«Senza l’udito non si può ridurre in prova»
La costruzione della «verità» tra prescrizione e percezione nella musica del Rinascimento
p. 261-286
Texte intégral
«La verità è la morte dell’intenzione»
W. Benjamin, Il
dramma barocco tedesco.
I
1Di quali «verità» la musica ci parla, e, soprattutto, quali «verità altre» coopera a scoprire? Il confine tra ciò che le appartiene e ciò che non le appartiene è particolarmente esile ed ambiguo, poiché, nella cultura occidentale, la musica è nata per rispecchiare il tutto: esiste in tutto poiché non esiste in sé. Il suo esistere è sostanzialmente un esistere metaforico: metafora è il produrre suono, metafora l’ascoltarlo.
2La natura metaforica della musica si può cogliere in uno sguardo, uno sguardo che ricorre sovente nelle allegorie pittoriche. Nel dipinto di Giovanni Andrea Sirani (fig. 1), è proprio la diversità degli sguardi –didascalicamente esornati dall’impianto simmetrico che unisce pittura e musica, arti sorelle– a rivelarci la natura diversa delle due discipline: la Pittura ha gli occhi sulla tela, poiché sta dipingendo, ma la Musica, che pure sta cantando, che pure ha in mano un foglio notato, dove posa i suoi occhi? Non su quest’ultimo: il suo sguardo è, invece, rivolto al «tutto» che sta sopra e oltre l’umano: musica […] quasi ad ommia se extendit1. Tramite lo sguardo, il dato tecnico della performance musicale, rappresentato dalla mano destra che scandisce il tactus e dalla mano sinistra che tiene una pagina di musica, si trasforma in dato metaforico: la percezione uditiva del suono sembra quasi negare se stessa, per disvelare ai sensi quel «sopra» indefinibile cui l’occhio, col suo vagare indistinto, anela. Nell’Allegoria delle tre arti sorelle (fig. 2), il pittore fa addirittura convergere lo sguardo di Pittura e Poesia sulla Musica: è lei lo strumento di comunicazione tra terra e cielo, la sutura che rende possibile il discorrere tra sensibile e sovrasensibile2.
Fig. 1 – Giovanni Andrea Sirani, La Pittura e la Musica (sec. XVII), ubicazione sconosciuta.
Fig. 2 – Giovanni Andrea Sirani, Allegoria delle tre Arti (Pittura, Musica, Poesia) (1640-1660), Bologna, Pinacoteca nazionale.
3Questo topos iconografico doveva essere particolarmente caro ai Sirani: lo ritroviamo, infatti, pure nell’Allegoria della musica della figlia di Giovanni Andrea, Elisabetta (fig. 3). Anche qui, quella musica che la signora-musica tiene nelle mani non si può, né si deve guardare.
Fig. 3 – Elisabetta Sirani, Allegoria della musica (1659), ubicazione sconosciuta.
4La natura metaforica della musica si può cogliere in un gesto, un gesto che ricorre sovente nelle allegorie pittoriche. Nel dipinto di Nicolas Régnier (fig. 4), la Musica si accompagna alla Poesia. Nell’attimo immediatamente precedente al manifestarsi del suono (la Musica ha ancora l’archetto deposto sul tavolo, ma il violino è già imbracciato), la Poesia, guardando negli occhi la sorella Musica, protende il dito indice verso il cielo, ricordandole la genitura divina di quel suono che sta accingendosi a produrre. Accostando diatopicamente a quest’immagine un’altra, anteriore di quattro secoli, vediamo un’altra signora-musica compiere, archetipiamente, lo stesso gesto (fig. 5). Nell’indicare la musica istrumentalis, ultimo anello della cattedrale analogica costituita dalla reinterpretazione boeziana della concezione pitagorico-platonica della musica, il braccio destro, fino ad allora tenuto in grembo, si solleva e l’indice della mano si distende ad indicare il mistero che si cela sopra la nostra testa, al di là del nostro orizzonte: ciò che faticosamente si tenta, quaggiù, di riprodurre è solo icona e specchio di ciò che, lassù, si contempla nella pienezza del creato, solo ombra sonora, evanescente segno dell’inadeguatezza dell’umano3.
Fig. 4 – Nicolas Régnier, La divina ispirazione della musica (ca. 1640), Los Angeles, County Museum of Art.
Fig. 5 – Antiphonarium mediceum (XIII sec.), Codice Pluteo 29.1, f. 1v., Firenze, Biblioteca Laurenziana.
5Concerto sensibile e concerto sovrasensibile sono, da sempre, indissolubilmente legati e, al contempo, inesorabilmente scissi: il concerto sensibile appartiene al regno dell’udibilità/visibilità, il concerto sovrasensibile a quello dell’invisibilità/inudibilità. Contemporaneamente all’efflorescenza del suono sull’universo percettivo, sguardo e dito si ritraggono e ci ritraggono dal visibile/udibile: è questa la prima verità che la musica ci consegna.
II
6Ma perché quell’orientarsi dello sguardo, quel movimento della mano, gesti che non solo è possibile compiere, ma è quasi necessario rappresentare? La musica occidentale si è costruita su una dualità che non ha smesso di dichiararsi fin quando non è stata aggredita dall’oblio. Se le modalità del suo venir meno esulano dall’ambito del presente scritto, sono le modalità del suo appartenere, per secoli, alla «memoria collettiva» che converrà, ancora una volta, cercare di testimoniare.
7L’antefatto è presto ricostruito nella sua «meccanica» essenziale: da un lato, uno sforzo immane di discriminazione razionale, dall’altro, l’abbraccio totalizzante di una simbologia invasiva ed onnipresente. Una tale archetipica dialettica trascende l’articolazione tra teoria e pratica sondata, dalla musicologia storica, con molta diffidenza per la prima e molta simpatia per la seconda, tanto da ridurre, sovente, la storia del pensiero teorico-musicale ad un trionfante percorso di liberazione dalle ingombranti istanze della metafisica, prospettiva che ha finito per sacrificare il comprendere all’utile. Ma anche sposando il sano pragmatismo dei sacerdoti della prassi, nulla può risultare più utile, per la prassi medesima, del riconoscere la profondità di tale strutturale stratificazione oppositiva che dissolve ogni confine nell’atto stesso di tracciarlo.
8Come ogni buon musico del Quattrocento, anche Franchino Gaffurio si dedicò ad interpretare la sintassi di una così pervasiva dialettica, una sintassi che è possibile, ancora una volta, ricostruire con l’aiuto dell’icona. Due icone, appartenenti a due diverse opere, la Practica musicae (1496) (fig. 5) e l’Angelicum ac divunum opus musicae (1508) (fig. 6), narrano, infatti, la musicale costruzione di un universo razionale e la sua musicale trasfigurazione simbolica con sensibilità differenti, restituendoci due letture complementari di quel processo in cui logos e mythos, pur fondendosi e dissociandosi con diversa alchimia, non possono che dar luogo a molteplici diffrazioni di un medesimo mondo.
Fig. 6 – Franchino Gaffurio, Angelicum ac divinum opus musicae, Milano, per Gotardum de Ponte, 1508.
9La prima immagine, votata al primato del simbolo, è adottata, consapevolmente, come frontespizio di un trattato dedicato alla pratica della musica. La sua inopinata presenza in quel luogo strategico, riporta davanti ai nostri occhi una verità tanto palese per gli antichi, quanto oscura per noi: la necessità fondante della dimensione simbolica per l’esistenza stessa della prassi musicale. Che ogni prassi possibile dipenda dal simbolo lo racconta, infatti, la raffigurazione del Parnaso musicale, con i suoi miti e i suoi eroi: primo fra tutti Apollo, che del Parnaso è anima. Accompagnato dalle tre Grazie, è assiso in trono con una lira da braccio nella mano sinistra. Un cartiglio, col motto mentis apollinae vis has movet undique musas, ne sovrasta l’iconografia, esplicitando la funzione fecondante del dio. Disposte simmetricamente alle estremità dell’immagine, le figure di Muse e pianeti si corrispondono analogicamente, simbolicamente collegate dalle corde di una lira cosmica che custodisce i modi. Il sapere musicale si converte, così, in ordine universale, la leggibilità della musica, in leggibilità del mondo. Il programma iconologico riattualizza topoi antichi: l’ordine planetario e il parallelismo tra Muse e pianeti rimandano al commento al Somnium Scipionis di Macrobio, e al De Nuptiis di Marziano Capella4 a loro va ascritta la primogenitura del racconto, iterato per secoli, delle Muse, motrici delle sfere celesti, che eseguono l’inudibile «concento celeste» sotto gli occhi di Apollo, loro maestro5.
10Dai piedi del dio si snoda un serpente tricefalo che congiunge idealmente cielo e terra. Sutura tra «il sopra» e «il sotto», tra l’udibile e l’inudibile, domina la dimensione verticale dell’immagine: il rettile è icona del Silenzio che connota il mondo sublunare, immobile e per ciò stesso muto, ma anche del Tempo, come testimonia la triade zoomorfica dalla testa di lupo (il passato), di leone (il presente) e di cane (il futuro)6: condizione necessaria di esistenza dello scibile contenuto nel trattato, la dimensione oppositiva si confronta e si dissolve nell’immane discesa dal cielo sonoro alla terra muta. Discesa che implica una risalita. Si deve, ad esempio, risalire al sistema celeste per decifrare le parti di soprano, contralto e basso del mottetto Ubi opus est facto di Giovanni Spataro, in cui rispettivamente Saturno, Jovis parentis equalitas e Saturnus iustitiam petit sono stati posti ivi per clave. Dal legame cosmico che unisce la musica ai pianeti, si possono desumere le note di inizio delle tre voci che l’immagine di Gaffurio costudisce e rispecchia7: se il simbolo si fa norma tecnica e la norma tecnica si incarna nel simbolo, il legame con la prassi è tanto ellittico quanto essenziale, tanto criptico quanto episodicamente disposto a manifestarsi nella finitezza di un oggetto musicale concreto che ci rivela quanto l’immaginario simbolico possa fecondare e legittimare nel suo contessere reti analogiche che suturano, sopra e sotto, suono tangibile e senso intangibile, la creatività del compositore.
11La seconda immagine, votata al primato della ratio, è adottata, significativamente, come frontespizio di un trattato in volgare, l’Angelicum ac divinum opus musicae, che è quasi compendio e sinopsi del primo. Essa è testimonianza del tentativo di dare leggibilità al più evanescente dei sensi, impossessandosene attraverso il numero: circondato dai suoi dodici allievi-apostoli, il musico-messia svela loro i segreti del suono, evocando la concezione stoica dell’armonia, generatasi nella discordia concors. La divisione aritmetica dell’ottava lo abbraccia tanto nella dimensione processuale-sonora (le tre canne d’organo alla sua destra), quanto nella sua diffrazione geometrico-spaziale (i tre segmenti alla sua sinistra), testimoniando l’unica tipologia di suono di cui si può dire qualcosa: il suono tradotto in numero, e perciò stesso resosi dicibile/visibile, si consegna (la clessidra) e, al tempo stesso, si sottrae (il compasso) al tempo.
12Dove s’incontrano queste due immagini? La prima sembra discendere dal mondo celeste al mondo terrestre, mentre la seconda ascendere dal mondo terrestre al mondo celeste, ma, pur partendo da polarità di antitetico segno, esse paiono convergere in un punto, che è poi un universo, l’universo rappresentato dal concetto di armonia. In quest’ultima icona, il cartiglio con le parole che escono dalla bocca del magister è espressione verbale di ciò che nella prima è rappresentato iconicamente mediante la gigantesca lira cosmica che satura la scena.
13Se cartiglio e lira sono ecfrasi diverse del medesimo oggetto, quanto sono distanti la concordia e la discordia evocate da Gaffurio? Nell’abbracciare la teodicea stoica, il magister musicae ha in mente, probabilmente, la rilettura del concetto di armonia contenuta nell’Enneadi di Plotino, una rilettura che approfondisce il riassorbimento/dissolvimento della dimensione oppositiva, «in modo tale da ricomporre nell’armonia universale ogni elemento di dissonanza8». La questione non abbraccia soltanto la metafisica, ma invade, egualmente, la fisica del sensibile, «perché che musico sarebbe chi, conoscendo l’armonia nel mondo intelligibile, non si commuovesse nell’ascoltare l’armonia dei suoni sensibili9?».
14Il dispiegarsi delle molteplici inferenze prodotte dalla cattedrale analogica, che di armonia ha il nome, sono perfettamente note a Walter Benjamin, il quale, nel seguente passo della Premessa gnoseologica, al suo Dramma barocco tedesco, ne sottolinea la vocazione «produttiva»:
come l’armonia delle sfere si fonda sulla rotazione dei corpi celesti, che non si toccano mai, così il consistere del mundus intelligibilis si fonda sulla ineliminabile distanza tra le essenze. Ogni idea è un sole e il suo rapporto con le altre idee è come un rapporto fra altrettanti soli. Il rapporto armonioso fra queste essenze è la verità10.
15Quale verità dimenticata la musica, dunque, ci consegna? Il pensiero musicale occidentale si costruisce attraverso un’inesausta tensione razionalizzante i cui esiti possono intravedersi, con l’immediatezza dell’icona, proprio in quei numeri che accompagnano tanto le canne d’organo quanto i segmenti collocati ai lati della figura del magister musicae. Essi ci dicono che le consonanze sono interpretabili attraverso il rapporto tra numeri semplici: 3 a 4 la quarta, 3 a 2 la quinta, 2 a 1 l’ottava, etc. Ingabbiate nella relazione numerica, esse vivono di una loro razionalità intrinseca che le ha rese comprensibili e, come ogni oggetto della conoscenza, possedibili, anche, se non soprattutto, al di là delle contingenze del sensibile, di quel suono sensibile destinato percettivamente a morire poco dopo essersi prodotto.
16Ma la pretesa di fondare l’armonia musicale su intervalli costituiti da numeri razionali, si scontra con la constatazione che le consonanze sono, sì, esprimibili attraverso la relazione finita di numeri sufficientemente piccoli, ma tali relazioni sono incommensurabili tra di loro. Se le consonanze costruiscono la loro «armonicità» in quanto proporzioni razionali, dall’altro, in quanto grandezze reciprocamente incommensurabili, cioè prive di un sottomultiplo comune, esse non riescono a generarsi reciprocamente.
17Parafrasando Benjamin, la consonanza è come un sole e il suo rapporto con le altre consonanze è come un rapporto fra altrettanti soli. Non solo, consonanza e dissonanza, che ha anch’essa la sua identità di oggetto razionale, sono discordanti, ma, come si è visto, il disaccordo agisce pure all’interno del concetto stesso di consonanza. Nondimeno, accordo e disaccordo agiscono nell’ambito di un tessuto connettivo comune che rende entrambi indispensabili alla creazione di armonia, che altro non è se non il rifiuto di piegare il reale alle determinazioni oppositive delle monadi che costituiscono il principio di non contraddizione, eletto dalla logica aristotelica a fondamento del pensiero.
18La logica armonica è basata sulla trascendenza e il dissolvimento di tale principio: invece di separare ciò che è da ciò che non è, invece di rendere incompatibile una qualità con il suo opposto, l’armonia ci ricorda che «qualcosa» può esistere soltanto se c’è un «altro qualcosa» che nega il primo. Quel «qualcosa» e il suo opposto non sono da intendersi in quanto determinazioni, bensì da concepirsi in quanto polarità di un processo che nel suo farsi tende a dissolverle in sé: «per questo motivo coloro che pretendono di abolire i mali finiscono per abolire la stessa provvidenza11».
19Il concetto di armonia è nato prima del principio di non contraddizione e continuerà ad esistere nonostante la nascita di quello, anche se tale nascita non sarà certo indolore:
Si dischiude un nuovo modo di pensare: L’«armonia invisibile», governata dall’ambivalenza simbolica, cede all’«armonia visibile» governata dalla non-contraddizione logica […]. Il taglio che separa la simbolica dell’ambivalenza dalla logica della contraddizione non modifica solo il rapporto tra i termini dell’opposizione, ma la stessa configurazione dei termini12.
20Nonostante tale rivolgimento, alcune discipline, in particolare, continueranno a testimoniare, nel tempo, la persistenza e la fecondità della logica armonica: «è la prospettiva della frase, della danza, della melodia che fa apparire in modo più netto, attraverso regole di contrasto e di accordo, l’esigenza interna allo svolgimento di tutti questi differenti processi13».
21La musica è araldo dell’armonia, regno delle ambivalenze simboliche che vivono della metabolizzazione degli opposti, ma, al tempo stesso, la musica si consegna con altrettanta dedizione alla logica aristotelica. La verità della musica consiste nell’ambivalente oscillare tra queste due verità: la verità dell’essere-simbolo e la verità del conoscere-pensiero.
III
22In un altro contesto e con altre parole, nel seguente discorso, di Lodovico Zacconi, apparentemente privo di una qualsivoglia traccia di oscurità, una consimile «ansia» prospettica sembra contraddistinguere non solo il concetto di musica, che trova nell’armonia la sua più compiuta fondazione, ma, come logica conseguenza, anche l’idioma significante che la musica si è data per raggiungere la soglia dell’udibile: il contrappunto, una sorta di «lingua materna» che, per secoli, ha costituito l’ossatura soggiacente di ogni atto compositivo. Come ogni lingua materna essa si costituisce attraverso stratificazioni successive che di volta in volta si cristallizzano in un’architettura normativa ed in una sintassi prescrittiva che hanno consentito di fondare la musica come scienza, non solo speculativa, ma anche reale:
In questo modo fu ridotto la Musica in scienza: perché tutte le cose che hanno le sue distinzioni si possano diffinire, cavandosi dalle distinzioni le differenze, & dalle differenze il genere, & le specie vere forme delle diffinitioni. Onde poi che la fu diffinita: ne furono formate le regole provando di disporre le consonanze perfette con l’imperfette, & l’imperfette con le dissonanze, & in tanti modi furono rivoltate che al fin ridotte a un termine conveniente, con optime, & probatissime ragioni furono consolidate, & stabilite; della cui stabilità, & consolidazione hora ne godiamo tutti noi gl’effetti harmoniali, & ne goderano gl’antecessori nostri, & gli posteri ancora ne goderanno a lor piacere tutto quello che loro ne vorranno godere […].
I mezzi dunque di ridurre la Musica in scienza furono le regole, & gl’ordini, i quali espurgandola dalle sue odiose imperfettioni & soavità impure, la ridussero tale qual hora la se ritrova essere14.
23È l’insieme di queste regole strutturate secondo la logica aristotelica di genere e specie15 a costituire il paradigma della verità della musica. Una verità che, se messa in atto, ne genera la perfezione, una perfezione tanto problematica da raggiungere quanto da definire per il particolare statuto ontologico della disciplina, uno statuto particolare riconosciuto, ab origine, come testimonia la chiosa di Tommaso d’Aquino al De Trinitate di Boezio:
Esistono tre ordini di scienze a proposito delle realtà naturali e matematiche: alcune infatti sono puramente naturali, e considerano le proprietà delle realtà naturali in quanto tali, come la fisica, l’agricoltura e altre simili; altre invece sono puramente matematiche e vertono sulle quantità intese in senso assoluto, come la geometria (a riguardo dell’ estensione) e l’aritmetica (a riguardo del numero); altre infine sono intermedie in quanto applicano i principi matematici alle realtà naturali, come la musica, l’astrologia e altre simili. Queste ultime tuttavia sono più affini a quelle matematiche, perché nella loro considerazione l’aspetto fisico funge quasi da materia, mentre quello matematico funge quasi da forma: la musica ad esempio considera i suoni non in quanto sono suoni, ma in quanto possono essere considerati secondo determinati rapporti numerici, e così è anche per le altre. E per questo le loro conclusioni vertono sulle realtà naturali, ma sono ottenute con mezzi matematici. Pertanto, niente impedisce che, in quanto hanno qualcosa in comune con la filosofia naturale, si riferiscano alla materia sensibile: ma in quanto hanno qualcosa in comune con la matematica, siano invece astratte16.
24La musica appartiene a quella categoria di scienze intermedie formalmente matematiche ma materialmente fisiche. Zacconi tenta di affrontare la questione nel capitolo XXII del Libro primo (Se la Musica è scienza speculativa over reale, & della convenienza grande che ha con l’altre scienze). Facendo derivare, come da tradizione, l’appellativo di «scienza speculativa» alla formalizzazione matematica e quello di «scienza reale» alla materializzazione fisica, il monaco agostiniano è indotto a riconoscere la duplice natura della nostra disciplina, ribadendo, comunque, il primato della prima, che ne costituisce la vera natura, sulla seconda:
Per questo nel ricercare se la Musica è scienza speculativa overo reale: si dice che la sia speculativa: mentre che il compositore non riduce ad atto nissuno la sua speculatione, ma che poi riducendo le sudette sue speculationi all’atto, sia scienza reale: perché l’essenza sua si può toccar con mano: & nota che si potria anco dire che la fosse scienza che participasse & dell’una & dell’altra, per rispetto che il Prattico non può ridurre a realtà nissuna le sue figure Musicali: senza che non l’habbia premeditato prima. […] & però volendo concludere, bisogna ch’io dica, che la Musica in se stessa sia scienza speculativa: perché riducendola all’atto, quell’atto è certezza, & prova della buona, & optima speculatione la quale ne certifica, & assicura come oro posto sul parangone17.
25Ma procedendo dal piano metaempirico al regno dell’empiria, Zacconi stesso dovrà pur ammettere che il ridurre in atto non può configurarsi unicamente come neutra, automatica conseguenza della speculazione.
26Il lato pragmatico del suo pensiero, pur facendosi strada faticosamente, si coglie nella sensibilità storicistica ante litteram, che lo spinge a riconoscere ogni epoca custode di una sua perfezione musicale, una perfezione dell’oggi intrinsecamente caduca:
Et quelli che dicano che questa nostra Musica sia ridotta a tutta quella perfettione che si può mai ridurre; assai s’ingannano, & nell’inganno commettono tutto l’errore: perché vogliamo noi credere che coloro ch’erano al tempo di Giovan Ogkechem che fù maestro di Iusquino, & al tempo d’esso Iusquino, Giovan Mottone & gli altri famosi musici vedendola esser ridotta a quel termine, & perfettione, ancor loro non dovessero dire che non fosse possibile di poterla ridurre a miglior perfettione? & nondimeno la musica moderna ci pare molto più vaga, et molto più soave che non è la loro. Così col tempo potranno altri, altre più vaghe vie trovare, per le nuove varietà, & vaghezze che di tempo in tempo si ritrovano, & anch’essi dire quello che ora diciamo noi18.
27Parole quali soavità, dolcezza, vaghezza descrivono, quasi invariabilmente, nelle fonti dell’epoca, l’effetto percettivo della perfezione musicale prodotta dal reciproco interrelazionarsi di due dimensioni19: gli effetti intrinseci e gli effetti estrinseci della musica, ovvero, le sue verità (linguistiche) e le modalità con cui quest’ultime raggiungono la soglia del sensibile, cioè le modalità con cui vengono trasmesse e comunicate:
Se nel considerare gl’harmonici effetti, & le Musicale melodie, anderemo giudiziosamente considerando di donde n’escano le soavità, & le dolcezze delle cantilene, & per qual via le ci siano produtte, & fatto sentire facilissimamemte trovaremo, che non escano da altre cose, ne per altra via, se non per alcune disposizione de numeri che hanno natura, quando son ben disposti, & ordinati di generare harmonia […]: Onde se noi li consideriamo bene trovaremo, che si come gl’edifici prima che si riducano alle forme visibile, & che sieno di tutto punto fatti, sono integri, & compiuti nella mente dell’artefice, & si dicano essere nell’iddee loro collocati, et posti: così ancora prima che le Musiche sieno cantate, & che si odino i loro effetti estrinseci; hanno dentro di sé per la disposizione de i sonori numeri, & le figure, gl’effetti intrinseci, che per dirla in due parole sono quegl’effetti muti, & occulti, che dalle voci poi sono scoperti, & manifestati, quando che cantandole l’empiono di suono20.
28Gli effetti intrinseci sono espressione «di chi sa l’arte del comporre», che consiste nello strutturare il pensiero in una forma comunicabile e comprensibile a coloro che devono eseguirne la musica, della quale gli effetti estrinseci sono scoperta e manifestazione sensibile:
E però si come gli effetti intrinseci sono quelli principalmente, che vanno per il pensiero del compositore, mentre ch’egli discorre intorno alla disposizione delle consonanze, et dissonanze; così ancora gl’estrinseci sono quelli che escano dalle cantilene quando le si cantano, ò da quelle che sono ridotte in forma da potersi cantare21.
29Se da un lato, Zacconi, in ossequio ad una gerarchia inscalfibile, sembra sancire la completa autosufficienza epistemologica del suono tradotto in numero, concependo l’atto compositivo come processo puramente speculativo, il quale è intrinsecamente produttrice di per sé di «buona harmonia», senza alcun coinvolgimento sensibile, dall’altro alto, invece, rivendica la necessità di mettere alla prova, mediante l’udito, l’oggetto stesso della speculazione:
Se non fosse che l’obietto musicale essendo suono non si può senza l’udito ridurre in prova, non faria bisogno al Musico di ridurre i suoi pensieri & li già disposti numeri ad atto nissuno & a nissuna forma reale. Ma perché le sue prove non si possono per altra via provare, per questo dalla speculazione bisogna venire alla prova sicura e certezze reali22.
30Tentando di mitigare la soggezione gerarchica della «scientia reale» nei confronti della «scientia speculativa», si costituisce l’udito ad organo giudicante dell’intelletto. Il «ridurre in prova» non è, infatti, procedimento neutro, bensì strumento operativo di controllo e di ridefinizione. Esso può correggere o addirittura smentire i risultati del processo speculativo, produttore di armonia e proporzione, il quale, poiché razionalmente fondato, non dovrebbe avere, strictu sensu, bisogno alcuno di essere messo alla prova, bensì solo di essere messo in atto.
31Tale sottile, ma decisiva contraddizione, che peraltro Zacconi non costituisce bensì riattualizza e rifunzionalizza in rapporto alle qualitates del contrappunto cinquecentesco,23 testimonia quanto sia fecondo e paradossale, insieme, il tentativo di fondare linguisticamente e visivamente il suono attraverso lo strumento matematico.
32Questa crepa nel sistema non è mai stata compiutamente teorizzata, bensì appena timidamente formulata, nuovamente contradetta dal doveroso ribadire il primato della ratio sul sensus, cioè della verità come conoscenza razionalmente fondata, che considera il senso dell’udito solo un veicolo neutro della sua comunicazione linguistica. Ma un’altra dimensione della verità, non meno filosoficamente fondata di quella appena profilata, finirà per prevalere, de facto, nei comportamenti di quegli uomini che la musica la producono, la eseguono e l’ascoltano.
33Da dove proviene la concettualizzazione di effetti intrinseci ed effetti estrinseci nella musica? In quanto effetti devono esser prodotti da cause. Il reticolo epistemologico cui Zacconi attinge è, come potremmo aspettarci, quello aristotelico: nell’articolazione delle quattro cause, le prime due (la causa materiale e la causa formale) sono considerate intrinseche, mentre le seconde due (la causa efficiente e la causa finale) estrinseche. Quali sono il senso e le implicazioni dell’applicazione di tale apparato logico alla disciplina musicale?
34Tradizionalmente, le quattro cause sono state illustrate mediante l’esempio della statua: la causa materiale è il marmo di cui è fatta, la formale la forma assunta, l’efficiente l’agire dello sculture, e la finale il proposito che essa intende realizzare con il suo esistere. In realtà, Aristotele non ha mai usato tale oggetto per discutere tutte e quattro le cause: impiegando la statua solo per descrivere le peculiarità della causa materiale, ha preferito utilizzare esempi diversi per ciascuna di loro24:
causa materiale
In una accezione si dice causa quella realtà immanente da cui si genera qualcosa, come nel caso del bronzo della statua e dell’argento della coppa, nei loro rispettivi generi.
causa formale
In un’altra accezione causa è detta la forma e il paradigma, cioè la definizione e l’essenza nei loro generi (come ad esempio nel caso del diapason il rapporto di due, o, in senso generale il numero) e le parti costitutive della definizione.
causa efficiente
E poi deve esistere un punto da cui viene il primo principio del mutamento e della quiete, tenendo conto che, ad esempio si dice causa un soggetto che prende una decisione, quanto il padre rispetto al figlio, quanto, in linea di principio, ciò che fa rispetto a ciò che è fatto, e l’agente mutante rispetto all’oggetto mutato.
causa finale
Inoltre causa assume il significato di fine, «l’in vista di cui», come quando si passeggia in vista della salute: e del resto, a quale altro scopo si passeggia? Rispondiamo: al fine di essere in buona salute e con queste parole siamo convinti di esibire una causa25.
35Sebbene l’esempio della statua sia stato impiegato anche in testi antichi, ritornare al dettato aristotelico, nella sua integrità, è particolarmente fecondo per la nostra analisi. La causa formale, concepita come essenza sovrasensibile di un dato sensibile è illustrata tramite l’esempio dell’ottava, esprimibile attraverso il rapporto di 2:1. La medesima concezione della forma come essenza numerica è richiamata da Zacconi nella sua trattazione degli effetti intrinseci:
E nel considerare gl’harmonici effetti, & le Musicale melodie, andaremo giuditiosamente considerando di donde n’escano le soavità, & le dolcezze delle cantilene, & per qual via ci siano produtte, & fatto sentire facilissimamamente trovaremo, che non escano da altre cose, né per altra via, se non per alcune dispositione di numeri che hanno natura, quando sono ben disposti, & ordinati di generare harmonia26.
36Gli effetti intrinseci procedono, in primo luogo, dalla causa formale: quest’ultima è il presupposto stesso perché possa esistere un pensiero musicale regolato, che costruisce una sua sintassi operativa di «ben disposte figure e caratteri». Zacconi elegge la mente come locus prediletto degli effetti intrinseci che «sono quelli principalmente, che vanno per il pensiero del compositore, mentre ch’egli discorre intorno alla dispositione delle consonanze e delle dissonanze». Essi «sono quelli che non sono ancor in esser produtti, de quali i compositori ne sono patroni27».
37Un’analoga attenzione a privilegiare la causa formale, come segno distintivo dell’attività del musicus, caratterizza anche il Trattato della natura et cognitione di tutti gli tuoni, di Pietro Aron. Nel capitolo primo, Dichiaratione del fine di tutti gli tuoni, l’autore esplicita l’intento da cui muove l’intera trattazione:
Si come fama et honore è a qualunque artefice intendere et sapere, et determinatamente cognoscere le parti et ragioni della sua arte. Così infamia et vituperio è a non sapere et ingannarsi negli articoli della sua facoltà28.
38Compito dell’artefice è la conoscenza teoretica e applicativa di una delle questioni più misteriose e controverse della teoria musicale rinascimentale: l’applicazione della modalità gregoriana alla polifonia. In quanto discorso preliminare, il capitolo primo è un vero e proprio meta-discorso in cui si dichiara l’intenzione. Rendendosi trasparente la prospettiva dalla parte del compositore-artefice, Aron rivendica il primato della causa formale:
Noi havremo che l’huomo si diffinisce essere animale rationale et mortale, certo è che rationale et mortale sono due differenze a cognoscere che cosa sia l’huomo, della quale una è finale la qual si considera secondo il fine di esso huomo cioè mortale, & l’altra è formale la quale si considera più secondo lo essere specifico & formale di esso huomo vivente cioè rationale. Il che questa è quella che più fa cognoscere la essentia del l’huomo che quella la quale si considera più secondo il fine cioè che l’huomo sia mortale, perché questa è commune non solamente a gli huomini ma ancora agli altri animali29.
39Per contestare chi identificava il modo semplicemente dalla finalis, Aron chiama in causa l’autorità di Aristotele, rivendicando la necessità di considerare la natura del brano prima di giungere ad assegnarne il modo. La similitudine antropomorfa illumina una concezione sintattica della modalità che l’autore sostiene contro le intemperanze e le semplificazioni dei prattici: se l’essenza dell’uomo è la sua razionalità, analogamente l’essenza della composizione è la razionalità globale che la informa, una razionalità globale che Aron identifica con il concetto di modo-causa formale. Ma privilegiare il modo-causa formale significava privilegiare l’intrinseca essenza tecnica che procede dall’atto compositivo sulla estrinseca destinazione funzionale con cui veniva riletto il concetto di causa finale: conoscere semplicemente la finalis era, infatti sufficiente, di norma, per articolare concretamente la prassi esecutiva dell’epoca produttrice di quegli effetti estrinseci, ascrivibili alla causa efficiente, che «escono dalle cantilene quando le si cantano30».
40Ma, nel caso della musica, la causa efficiente non è, o non è quasi mai interamente, nelle mani dell’artefice. La distinzione aristotelica tra cause potenziali e cause agenti risulta, cosi, particolarmente illuminante per comprendere le peculiarità della nostra disciplina:
Tutte le cause, tanto quelle designate come proprie quanto quelle accidentali, sono dette in potenza e in atto: ad esempio, si indica come costruttore di una casa sia l’architetto, sia l’architetto nell’atto di costruire31.
41Se noi sostituiamo «architetto» con compositore, e «architetto nell’atto di costruire» con compositore che esegue, il quadro epistemologico del sistema si chiarisce ulteriormente: poiché se l’architetto si astiene dal costruire e il compositore dall’eseguire (e in tutti i casi, per il repertorio che Zacconi ha in mente, non può, comunque, farlo da solo), ne consegue che il compositore è l’artefice di una causa potenziale intrinseca, mentre l’esecutore di una causa agente estrinseca.
42Essendo gli effetti estrinseci e quelli intrinseci potenzialmente causati da soggetti diversi, il loro rapporto può rivelarsi molto complesso e problematico, fino a sancire profonde incompatibilità, poiché portare all’esterno «quegli [effetti] che sono dentro alle compositioni mentre le non sono ancor cantate», cioè, in altre parole, quegli effetti potenziali che devono venir attualizzati nel reale, non è né facile, né indolore per quegli effetti medesimi.
43Sulla relazione interno/esterno si gioca una partita decisiva per lo statuto della musica, per le verità che una disciplina ambigua, dimidiata tra scienza speculativa e scienza reale è in grado di consegnare al mondo. Anche una frase ovvia come la seguente: «tolto dalle mani de’ mediocri cantori una cantilena, & datola in mano de’ cantori famosi, & buoni, quella composizione ci parerà un’altra & non più quella32», nel suo innocente dichiarare ciò che la realtà sensibile certifica, scardina la trasparente relazione tra potenza e atto che il monaco agostiniano cerca caparbiamente di stabilire pur dovendone dichiarare, suo malgrado, in più e più luoghi, l’insufficienza.
IV
44I soggetti che producono gli effetti intrinseci e quelli estrinseci non solo possono divergere, ma anche confliggere, come le frequenti lamentationes sulle abitudini dei cantori di diminuire estensivamente, durante l’esecuzione, le melodie scritte dai compositori, testimoniano:
Cercarà adunque il Compositore di fare, che le Parti della sua cantilena si possino cantar bene & agevolmente: & che procedino con belli leggiadri & elleganti Movimenti; accioché gli auditori prendino diletto di tali modulationi, & non siano da veruna parte offesi. Quelle cose che appartengono al Cantore sono queste: Primieramente dee con ogni diligenza provedere nel suo cantare di proferire la modulatione in quel modo, che è stata composta dal Compositore; & non fare come fanno alcuni poco aveduti, quali per far tenere più valenti & più savii de gli altri, fanno alle volte di suo capo alcune diminutioni tanto salvatiche (dirò così) & tanto fuori di ogni proposito, che non solo fanno fastidio a chi loro ascolta; ma commettono etiandio nel cantare mille errori33.
45Zarlino tenta di definire i rispettivi compiti di compositori e cantori per prevenire il potenziale conflitto che può innescarsi tra l’inventio finita dei compositori, che si distaccano dal proprio lavoro consegnandolo alla scrittura, e l’inventio infinita dei cantori che «riscrivono» oralmente il testo davanti ai loro occhi fino a poter produrre una superficie percettiva che si distacca significativamente da quanto previsto dal compositore: promuovendo l’autonomia degli effetti estrinseci rispetto ai corrispondenti effetti intriseci, i cantori sono oggetto della reprimenda di Zarlino in quanto potenziali sovvertitori della «fabbrica» approntata dall’artefice.
46Ma, pur ragionando «dalla parte del compositore», appare chiaro che la percezione musicale non può essere semplicemente interpretata come neutro corollario del soggettivo inveramento della prescrizione musicale in discorso da parte del compositore. Sono proprio questi ultimi a testimoniare, infatti, l’insufficienza e la parzialità degli effetti intrinseci, per dirla con Zacconi, l’insufficienza e parzialità del pensiero nei confronti del suono, l’insufficienza e la parzialità del testo musicale nei confronti del processo esecutivo.
47Andrea Festa e Benedetto Spinone furono gli artefici di una gara musicale che si tenne a Genova nel 1555. La tenzone doveva decidere quale sesta parte aggiunta a due composizioni a cinque voci, rispettivamente di Adriano Willaert (Qual anima ignorante) e di Cipriano de Rore (Per mezzo i boschi), fosse et pulcriorem et artificisiorem ac conformiorem regulae et stillo dicti domini Adriani34. Le due parti furono mandate a Venezia e sottoposte al giudizio di Willaert, come testimonia questa lettera del marzo 1555:
Como hebbi la de vostra signoria con le parti, iusto il comandamento suo andai a trovar messer Adriano, il qualle visto ogni cosa si fe’ difficil a voler iudicare dichiarando che mai [ha] avuto voglia di fare simili officii, pur pregato da molti et ancho de parte di vostra signoria. Si redusse pui e più volte a farli cantar da quelli cantori che qui sono in più stima, e cosi tuti d’acordo hanno sotoscritto quella parte che vostra signoria vedrà de lor pugno35.
48Sebbene controvoglia, Willaert si decise, finalmente, a soddisfare la richiesta coinvolgendo nel giudizio i suoi migliori cantori, che eseguirono più volte le composizioni. È abbastanza sorprendente che il grande Adriano non si fosse sentito in grado di giudicare una parte semplicemente guardandola e analizzandola sulla carta –magari dopo averla fatta mettere in partitura, giacché le voci aggiunte gli erano state consegnate in parti separate–, ma abbia preteso, al contrario, di farla eseguire più volte, coinvolgendo, a pieno titolo, i suoi cantori nella scelta, da loro sottoscritta assieme a lui.
49Tomaso Cimello, dal canto suo, nell’inviare della sua musica al cardinale Sirleto, senza averla potuta in precedenza eseguire, per mancanza di cantori, chiede «di far provare il Motetto da qualche amico com’è ms. Giovan Maria, ms. Pietro da Picinisco, ms. Aluigi et altri giuditiosi, e sia lor licito mutare, mancar, aggiunger e rinovare36». Il compositore non solo acconsente, ma invita esplicitamente a rimodellarne, in sua assenza, il testo in funzione delle verità che si riveleranno attraverso l’esecuzione, esecuzione che, sebbene per motivi contingenti egli allora non aveva potuto organizzare, ritiene necessario ausilio al compimento stesso del processo compositivo.
50Se la forma definitiva del testo musicale ingloba gli esiti del processo esecutivo, quest’ultimo è un «ridurre in prova» che, irrimediabilmente, sovverte la canonica relazione di causa-effetto che dovrebbe regolare il rapporto tra dimensione intrinseca e dimensione estrinseca della musica, tra verità linguistica e sua comunicazione, poiché è essa comunicazione che interviene a sancire e a certificare la funzionalità del pensiero, mutandolo laddove esso non risulti idoneo ai dettami della percezione: in tal senso, la musica scritta non si configura unicamente come lo strumento generativo dell’atto esecutivo, bensì anche come suo prodotto.
51Pur secondo modalità e contesti differenti, queste due testimonianze dimostrano, entrambe, la necessità di un vero e proprio giudizio cooperativo basato sulla dimensione dell’esecuzione-ascolto, in cui sono gli effetti estrinseci a validare la bontà degli effetti intrinseci. È su questo versante che lo iato tra compositore e cantore pare ricomporsi e le due forme di inventio collaborare, con risultati inattesi ed affascinanti:
Molte volte occorre, che fuori di sua intentione un compositore haverà ordinato un canto, e compostolo con un disegno et à un fine, che cantandolo altri in altra maniera, ne fanno vedere quello che il proprio autore non ci pensò mai, e non lo fecero à questo fine. Come per essempio. si trovano de Dui, con anco Terzetti pur assai, che tanto si cantano per diritto come gl’ordinarono e fecero i proprij autori, ed anco alla riversa, che i Musici sogliano dire per moti contrarij, come io dissi, e mostrai nel primo libro della mia Prattica di Musica cap: 87. e cosi, quando due buoni cantori che sanno pur assai dell’arte di comporre dovendoli cantare (intendutosi prima à cenni) li cantano per i sudetti moti contrarij, e li fanno esser d’altri Tuoni, e parer altre Musiche, come un dì propriamente occorse nella capella del Sereniss:° Duca di Baviera; ch’essendovi m:° di Capella l’Ill:re sig.r Orlando Lasso. e cantandosi un Duo Benedictus de suoi, due cantori che benissimo l’haveano speculato prima, accennatosi l’un l’altro, dissero, lasciatecelo di gratia cantar à nostro modo, e state à sentire; e cantandolo alla riversa, cioè per moti contrarij, l’istesso sig.r Orlando disse, Buono, mi piace, se bene (sogiungendo) io non lo feci à questo fine37.
52Questo episodio per noi sorprendente, ma per Zacconi, a suo dire, consueto, ribalta completamente l’usuale relazione tra testo scritto ed esecuzione: quest’ultima altera strutturalmente, a livello profondo, la natura del testo musicale, di cui non è più attualizzazione bensì programmatica riscrittura. Quei «due buoni cantori che sanno pur assai dell’arte di comporre», propongono, infatti, di eseguire un Benedictus di Orlando di Lasso, evidentemente costruito a canone, per moto contrario. Entrando nella giurisdizione del compositore, gli suggeriscono una maniera addirittura più artificiosa e complessa di quella originariamente da lui prevista, completamente governata dall’oralità: «lasciate che lo cantiamo in questo modo e state a sentire». Solo studio preliminare e pochi gesti d’intesa sono necessari: in nome del «sentire», in nome dell’efficacia della percezione, la causa efficiente, aristotelicamente, altera tanto la causa formale quanto la causa finale, come rilevato da Orlando di Lasso stesso, il quale, nell’accogliere la soluzione proposta, ribadisce, comunque, di non aver composto il brano «a questo fine».
53Zacconi coglie nel segno nell’individuare nell’effetto ciò che definisce la musica stessa e ogni arte in quanto tale, restituendoci due diverse, seppur complementari, modalità di produzione di effetti. Gli effetti intrinseci sono il luogo del dominio della tecnica che sembra assicurare «automaticamente» l’efficacia del risultato in nome di un’intersoggettività del metodo precostituita ab origine. Gli effetti estrinseci, invece, sono il luogo dell’intersoggettivizzazione in atto:
La differenza essenziale tra il piano teorico-tecnico e il piano estetico-artistico sta senza dubbio in questo: sul primo gli oggetti sono vorhanden, lì presenti in quanto oggettivati cioè dotati di una verità e di proprie qualità oggettive; sul secondo essi sono fin dall’inizio «per una coscienza», ma una coscienza intersoggettiva. A quelle che per il teorico erano le qualità proprie dell’oggetto, corrispondono, per l’esteta o l’artista, gli effetti che questo oggetto ha sulla coscienza intersoggettiva con cui è immediatamente in rapporto38.
54Il piano teorico-tecnico e il piano estetico-artistico sono destinati a convivere sempre, sebbene con diversa, reciproca intensità. Negli esempi discussi quale delle due dimensioni prevale?
55Willaert accetta di giudicare a patto di poter eseguire e sentire…
56Cimello invita i suoi amici ad intervenire dopo aver eseguito e sentito…
57I due cantori chiedono a Orlando di Lasso di poter eseguire perché lui possa sentire…
58In tutti questi casi è l’hic et nunc dell’intersoggettivazione in atto che prevale, è il piano estetico-artistico per una coscienza, da cui procede il giudizio. Il caso di Willaert è particolarmente eclatante: anche solo l’analisi delle partiture avrebbe potuto rivelare un verdetto analogo a quello formulato: se anche solo lo sguardo avrebbe potuto giungere alle medesime conclusioni raggiunte attraverso l’esecuzione, la decisione del maestro di sottoporre le musiche all’esame dinamico-processuale è investita di un significato ancor più rilevante: essa ci parla di umiltà, di attenzione estrema alla dimensione percettiva, di condivisione che costruisce la sua verità nell’atto, nel qui ed ora.
59Questa verità come intersoggettivizzazione «presuppone che siano stati interiorizzati gli altri39», perché l’effetto non solo deve essere prodotto, ma deve essere riconosciuto: colui che, sia intrinsecamente, sia estrinsecamente, ne è attore, lo produce perché sa che è potenzialmente riconoscibile dagli altri e potenzialmente efficace per gli altri. L’auspicio per un’arte musicale moderna, proprio perché retoricamente orientata e definita dall’effetto intersoggettivante, si può consapevolmente cogliere nelle seguenti parole di Adriano Banchieri:
Hora il moderno compositore, per porgere diletto alla maggior parte (essendo il suo proprio fine) meglio considerando, cerca imitare un perfetto Oratore che spiegar voglia dotta e ben istessa oratione; et si come scrive Celio Rodigino lib. 3 cap. 23 detto prima da Cicerone parlando di un perfetto oratore «Optimus orator est vir canorus, qui in dicendo animus audientium delectat et permovet». Così ricercasi al moderno compositore di Musiche nell’esprimere un Madrigale, Mottetto ò quali sieno altre parole, deve operare imitando con l’armonia gl’affetti dell’Oratione, accio che nel cantare habbino diletto non solo il proprio compositore, ma parimente gli Cantori et Audienti40.
60La tradizionale metafora del musico-oratore incarna la necessità del persuadere come fine. Il diletto prodotto dalla bontà dell’effetto è pervasivo e totalizzante: esso deve investire, parimenti, il compositore, gli esecutori e, soprattutto, il pubblico.
61Ma l’efficacia del diletto deve essere testata in essere, essa riguarda solo marginalmente il conoscere.
V
62Questa distanza tra conoscere ed essere è particolarmente problematica per la natura ambivalente della nostra disciplina, per il suo gravitare tra due versanti di un fragile crinale: il versante della scienza speculativa e il versante della scienza reale, il versante del numero e il versante del senso, il versante del precetto e il versante dell’azione:
Le regole scripte possono bene insignare li primi rudimenti del contrapuncto, ma non farano el bono compositore, imperò che li compositori boni nascono così come nascono li poeti. Pertanto quasi più ci bisogna lo aiuto del celo che la regula scripta, et questo ogni giorno è apparente, perché li docti compositori (per istinto naturale et per certa gratia et modo, el quale quasi non se pò insegnare) aliquando in li soi contrapuncti et concenti aducono termini, li quali da alcuna regula et precepto de contrappuncto non sono demostrati.41
63La soggezione teoretica della scienza reale nei confronti della scienza speculativa, suggerita, ma anche contraddetta, da Zacconi, si scioglie come neve al sole sotto l’effetto delle parole di Spataro. Tali «termini», che costituiscono la «grazia misteriosa» del buon compositore, in quanto non dimostrati e, forse, non dimostrabili, si sottraggono alla giurisdizione del conoscere: essi semplicemente sono. Il loro essere però è fragile, evanescente, legato al processo, all’occasione, al contesto, agli uomini: un qualcosa tanto «apparente» quanto misterioso che «bisogna lo aiuto del celo».
64È lo stesso cielo invocato nei dipinti con i quali si era aperto il presente scritto? Forse. Certo è che la musica ha bisogno del cielo, come il concetto di armonia musicale, nato dal cielo, ci insegna. Ma la musica ha anche bisogno della terra. La lira di Gaffurio che si tende, come un arco, tra cielo e terra, sebbene orientata assiologicamente, racconta di un universo in cui Alto e Basso sono entrambi necessari: essi si legittimano reciprocamente, come i contrari che alimentano la logica armonica. È grazie a quest’ultima che le determinazioni costruite nel linguaggio recedono ad un fondo comune, all’indeterminazione originaria del negativo, del vuoto, della mancanza, del «non c’è». La logica armonica esiste per ricordare al musicista di relativizzare lo scarto proiettato dalle determinazioni, per aprirsi ad abbracciarne l’equivalenza. In un’arte performativa come la musica, costruita sul comportamento, dominata dalla maniera, l’equivalenza dell’intenzione è l’unica verità possibile per sfuggire alla tristezza della scuola, alla necrofilia delle piccole verità sclerotizzate dall’uso.
65Ed è proprio questo il senso profondo delle parole di Spataro: nel certificare l’insufficienza del precetto, questa sorta di «istinto naturale», come lui lo definisce, testimonia l’equivalenza dell’intenzione nell’insufficienza di ogni determinazione. Ed è ancora il medesimo senso che si nasconde dietro l’agire di Willaert, di Cimello, dei due cantori al servizio di Orlando di Lasso, e di Orlando di Lasso stesso che ne accetta l’intenzione altra ritenendola, de facto, equivalente alla sua. Ognuno a suo modo si è sbarazzato della tirannia della rigida opposizione di vero e falso, di bene e male, di positivo e negativo, testimoniando un senso di apertura il quale, recuperando la legittimazione dell’essere semplicemente «così», scardina l’unilateralità contrastiva di ogni posizione possibile: la logica armonica sembrerebbe davvero albergare nei loro cuori.
66In una stagione di almeno apparente dominio della ratio sul sensus, tale logica sembrava albergare anche nel cuore di Reginone da Prum: era essa la motrice di tanta inquietudine? Parrebbe proprio il continuo movimento armonico di dissolvimento dei contrari a produrre l’oscurità che egli racconta in modo così eterodosso per quel mondo. Un’oscurità rivelatrice di una difficoltà ed, insieme, di una fecondità che sembrano appartenere costitutivamente alla nostra disciplina: «la musica si mantiene massimamente nascosta sia a coloro che sanno, sia a coloro che non sanno, giacendo occultata da una caligine, come giacesse in un profondo abisso42». Tali parole che rivelano l’inrivelabile certificano l’insufficienza di ogni conoscenza, testimoniando la persistenza di un «occultamento ontologico» che non recede né di fronte alla verità dell’essere, né di fronte alla verità del conoscere.
67In un’epoca psicanalitica, o forse post-psicanalitica, quale la nostra, potremmo tentare, rischiando l’anacronismo, di accostare a quel profondo abisso una parola: ombra.
Notes de bas de page
1 Jacobi Leodiensis, Speculum musicae, in Corpus scriptorum de musica, a cura di R. Bragard, Roma, American Institute of Musicology, 1955, v. I, p. 11.
2 Su questi due dipinti cf. P. Besutti, «The 1620s: the rebirth of “Arianna”», Studi musicali, 4/2, 2013, p. 259-282 e M. Privitera, «Pittori e musici nell’Italia del Cinque e Seicento», Philomusa on-line, 13, 2014, p. 89-111.
3 Su queste due immagini cf. S. Lorenzetti, «Intersezioni del sacro nell’esperienza musicale tra tardo Medioevo e prima Età moderna», in F. Ricciardelli (a cura di), I luoghi del sacro: il sacro e la città fra Medioevo ed età moderna, Firenze, Polistampa (Italian History and Culture, 13), 2008, p. 234-255.
4 J. Haar propone che la fonte che avrebbe ispirato l’accostamento è da ricercarsi nella Musica Practica di Bartolomeo Ramos de Pareja, attraverso la cui mediazione F. Gaffurio avrebbe attinto alle fonti classiche (cf. J. Haar, «The Frontispiece of Gafori’s Practica Musicae [1496]», Renaissance Quarterly, 27/1, 1974, p. 7-22). L’identificazione è stata messa in dubbio da C. A. Miller nella sua introduzione alla trad. ingl. del De Harmonia Musicorum Instrumentorum opus (cf. F. Gaffurio, De Harmonia Musicorum Instromentorum opus, a cura di C. A. Miller, Roma, American Institute of Musicology [Musicological Studies and Documents, 33], 1977, p. 18, n. 30).
5 Come ricorda lo stesso F. Gaffurio, per aver insegnato alla Muse il concerto celeste, Apollo si meritò l’appellativo di «musicus».
6 L’interpretazione è desunta dal primo libro dei Saturnalia di Macrobio relativamente alla descrizione dell’emblema che caratterizza Serapis.
7 Sulla resolutio dell’enigma si veda la spiegazione datane dallo stesso Spataro in una lettera indirizzata a Marc’Antonio Cavazzoni (1 agosto 1517), in B. Blackburn, E. E. Lowinsky, C. A. Miller (a cura di), A Correspondence of Renaissance Musicians, Oxford, Oxford University Press, 1991, p. 204-209.
8 Plotino, Enneadi, a cura di M. Casaglia et al., Torino, UTET, 1997, p. 50.
9 Ibid., p. 297.
10 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1999, p. 12-13.
11 Plotino, Enneadi, op. cit., p. 50.
12 U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Milano, Feltrinelli (Opere, 7), 2001, p. 58-59.
13 F. Jullien, L’ombra del male, Costabissara, Angelo Colla editore, 2005, p. 62.
14 Lodovico Zacconi, Prattica di musica, I, Venezia, Girolamo Polo, 1596, facs., Bologna, Forni, s. d.,p. 11v.
15 Cf. in part. L. Pozzi, «Il metodo della divisione nella logica antica», in Studi di logica antica e medievale, Padova, Liviana editrice, 1974, p. 1-37.
16 Et inde est quod de [151 a] rebus naturalibus et mathematicis tres ordines scientiarum inueniuntur: quedam enim sunt pure naturales, que considerant proprietates rerum naturalium in quantum huiusmodi, sicut phisica et agricultura et huiusmodi; quedam uero sunt pure mathematice, que determinant de quantitatibus absolute, sicut geometria de magnitudine, et arismetica de numero; quedam uero sunt medie que principia mathematica ad res naturales applicant, ut musica, astrologia, <et> huiusmodi. Que tamen magis sunt affines mathematicis, quia in earum consideratione id quod est phisicum est quasi materiale, quod autem est mathematicum est quasi formale, sicut musica considerat sonos non in quantum sunt soni, set in quantum sunt secundum numeros proportionabiles, et similiter est in aliis; et propter hoc demonstrant conclusiones suas circa res naturales, set per media mathematica. Et ideo nichil prohibet si in quantum cum naturali communicant, materiam sensibilem respiciunt: in quantum enim cum mathematica communicant, abstracte sunt. Tommaso d’Aquino, Commento al De Trinitate di Boezio, a cura di P. Porro, Milano, Bompiani, 2007, questione V, art. 3/6, p. 306-307.
17 Lodovico Zacconi, Prattica di musica, I, op. cit., p. 12v.
18 Ibid., p. 13v.
19 Su tale terminologia cf. in part. S. Lorenzetti, «“Cum tanta armonia, cum tanta incredibile sonoritate, cum tanta insueta proportione”. La dialettica tra sensibile e sovrasensibile nella percezione della musica rinascimentale», in Proportions. Science, musique, peinture et architecture, a cura di S. Rommevaux, P. Vendrix, V. Zara,atti del convegno internazionale (Tours, Centre d’études supérieures de la Renaissance, 30 giugno-4 luglio 2008), Turnhout, Brepols, 2011, p. 199-215.
20 Lodovico Zacconi, Prattica di musica, I, op. cit., p. 8r-8v.
21 Ibid., p. 8v.
22 Ibid., p. 11v.
23 Forse è il Tinctoris il primo a fondare teoreticamente la necessità di sottoporre le opere al «giudizio dei miei orecchi», come afferma esplicitamente. Cf., al proposito: R. C. Wegman, «Sense and Sensibility in Late-Medieval Music: Thoughts on Aesthetics and “Authenticity”», Early Music, 22, 1995, p. 298-312 e id., «Johannes Tintoris and the “New Art”», Music and Letters, 84, 2003, p. 171-188.
24 Cf. R. B. Todd, «The Four Causes: Aristotle’s Exposition and the Ancients», Journal of the History of Ideas, 37, 1976, p. 319-322; R. Kent Sprague, «The Four Causes: Aristotle’s Exposition and Ours», The Monist, 52, 1968, p. 298-300.
25 Aristotele, Fisica, a cura di R. Radice, Milano, Bompiani, 2011, II, 3, 194b, p. 195-197.
26 Lodovico Zacconi, Prattica di musica, I, op. cit., p. 8r.
27 Ibid., p. 8v.
28 Pietro Aron, Trattato della natura et cognitione di tutti gli tuoni di canto figurato non da altrui più scritti, in Vinegia, appresso B. De Vitali, 1525, cap. I s.n.p.
29 Pietro Aron, Trattato della natura…, op. cit., cap. I s.n.p.
30 Lodovico Zacconi, Prattica di musica, I, op. cit., p. 8v.
31 Aristotele, Fisica, op. cit., II, 3, 195b, p. 199-201.
32 Lodovico Zacconi, Prattica di musica, I, op. cit., p. 8r.
33 Gioseffo Zarlino, Institutioni harmoniche […] di nuovo in molti luoghi migliorate, di molti belli secreti nelle cose della prattica ampliate, Venezia, Francesco dei Franceschi Sanese, 1573 (1a ed. 1558), facs. Ridgewood, Gregg Press, 1966, III, XLVI.
34 Adriano Willaert, Cipriano de Rore, Due madrigali a cinque voci con l’aggiunta di una sesta voce composta rispettivamente da Andrea Festa e da Benedetto Spinone: una gara musicale a Genova nel 1555, a cura di M. Tarrini, Genova, Associazione ligure per la ricerca delle fonti musicali, 2004, p. 17.
35 Lettera di Gottardo Orcagna a Luca Grimaldi (Venezia, 11 marzo 1555) in ibid., p. 19, il corsivo è mio.
36 R. Casimiri, «Lettere di musicisti (1579-1585) al cardinal Sirleto», Note d’archivio per la storia musicale, 2, 1932, p. 104.
37 Lodovico Zacconi, Canoni musicali (1621), ms. 559 della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Di un altro canone Musicale di Tempo contra Tempo, che si canta pur come il superiore, e poi si canta in Proportione, cap. 11. Ringrazio l’amico e collega M. Zarrelli per avermi segnalato questa fonte.
38 R. Klein, L’arte e l’attenzione alla tecnica, in La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Torino, Einaudi, 1975, p. 425.
39 Ibid., p. 429.
40 Adriano Banchieri, Moderna pratica musicale, in Cartella musicale, Venezia, Vincenti, 1614, facs. Bologna, Forni, 1968, p. 165-166.
41 Lettera di Giovanni Spataro a Giovanni Del Lago (5 aprile 1529) in B. Blackburn, E. E. Lowinsky, C. A. Miller (a cura di), A Correspondence of Renaissance Musicians, op. cit., p. 364.
42 Sed ecce dum tonos ostendere conamur, per vastissimam et profundissimam musicae institutionis silvam longius evagati sumus, quae tantae caliginis obscuritate involvitur, ut a notitia humana recessisse videatur. Namque cum perpauci sint, qui eius vim et naturam certa ratione perpendant, tamen quod de ea intelligunt, manuum opere ad liquidum demonstrare non possunt. Rursus cum multi sint, qui eam digitis operentur, vel vocis sono promant, eius tamen vim atque naturam minime intelligunt. Denique si roges citharoedum sive lyricum, vel alium quemlibet [ut] instrumentorum musicorum notitiam, aut consonantias ostendat, cognationem chordarum, qualiter illa chorda ad aliam rata numerorum proportione societur; nullum tibi penitus ex his dabit responsum. Solum hoc confitebitur, quod haec ita faciat, sicut a magistro accepit et didicit. Cum igitur a scientibus et a nescientibus se musica ex per maxima parte abscondit, quasi profundo obtecta caligine iacet. Regino Prumiensis, Epistola de harmonica institutione, in Scriptores ecclesiastici de musica sacra potissimum, a cura di M. Gerbert, Hildesheim, Olms, 1963, v. I, p. 245-246. Cf. al proposito N. Pirrotta, «“Musica de sono humano”: una poetica di Guido d’Arezzo», in Musica tra Medioevo e Rinascimento, Torino, Einaudi, 1984, p. 3-19, originariamente pubblicato come «“Musica de sono humano” and the Musical Poetry of Guido d’Arezzo», Medievalia et Humanistica, 7, 1976, p. 13-27.
Auteur
Conservatorio di Musica di Vicenza (Italia)
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2014
La vérité
Vérité et crédibilité : construire la vérité dans le système de communication de l’Occident (XIIIe-XVIIe siècle)
Jean-Philippe Genet (dir.)
2015
La cité et l’Empereur
Les Éduens dans l’Empire romain d’après les Panégyriques latins
Antony Hostein
2012
La délinquance matrimoniale
Couples en conflit et justice en Aragon (XVe-XVIe siècle)
Martine Charageat
2011
Des sociétés en mouvement. Migrations et mobilité au Moyen Âge
XLe Congrès de la SHMESP (Nice, 4-7 juin 2009)
Société des historiens médiévistes de l’Enseignement supérieur public (dir.)
2010
Une histoire provinciale
La Gaule narbonnaise de la fin du IIe siècle av. J.-C. au IIIe siècle ap. J.-C.
Michel Christol
2010