La giustizia
p. 337-350
Texte intégral
1L’esercizio della giustizia è da sempre, nelle società dell’Occidente, una funzione centrale del potere e dunque, di per sé, legittimatrice. Non a caso non mancano gli studi sulle politiche, sui cerimoniali e sulle immagini della propaganda della giustizia –sui processi, vale a dire, di legittimazione «costruita». È però opportuno interrogarsi anche sulla capacità dei poteri temporali di intercettare e di manipolare le norme e le rappresentazioni, coscienti e incoscienti, dei membri della società politica, a partire dalle quali veniva da essi elaborata la ricezione delle azioni dei detentori del potere. Tali norme e rappresentazioni erano largamente determinate dalla tradizione cristiana e rinviavano a insiemi concettuali costitutivi dell’immaginario, a nozioni immanenti, che comprendevano valori largamente accettati. Procederò nell’analisi di due livelli: dapprima quello delle rappresentazioni, poi quello delle pratiche.
Rappresentazioni
2Come è noto, fin dalle origini in Occidente l’idea di giustizia appare proiettata sullo sfondo di un immaginario religioso, «come qualcosa che esiste in forma perfetta solo nel mondo divino dei morti1». Nella Bibbia ebraica la giustizia di Dio è retribuzione e vendetta, ma anche speranza di misericordia e di pace. È nei Salmi che ha origine una delle più diffuse rappresentazioni medievali della giustizia, in forma di quattro virtù femminili legate tra loro, la Misericordia che incontra la Verità e la Giustizia che bacia la Pace: «Misericordia et veritas obviaverunt sibi, iustitia et pax osculatae sunt2». Come ha osservato Adriano Prosperi, «finito il tempo della Legge mosaica era cominciata l’età della Grazia», che tese progressivamente a inverarsi nelle pratiche della giustizia penale, nel costante riproporsi, cioè, della grazia «intesa come esigenza di cancellazione delle pene3». Nel Decretum di Graziano l’alleanza tra Misericordia e Giustizia fu ulteriormente elaborata con l’introduzione dell’immagine della bilancia: «Omnis, qui iuste iudicat, stateram in manu gestat; in utroque penso iusticiam et misericordiam portat; sed per iusticiam reddit peccatis sententiam, per misericordiam peccati temperat penam, ut iusto libramine quedam per equitatem corrigat, quedam uero per miserationem indulgeat4».
3Le figure simboliche assunsero nel medioevo valore di virtù e portarono all’affermazione dei principi ideali di una giustizia ispirata e diretta da Dio, legata all’esperienza terrena «del cristiano consapevole dei suoi peccati, bisognoso del perdono e della misericordia divina5». Il supremo ufficio della giustizia era affidato a Dio, come testimonia il diffuso aforisma dei giuristi «Iustitia id est Deus». Da qui –come è noto– la lunga persistenza, nei secoli centrali del medioevo, del «iudicium Dei», che conobbe il massimo successo con il rituale delle ordalie6.
4Anche quando il potere divino di giudicare fu delegato ai giudici –fu nel XIII secolo che si affermarono le prime giurie di tribunale in Inghilterra e in Danimarca, e che nelle città italiane cominciò a definirsi il diritto penale7–, essi continuarono a operare come mediatori tra Dio e gli uomini. Il tribunale divino continuò a sovrastare e a ispirare quello dei giudici terreni. La predicazione incise nella coscienza dei cristiani la consapevolezza che lo sguardo di Dio penetrava all’interno delle anime e vedeva le colpe segrete così come il suo orecchio sentiva anche le parole non dette ma solo pensate. L’insistenza pedagogica sulle rappresentazioni terrifiche contribuì alla diffusione dell’immagine del Giudizio universale, come anche, su un altro piano, alla popolarità della Commedia di Dante «come poema della giustizia divinamente risarcita nell’aldilà8».
5Jérôme Baschet –in una meritoria ricerca di ormai vent’anni fa– ha mostrato l’ampia circolazione della dottrina del castigo eterno e dell’immaginario penale nella Francia e nell’Italia del basso medioevo9. Egli ha messo in evidenza la rinascita della rappresentazione dell’inferno e delle visioni dei supplizi nel corso del secolo XII fino alla diffusione dell’immagine del Giudizio universale dapprima nei portali romani poi nelle chiese gotiche e infine nei manoscritti miniati, nel teatro sacro e nella letteratura ecclesiastica. Un’indagine più risalente di Georg Tröscher ha censito, a sua volta, la larga diffusione delle rappresentazioni del Giudizio universale nelle Rathaus e nelle sale di giustizia delle città dell’Impero germanico degli ultimi secoli del medioevo10.
6Se in Francia la tradizione iconografica della rappresentazione dell’inferno conobbe uno sviluppo più limitato, legato soprattutto all’opera dei miniatori, in Italia si affermò un vero e proprio modello di rappresentazione del Giudizio universale che negli anni trenta del Trecento trovò nell’ambiente domenicano di Pisa e negli affreschi del Camposanto dipinti da Buffalmacco le condizioni per una rottura di significati: il trionfo dei supplizi, la rappresentazione compartimentata dell’inferno, la leggibilità dei castighi e delle logiche penali, la progressiva autonomia concettuale tra inferno e Giudizio universale, l’inserimento dell’ordine del castigo nel settenario dei peccati, etc.11. Baschet ha sottolineato anche la relazione circolare tra la giustizia infernale e le pene terrestri. Un’operazione corretta, perché i riflessi tra le pene infernali e quelle della giustizia operata dagli uomini furono indubbi.
7Ma ciò che più conta nell’economia del nostro discorso è considerare l’impatto profondo che questa plurisecolare, poderosa, elaborazione culturale, teologica e predicatoria, ebbe sull’immaginario delle società cristiane che ne furono interessate, contribuendo a definire nozioni immanenti e largamente diffuse della giustizia. Esse nutrivano principi espliciti che risalivano alla Bibbia e che erano stati rielaborati anche dalla tradizione del diritto romano: rendere a ciascuno quanto dovuto («Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuens12»); punire i malvagi e ricompensare i buoni («Bonus homo de bono thesauro profert bona, et malus homo de malo thesauro profert mala. Dico autem vobis: “Omne verbum otiosum, quod locuti fuerint homines, reddent rationem de eo in die iudicii: ex verbis enim tuis iustificaberis, et ex verbis tuis condemnaberis”13»); e governare attraverso il timore delle pene («Et vidi thronum magnum candidum et sedentem super eum, a cuius aspectu fugit terra et caelum, et locus non est inventus eis. Et vidi mortuos, magnos et pusillos, stantes in conspectu throni; et libri aperti sunt. Et alius liber apertus est, qui est vitae; et iudicati sunt mortui ex his, quae scripta erant in libris, secundum opera ipsorum. Et dedit mare mortuos, qui in eo erant, et mors et infernus dederunt mortuos, qui in ipsis erant; et iudicati sunt singuli secundum opera ipsorum14»).
8Possiamo allora valutare un primo livello di legittimazione implicita di cui si rese protagonista il ceto dei giuristi nel momento in cui fece proprio e rielaborò il modello iconografico del Giudizio universale nella raffigurazione dell’immagine della giustizia terrena della quale essi si proponevano come mediatori professionali.
9È nota l’immagine elaborata dall’autore delle Quaestiones de iuris subtilitatibus (probabilmente un magister cittadino lombardo15), un dialogo del secolo XII che esalta il diritto romano nel momento della sua riscoperta come disciplina universitaria, su cui ha richiamato l’attenzione in particolare Ernst H. Kantorowicz16. Si tratta della prima espressiva allegoria della giustizia elaborata in ambito non clericale. L’autore racconta di avere avuto la visione di un santissimo «Templum Iustitiae»: è un’immagine scritta, chiaramente predisposta, cioè, per esser visualizzata; che «non prospetta una evanescente apparizione, ma riproduce nello scritto una cosa vista […], “una cosa che c’è davvero”, e che altri vedono con lui17». Mario Sbriccoli l’ha comparata a un ideale frontone come quelli che ornavano portali, lunette e altari nelle cattedrali coeve18. La Iustitia vi è posta al centro, in una postura di solenne dignità, contornata dalle Virtù, mentre la Ratio la ispira dall’alto e l’Aequitas, come tenuta in grembo, l’aiuta a ponderare le cause di Dio e degli uomini19. Tale assetto ci dice che la Giustizia, pur distinta da Ratio ed Aequitas, «è una sola cosa con esse, mentre le virtù che la contornano sono insieme suoi attributi, suo compendio e sua emanazione20».
10La Giustizia si presenta dunque come una divinità subordinata, a un tempo una idea e una dea, «che preesiste al diritto e lo crea21», e i cui sacerdoti ammessi al tempio sono appunto i giuristi, in cerca di legittimazione.
11Se ci volgiamo all’analisi delle miniature che ornavano i manoscritti giuridici prodotti, a Bologna e a Parigi, tra XIII e XIV secolo, la manipolazione della nozione immanente dell’origine divina della giustizia appare ancor più evidente. Le allegorie ricalcano il modello del Giudizio universale definito da un asse verticale, sovrastato dalla figura principale e dalla partizione dei personaggi ausiliari e, in basso, della punizione dei colpevoli (fig. 1). La figura ieratica e frontale della Giustizia ricalcava quella di Dio nell’atto di giudicare gli uomini, così come quelle delle virtù richiamavano quelle dei santi e degli apostoli della corte celeste, mentre nel registro inferiore i giudicati potevano essere comparati ai dannati del Giudizio universale. Si trattava in genere dell’illustrazione di apertura dei manoscritti del Digestum vetus22, nella quale a personificare la Giustizia, quasi sempre seduta in trono con in mano una spada (si noti –più che una bilancia), poteva essere un’autorità sovrana: il più delle volte l’imperatore (non solo Giustiniano ma anche Federico II) come anche i re francesi e angioini. A fare loro corona erano appunto le virtù, cardinali e teologali (in varia combinazione). Nel registro inferiore erano invece collocate le scene di tribunale e di esecuzione delle pene, prevalentemente decapitazioni e impiccagioni. Sovrapponendo l’esercizio della giustizia terrena alla sinopia del giudizio divino, i giuristi venivano così legittimando il proprio ruolo pubblico.
Fig. 1 – Giustiniano, Digestum vetus, 1345 circa, Tribunale di Giustiniano consigliato dalle Virtù, Paris, BNF, ms. lat. 14339

12Gli attributi della Giustizia sono noti: la Giustizia è giusta con la bilancia, severa con la spada, imparziale con la benda. Si tratta di emblemi ben conosciuti sui quali non tornerò in questa sede, anche perché appartenenti a un livello di legittimazione di carattere esplicito, «costruito». Vorrei invece concentrare l’attenzione su un attributo della Giustizia meno esplicitato nella sua raffigurazione ma anch’esso costitutivo del suo immaginario e rinviante a un’altra nozione immanente, di radice biblica: la misericordia, cioè la grazia.
13Guardiamo la figura della Iusticia dipinta da Giotto tra il 1303 e il 1305 (fig. 2) nella cappella di Santa Maria della Carità a Padova aperta al pubblico dal facoltoso banchiere Enrico Scrovegni, figlio del ricchissimo Rainaldo (che Dante Alighieri immortalò nel girone degli usurai23), per ostentare il buon uso delle ricchezze con il quale egli intendeva proporsi alla cittadinanza, in un periodo di forti conflitti sociali e politici24. La contornano le virtù del buon cittadino: la Prudenza, la Fortezza, la Temperanza, la Fede, la Carità, la Speranza. Ma quel che più ci interessa è notare –come ha fatto Mario Sbriccoli– che «l’allegoria giottesca echeggia la Vergine Maria (ha la corona chiusa della Regina Coeli, il velo virginale e il manto della Mater misericordiae, largo e lungo fino ai suoi piedi)25». La Giustizia/Madre misericordiosa è posta da Giotto in una cappella tricuspidata analoga a quella in cui qualche anno dopo, nel 1310, metterà la Maestà di Ognissanti (fig. 3), originariamente destinata alla locale chiesa di Ognissanti.
Fig. 2 – Giotto, 1303-1305, Iusticia, Padova, Cappella degli Scrovegni
Fig. 3 – Giotto, 1310, Maestà di Ognissanti, Firenze, Galleria degli Uffizi

14La figura della Madonna come madre misericordiosa conobbe nelle città comunali e signorili italiane una crescente diffusione proprio in quegli anni, investendo anche l’iconografia giudiziaria26. Tra il 1308 e il 1311, a Siena Duccio da Boninsegna realizzò la Madonna in Maestà (fig. 4), garanzia di pace per la città, destinata all’altare principale del Duomo, dove fu portata il 9 giugno 1311 con una processione guidata dal vescovo e dalle autorità cittadine. Sotto la protezione della Madonna misericordiosa si ponevano infatti le città intere, a lei erano dedicati molti statuti cittadini, la sua immagine presiedeva ai riti civici nei palazzi comunali. Sempre a Siena, nel 1315 –notare il decalage cronologico–, Simone Martini dipinse, questa volta nel palazzo comunale, nella sala di adunanza dei consigli, la Maestà in una versione che sottolineava la connessione con il tema della giustizia. Il rotolo tenuto in mano da Gesù infante (fig. 5) è la nota locuzione biblica «Diligite iustitiam qui iudicatis terram», le parole con cui inizia il libro della Sapienza (I, 1) attribuito a Salomone, che costituiscono un monito divino e universale ai governanti dei popoli.
Fig. 4 – Duccio da Boninsegna, 1308-1311, Madonna in Maestà, Siena, Museo dell’Opera metropolitana del Duomo

15Negli anni immediatamente successivi Dante Alighieri terminava la redazione del Paradiso della Commedia, nel XVIII canto del quale27 gli spiriti giusti nel cielo di Giove cantano e volano disponendosi in modo da formare lettere che compongono la frase «Diligite iustitiam qui iudicatis terram28». Un’immagine che sembra evocata –di lì a qualche anno– da Ambrogio Lorenzetti nell’allegoria del Buon governo destinata a ornare la sala del governo cittadino di Siena, affrescata tra il 1338 e il 1339 (fig. 6)29. La citazione biblica viene a disporsi a corona della Giustizia che riecheggia, nella posa e nel manto, la Giustizia/Madre misericordiosa dipinta da Giotto a Padova 35 anni prima (fig. 2).
Fig. 5 – Simone Martini, 1315, Maestà, Siena, Museo Civico

Fig. 6 – Ambrogio Lorenzetti, 1338-1339, Allegoria del Buon governo, Siena, Museo Civico

16Di poco successiva (circa 1350) è infine la scultura in rilievo sulla facciata occidentale del Palazzo ducale a Venezia, attribuita a Filippo Calendario, raffigurante nel tondo Venezia nei panni della Giustizia impugnante la spada (fig. 7)30. Si notino alcuni particolari: la figura è anch’essa femminile, è seduta in trono come dice il cartiglio che tiene nella mano sinistra («Fortis iusta trono furias mare sub pede pono»), è addobbata (come le Giustizie e le Vergini precedenti) con un lungo manto e le ginocchia sono sporgenti. Solo qualche anno prima, nel 1336, a Firenze, Andrea Pisano aveva a sua volta raffigurato in una foggia analoga la Iustitia in una delle formelle del portale meridionale del battistero di San Giovanni (fig. 8): la figura femminile, seduta anch’essa come in trono, porta un lungo manto e il suo ginocchio destro appare particolarmente sporgente.
Fig. 7 – Filippo Calendario (?), 1350, Venecia, Venezia, Palazzo ducale

Fig. 8 – Andrea Pisano, 1336, Iustitia, Firenze, Battistero di San Giovanni

17In alcune pagine molto fini, Mario Sbriccoli ha individuato nel ginocchio protruso della Giustizia –che proprio in quegli anni comincia a essere messo in rilievo nell’iconografia per poi diffondersi ampiamente nelle raffigurazione della Giustizia in età moderna– il significato della clemenza, patrimonio comune della giustizia e dei sovrani31. La tradizione classica, infatti, da Omero agli storiografi ai poeti greci e latini, «trabocca di luoghi in cui le ginocchia sono la sede della pietas, della magnaminitas, della clementia del potente. Ogni volta che si chiede pietà, o soccorso, o intercessione, si abbracciano le ginocchia di qualcuno32». Il ginocchio protruso rinviava alla clemenza, al perdono. Fu dunque nel corso della prima metà del secolo XIV che, perlomeno nelle città italiane di tradizione comunale, la legittimazione della funzione giudiziaria passò attraverso l’implicita assunzione di due concetti della tradizione classica e cristiana, la clemenza sovrana e la misericordia divina.
Pratiche
18Come nel caso dell’impianto divino assunto a legittimazione della giustizia terrena, anche l’attributo della grazia non fu esplicitato, ma elaborato per allusioni. I simboli espliciti della Giustizia rimasero infatti la spada e la bilancia, ma la sovrapposizione alla figura della Vergine e la messa in evidenza del ginocchio operarono su un piano che non poteva che restare sottinteso, perlomeno nell’ambito dei poteri cittadini italiani. Questi non potevano infatti ricorrere esplicitamente al potere sovrano della grazia: vi ricorsero solo indirettamente, attraverso la progressiva diffusione dei provvedimenti individuali e collettivi di condono (amnistie, indulti) e di sconto e cancellazione delle pene, nell’ambito del più generale fenomeno della negoziazione della pena. La logica del sistema giudiziario di età comunale –ma più in generale di antico regime– risiedeva infatti più nella sua natura negoziale che in quella coercitiva33.
19L’analisi della documentazione un po’ in tutte le città in cui è superstite ed è stata indagata, attesta infatti due elementi fondamentali delle pratiche giudiziarie a cavallo tra Due e Trecento: la contumacia strutturale degli inquisiti e la negoziazione della pena che a essa corrispondeva34. Ho potuto analizzare la logica di questo sistema sulla base del caso di Firenze nei decenni a cavallo tra secolo XIII e XIV: al podestà venivano periodicamente conferiti poteri eccezionali di inchiesta e persecuzione; ciò dava a luogo alla dilatazione della sfera dei comportamenti criminalizzati e a un incremento di azioni ex officio; molto raramente gli inquisiti erano condotti o si presentavano in giudizio; altissimo (fino al 70%) era infatti il tasso di contumacia; ciò serviva, da un lato, agli interessati a negoziare una riduzione se non la cancellazione della pena, e, dall’altro, al priorato (il massimo organo politico) che ne riceveva le richieste legittimandosi sul piano politico e attivando politiche di grazia35.
20Alla contumacia va dunque riconosciuta una natura fisiologica, che serviva il processo di reintegrazione sociale e quello di legittimazione del potere. Le curie dei tribunali dei rettori forestieri procedevano in genere in assenza dell’inquisito, e lo condannavano per lo più al bando –bando pro maleficio prima ancora che bando per esilio– in base alla sua contumacia, ritenuta prova di colpevolezza. Ciò poneva gli uffici politici nella condizione di forza di negoziare con i contumaci banditi l’assoluzione dalla condanna, la remissione delle pene, la riammissione nel quadro politico36.
21Peraltro, non fu casuale che dai decenni centrali del secolo XIV –quando le rappresentazioni della giustizia cominciarono ad alludere ai temi della clemenza e delle misericordia– si diffuse in modo sistematico il sistema delle suppliche e delle grazie. L’aumento delle richieste individuali rivolte direttamente al sovrano costituirono in ambito giudiziario un fenomeno nuovo e rilevante in molte aree politiche dell’Occidente37, e studiato per alcuni contesti, come le Fiandre e il regno di Inghilterra38. In Francia lo strumento della lettre de rémission si diffuse proprio negli anni trenta e quaranta del Trecento in coincidenza con l’insediarsi al potere da parte della dinastia dei Valois. Attraverso di esso i re francesi svilupparono una politica giudiziaria che era costruita più sulla grazia che sugli strumenti coercitivi39. Per più motivi: la sacralizzazione del ruolo misericordioso del re, il rafforzamento dei legami di fedeltà politica al sovrano, e, preminentemente, lo scopo fiscale di fare cassa, grazie ai proventi di ogni atto, e, soprattutto, ai pagamenti che venivano richiesti in cambio dell’atto di clemenza. Scorrendo le edizioni delle lettres de rémission40, non può non saltare agli occhi l’ampia azione di indulgenza e di revisione delle pene che fu attuata dai re, dai loro vicari e dai loro consiglieri nei confronti sia di singoli sia di gruppi o di intere comunità.
22Governare con la «grazia», inizialmente prerogativa delle sovranità universali e dei poteri monarchici, diventò un attributo anche dei nuovi poteri cittadini italiani di profilo signorile, che cominciarono a concedere su richiesta di privati e di enti, esenzioni e privilegi in deroga o in eccezione agli statuti, ai decreti e alle consuetudini municipali. A Bologna il sistema della supplica al signore fu introdotto sistematicamente nel periodo di dominio del legato pontificio Bertrand du Pouget tra il 1326 e il 1334, che concesse grazie e deroghe fino ad allora impossibili da attingere nel regime a comune; la pratica fu poi ripresa e sviluppata da Taddeo Pepoli tra il 1337 e il 1347. Giurista di formazione, egli si propose alla cittadinanza come il signore misericordioso e protettore dei poveri e dei bisognosi (secondo un’immagine risalente ai primi concili della cristianità), capace di porre la potestas signorile, attraverso l’esercizio della grazia, sullo stesso piano del potere coercitivo delle leggi ordinarie del comune41.
23Nella Milano dei Visconti fu soprattutto dal tempo di Bernabò, dagli anni cinquanta del Trecento, che l’uso della grazia si diffuse sistematicamente: da indulti collettivi, come quello rivolto nel 1368 a tutti coloro che erano stati condannati per una serie di crimini allo scopo di rafforzare la difesa territoriale del dominio in un periodo di guerra, a grazie individuali, come quella concessa nel 1382 alla famiglia pavese degli Schiaffenati per cancellare varie condanne inflitte per atti di sedizione e di violenza42.
24La procedura era relativamente semplice: a partire da una supplica, la cancelleria signorile produceva una lettera patente che cancellava processi, permetteva la cognizione sommaria di cause giacenti da tempo in tribunale, annullava condanne e bandi, concedeva grazie per una varietà estrema di reati. L’annullamento degli effetti penali delle condanne era motivato come favore del principe a pochi prescelti, come dono liberale e magnanimo, come concessione benevola, che configurava l’immagine di una giustizia speciale, selettiva, che premiava i beneficiati del signore; allo stesso tempo, poiché il perdono del principe metteva in discussione il principio della necessaria punizione dei crimini, la grazia veniva giustificata dalla necessità di ripristinare una legalità originaria messa in discussione dall’eccessivo rigore delle leggi, e dalla volontà equitativa dell’intervento del signore per correggere e mitigare l’operato dei giudici. Gli atti di grazia furono branditi come manifestazione della piena disponibilità da parte dei signori ad ascoltare i sudditi, esaltando lo strumento della supplica come mezzo per comunicare richieste, necessità, bisogni e torti che potevano essere riparati dal signore, fonte di giustizia accessibile da tutti, nella certezza di essere ascoltati e compresi43.
Notes de bas de page
1 A. Prosperi, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Torino, Einaudi, 2009, p. 14.
2 Psalmus 85 (84), 11.
3 A. Prosperi, Giustizia bendata…, op. cit., p. 14-15.
4 Decretum Gratiani, C. X. Iuste iudicans misericordiam cum iusticia seruat.
5 A. Prosperi, Giustizia bendata…, op. cit., p. 16.
6 Cfr. R. J. Bartlett, Trial by Fire and Water. The Medieval Judicial Ordeal, Oxford, Clarendon Press, 1986.
7 Ibid., p. 137-139; M. Sbriccoli, «Giustizia criminale», in M. Fioravanti (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Roma/Bari, Laterza, 2002, p. 167.
8 A. Prosperi, Giustizia bendata…, op. cit., p. 21.
9 J. Baschet, Les justices de l’au-delà. Les représentations de l’enfer en France et en Italie (xiie-xve siècle), Roma, École française de Rome, 1993.
10 G. Tröscher, «Weltgerichtsbilder in Rathäusern und Gerichtsstätten», Wallraf-Richartz-Jahrbuch, 11, 1939, p. 139-214.
11 J. Baschet, Les justices de l’au-delà…, op. cit., p. 293-349, cui rinvio anche per l’apparato iconografico.
12 Giustiniano, Istituzioni, 1.1.
13 Matteo, 12, 35-37.
14 Apocalisse di Giovanni, 20, 11-15.
15 M. Sbriccoli, «La benda della Giustizia. Iconografia, diritto e leggi penali dal medioevo all’età moderna», in M. Sbriccoli et al. (a cura di), Ordo iuris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, Milano, Giuffrè, 2003, p. 47.
16 E. H. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989 [1957], p. 93-96.
17 M. Sbriccoli, «La benda della Giustizia…», op. cit., p. 51.
18 Ibid., p. 49.
19 Ibid., p. 48-49; E. H. Kantorowicz, I due corpi del re…, op. cit., p. 93-96.
20 M. Sbriccoli, «La benda della Giustizia…», op. cit., p. 52.
21 A. Prosperi, Giustizia bendata…, op. cit., p. 23.
22 Sui quali, cfr. R. Gibbs, «The Development of the Illustration of Legal Manuscripts by Bolognese Illuminators between 1241 and 1298», in V. Colli (a cura di), Juristische Buchproduktion im Mittelalter, Francfort-sur-le-Main, Klostermann, 2002, p. 173-218; S. L’Engle, Trends in Bolognese Legal Illustration. The Early Trecento, Francfort-sur-le-Main, Klostermann, 2002, p. 219-246; M. A. Bilotta, «Formes et fonctions de l’Allégorie dans l’illustration des manuscrits juridiques au xive siècle: quelques observations en partant des exemples italiens», in C. Heck (a cura di), L’allégorie dans l’art du Moyen Âge. Formes et fonctions, héritages, créations, mutations, Turnhout, Brepols, 2011, p. 223-240.
23 Inferno, XVII, 64-70.
24 Cfr. C. Frugoni, L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella Scrovegni, Torino, Einaudi, 2008, p. 309-317.
25 M. Sbriccoli, «La benda della Giustizia…», op. cit., p. 60.
26 Come ha notato A. Prosperi, Giustizia bendata…, op. cit., p. 100 et suiv.
27 Paradiso, XVIII, 88-99 : «Mostrarsi dunque in cinque volte sette/vocali e consonanti; e io notai/le parti sì, come mi parver dette./“DILIGITE IUSTITIAM”, primai/fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto;/ “QUI IUDICATIS TERRAM”, fur sezzai./Poscia ne l’emme del vocabol quinto/rimasero ordinate; sì che Giove/pareva argento lì d’oro distinto./E vidi scendere altre luci dove/era il colmo de l’emme, e lì quetarsi/cantando, credo, il ben ch’a sé le move».
28 Cfr. J. Took, «“Diligite iustitiam qui iudicatis terram”: Justice and the Just Ruler in Dante», in J. R. Woodhouse (a cura di), Dante and Governance, Oxford/London, Clarendon Press/Oxford University Press, 1997, p. 137-151.
29 Cfr. R. Jacoff, «“Diligite iustitiam”: Loving Justice in Siena and Dante’s Paradiso», Modern Language Notes, 124, suppl. 5, 2009, p. 81-95.
30 Cfr. U. Franzoi, T. Pignatti, W. Wolters (a cura di), Il Palazzo Ducale di Venezia, Treviso, Canova, 1990, p. 119-122.
31 M. Sbriccoli, «La benda della Giustizia…», op. cit., p. 92-95.
32 Ibid., p. 95.
33 Cfr. A. Zorzi, «Justice», in A. Gamberini, I. Lazzarini (a cura di), The Italian Renaissance State, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, p. 497-498.
34 Cfr., per esempio, M. Vallerani, Il sistema giudiziario del comune di Perugia. Conflitti, reati e processi nella seconda metà del XIII secolo, Perugia, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, 1991, p. 116, 177 et 205.
35 A. Zorzi, «Negoziazione penale, legittimazione giuridica e poteri urbani nell’Italia comunale», in M. Bellabarba, G. Schwerhoff, A. Zorzi (a cura di), Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 22, in particolare.
36 Cfr. anche A. Zorzi, «Diritto e giustizia nelle città dell’Italia comunale (secoli XIII-XIV)», in P. Monnet, O. G. Oexle (a cura di), Stadt und Recht im Mittelalter [La ville et le droit au Moyen Âge], Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2003, p. 201-204.
37 Cfr. H. Millet (a cura di), Suppliques et requêtes. Le gouvernement par la grâce en Occident (xiie-xve siècle), Roma, École française de Rome, 2003; C. Nubola, A. Würgler (a cura di), Suppliche e gravamina. Politica, amministrazione e giustizia in Europa (secoli XIV-XVIII), Bologna, Il Mulino, 2002; C. Nubola, A. Würgler (a cura di), Forme della comunicazione politica in Europa nei secoli XV-XVIII: suppliche, gravamina, lettere, Bologna, Il Mulino, 2004; C. Nubola, A. Würgler (a cura di), Operare la resistenza: suppliche, gravamina e rivolte in Europa (secoli XV-XIX), Bologna, Il Mulino, 2007.
38 Cfr. J.-M. Cauchies, H. de Schepper, Justice, grâce et législation. Genèse de l’État et moyens juridiques dans les Pays-Bas, 1200-1600, Bruxelles, Facultés universitaires Saint-Louis, 1994; T. S. Haskett, «Access to Grace: Bills, Justice, and Governance in England, 1300-1500», in H. Millet (a cura di), Suppliques et requêtes…, op. cit., p. 297-317.
39 Fondamentali sono gli studi di C. Gauvard, «Grâce et exécution capitale, les deux visages de la justice royale française à la fin du Moyen Âge», in Bibliothèque de l’École des chartes, Paris, École nationale des chartes, 1995, t. 153, p. 275-290; C. Gauvard, «Le roi de France et le gouvernement par la grâce à la fin du Moyen Âge. Genèse et développement d’une politique judiciaire», in H. Millet (a cura di), Suppliques et requêtes…, op. cit., p. 371-404; C. Gauvard, «Crimes, châtiment et grâce en France à la fin du Moyen Âge», in F. Sabaté Curull (a cura di), L’espai del mal, Lérida, Pagès, 2005, p. 33-46.
40 Edite in parte in D.-F. Secousse, Recueil de pièces servant de preuves aux mémoires sur les troubles excités en France par Charles II, dit le Mauvais, roi de Navarre et comte d’Évreux, Paris, Durand, 1755, 2 vol.; e in S. Luce, Histoire de la Jacquerie d’après des documents inédits, Paris, Champion, 1894.
41 Cfr. M. Vallerani, «La supplica al signore e il potere della misericordia. Bologna 1337-1347», Quaderni storici, 131, 2009, p. 411-441.
42 Cfr. M. N. Covini, «“De gratia speciali”. Sperimentazioni documentarie e pratiche di potere tra i Visconti e gli Sforza», in M. Vallerani (a cura di), Tecniche di potere negli stati italiani (sec. XIV-XV), Roma, Viella, 2010, p. 190-191.
43 Cfr. G. M. Varanini, «“Al magnifico e possente segnoro”. Suppliche ai signori trecenteschi italiani fra cancelleria e corte: l’esempio scaligero», in C. Nubola, A. Würgler (a cura di), Suppliche e gravamina…, op. cit., p. 99-100, in particolare.
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Università di Firenze
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