necessario per allargarsi, per costruire il convento, le scuole, gli edifici di servizio, ed una vasta area cimiteriale che accogliesse le sepolture dei fedeli68. Gradualmente, durante il’200, attorno al primitivo nucleo ecclesiastico, prese corpo la contrata Sancti Dominici, dove i Predicatori giocarono un importante ruolo spirituale sui fedeli qui residenti69.
48Sin dai primi tempi della loro venuta a Bologna, i confratelli mostrarono uno spiccato interesse per i beni urbani. La proprietà di case, orti, vigne, botteghe, lotti di terra edificabile- i beni figurano compresi per la maggior parte in quel settore suburbano che sarebbe stato «acquisito» dalla città alla fine del secolo XIII, con il completamento della terza ed ultima cerchia di mura-dovette contribuire a rafforzare l’inserimento dei religiosi nell'articolato tessuto sociale, favorendo i vincoli con le famiglie e le personalità di spicco che gravitavano su questa zona.
49La chiesa originaria, intitolata a S. Nicolò, che i Predicatori non tardarono ad ampliare, era stata eretta con tutta probabilità nel corso del secolo XII; era situata presso il fossato perimetrale della città, e tra una casa e l’altra, ancora all’aprirsi del ’200, si trovavano numerosi orti e vigneti. La prima transazione sottoscritta dai religiosi, l’anno 1219, è una compravendita conclusa con Pietro Lovelli, della famiglia Carbonesi-Andalò: l'atto contemplava la cessione del terreno su cui sorgeva, tra le altre costruzioni, l’edificio ecclesiastico; solo il terreno, dunque, la cui superficie complessiva era pari ad oltre 5000 mq., ottenuta al prezzo di 600 libbre, che i Domenicani versarono in tempo breve70. Pietro cedette ai religiosi lo ius patronatus sulla stessa chiesa, di cui era intestatario, ma riservò per sé e gli eredi talune prerogative iure patronatus quod aliquis laicus habere potest. S’impegnò quindi quod terrenum predictum disbrigabitur ab illis qui habunt ibi domos, mentre magister Raginaldus, a nome dei confratelli, promisit emere iusto predo hedifitia prout extimaverint extimatores communis Bononie.
50Due anni più tardi, nell’estate del 1221, i Predicatori acquistarono da Pietro Lovelli altro terreno, nelle immediate adiacenze di quello già comperato, impegnandosi a versare una somma assai cie vata, pari a 1100 libbre71. Tra i confini sono menzionate le proprietà di Dotto, consanguineo di Pietro, ed è segnalata la presenza di certi superficiarii. Proprio in questi decenni, il gruppo parentale dei Carbonesi-Andalò registra un deciso frantumarsi dell’originaria coesione: lo smembrarsi in due distinti rami collaterali – Carbonesi e Andalò – va, tra l’altro, collegato ai tentativi di affermazione personale dei singoli capifamiglia, a danno del rafforzamento del gruppo nel suo insieme72. Anche il patrimonio familiare non appare più compatto. In particolare qui, a ridosso della città, dove si insediano i Domenicani e dove i maggiori esponenti del gruppo, Pietro Lovelli, da cui discendono in linea diretta gli Andalò, e Dotto, dal quale si diparte il ramo dei Carbonesi, conservano proprietà vicine e confinanti, in origine terre in gran parte agricole poi convertite, tra XII e primi anni del XIII secolo, in terreno edificabile. Un divario sensibile emerge sul piano della gestione di queste terre: Pietro, infatti, a differenza del consanguineo Dotto, ha concesso sistematicamente le proprietà lottizzate, contigue alle terre di Dotto, a superficiarii, proprietari degli immobili, presumibilmente costruiti all’aprirsi del ’20073.
51A questi superficiarii si rivolgono anche i Predicatori, soprattutto tra gli anni ’20 e ’30 del'200, per avere il pieno controllo sulla zona e per riuscire a completare, in ogni sua struttura, l’imponente nucleo conventuale. L’operazione, legittimata dall’atto di compravendita del 1219 – comunemente accettato come l’atto di fondazione del convento – sancisce realisticamente la prima espansione del convento, seguita nel XIV e XV secolo da altri importanti interventi edilizi74. Ma questa restò alla base di ogni altro lavoro successivo e, soprattutto, fu il perno attorno cui si realizzò l’impianto di un nuovo quartiere, la contrada Sancti Dominici.
52Nella sua globalità, il progetto originario dei Domenicani non si arrestò qui, e ci appare, sul piano operativo, assai complesso. Nell’arco di un ventennio circa, i frati acquistarono da Pietro Lovelli lotti di terra come nudo suolo e, dai detentori di diritti di superficie, anche case ed edifici del soprassuolo75. Inoltre, un consanguineo di Pietro e di Dotto, Aldrevandino, vendette loro, in questi anni, altri terreni contigui, definiti terra casamentiva, dove figurano altri superficiarii76. Dalla vedova e dagli eredi di Pietro Lovelli, l’anno 1231, essi acquisivano ancora terreno, adiacente alla chiesa di S. Nicolò77. Le terre che a suo tempo, prima dell’arrivo dei Domenicani, Dotto aveva venduto ad un gruppo di cittadini, furono acquistate dai religiosi direttamente dai nuovi proprietari, negli anni’30; i documenti, in tal caso, parlano di ortali, di casamenta, di terra que fuit vinea, e riportano contestualmente la cessione di omni iure et actione putei et vie publice, sino al fossato cittadino: diritti questi che i superficiarii non citano mai e che, perciò, dobbiamo classificare tra quelli spettanti, in forma esclusiva, ai proprietari del suolo78.
53Nell’ottobre 1240 i Predicatori stipularono un’altra compravendita e ricevettero dai numerosi nipoti e pronipoti di Pietro Lovelli, esponenti della famiglia Andalò, altre estensioni di terra, presso la platea Sancti Dominici dove si trovavano lotti occupati da superficiarii, proprietari di case affacciate sulla via di transito in direzione della chiesa. A questi ultimi, con ogni probabilità, si riferisce la postilla dell’atto con la quale gli Andalò si impegnarono, di lì ad un mese, di removere vel facere removere edificia que sunt in ipsis casamentis et terra79.
54Pochi anni dopo, nella seconda metà del secolo, i Domenicani progettarono un’ulteriore espansione del complesso conventuale, e si rivolsero, tra gli altri, al Comune cittadino per ottenere dapprima la concessione di un fossato – non è certo che si trattasse di quello perimetrale cittadino –, in seguito la chiusura dello stesso80. Sul lato settentrionale ed esterno della chiesa e a ridosso della facciata veniva progressivamente realizzata una vasta area cimiteriale, dove le sepolture, addossate alle vie di transito ed alle case prospicienti la piazza e la chiesa, ospitavano alcuni dei più celebri giuristi del tempo81.
Agli esordi della legislazione statutaria
55In questi stessi anni si completavano le prime raccolte statutarie della città: la serie di norme ed aggiunte prodotte dal 1245 al 1267 e la redazione successiva, più compatta ed omogenea, del 1288. Al contratto di enfiteusi, la legislazione più antica, della metà del ’200, dedica due rubriche, che si riferiscono espressamente alle enfiteusi ecclesiarum et aliarum personarum82. Una di queste riguarda il contratto nelle sue linee generali ma essenziali, e, in molte parti, riproduce quanto da oltre un secolo la prassi notarile aveva ormai codificato; l’altra affronta la questione particolare della requisitio domini, soffermandosi sull’alienazione della rem emphiteoticam o dominicam da parte del concessionario. Nessun capitolo specifico tratta la questione dello ius superficiei, fatta eccezione per una norma aggiunta sintomaticamente in calce alla rubrica sui contratti enfiteutici. Vengono presentati, in forma generale e molto sintetica, taluni aspetti differenti correlati all’esercizio dello ius, che, nel loro insieme, lasciano intrawedere rapporti non equilibrati tra il proprietario del suolo e quello del soprassuolo, a palese danno di questi ultimi. I superfiarii devono, quindi, essere tutelati dalle autorità pubbliche come legittimi possessori di edifici, costruiti, si badi, su terre ecclesiastiche – il testo non contempla la proprietà laica –. Si insiste, pertanto, sul versamento della pensio annua che dovrà essere consueta, senza alcun aggravio cioè, e sulla possibilità di acquistare il terreno iusto pretio, arbitrio boni viri; quindi, sulle ingiustizie e le molestie perpetrate a danno degli stessi superficiarii dai domini ecclesiastici, proprietari del suolo: e qui viene espressamente istituita la tutela dell’autorità podestarile83.
56Nel complesso, i testi ci appaiono ancora incerti e disordinati, soprattutto nell’esposizione dei singoli termini contrattuali, che non segue un ordine preciso. Ritroveremo questi nodi negli statuti successivi del 1288, formulati con una più chiara scansione tematica. Qui rintracciamo, tra le altre, la prassi da rispettare per fissare il prezzo del rinnovo enfiteutico, descritta con puntualità assai maggiore rispetto al passato. La res, precisa il testo, deve anzitutto essere stimata da boni viri, preferibilmente vicini legali, oppure, in caso di discordia tra le parti, dallo index potestatis; stabilito il valore, si procede a calcolare il prezzo del rinnovo, che resta invariato, nelle quote di base, dallo Statuto di metà’200: 6 danari per ogni libbra nel caso di beni cittadini e suburbani; 12 danari per ogni libbra per i beni rurali. E si ribadisce, a proposito dei terreni situati in città e nei vicini sobborghi, il deciso divieto di computare nella stima il valore delle superficies, di ciò che compare super edificatum84. Restano, dunque, sconosciuti, o meglio non chiariti, i parametri applicati per la stima delle proprietà comitatine, dove, evidentemente, il soprassuolo – edifici e colture insieme – non veniva dissociato dal suolo, costituendo con questo un’unica, accorpata identità patrimoniale.
57In questa raccolta normativa al superficiarius è riservata una rubrica specifica, che nelle linee sostanziali rispecchia quella sorta di additio già citata della legislazione più antica. Si prescrive, ancora, che ai proprietari di immobili su terreno ecclesiastico sia richiesta la pensio solita, tempore consueto; si riconosce al superficiarius il diritto di prelazione sull’acquisto del terreno, alienato o venduto dal proprietario ecclesiastico, iusto predo, arbitrio boni viri; infine, si ritorna sul problema delle molestie: Nec possit – recita il testo – superficiarius aliter inquietali, et imponatur silentium cuicumque, sive laico sive clerico, venienti vel venire volenti contra predicta, extrahendo clericum de protectione comunis, si fuerit clericus vel ecclesiastica persona85. Al chiudersi del ’200, la figura del detentore di diritti di superfìcie ci appare, dopo un’incertezza protrattasi per oltre un secolo, abbastanza definita: la legislazione cerca, quantomeno, di coglierne i tratti principali, quelli che allora, alla luce delle conflittualità più ricorrenti tra proprietari di diritti e beni dissociati, necessitavano di un’urgente regolamentazione. Nel quadro contrattualistico generale, la normativa dello ius superfìciei sembra intersecarsi con il problema, allora più stringente che mai, delle alienazioni ecclesiastiche: in tale contesto non poche responsabilità ricadevano sulla pratica plurisecolare, pressochè esclusiva, della concessione enfiteutica, a denunciare continue, spesso irrimediabili dispersioni di beni e di iura86.
Notes de bas de page
1 G. Cencetti, Il contratto di enfiteusi nella dottrina dei glossatori e dei commentatori, in Annali della Società Agraria di Bologna, LXVI, 1938, p. 5-139, ora in Id., LO Studio di Bologna. Aspetti, momenti e problemi (1935-1970), a cura di R. Ferrara, G. Orlandelli e A. Vasina, Bologna 1989, p. 125-208. Id., Diplomatica dell’enfiteusi bolognese, in Rivista di storia del diritto italiano, 12, 1939, p. 438-455. Segnaliamo in apertura, tra i numerosi studi in cui Cencetti ha affrontato l’analisi del contratto enfiteutico, i saggi che scavano più approfonditamente la questione, con estremo rigore, tra l’altro, per i riferimenti alle fonti, numerosissime, diplomatiche e dottrinarie, che lo storico utilizza. Le nostre considerazioni sulla contrattualistica bolognese si fondano su questi stessi studi: nelle note immediatamente seguenti i rimandi ad essi saranno pertanto limitati a taluni casi specifici.
2 Si veda, in particolare: B. Andreolli, Le enfiteusi e i livelli del «Brevia-riumrium», in Ricerche e studi sul «Breviarium Ecclesiae Ravennatis» (Codice Bavaro), a cura di A. Vasina, S. Lazard, G. Gorini, A. Carile, V. Fumagalli, p. Gaietti, G. Pasquali, M. Montanari, B. Andreolli, T. Bacchi, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, (Studi storici, fasc. 148-149), Roma, 1985, p. 163-177 (a questo saggio rimandiamo anche per il ragionato excursus bibliografico). Per un corretto approccio allo studio dell’enfiteusi e della ripartizione di iura legati alla proprietà fondiaria ed immobiliare: p. Grossi, Locatio ad longum tempus. Locazione e rapporti reali di godimento nella problematica del diritto comune, Napoli, 1963; Id., Problematica strutturale dei contratti agrari nell’esperienza giuridica dell’alto medioevo, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’alto medioevo (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull'Alto Medioevo, XIII), Spoleto, 1966, p. 487-529; Id., Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1977; Id., La categoria del dominio utile e gli «homines novi» nel quadrivio cinquecentesco, in Quaderni fiorentini, 19 (1990, ma Milano, 1991), p. 209-242; Id., Il dominio e le cose: percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano, 1992.
3 Per la ricchezza delle tematiche, centrali per la questione, con ampio sguardo sulle realtà comitatine: V. Fumagalli, La tipologia dei contratti d'affitto con coltivatori al confine tra Longobardia e Romania (secoli IX-X), in Studi romagnoli, XXV, 1974, p. 205-214; Id., Langobardia e Romania: l’occupazione del suolo nella Pentapoli altomedievale, Ricerche e studi, cit., p. 95-107; A. Castagnetti, L’organizzazione del territorio rurale nel Medioevo. Circoscrizioni ecclesiastiche e civili nella «Langobardia» e nella «Romania», Bologna, 1982.
4 Per le fonti bolognesi altomedievali ed un preliminare punto di osservazione sulla patrimonialità degli enti ecclesiastici locali cfr. G. Cencetti, Le carte bolognesi del secolo X, Bologna, 1936, ora in Notariato medievale Bolognese. I. Scritti di Giorgio Cencetti, Roma, 1977, p. 1-132. A questa edizione possiamo accostare la più recente: Le carte del monastero di S. Stefano di Bologna e di S. Bartolomeo di Musiano, vol. I, 1001-1125, a cura di R. Rinaldi e C. Villani (Italia benedettina, VII), Cesena (Badia di S. Maria del Monte), 1984.
5 R. Rinaldi, Contributo alla storia della proprietà fondiaria nel territorio bolognese durante il secolo XII in base alla documentazione dell’Archivio di Stato di Bologna, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di lettere dell’Università degli Studi di Bologna, rel. V. Fumagalli, a.a. 1980/81 (con appendice di regesti); i problemi sono stati, in seguito, parzialmente sviluppati: Ead., Le campagne nel Medioevo. La terra, il lavoro, l’ambiente, in Storia illustrata di Bologna, a cura di W. Tega, I, Bologna, 1987, p. 201-220.
6 Per un corretto inquadramento storico-istituzionale: A. Hessel, Geschichte der Stadt Bologna von 1116 bis 1280, Berlino, 1910, ora ed. it., con aggiornamento bibliografico: Storia della città di Bologna, 1116-1280, a cura di G. Fasoli, Bologna, 1975. G. Fasoli, Bologna nell’età medievale (1115-1506), in Storia di Bologna, a cura di A. Ferri e G. Roversi, Bologna, 1978, p. 127-196. Di fondamentale consultazione: M. Giansante, L'età comunale a Bologna. Strutture sociali, vita economica e temi urbanistico-demografici: orientamenti e problemi, in Ballettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, 92, 1985/86, p. 103-222.
7 Cencetti, Il contratto di enfiteusi, cit., p. 145-150 (con circostanziati rinvii alla letteratura giuridica medievale); tra le numerose, utili riflessioni del Grossi sul problema: Locatio ad longum tempus, cit., p. 238-266; Id., Il dominio e le cose, cit., p. 59-60.
8 Queste dinamiche socio-economiche non sono ancora state oggetto di studi specifici, almeno per il periodo che anticipa e che segna l’origine del Comune bolognese (ss. XI e XII). Per un fondamentale inquadramento, v. il recente: A.I. Pini, Campagne bolognesi. Le radici agrarie di una metropoli medievale, Firenze, 1993. Per alcuni elementi generali, che segnalano, quantomeno, piste di ricerca certamente feconde, mi sia consentito rimandare alla mia tesi di laurea (Contributo allo studio della proprietà, cit., in part. p. 80-325). Con riferimento specifico e circostanziato al contesto urbano, rinviamo, una volta per tutte, alla consultazione di A. Varani, La crescita urbanistica e demografica di Bologna dal secolo XI al XIII: i borghi di Strada Maggiore e di via S. Stefano, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Bologna, rel. V. Fumagalli, a.a. 1980/81.
9 In questa direzione mi sembrano sostanzialmente confluire le analisi del Cencetti, anche sulla scorta della letteratura giuridica del pieno e tardo Medioevo (cfr. Il contratto di enfiteusi, cit.). Sul concetto di dominium v. in particolare: P. Grossi, La proprietà e le proprietà nell'officina dello storico, in Quaderni fiorentini, 17, 1988, p. 359-429, raccolto anche in Id., La proprietà e le proprietà, Milano, 1988. L’A. insiste ripetutamente sull’operazione scorretta che compiamo ogniqualvolta riferiamo il termine proprietà a situazioni e coscienze altomedievali, soprattutto: proprietà qui intesa nell’accezione giuridica e tecnica, come proprietà reale e individuale. Le situazioni reali, afferma il Grossi, esistono, ma non sono fondate nè sul dominium, nè sui dominia, bensì «su molteplici posizioni di effettività economica sul bene... un rampollare disordinato e vivo di situazioni grezze... che s’impongono in base a patti primordiali, che sono l’apparenza, l’esercizio, il godimento. E al centro dell’ordinamento non più il soggetto... ma la cosa con le sue naturali regole riposte, forza impressionante ogni forma giuridica, anzi costitutiva di ogni forza giuridica... Qui il problema centrale non è il vincolo formale ed esclusivo sancito dai libri fondiari, l’appartenenza del bene a qualcuno; è l’effettività sul bene, prescindendo dalle sue formalizzazioni. Possiamo anche dire che è il possesso del bene se... intendiamo riferirci a una dimensione di fattualità contrapposta a un segno statico di forme ufficiali» (p. 612-613). Riflessioni forse opinabili, frutto di una vivace rielaborazione personale, ma certamente molto stimolanti.
10 G. Ricci, Le città nella storia d’Italia: Bologna, Bari, 1980; A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, Bologna, 1986, in part. p. 11-55. Una segnalazione particolare va riservata a G. Fasoli, Momenti di storia urbanistica bolognese nell’alto Medio Evo, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna, n.s., 12, 1966, p. 313-343. Di consultazione utile per uno sguardo generale sulla città: J. Heers, Espaces publics, espaces privés dans la ville. Le liber terminorum de Bologne (1294) (Cultures et civilisations médiévales, III), Parigi, 1984; inoltre, la puntuale segnalazione critica di G. Fasoli, Un nuovo libro su Bologna, in Storia della città, 31-32, 1984, p. 145-154.
11 Per la distrettuazione cittadina nelle sue linee sostanziali: A.I. Pini, Le ripartizioni territoriali urbane di Bologna medievale. Quartiere, contrada, borgo, morello e quartirolo, in Quaderni culturali bolognesi, I, 1977, p. 5-50 (con ricchi riferimenti documentari e bibliografici); in part., per la politica urbanistica del Comune tra XII e XIII s. p. 7-18.
12 P. Sella, La vicinia come elemento costitutivo del comune, Milano, 1908. A fianco di questo studio conosciuto, ancora utile per taluni orientamenti d’indagine, si veda per alcuni dati evinti dalla normativa duecentesca Pini, Le ripartizioni territoriali, cit., p. 21-23 e le note relative, con rimando alle fonti. Inoltre: J. Heers, Il clan familiare nel Medioevo, Napoli, 1976, p. 175-226. Osservazioni di estremo interesse in R. Greci, Il controllo della città: l’ufficio dei fanghi e strade a Bologna nel XIII secolo, in Nuova Rivista storica, LXXV, III, 1991, p. 650-661.
13 Per i documenti prodotti dai monaci di S. Stefano, nel periodo indicato, oltre a quelli editi (cfr. Le carte del monastero, cit.) ci si è basati sulle numerose raccolte archivistiche ancora inedite, conservate presso l’Archivio di Stato di Bologna (d’ora in avanti A.S.BO.), Fondo Demaniale, S. Stefano di Bologna e S. Bartolomeo di Musiano. Le fonti utilizzate saranno citate volta per volta. Ricchissimo, anche sotto il profilo quantitativo, il materiale superstite di S. Giovanni in Monte (A.S.BO., Fondo Demaniale, S. Giovanni in Monte e S. Vittore). Per gli atti più antichi di quest’ultimo corpo documentario; G. Cencetti, Le carte del secolo XI dell'archivio di S. Giovanni in Monte e S. Vittore, Bologna, 1934, ora in Notariato medievale Bolognese, I, cit., p. 133-182. Le fonti bolognesi dei ss. XI-XII (conservate presso A.S.BO.) sono state regestate: M. Bentivogli, Insediamento, organizzazione fondiaria, coltivazione, contratti agrari nel territorio bolognese durante il secolo XI, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli studi di Bologna, rel. V. Fumagalli, a.a. 1978/79; Rinaldi, Contributo allo studio, cit., vol. di Appendice.
14 Cencetti, Il contratto di enfiteusi, cit., p. 176
15 Per un approccio ragionato a queste problematiche, in part. si veda: P. Grossi, Le situazioni reali nell'esperienza giuridica medievale. Corso di storia del diritto, Padova, 1968; inoltre, anche per i puntuali rinvìi alla letteratura giuridica: Cencetti, Il contratto di enfiteusi, cit., p. 131-133 e, nelle conclusioni, (ibidem, p. 178-179) ribadisce: «Questo è il punto d’arrivo della dottrina dei glossatori e dei commentatori, cui si è giunti attraverso la fatica di generazioni di giuristi, i quali riprendendo a volta a volta i risultati raggiunti dalla generazione precedente, li riesaminavano e li rielaboravano, adattandoli alla pratica e costituendo via via uno schema sufficientemente pieghevole per comprendere tutti i tipi, spesso assai diversi di concessioni fondiarie a carattere enfiteutico, che nelle diverse località si erano andati formando durante l’alto Medioevo». A queste riflessioni accostiamo, tra le altre, una lucida chiave di lettura formulata dal Grossi (La proprietà e le proprietà, cit., p. 629-630): «La grande riflessione dottrinale in cui s'incarna il diritto comune classico, dai Glossatori al tardo Commento, dal secolo XI al ’500... è scienza prodotta al centro della città terrena, in essa bene inserita, impegnata come nella costruzione delle architetture giuridiche della società... è questa una dottrina non ancora catturata dalle lusinghe del formalismo... intrisa di un forte spirito realista».
16 Numerosi esempi di concessioni «libello enfìteotecario nomine iure» tra gli atti bolognesi del secolo X, distinti, quantomeno sul piano terminologico-tecnico, dalle cessioni «iure enfìteotecario» (cfr. Cencetti, Le carte bolognesi, cit.). Per le «precarie», presenti soltanto nel settore occidentale del Bolognese, a ridosso del Modenese e dell’area di più incisiva tradizione longobarda cfr. ibidem, n. XX, p. 71-74, dove viene pubblicata una «cartula prestarie – poi «precarie» – adque infiteotecharie iuris nomine» stipulata tra privati, ai confini tra Bolognese e Modenese.
17 Basti qui segnalare il recente volume miscellaneo Cultura universitaria e pubblici poteri a Bologna dal XII al XV secolo – Atti del 2° Convegno, Bologna, 20-21 maggio 1988, a cura di O. Capitani, Comune di Bologna, Istituto per la storia di Bologna, (Collana Convegni e colloqui, n.s., 10), Bologna, 1990; un’attenzione particolare, anche per la ricca, aggiornata rassegna bibliografica fornita da ciascun A., va riservata all’Introduzione, a cura di O. Capitani, e ai seguenti contributi: C. Dolcini, Tradizione politologica dei primi glossatori, p. 19-30; R. Ferrara, La scuola per la città: ideologie, modelli e prassi tra governo consolare e regime podestarile (Bologna, secoli XII-XIII), p. 73-124; A. Vasina, Bologna nello Stato della Chiesa: autorità papale, clero locale, Comune e studio fra XIII e XIV secolo, p. 125-150; A.I. Pini, I maestri dello Studio nell’attività amministrativa e politica del Comune bolognese, p. 151-178.
18 Statuti di Bologna dall'anno 1245 all’anno 1267, a cura di L. Frati (Monumenti istorici pertinenti alle provincie della Romagna, s. I, Statuti, 1-3), Bologna, 1869-1877; Statuti di Bologna dell’anno 1288, a cura di G. Fasoli e p. Sella (Studi e testi, 73 e 85), Città del Vaticano, 1937-1940. Per un preliminare inquadramento del diritto di superficie, su cui si tornerà in seguito, osservato all’interno di un’ampia prospettiva storica, cfr. la voce Superficie in Enciclopedia del diritto, v. XLIII, Milano, 1990, p. 1459-1471, a cura di F. Sitzia, I. Birocchi e M.C. Lanzi (l’indicazione riguarda, nello specifico, il diritto romano e quello intermedio).
19 Statuti di Bologna dell’anno 1288, cit., Lib. VII, rubr. X, p. 61 (De contractibus emphiteoticariis. Rubrica.).
20 Tra i saggi più recenti, si segnala per l’interesse del dibattito: F. Sitzia, Studi sulla superficie in epoca giustinianea, Milano, 1979; dello stesso A. cfr. Superfìcie, in Enciclopedia del diritto, cit., con part. riguardo alla bibliografia (p. 1463-1464) ed all’osservazione conclusiva, dove lo stesso ribadisce «può affermarsi che le fonti giustinianee, distinguendo nettamente tra proprietà e diritti reali a carattere dominicale, configurano la superficies come ius in re aliena, di contenuto assai ampio, sostanzialmente assimilabile al diritto di enfiteusi» (p. 1463 e ivi nota 30, dove si precisa che due Novellae di Giustiniano «impiegano il termine emphyteosis per indicare delle concessioni ad aedificandum»).
21 Cencetti, Il contratto di enfiteusi, cit., p. 144-145, dove si afferma, nell’ambito delle migliorie imposte al concessionario in sede enfiteutica: «... l’esempio più spiccato è rappresentato da quella forma di miglioramento che valorizza al massimo il suolo e nello stesso tempo presenta la massima autonomia: la costruzione dell’edificio, che in alcune legislazioni municipali (per es. la bolognese) è attribuito senz’altro in proprietà all’utilista del suolo, facendosi accedere questo a quello e non viceversa». Per tutti gli opportuni rinvìi alla letteratura giuridica medievale ibidem, p. 189-190, note 105-116.
22 Su ciò in part.: A. Solmi, Il diritto di superfìcie nei documenti italiani del Medio Evo, in Rivista di storia di diritto civile, a. VII, 1915, p. 472-503, ora in Id., Studi storici sulla proprietà fondiaria nel Medio Evo, Roma, 1937; p. S. Leicht, Storia del diritto italiano. Il diritto privato, II: Diritti reali e di successione, Milano, 1943, p. 143 ss. Altre problematiche, di definizione più incerta e dibattuta, concernono i diritti di superficie esercitati sui terreni agricoli e sul soprassuolo rurale: cfr. Superficie, in Enciclopedia del diritto, cit., p. 1464-1465.
23 Ci si riferisce, qui, specificamente, all’Editto di Rotari, che nei capitoli 151 e 354 affronta, con più chiarezza che in altri passi, la questione della dissociazione patrimoniale, legata alla proprietà rurale; cfr. per questo e per i dibattuti nodi interpretativi Superficie, in Enciclopedia del diritto, cit., p. 1464, con il testo normativo alla nota 5.
24 Sino a tutta la prima metà del secolo XII, la locuzione «solum terre cum casa» o, più semplicemente, «solum unum terre» prevale su ogni altra formula descrittiva. Tuttavia, esemplificando, nel giugno dell’anno 1120, l’abate di S. Stefano accordava il rinnovo enfiteutico a Iohanni Bono di «terram quandam cum casa et vacuamento in burgo S. Stephani super stratam Maioris»: A.S.BO., Demaniale, S. Stefano e S. Bartolomeo di Musiano (d’ora innanzi A.S.BO., S. Stefano), 34/970, n. 54. La locuzione qui riportata si alterna, talora, a quella focalizzata sulla segnalazione del solum.
25 Per alcuni esempi eloquenti: Le carte del monastero di S. Stefano di Bologna, cit., n. 159-161, p. 285-290.
26 Rinviamo, nell’ambito di una produzione storiografica realisticamente sterminata, ad alcuni studi, tra i più recenti, sull’argomento: Ferrara, La scuola per la città, cit.; Pini, I maestri dello studio, cit.; G. Nicolaj, Cultura e prassi dei notai preimeriani. Alle origini del Rinascimento giuridico, Milano, 1991 (Ius nostrum. Studi e testi pubblicati dall'Istituto di storia del diritto italiano dell’Università di Roma).
27 Segnalazioni particolari meritano: G. Orlandelli, Ricerche sulla origine della «littera bononiensis»: scritture documentarie bolognesi del secolo XII, in Bollettino dell’Archivio paleografico italiano, II/III, p. II, n.s., 1957, p. 179-214; Id., Rinascimento giuridico e scrittura carolina a Bologna, Bologna, 1965; G. Cencetti, Studium fuit Bononiae. Note sulla storia dell’Università di Bologna nel primo mezzo secolo della sua esistenza, in Studi medievali, s. III, 7, 1966, p. 781-833, ora anche nella più recente riedizione Id., LO Studio di Bologna, cit., p. 29-73; G. Fasoli, Giuristi, giudici e notai nell’ordinamento comunale e nella vita cittadina, in Studi Accursiani, I, Milano, 1968, ora in Ead., Scritti di storia medievale, Bologna, 1974, p. 609-622; B. Schwarz, Das Notariat in Bologna im 13. Jahrhundert, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, LIII, 1973, p. 49-92; R. Ferrara, Licentia exercendi ed esame di notariato a Bologna nel secolo XIII, in Notariato medievale bolognese. II. Atti di un convegno, Roma, 1977, p. 47-120; G. Fasoli, Il notaio nella vita cittadina bolognese (secc. XII-XV), in Notariato medievale bolognese, cit., p. 121-142; G. Tamba, La società dei notai a Bologna, (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Strumenti, 103), Roma, 1988.
28 Per i contratti qui considerati, una segnalazione archivistica di massima: A.S.BO., S. Stefano, buste 1/937-14/950; inoltre, in una sezione dello stesso fondo monastico riservata ai documenti in precario stato di conservazione: buste 33/969-35/971.
29 Due esempi eloquenti si rintracciano nell’anno 1071: Le carte del monastero di S. Stefano, cit., n. 39, p. 69-70, n. 41, p. 72-73. Nel primo caso, si parla di un «libello enfiteossin iure», nel secondo di «enfiteoteccaria nomine iure» o «instrumentum enfiteosin»; i notai sono, rispettivamente, «Dominicus tabellio» e «Ezo notarius».
30 Cfr., tra gli altri: ibidem, n. 107, p. 190-191; si tratta di una concessione (instrumentum concessionis) accordata nel 1091, ad una generazione soltanto, da un certo Alberto ad una coppia di coniugi, con diritto di rinnovo «da dominacione cui iura est». L’oggetto della transazione è costituito da «me(dietate) solo uno terre cum casa», dotata di portico «et accesso suo» in «strata S. Stefani», non lontano dal monastero.
31 Cencetti, Il contratto di enfiteusi, cit., p. 148-153.
32 Ibidem, in part. p. 161-165. Ma v. anche Grossi, Locatio ad longum tempus, cit., p. 247-248.
33 A. Vicinelli, La famiglia dei conti di Bologna, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna, s. IV, XV, 1925, p. 153-206. Accanto a questo vecchio saggio, ancora utile per taluni orientamenti di ricerca cfr.: T. Lazzari, Una famiglia nobiliare a Bologna e a Ferrara nei secoli IX-XIII: i «de Ermengarda» tra predecessori ed eredi, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli studi di Bologna, rel. V. Fumagalli, a.a. 1988/89, in part. p. 49-51.
34 Per i diversi, ma, nella sostanza, analoghi formulari, riprodotti dai notai del periodo, basti il rinvio alle enfiteusi edite in Le carte del monastero di S. Stefano di Bologna, cit.
35 In part. Cencetti, Il contratto di enfiteusi, cit., p. 170-171, con i rimandi ai commentari giuridici più significativi. Ci sembra di poter aggiungere come emerga, in modo abbastanza chiaro, l’intenzione da parte dei religiosi di prolungare il più possibile i rapporti contrattuali.
36 Per il rinnovo e la pena, assai eloquenti le enfiteusi cittadine in A.S.BO., S. Stefano 11/947 (1154-1161). Cfr., inoltre: Cencetti, Il contratto d’enfiteusi, cit., p. 173-176.
37 Per le fonti di S. Giovanni in Monte, che costituiscono un unico corpo con il materiale dell'ente aggregato di S. Vittore: A.S.BO., Demaniale, S. Giovanni in Monte e S. Vittore (d’ora in avanti, semplicemente, S. Giovanni in Monte), buste 1/1341-10/1350.
38 Oltre al rinvio a Varani, La crescita urbanistica e demografica, cit., per un interessante confronto su parecchie questioni nodali, si segnalano: F. Sznura, L'espansione urbana di Firenze nel Dugento, Firenze, 1975; D. Balestracci, Immigrazione e morfologia urbana nella Toscana bassomedievale, in D’une ville à l'autre: structures matérielles et organisation de l'espace dans les villes européennes (XIIIe-XVIe siècle). Actes du colloque organisé per l'Ecole française de Rome (Roma, 1-4 dicembre 1986), a cura di J.-C. Maire Vigueur, Roma, 1989, p. 87-105.
39 Per i progressivi mutamenti degli spazi cittadino e rurale nel passaggio tra alto e pieno Medioevo: F. Bocchi, Attraverso le città italiane nel Medioevo, Bologna, 1987, in part. p. 107-124; V. Fumagalli, La pietra viva. Città e natura nel Medioevo, Bologna, 1988. Taluni interessanti elementi di raffronto, osservati prevalentamente alla luce dell’espansione urbanistica dei secoli XIII-XIV, si rintracciano in A. Grohmann, Città e territorio tra Medioevo ed Età Moderna (Perugia, seco. XIII-XVI), Perugia, 1981, in part. p. 39-40; inoltre, per la ricchezza di esempi, puntuali e documentati, si segnala ancora Sznura, L’espansione urbana, cit., in part. p. 41-91. Per Bologna evinciamo un caso, tra numerosi altri, significativo, da un patto enfiteutico del novembre 1160 (A.S.BO., S. Stefano, 11/947, n. 25). L’abate del monastero cittadino concede ad alcune coppie di coniugi e a due fratelli appezzamenti di terra contigui, ben distinti l’uno dall’altro anche all’atto dell’assegnazione ai singoli enfiteuti; quindi, cede a tutti i medesimi, in forma indivisa, altro terreno (poco meno di 6 chiusi=120 mq.ca.) presso il «fos-satumsatum burgi» – si trattava di quello di Strada Maggiore, estra seralia-, precisando «per via unde debetis egredere et regredere usque a stratam Maiorem cum carris et cum omnibus rebus vobis necessariis... quarto vero latere fundum fossati de nostra braida quem vobis concedo a nostra utilitate, ut nostra braida semper sit clausa a vestra parte, ripam vestram parte vobis concedo nec ullum exitum habeatis nec alias iniuria faciatis a nostra braida». Esempi del tutto analoghi provengono da altre zone cittadine, anch’esse di giovane espansione edilizia: cfr. A.S.BO., Demaniale, S. Salvatore e S. Maria di Reno, 25/2472 (1137-1197 ca.)
40 Particolarmente ricca di dati, tra le altre numerose del periodo, l’enfiteusi accordata dall'abate Guido a due fratelli nel febbraio 1114: «in burgo eiusdem (del monastero)... casis, terris, tuvadis (edifici sviluppati in altezza, a guisa di torri o di colombaie, probabilmente)»; viene poi precisato trattarsi di 3 distinti lotti contigui, tutti «cum vacua» (in molti casi sinonimo di «vacuamento»): Le carte del monastero di S. Stefano, cit., n. 181, p. 325-326.
41 Per le «terre vacue» ibidem, numerosissimi esempi, tra i quali segnaliamo un «libello enfiteosin» del dicembre 1102, stipulato dai monaci di S. Stefano con due coniugi e il loro figlio, Barello; essi ottennero «solo uno terre (vac)uo cum in(ganba)turia sua» posto in «clusura super stratha Magioris», dove l’ingambaturia rappresentava un lotto di forma solitamente stretta ed allungata, quasi un’appendice del lotto principale (n. 141, p. 252-253). Per il terreno definito vacuo ma solcato da coltivazioni rintracciamo, tra le altre, una transazione dell'anno 1127: A.S.BO., S. Giovanni in Monte, 2/1342, n. 7.
42 Così, nel 1120, un rinnovo di enfiteusi accordato a Iohanne Bono riguarda «terram quandam cum casa et vacuamento in burgo S. Stephani super stratam Maioris» (A.S.BO., S. Stefano, 34/970, n. 54). Intorno alla metà del secolo, accanto alla menzione esplicita del solum, rintracciamo la diretta indicazione dei dati di superficie, cui seguono le caratteristiche della terra e quelle del soprassuolo; per differenti esempi ed un utile esame comparativo: A.S.BO., S. Stefano, 10/946, nn. 14, 16, 17, 21, 25, 28.
43 Nell’anno 1173, esemplificando attraverso alcuni casi molto chiari ed inequivocabili, l'abate di S. Stefano Landolfo concedeva tre rinnovi enfiteutici: la res, in ciascuno, era «domum unam», senza alcuna menzione del suolo. Gli edifici sorgevano «in Burgo Novo», presso l’orto del monastero da cui erano separati da un muro, concesso dai monaci agli enfiteuti stessi come «usum et utilitatem muri nostri» (A.S.BO., S. Stefano 13/949, nn. 27 e 28). Tuttavia, per molte altre cessioni enfiteutiche coeve o precedenti, la distinzione patrimoniale tra suolo e soprassuolo è spesso incerta.
44 Su ciò rintracciamo parecchi casi interessanti in A.S.BO., S. Stefano, 11/947 e 12/948, tra gli anni ’50 e ’60 del secolo XII.
45 Si tratta di norme ancora contenute e generiche se accostate a quelle, imposte tra l’altro con maggiore sistematicità, dei decenni successivi. Alcuni casi significativi si rintracciano nel primo decennio del secolo XII; tra di essi segnaliamo l'enfiteusi del 24 settembre 1110, concernente un «solo terre... cum ingambaturia sua» situato nel borgo monastico: quest'ultima confinava con una «androna de communo» (un passaggio presumibilmente comune tra le proprietà dei monaci ed il suolo acquisito dagli enfiteuti), rispetto alla quale poi il testo specifica «unde intrare et exire quoquo modo voluero (si tratta di una peticio avanzata dal concessionario, che dunque parla in prima persona) usque ad vias publicas» (Le carte del monastero di S. Stefano di Bologna, cit., n. 168, p. 301-302).
46 Tra gli esempi più interessanti quello relativo al «Burgo Novo», non lontano dal monastero ed affacciato su «Strata Maiore», presumibilmente inglobato nella città tra il 1140 e il 1150; negli anni’50, infatti, si cita espressamente la terra «que fuit de Burgo Novo», con riferimenti a fossati, di vecchia e nuova costituzione, ed a una «via vicinale»; parallelamente, incontriamo le prime attestazioni circa l’esistenza di un «burgo Strate Maioris extra seralia», che va distinto da quella sezione del borgo stesso già racchiusa nella città. In part. A.S.BO., S. Stefano, 10/946 e 13/949, con differenti casi sparsi. Nell’ambito del già declassato (que fuit) «Burgo Novo» rinveniamo enfiteuti proprietari di case; indichiamo due contratti, rispettivamente del 1151 e del 1153, che contengono la locuzione «hubi casa habetis super se», riferita al «solum» concesso: A.S.BO., S. Stefano, 10/946, nn. 21 e 25.
47 Così, per i lotti di «terra vacua» che i religiosi concessero in enfiteusi negli anni ’50, ricavandoli dal «campum ecclesie»: cfr. A.S.BO., S. Stefano, 11/947, nn. 8 e 12, anni, rispettivamente, 1157 e 1158. In particolare al n. 8 leggiamo: «tam ut vos faciatis murum infra terra de predicta ecclesia quantum pertinet pro vestro casamento (con ogni probabilità riferito alla possibilità di costruirvi sopra edifici) et in tempore quod facierint alii qui sunt emptores de ipso campo».
48 Tra le concessioni più significative segnaliamo quella in «ius et potestatem» di una sezione di muro monastico a due coniugi, proprietari di una casa costruita su suolo dei religiosi, in «Burgo Novo», confinante con l’orto cittadino del monastero. A loro fu prescritto di «meliorare et elevare quod vobis oportum fuerit», di eseguire interventi di manutenzione a beneficio dello stesso; fu vietato loro, inoltre, di aprire finestre e colombaie «nec ulla citurnitate (sic) que noceat vel dedeat a nostra parte orti» e di osservare precise norme per i rifiuti domestici (A.S.BO., S. Stefano 13/949, n. 22). Da segnalare, infine, che proprio in questi borghi orientali della città si imposero nel ’200, ancor prima della legislazione statutaria, le prime norme che prescrivevano a meretrici, fabbri ed altri artigiani il divieto di residenza e praticare le rispettive attività; tra i primi esempi: A.S.BO., S. Stefano, 34/970, n. 49.
49 Per la documentazione dei canonici di S. Giovanni in Monte v. infra, nota 37. Per le proprietà «in burgo Castileoni» dei monaci di S. Stefano, in part. A.S.BO., S. Stefano, 11/947, n. 28 (in data 1162, gennaio 24) e 12/948, n. 2 (in data 1162, novembre): entrambe riportano alcuni interessanti dati topografici.
50 Per l’insediamento in «burgo Vivaro» cfr. soprattutto: A.S.BO., S. Stefano, 10/946 e 11/947, che riuniscono, tra le altre, enfiteusi cittadine stilate tra gli anni 1142-1161. Già nel novembre 1149 compare l’attestazione «burgo», affiancata a quella di «loco» o, più spesso, al toponimo semplice, senza alcun attributo. Per la prima testimonianza a tutt’oggi conosciuta: A.S.BO., S.Stefano, 10/946, n. 17 (a. 1149): enfiteusi concessa dall’abate Bononio ad Ansaldino di Pietro di Bonando, relativa ad un «solo terre hubi Petrus scriptor habet casam super se et orto (post earn)», confinante su di un lato con la «viam vicinalem». Qualche decennio più tardi rintracciamo una «vinea Vivari», da cui i monaci stessi aveva ritagliato un casamento di 4 chiusi di superficie (A.S.BO., S. Stefano, 13/949, n. 23, in data 1172, gennaio). Per alcuni cenni circostanziati v. Pini, Le ripartizioni territoriali, cit., p. 26.
51 Per le menzioni di superficiarii cfr. le segnalazioni archivistiche della nota precedente. Per il passo documentario riportato nel testo: A.S.BO., S. Stefano, 10/946, n. 14: il terreno si trova, ancora, confinante con la proprietà di «Petrus scriptor» e con «Pepolus», mentre la casa appare dotata di portico. La misura complessiva del lotto è di circa 7 chiusi.
52 A titolo esemplificativo cfr. Le carte del monastero di S. Stefano di Bologna, cit., n. 129, p. 226-228, in data 1099, novembre 4: relativamente ad un «solo terre quod est orticello in clusura monasterii» si dichiara: «et non abeatis licencia super earn casam faciendum».
53 Fondamentali, per la messa a fuoco delle problematiche più stringenti: C. Violante, Alcune caratteristiche delle strutture familiari in Lombardia, Emilia e Toscana durante i secoli IX-XII, in Famiglia e parentela nell’età medievale, a cura di G. Duby e J. Le Goff, Bologna, 1977, p. 19-57; p. Cammarosano, Aspetti delle strutture familiari nelle città dell’Italia comunale, ibidem, p. 109-123; G. Ortalli, La famiglia tra la realtà dei gruppi inferiori e la mentalità dei gruppi dominanti a Bologna nel XIII secolo, ibidem, p. 127-143. Per la ricchezza dei problemi trattati, seppure proiettati nella tarda età medievale: G. Pinto, La politica demografica delle città, in Strutture familiari, epidemie, migrazioni nell’Italia medievale, a cura di R. Comba, G. Piccinni e G. Pinto, Napoli, 1984, p. 19-43.
54 A.S.BO., S. Giovanni in Monte, 7/1347, nn. 53, 54, 57, 58; 8/1348, n. 13, 14; 9/1349, n. 17; 10/1350, n. 17.
55 Si conserva l’originale dell’inventario di beni domestici e non fatto stilare dalla vedova Matelda, con obbligo di restituzione, alla morte, ai canonici di S. Giovanni in Monte: A.S.BO., S. Giovanni in Monte, 10/1350, n. 35. Segnalato e trascritto, sia pure con parecchie imprecisioni in L. Frati, Tre antichi inventari del 1196, 1227 e 1279, in Archivio storico italiano, s. V, 37, (1906), p. 136-146.
56 G. Orlandelli, «Petitionibus emphyteoticariis annuendo». Imerio e l’interpretazione della legge «iubemus» (C. 1.2.14), in Atti dell’Accademia delle scienze dell’Ist. di Bologna, Cl. di scienze morali. Rendiconti, LXXI, 1982/83, p. 51-66. Da ultimo su ciò: Ferrara, La scuola per la città, cit., p. 79-80 e relativa nota 9 per le fonti giuridiche più accreditate.
57 Hessel, Geschichte, cit., p. 49, e ivi nota 13 con i riferimenti alle fonti.
58 Ibidem, p. 69, inserito tra i cosiddetti «podestà indigeni», ai quali seguirono, sia pure in maniera non continuativa, forme di reggenza consolare.
59 Un solo atto, allo stato attuale delle indagini, oltre all’inventario redatto dalla vedova Matelda (v. supra nota 55), ricorda proprietà comitatine del nostro: A.S.BO., S. Stefano, 12/948, n. 30; significativamente, si tratta di terre e vigne prossime alla città che Ildebrando acquista nel novembre 1165. Per il fenomeno migratorio, in part.: A.I. Pini, Un aspetto dei rapporti tra città e territorio nel Medioevo: la politica demografica «ad elastico» di Bologna tra XII e XIV secolo, in Atti del Convegno storico di Bagni di Lucca, 8-10 maggio 1975, Bologna, 1977, ora in Studi in memoria di Federigo Melis, Napoli, 1978, I, p. 365-408; Balestracci, Immigrazione e morfologia, cit., p. 96-98.
60 A.S.BO., S. Stefano, 14/950, n. 30.
61 confronti più significativi con le città toscane, dal ’200 in avanti; da ultimo v. su ciò Balestracci, Immigrazione e morfologia, cit., p. 100-105, dove si segnalano case morfologicamente simili a quelle bolognesi, anche se assai meno sviluppate in profondità.
62 A.S.BO., S. Giovanni in Monte, 10/1350, n. 17.
63 Cfr. supra, nota 56.
64 II «fossatum burgi» ricordato espressamente da Ildebrando nell’enfiteusi del 1192 (v. supra nota 62), è menzionato anche in altri atti del periodo, esemplificando: A.S.BO., S. Giovanni in Monte, 10/1350, n. 39.
65 Cencetti, Il contratto di enfiteusi, cit., in part. p. 136-140, e le note di rimando con ampi, circostanziati passi dai testi giuridici più rappresentativi.
66 Rimandiamo alle indagini recenti, storiche ed archeologiche, raccolte nel volume: Archeologia medievale a Bologna. Gli scavi nel Convento di San Domenico, Catalogo a cura di S. Gelichi e R. Merlo (Bologna, Museo Civico Archeologico, 4 aprile-31 maggio 1987), Bologna, 1987.
67 Cfr. in particolare: R. Rinaldi, Dalla chiesa di San Nicolò delle Vigne al convento di San Domenico: strutture sociali, topografia urbana, edilizia conventuale, in Archeologia medievale a Bologna, cit., p. 75-90; A. D’Amato, I Domenicani a Bologna nel'200, ibidem, p. 91-97.
68 S. Gelichi, R. Rinaldi, Il Sepoltuario del 1291, ibidem, p. 99-107. Per la ricchissima raccolta di testamenti presso i Domenicani bolognesi v. il recentissimo M. Bertram, Testamenti medievali bolognesi. Una miniera documentaria tutta da esplorare, in Rassegna degli Archivi di Stato, LII, 1992, n. 2, Roma, 1993, p. 307-323.
69 Per il termine «contrada» e le sue valenze semantiche e storico-istituzionali in questa realtà cittadina cfr. Pini, Le ripartizioni territoriali urbane, cit., p. 19-21. Per alcuni significativi confronti Sznura, L'espansione urbana, cit., p. 74-77.
70 Per l’originale dell’atto, rogato in data 14 marzo 1219: A.S.BO., Demaniale, S. Domenico (d’ora in avanti S. Domenico), 120/7454, n. 1; per l’edizione: VJ. Koudelka O.P., Monumenta diplomatica Sancti Dominici, in Monumenta ordinis fratrum praedicatorum historica, XXV, 1966.
71 Per l’originale, datato 7 giugno 1221: Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna, B 3695, «Bolle e Brevi riflettenti gli eretici»; ma si veda anche: M. Fanti, Il ritrovato originale del contratto fra S. Domenico e Pietro Lovello del 7 giugno 1221, in Archivum fratrum praedicatorum, XXXVI, 1966.
72 Per l’albero genealogico del gruppo Carbonesi-Andalò, in talune parti incompleto: L. Savioli, Annali Bolognesi, voll. 2, Bassano, 1784/91, II/I, p.36. Inoltre: Hessel, Geschichte, cit., p.75-77; Rinaldi, Dalla chiesa di San Nicolò delle Vigne, cit., p.79-80, 82 e note relative.
73 Ibidem, p.80-82.
74 Per una dettagliata analisi dello sviluppo del nucleo conventuale cfr. in part. S. Gelichi, R. Merlo e S. Nepoti, La chiesa di San Domenico nel XIII secolo, in Archeologia medievale a Bologna, cit., p. 109-112; S. Gelichi, R. Merlo, Le vicende storico-artistiche di un settore del convento di S. Domenico, ibidem, p. 113-118. Per l’integrazione dei dati archeologici con le fonti scritte: Rinaldi, Dalla chiesa di San Nicolò delle Vigne, ibidem, p. 83-88.
75 A.S.BO., S. Domenico, 120/7454, n. 2, 3, 4 (1220-1224).
76 Ibidem, n. 5, 6, 7 (1229-1230).
77 Ibidem, n. 8; in calce si precisa che Pietro ed Albiço, figli del defunto domino Andato «dicte venditioni... occasione hereditatis avi et ipsorum falcidie et hereditatis materne future... renuntiaverunt».
78 Ibidem, n. 9-16; inoltre A.S.BO., S. Domenico, 125/7459, n. 2, 3, 4 (1233-1234).
79 A.S.BO., S. Domenico, 120/7454, n. 17.
80 Rinaldi, Dalla chiesa di San Nicolò delle Vigne, cit., p. 84-85, e note 49-51 di rinvio alle fonti documentarie, a p. 90.
81 V. supra, nota 68.
82 Statuti di Bologna dall'anno 1245 all’anno 1267, cit., I, Liber V, r. I, p. 435-435-439; III, Liber XI, r. CVI, p. 356.
83 Ibidem, I, Liber V, r. I, p. 438, a. 1259-’67.
84 Statuti di Bologna del 1288, cit., Liber VII, r. X, p. 58-61
85 Ibidem, Liber VII, r. XXI (Quod liceat cuicumque emere superfìciem que est super solo ecclesiastico), p. 71-72. Per un utile confronto con le elaborazioni giuridiche pressochè coeve v. i passi selezionati e riprodotti dai testi in Cencetti, Il contratto di enfiteusi, cit., p. 189-190. Osservazioni interessanti in proposito in Id., Questioni statutarie bolognesi, in L’Archiginnasio, XXXV, 1940, ora in Lo Studio di Bologna, cit., in part. p. 287-288. Non è ancora stato formulato un esame comparativo specifico tra le diverse ma parallele testimonianze, un esame evidentemente necessario ai fini di un corretto chiarimento dell’iter giuridico-normativo dello ius superfìciei.
86 Su ciò, una segnalazione particolare va riservata alle osservazioni del GROSSI, Locatio ad longum tempus, cit., p. 106 sq.
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