Funzioni e valori del documento scritto in Italia tra tarda età longobarda e prima età carolingia
p. 301-314
Texte intégral
1Un placito lucchese della primissima età carolingia in Italia, a tutti noto, apre con rara chiarezza prospettive interessanti sul valore delle carte – ovvero quei documenti che nelle fonti altomedievali vengono definiti cartule, scritte da notai o comunque da persone che impiegavano formulari e tecniche tipicamente notarili1. Il prete Deusdedit era stato ordinato rector e ordinator della chiesa di Sant’Angelo ad Scragium, sita presso le mura di Lucca, dal prete Deusdona, che aveva confermato l’atto per cartulam. In seguito Deusdona aveva promesso ad Alperto, un chierico a servizio di Deusdedit, di affidare a lui – ad Alpertus – la chiesa di Sant’Angelo e i suoi beni se avesse rubato la cartula e l’avesse distrutta. Alperto, presa la cartula, la portò a Deusdona, il quale lo invitò di nuovo a distruggerla personalmente, altrimenti non avrebbe potuto conferigli la chiesa. Alperto allora, in presenza di Deusdona, diede la cartula a un pellegrino britanno che si trovava lì di passaggio, e questi la distrusse buttandola nel fuoco2.
2La vicenda e il suo seguito giudiziario, sui quali qui non è possibile indugiare, sono assai ampi e complessi. La conclusione del processo testimonia, dal canto suo, che i fatti documentati nella cartula notarile avevano una forza che l’autorità pubblica era in grado di avvalorare a prescindere dalla materiale esistenza del documento, ricorrendo alle deposizioni dei testimoni che avevano visto la carta e al notaio che l’aveva scritta. Il comportamento di Deusdona e Alperto sembrerebbe invece ispirato a una concezione secondo la quale il documento incorporava il diritto di disporre del bene. Il valore d’uso della carta sarebbe allora intrecciato a tal punto con la sua materialità simbolica, costituita da caratteri speciali e tipici3, da formare un tutto inscindibile, in cui valore e oggetto che ne è portatore non possono esistere l’uno senza l’altro: finché la cartula esiste, chiunque ne sia in possesso, non è possibile trasferire ad altri quel diritto. Distruggere la carta per porre fine al diritto di cui è portatrice è però un gesto di cui si preferisce non assumere la responsabilità diretta. Ci si affida, per compierlo, a uno straniero di passaggio, un peregrinus.
3La ragione per cui i due complici andarono incontro allo scacco giudiziario va ascritta alla rigidità della loro concezione. Le testimonianze che la corte sollecitava mostrano invece che il valore d’uso e il valore simbolico di cui la cartula era portatrice erano sì inseparabili, ma che la loro validità, la loro capacità di far sussistere un diritto non dipendevano in modo immediato e assoluto dell’esistenza dell’oggetto-documento.
4Lo straordinario testo da cui ho presso le mosse solleva naturalmente anche altre questioni. Una di queste concerne un soggetto cui nel placito non viene attribuito un ruolo di primo piano. Si tratta del notaio, nel caso specifico del notaio Ratfonsus, scrittore della cartula rubata e poi data alle fiamme. Chiamato a testimoniare dalla corte, dichiarò di ricordare bene la cartula che Deusdona aveva fatto – cartulam illam quam Deusdona presbiter fecit –, dato che l’aveva scritta al tempo di re Desiderio su richiesta dello stesso Deusdona, il quale l’aveva confermata in sua presenza, probabilmente apponendo la sua sottoscrizione o il suo signum manus, e l’aveva poi consegnata a Deusdedit4. Il notaio, quindi, scrive per rogitum di Deusdona, attribuendosi il ruolo di redattore di una cartula che era fatta, letteralmente, dall’autore dell’atto giuridico, da quest’ultimo stesso sottoscritta e consegnata al destinatario, in una sequenza ordinata di adempimenti che ricorda bene il dettato della celebre ottava legge di Rachis5. Il notaio assumeva un ruolo centrale: erano dovute al lui le competenze tecniche e giuridiche che avevano dotato lo scritto di quei caratteri che avevano causato tanto imbarazzo a Deusdona e al suo complice.
5Le fiamme potevano, dunque, estinguere il documento, non però sopprimere la memoria del suo contenuto, destinata a essere riattualizzata in giudizio. Non estinguevano quindi – o almeno, non riuscivano sempre a estinguere – l’effettività dei rapporti giuridici che esso istituiva o anche soltanto registrava mediante la scrittura. Occorre riflettere comunque sulle funzioni del documento in ambito giudiziario e sui caratteri della sua validità6. Prima però si ricordi – fatto a tutti noto e persino banale, ma da tenere nel debito conto per le contraddizioni che fa emergere – che di alcuni documenti si pretendeva un valore eterno, assoluto. Carlo Magno, per restare al periodo che qui interessa, lo rivendicava con fermezza per i diplomi, espressione della sua volontà; si legga, per esempio, l’arenga di un diploma per Santa Maria di Farfa:
Si ea, que a Deum timentibus hominibus locis venerabilibus addita vel condonata sunt, nostro munimine confirmamus, regiam consuetudinem exercemus et id in postmodum iure firmissimo mansurum esse volumus7.
6L’amministrazione regia però – checché se ne sia detto o ancora se ne voglia dire – non disponeva, eccezion fatta per singoli esemplari di particolare rilievo, di una memoria archivistica autonoma dei diplomi spediti8, che restava affidata ai depositi dei destinatari, che la manipolavano a loro piacimento, attraverso operazioni di conservazione accurata di originali, scarti, operazioni di riversamento in libro. È il caso del documento di cui si è appena letta l’arenga, conservatosi in copia nel Regestum Farfense redatto da Gregorio da Catino alla fine dell’XI secolo9.
7La percezione che le diverse componenti della società italiana avevano, tra tarda età longobarda e prima età carolingia, delle funzioni e del valore del documento scritto è un altro rilevante aspetto da ponderare. Nel caso lucchese che apre queste pagine nessuno degli individui che si vedono agire prima del giudizio e poi nel corso di esso sono estranei al mondo della documentazione10; le percezioni che ne hanno, tuttavia, non coincidono: ai due estremi stanno da una parte Deusdona e Deusdedit, con la loro concezione del documento come di oggetto che incorpora il diritto nella sua materialità, intrisa di valori simbolici che attingono alla sfera del sacro, dall’altra il notaio Ratfonsus, che nella sua testimonianza esprime un limpido sapere tecnico e non rinunzia a porre in rilievo sottili distinzioni nella ricostruzione delle fasi che impegnano i soggetti attivi nel processo documentario. Che ci fossero interferenze e sovrapposizioni tra i due modi di intendere il documento è assai probabile.
8Si può provare a riflettere ulteriormente su alcune voci del questionario che si è qui sinora idealmente costruito, prendendo in esame i ricchi dati offerti da due placiti spoletini degli anni settanta e ottanta del’VIII secolo, anch’essi assai noti11. Nei due dibattimenti giudiziari collegati si fece largo uso di documentazione pubblica d’età longobarda, in particolare un giudicato e un precetto regio, e vennero menzionati diversi altri documenti, tra i quali due diplomi del duca spoletino Ildeprando e un diploma di Carlo Magno, quest’ultimo perduto ma destinato, come uno dei precetti di Ildeprando, al monastero sabino di Farfa12.
9Le vicende giudiziarie di Pandone e dei suoi congiunti, membri di una famiglia reatina importante e politicamente influente13, pongono di nuovo di fronte a stratagemmi tanto drastici quanto alla fine non efficaci, quali la combustione del documento di cui si desiderava sopprimere le materialità e, ancor più, la memoria. Ma pongono anche di fronte all’efficacia che il documento – nello specifico un precetto del re Liutprando – aveva nel rimettere in moto procedimenti giudiziari già definiti, e questo a prescindere, come si vedrà, dai suoi contenuti.
10Oggetto del contendere era il possesso di un monastero reatino detto di San Michele arcangelo o, più semplicemente, di Sant’Angelo. Protagonista di quelle vicende, accanto a Pandone e ai suoi, fu per la pars publica il famoso duca di Spoleto Ildeprando, affiancato dal funzionariato tipico di questa fase della storia delle istituzioni del ducato spoletino, di ascendenza e titolazioni ancora longobarde14. All’interno del gruppo dei funzionari spicca la figura di Dagario, gastaldo e notaio, un esperto redattore e interprete di documentazione pubblica15.
11In un primo tempo – si era nel marzo 777 – lo scontro giudiziario vide in realtà l’uno di fronte all’altro il gastaldo Rimone, rappresentante della parte pubblica, e il vescovo di Rieti Sinuald, assistito dal vicedomino della chiesa reatina Allone (Halo). Il problema era costituito dal citato monastero, sito presso le mura di Rieti: Simone sosteneva che esso era soggetto alla ius et defensio o, in un altro passo, allo ius aut potestas palatii; Sinuald e Allone sostenevano invece che Sant’Angelo era appartenuto alla chiesa reatina per lunga tradizione, sino al tempo del vescovo predecessore di Sinuald, Teudone (Teuto). Ildeprando e i suoi giudici, interrogati alcuni chierici della chiesa reatina, non riuscirono ad ottenere una dichiarazione giurata relativa all’appartenenza di Sant’Angelo all’episcopio. Il figlio di un defunto gastaldo di Rieti sostenne invece che al tempo di suo padre teneva la chiesa dal publicum un certo Teuderis. Il punto che qui più interessa di questo placito viene subito dopo: i chierici citati vennero richiesti di giurare riguardo a uno iudicatum relativo al monastero di Sant’Angelo che il citato vescovo Teudone, predecessore di Sinuald, aveva avuto in suo possesso e che morendo aveva affidato al fratello Pandone. Quest’ultimo giurò alla corte di non avere più il documento, ma di averlo anzi bruciato (sed in igne illud combusisset); i chierici reatini, da parte loro, non vollero aggiungere niente di positivo sul contenuto dello iudicatum. La corte decise allora di assegnare il monasterium Sancti Angeli ad ius et potestatem palatii.
12Questa volta ad essere destinato alle fiamme fu uno iudicatum, ovvero una notitia iudicati, un placito redatto in piena età longobarda16, che Pandone non esitò a confessare di avere distrutto. Su questo giudicato e sulla sua distruzione si tornò alcuni anni dopo, in un placito ricco di preziose informazioni. Già le circostanze esterne sono interessanti. Esse rimisero in moto un procedimento giudiziario già altrimenti definito, che aveva sancito degli effetti – l’assegnazione del monastero alla pars publica – che nel frattempo erano già più volte mutati. Si era nel 781. Paolo, figlio del Pandone appena citato, si appellò al re Carlo, che si era fermato presso Firenze nel viaggio di ritorno dalla sua visita a Roma di quell’anno17. Col re, anzi in eius servitio, si trovava anche il duca Ildeprando. Paolo rivendicò il monastero di Sant’Angelo, dicendo che apparteneva al suo parentado e mostrò un precetto regio emesso dalla cancelleria di re Liutprando che conteneva una conferma dei beni di una certa Gutta, moglie probabilmente di un fratello di suo padre (qui confirmaverat de substantia cuiusdam Gutte amite eorum)18. Sembra infatti che, diversamente da quanto si era appreso dal placito del 777, Ildeprando avesse tolto il monastero alla famiglia di Pandone e l’avesse donato al vescovo Guiberto19. Ildeprando, interrogato dal re stesso, dichiarò di avere in effetti stabilito che il monastero dipendeva dalla potestas palatii; di averlo poi donato al vescovo Guiberto e di averlo quindi confermato al monastero di S. Maria di Farfa; conferma cui seguì una conferma dello stesso Carlo (et per vestre precelse potestatis preceptum inibi confirmatum est). Carlo ordinò il riesame della causa una volta che Ildeprando fosse tornato a Spoleto.
13Dunque, per riassumere, la causa venne riattivata dalla presentazione di un diploma longobardo, sembrerebbe senza che esso fosse esaminato, almeno nel suo contenuto, dopo essere stata definita nel placito del 777; dopo il 777 il bene, assegnato dalla corte giudiziaria al palatium, era stato dapprima donato dal duca di Spoleto al vescovo di Rieti, poi confermato (forse dopo donazione da parte del vescovo) a Farfa, quindi di nuovo confermato a Farfa per preceptum del re Carlo Magno20. Il quale, nonostante avesse emesso un diploma da durare senz’altro in sempiternum, ordinò il ritorno delle pedine alla posizione di partenza. O quasi: una delle parti in contesa non era più la pars palatii, ma il monastero di Santa Maria di Farfa, mentre l’altra non era più l’episcopio reatino, ma il gruppo familiare capeggiato da Pandone.
14Al giudizio, tenutosi a Spoleto nel mese di luglio, Pandone mostrò naturalmente il precetto di re Liutprando, che però, sottoposto a esame (dum relectum fuisset), rivelò di essere sì una conferma dei beni di Gutta alla famiglia di suo marito, quindi a Pandone e ai suoi, ma in pari tempo si trovò che non aveva niente a che fare col monastero di Sant’Angelo. Fatto, naturalmente, denso di significato dal punto di vista che qui si assume. Ma conviene aggiungere, prima di riflettere sui dati di cui si dispone, altro materiale. La pars monasterii, costituita dall’abate Ragambaldo e dai suoi monaci, protestò che al tempo del duca Teodicio21 il monastero era stato confermato alla pars publica da un giuramento prestato da tre persone e che il giudicato che ne venne redatto, per ordine del duca Teodicio, venne redatto dal gastaldo e referendario Dagario. Due consortes di Pandone, il prete Agione e un certo Orso, vennero richiesti dalla corte di mostrare il giudicato: essi riferirono – cosa a chi legge già nota – che il vescovo Teudone il giorno della sua morte convocò i suoi familiari e consegnò loro il documento, che essi subito bruciarono (et nos a presenti illud in ignem combussimus). Interrogati dalla corte sul contenuto del giudicato, Pandone stesso rispose che, se non fosse stato loro contrario, non lo avrebbero certo bruciato (Si nobis contrarium non fuisset, nos eum minime incendissemus). Il gastaldo Dagario, da parte sua, testimoniò di avere scritto di mano sua il giudicato emanato dal duca Teodicio e ricordò che a vincere era stata la pars palatii e che si era pervenuti – par di capire, anche da quanto segue – alla sentenza grazie ai sacramenta delle parti coinvolte22. Pandone confermò la testimonianza di Dagario, ribadendo che il giudicato, favorevole alla pars palatii, era stato per questo motivo bruciato da Pandone stesso e dai suoi. A questi ultimi la corte chiese se esistevano altri munimina, ma gli interrogati negarono. Così il placito ebbe termine: la corte decise che Pandone e i suoi dessero garanzia al gastaldo Dagario, rappresentante della pars palatii, di effettuare una composizione, secondo le prescrizioni dell’editto, de ipso iudicato incenso et epsentato23; la pars dell’abate ottenne la chiesa di Sant’Angelo cum omni integritate sibi pertinente, sicuti per palatio habuit concessum.
15Dal verbale di entrambi i placiti emergono, mi sembra, due fatti fondamentali:
Che le parti e i testimoni, sottoposti a esame giudiziario, fossero assai sensibili al valore assertivo dello scritto documentario (qui si tratta di documentazione pubblica)24, anche dello scritto che materialmente non esisteva più. Così il duca Ildeprando chiese ai chierici reatini selezionati per prestare giuramento nel placito del 777 di giurare che il contenuto del placito bruciato da Pandone era favorevole all’episcopato di Rieti: Tantum sic nobis iurate vos, quod ipsum iudicatum cognitum habuistis, et in ipso sic continuisset, quatenus ad partem ecclesie in iudicium revictum fuisset, et habeatis ipsum monasterium; ma essi rifiutarono, dicendo quod neque sic iuramus, eo quod non recordamur de ipso iudicatu, qualiter continuit25. Nel placito del 781, come si ricorderà, Pandone, interrogato sul contenuto del giudicato che aveva gettato nel fuoco, rispose che Si nobis contrarum non fuisset, nos eum minime incendissemus, e poi amodo veritatem dico, quia ipsum iudicatum sic continuit, qualiter ad partem palatii causa ipsa per sacramenta victa est, et pro hoc illud in igne combussimus26.
D’altra parte, generalizzando in via ipotetica, si palesa un dislivello marcato – che può apparire scontato – tra funzioni e interpretazioni del documento. Sembrerebbe che la società nel suo complesso sia ben conscia delle funzioni insostituibili che lo scritto documentario ha in vista della protezione dei diritti in sede giudiziaria. È un aspetto che si ricollega direttamente con quanto detto al punto primo. L’episodio relativo al precetto del re Liutprando per Gutta è significativo. Non doveva essere così difficile stabilire, a prima vista, che un documento recante certi solenni segni esteriori, vergato mediante una scrittura tipicissima27, dovesse essere un diploma regio longobardo. Si rammenti, per facile analogia, la scena memorabile narrata da Ratperto nel Casus sancti Galli in cui Ludovico il Pio, nel corso di una affollata seduta giudiziaria, si vide consegnare – per errore, ma qui la circostanza non interessa – dal vescovo di Costanza un diploma in cui riconobbe il sigillo del padre:
Quam <cartam> cum piissimus imperator suscepisset sigillumque sui patris recognoscendo intuitus esset, venerando deosculatus est circumque adstantibus similiter honoris causa deosculandum contradidit28.
16L’operazione di lettura è però, anche nel racconto di Ratperto, un passo successivo. Stabilire con precisione il contenuto di un documento in sede giudiziaria era un affare tutt’affatto diverso dal riconoscere una venerata effige su un sigillo, era una procedura complessa designata nella documentazione con il termine tecnico di relectio.
17La relectio che interessa qui non è, naturalmente, la ricognizione di cancelleria, l’operazione di controllo del diploma redatto in mundum condotta dal capo effettivo della cancelleria prima dell’apposizione dei segni di convalida e la definitiva spedizione del documento29. Essa è una forma – che presenta analogie tecniche con quella appena ricordata – di esame e interpretazione ufficiali di documentazione allegata. Si consideri, per fare un esempio connesso con enti persone e documenti su cui qui ci si è soffermati, il diploma con cui Carlo Magno confermò la chiesa di Sant’Angelo a Farfa, dove si legge che i monaci di Santa Maria:
preceptum Hildeprandi ducis, etiam et iudicata duo, unum contra Sinualdum, Reatinę ecclesię episcopum, et alterum contra Pandonem vel heredes suos, nobis ostenderunt relegenda, qualiter ęcclesiam Sancti archangeli Dei Michahelis cum omni integritate sua […], ad partem palatii nostri iam dictus Hildeprandus dux evindicavit et pro mercedis nostrę augmento postea ipsam ęcclesiam Sancti archangeli Dei Michahelis cum omni integritate sibi pertinente ad monasterium sanctę Dei genitricis Sabinensi territorio constructum per suum testamentum ac per preceptum in helimosina, ut diximus, nostra memoratus dux delegavit30.
18Tale interpretazione è una faccia della stessa moneta che ha sull’altra faccia la fase ideativa (la dictatio) come tappa fondamentale del processo redazionale, ed essa non può che essere opera di esperti, persone appartenenti a gruppi specializzati all’interno dell’ordinamento pubblico. Si consideri il caso del gastaldo e notaio Dagario: attivo una prima volta al tempo del duca Lupo nel 745, quando scrisse un precetto ducale ex dictatu Andreati referendarii, funse con costanza negli anni successivi da notaio ducale, redigendo importanti documenti, tra i quali il preceptum offersionis con il quale il duca Lupo fondò con sua moglie Ermelinda il monastero femminile di San Giorgio di Rieti; nel 761, al tempo del duca Gisulfo, lo si vede entrare a fare parte del collegio giudicante ducale, mentre nell’età del duca Ildeprando – per i documenti di cui disponiamo a partire dal 776 e sino al 781, ultima attestazione di Dagario – portò il titolo di gastaldo (e fu un gastaldo ohne Amtsbereich)31. Ricoprì, insomma, per quasi quarant’anni una posizione di vertice nell’organizzazione documentaria pubblica del ducato, per modesta che fosse tale organizzazione, ma la sua preparazione non si limitò alla capacità di scrivere, dettare e relegere precetti e giudicati ducali, con le connesse e altamente specialistiche competenze diplomatistiche e grafiche, ma prese le mosse – se ne può essere ragionevolemente sicuri – da una preparazione documentaria di base, formatasi nel mondo dei redattori di cartule. Si può aggiungere altro: le competenze di Dagario erano così apprezzate che non solo nel 747 seguì a Pavia il duca Lupo per scrivere – oltre ad altre cose, si immagina – ex iussione Andreatis referendarii, una donazione per Farfa, cui il duca si risolse per volontà del re Rachis32; ma che più di trent’anni dopo, nel marzo 779, fu inviato dal duca Ildeprando nel territorio di Valva (presso l’attuale Sulmona) per risolvere una controversia tra gli uomini di Carapelle (oggi Carapelle Calvisio, sita una quarantina di km a nord-ovest di Sulmona) e il monastero di San Vicenzo al Volturno. Dagario condusse un’inchiesta relativa ai beni oggetto della contesa, il gualdo di Carapelle, e, a capo del collegio giudicante, assegnò la vittoria nella causa a San Vincenzo e dettò il giudicato al notaio Totimanno33.
19Il documento, insomma, esercitò le sue funzioni su un amplissimo arco sociale, ma di esso si ebbero – come è inevitabile – concezioni in parte non coincidenti. È certo poi che un ruolo attivo in campo documentario fu riservato a un gruppo di esperti assai ristretto, composto di persone che non erano solo notai ma erano dotati comunque di una educazione specialistica – attestataci come competenza grafica peculiare, a carattere documentario, proprio in certe sottoscrizioni d’età carolingia34 – o disponevano comunque di una piena comprensione delle potenzialità stabilizzatrici dei documenti rispetto ai grandi patrimoni fondiari, soprattutto ecclesiastici.
20Proprio quest’ultimo elemento dovrebbe mettere sull’avviso, se non fossero le fonti stesse carolinge a giungere in soccorso. Non è bene, in sostanza aderire in modo acritico alla visione del documento – del documento genuino e redatto secondo le regole – esclusivamente come presidio, munimen, del buon diritto di enti e persone. Il documento può infatti costituire, come spesso è avvenuto, uno strumento per impossessarsi dei beni e delle persone dei deboli, che in momenti di difficoltà, di crisi, di penuria, si vedevano costretti a cedere se stessi oppure le piccole estensioni di beni agrari, che in tempi normali garantivano una modesta sussistenza indipendente, ai potenti in cambio di magre fonti di sopravvivenza35. Così in un capitolare italico di Carlo Magno di poco posteriore alla conquista del regno longobardo36 il sovrano intervenne per decretare la distruzione di tutte quelle cartule che documentavano alienazioni cui si era proceduto per districtionem famis, si trattasse di quelle cartulas obligationis mediante le quali interi nuclei familiari si erano dati in schiavitù per sopravvivere alla penuria indotta dai torbidi bellici; o di vendite di beni fondiari stipulate non iusto pretio37; o anche di donazioni in cui il valore del bene donato non risultasse proporzionale al controdono, il launegild, imposto dalla legge longobarda e debitamente documentato nelle cartule38. Quanto alle alienazioni in favore dei loca venerabilia Carlo però sospendeva tutto, rimandando ogni decisione a un futuro sinodo in cui la questione sarebbe stata attentamente valutata (compensaverimus) con vescovi e conti.
21Ora, che il documento potesse servire a fissare in modo definitivo decisioni ineludibili ma negative per il futuro di chi alienava se stesso, la sua famiglia, i suoi beni, non suonerà nuovo a nessuno. Ciò nondimeno è interessante constatare che i sovrani carolingi tornarono più volte sul problema: nei Gesta Hludowici imperatoris di Thegan si legge, per esempio, che l’anno stesso della morte di Carlo Magno Ludovico il Pio promosse un’inchiesta volta a individuare le ingiustizie ovunque perpetrate. I legati di Ludovico, recatisi nei luoghi loro assegnati, trovarono una folla innumerevole di oppressi, spogliati del patrimonio o della libertà dalle inique malversazioni di ministri, conti e locopositi:
Hęc omnia supradictus princeps destruere iussit acta, quę impie in diebus patris sui per iniquorum ministrorum manus facta fuerant. Patrimonia oppressis reddidit, iniustę ad servitium inclinatos absolvit, et omnibus praecepta facere iussit et manu propria cum subscriptione confirmavit39.
22Il novero di problemi su cui qui si ci è soffermati è molto ristretto. Tuttavia, queste pagine, nella loro incompletezza, intendevano recare un contributo limitato a un problema che i medievisti – storici, paleografi e studiosi di diplomatica – negli ultimi decenni hanno affrontato con grande vigore: partendo dal problema degli uses of written word si è giunti al tentativo di comprendere il grado di penetrazione della scrittura negli strati sociali attingibili grazie alla documentazione40. Di questa amplissima questione della literacy altomedievale qui, naturalmente, non interessava altro che un aspetto ristretto ma importante, che era – lo ripeterò ancora una volta – il problema della nozione che soggetti di cultura e status sociale assai differenti avevano della documentazione, e dunque del valore che attribuivano al documento scritto: presidio di diritti reali e personali – il patrimonio, la libertà – ma anche, di quegli stessi diritti, strumento di deprivazione nelle mani di funzionari rapaci, di potentes di varia estrazione, anche ecclesiastica, tutti accomunati dalla volontà di soggiogare e dominare i pauperes liberi che l’ideologia carolingia, ricostruibile grazie a scritti dottrinali e legislativi (i capitolari), poneva con richiami insistiti sullo stesso piano di tutti gli altri liberi41.
Notes de bas de page
1 A. Bartoli Langeli, «I documenti», in S. Gasparri, C. La Rocca (a cura di), Carte di famiglia. Strategie, rappresentazione e memoria del gruppo familiare di Totone di Campione (721-877), Roma, Viella, 2005, p. 237-264.
2 Il placito venne pubblicato nel Novecento (dopo le edizioni sette- e ottocentesche) una prima volta da L. Schiaparelli in appendice al suo Codice diplomatico longobardo, Roma, Tipografia del Senato (Fonti per la storia d’Italia, 63), 1933, t. 2, p. 445-450; quindi da C. Manaresi ne I placiti del «Regnum Italiae», Roma, Tipografia del Senato (Fonti per la storia d’Italia, 92), 1955, t. 1, p. 18-23, n. 7. Questo placito, come dicevo, è noto a tutti coloro che si occupano di alto medioevo italiano (chi scrive ne deve la prima conoscenza alle stimolanti lezioni di G. G. Fissore tenute presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino). Se n’è occupato con una certa ampiezza C. Wickham, «Land Disputes and their Social Framework in Lombard-Carolingian Italy, 700-900», in W. Davies, P. Fouracre (a cura di), The Settlement of Disputes in Early Medieval Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, p. 105-127 (in partic. p. 116). Sulla chiesa di Sant’Angelo in Scragio, fondata prima del 759, anno in cui ne era presol il cherico Deusdona (Codice diplomatico longobardo, op. cit., t. 2, p. 27 sq., n. 136), H. Schwarzmaier, Lucca und das Reich bis zum Ende des 11. Jahrhundert, Tübingen, De Gruyter (Bibliothek des deutschen historischen Instituts in Rom, 41), 1972, p. 21.
3 A proposito di tali caratteri speciali e tipici, esaminati dal punto di vista della autorappresentazione degli operatori della documentazione, si veda G. G. Fissore, «Segni di identità e forme di autenticazione nelle carte notarili altomedievali, fra interpretazione del ruolo e rappresentazione della funzione documentaria», in Comunicare e significare nell’alto Medioevo (Spoleto 15-20 aprile 2005), Spoleto, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo (Settimane di studio della fondazione Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo, 52), 2005, p. 285-333.
4 Trascrivo qui per comodità la testimonianza di Ratfonsus: Recordo de cartulam illam, quam Deusdona presbiter fecit de monasterio Sancti Angeli et res ad ipsum monasterium pertinente Deusdedi presbiteri, quia ego ea scripsi per rogitum ipsius Deusdone presbiteri tempore Desiderii regis, et ante me eam firmavit, et tradidit ipsius Deusdedi presbiteri (C. Manaresi, I placiti del «Regnum Italiae», op. cit., t. 1, p. 21).
5 […] Ideo decernibus, ut si quis cartola vinditionis alicui de aliqua res fecerit, et ad scrivane publico scripta, vel ad testibus idoneis rovorata fuerit, et tam ipse vinditur, quamque et testes in ipsa cartola subscripserint aut manus posuerint […]: F. Beyerle (a cura di), Leges Langobardorum. 643-866, Witzenhausen, Deutschrechtlicher Instituts-Verlag, 1962, p. 189; C. Azzara, S. Gasparri (a cura di), Le leggi dei longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, Milano, La Storia, 1992, p. 240 sq.
6 Sull’uso dei documenti e il ruolo della scrittura nei placiti si veda M. Vallerani, «Scritture e schemi rituali nella giustizia altomedievale», in Scrivere e leggere nell’alto Medioevo, Spoleto, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo (Settimane di studio della fondazione Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo, 59), 2012, t. 1, p. 97-149.
7 DD Kar. 1, p. 156, n. 111. Quest’arenga ha forti consonanze con l’arenga di un diploma di Chilperico II per il monastero di St. Denis e, soprattutto, con l’arenga di un diploma di Pipino per il monastero di Corbie: H. Fichtenau, Arenga. Spätantike und Mittelalter im Spiegel von Urkundenformeln, Graz/Colonia, Böhlaus (Mitteilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung. Ergänzungsband, 18), 1957, p. 50, 85; cfr. MGH, DD Mer. 1, p. 417, n. 168; MGH, DD Pippin, p. 40, n. 29.
8 Per una veduta diversa, relativa al periodo tardocarolingio e alla parte orientale, si veda B. S. Bachrach, D. S. Bachrach, «Continuity of Written Administration in the Late Carolingian East c. 887-911. The Royal Fisc», Frühmittelalterliche Studien, 42, 2008, p. 109-146. Che i monarchi carolingi gestissero archivi di palazzo, almeno dal tempo di Carlo Magno, è fuori di dubbio: cfr. A. Bühler, «Capitularia relecta. Studien zur Entstehung und Überlieferung der Kapitularien Kerls der Großen und Ludwig der Frommen», Archiv für Diplomatik, 32, 1986, p. 305-501: p. 455 sqq., che resta assai prudente sull’ampiezza e la sistematicità dell’archiviazione; più ottimista F. Bougard, La justice dans le royaume d’Italie de la fin du viiie siècle au début du xie siècle, Roma, École française de Rome (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 291), 1995, p. 21 sqq.
9 Su Gregorio si veda U. Longo, «Gregorio da Catino», in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2003, vol. 59, distribuito in formato digitale all’URL: http://www.treccani.it/enciclopedia/gregorio-da-catino_ (Dizionario-Biografico)/. Sul metodo di lavoro di Gregorio nella compilazione del Regestum Farfense H. Zielinski, Studien zu den spoletinischen «Privaturkunden» des 8. Jahrhunderts und ihrer Überlieferung im Regestum Farfense, Tübingen, Niemeyer (Bibliothek des deutschen historischen Instituts in Rom, 39), 1972, p. 25 sqq.
10 Si veda, in una prospettiva più ampia rispetto a quella che qui si assume, A. Petrucci, C. Romeo, Scriptores in urbibus. Alfabetismo e cultura scritta nell’Italia altomedievale, Bologna, Il Mulino, 1992, in partic. p. 77-108; si veda anche il pionieristico saggio di G. G. Fissore, «Cultura grafica e scuola in Asti nei secoli IX e X», Bollettino dell’Istituto italiano per il Medioevo, 85, 1974-1975, p. 17-51.
11 Cfr. C. Brühl, «Chronologie und Urkunden der Herzöge von Spoleto», Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Biblioteken, 51, 1971, p. 1-91 [ho fatto uso della riedizione del saggio in id., Aus Mittelalter und Diplomatik. Gesammelte Aufsätze, t. 2: Studien zur Diplomatik, Hildesheim, Weidmann, 1989, p. 653-746 con numerazione originale], in partic. p. 86-91. Edizione in Codice diplomatico longobardo, a cura di C. Brühl, I diplomi dei duchi di Spoleto, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo (Fonti per la storia d’Italia, 65), 1981 [d’ora in poi citato come I diplomi dei duchi di Spoleto], p. 83-87, n. 29 [= C. Manaresi, I placiti del «Regnum Italiae», op. cit., t. 1, p. 5-8, n. 3]; p. 99-104, n. 35 [ibid., t. 1, p. 10-14, n. 5]. Sulla forma diplomatistica dei placiti spoletini F. Bougard, La justice dans le royaume d’Italie…, op. cit., p. 119-124. Si veda inoltre S. M. Collavini, «Duchi e società locali nei ducati di Spoleto e Benevento nel secolo VIII», in I lomgobardi dei ducati di Spoleto e Benevento, Atti del XVI Congresso internazionale di studi sull’alto Medievo (Spoleto, 20-23 ottobre 2002 – Benevento, 24-27 ottobre 2002), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’alto Medievo, 2003, p. 125-166. Una sintesi efficace delle questioni connesse alla tradizione della documentazione spoletina in M. Costambeys, Power and Patronage in Early Medieval Italy. Local Society, Italian Politics and the Abbey of Farfa, c. 700-900, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.
12 Si veda oltre, n. 20. Sul duca Ildeprando S. Gasparri, I duchi longobardi, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo (Studi storici, 109), 1978, p. 84 sq.
13 Oltre al saggio cit. alla n. 11, si veda id., «Il ducato longobardo di Spoleto. Istituzioni, poteri, gruppi dominanti», in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo (Spoleto, 27 settembre-2 ottobre 1982), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo, 1983, t. 1, p. 77-122, in partic. p. 105 sqq. M. Costambeys, Power and Patronage…, op. cit., p. 226-231.
14 Sulla vicenda esposta qui di seguito M. Costambeys, Power and Patronage…, op. cit., p. 96 sqq.
15 Si vede qui oltre, n. 31 e testo corrispondente.
16 Su questi giudicati spoletini si veda C. Brühl, «Chronologie und Urkunden…», op. cit., p. 49-52.
17 Nel corso delle celebrazioni pasquali il papa Adriano I aveva battezzato il figlio Pipino e unto lo stesso Pipino re d’Italia e l’altro figlio Ludovico re d’Aquitania: Annales Regni Francorum, in MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, a cura di F. Kurze, Hannover, Hahn, 1895, p. 57; D. Hägermann, Carlo Magno. Il signore dell’Occidente, Torino, Einaudi, 2004 (ed. orig. Berlino, Propyläen, 2000), p. 94 sqq.
18 Il diploma è perduto.
19 Su questo vescovo Guiberto, che probabilmente non resse mai una diocesi, I diplomi dei duchi di Spoleto, p. 91; C. Brühl, «Chronologie und Urkunden…», op. cit., p. 61, n. 367.
20 Cfr. I diplomi dei duchi di Spoleto, p. 88 sq., n. 30 (si tratta di una donazione del marzo 778 del duca Ildeprando al monastero di Sant’Angelo e al vescovo Guicperto dell’alveo di un fiume per la costruzione di un mulino redatta dal «castaldius et notarius» Dagario e tràdita in copia dal Regesto di Farfa); p. 90-92, n. 31 (donazione dell’aprile 778 del duca Ildeprando al vescovo Guicperto del monastero di Sant’Angelo che, dopo la morte del vescovo dovrà tornare – revertatur – in potestatem et ordinationem monasterii Sancte Dei genetricis Marie in Acutiano, vale a dire Farfa, come la precedente redatta dal castaldius et notarius Dagario e tràdita in copia dal Regesto di Farfa); Codice diplomatico longobardo, a cura di L. Schiaparelli e C. Brühl, Le chartae dei ducati di Spoleto e di Benevento, a cura di H. Zielinski, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo (Fonti per la storia d’Italia, 66), 1986 [d’ora in poi Le chartae dei ducati di Spoleto e di Benevento], p. 298-302, n. 93 (nel giugno 780 Guicperto concesse con riserva parziale di usufrutto sino alla sua morte al monastero di Farfa il monastero di Sant’Angelo e le sue dipendenze); il diploma di Carlo è invece perduto. Il monastero di Sant’Angelo non si trova elencato nella conferma rilasciata da Carlo a Farfa nel giugno 776: MGH, DD Kar. I, p. 156 sq., n. 111, ma si veda invece DD Kar. I, p. 198, n. 146 dell’agosto 782, citato più avanti 30.
21 Su Teodicio, predecessore di Ildeprando nella carica di duca di Spoleto (762-773), S. Gasparri, I duchi longobardi, op. cit., p. 83 sq.
22 Come si legge nella successiva deposizione di Pandone ad partem palatii causa ipsa per sacramenta victa est, et pro hoc illud in igne combussimus.
23 Brühl, nella sua edizione del giudicato, cita un celebre capitolo di Liutprando, il 63 (Leges Langobardorum, op. cit., p. 129; C. Azzara, S. Gasparri [a cura di], Le leggi dei longobardi…, op. cit., p. 158 sq.).
24 Per un periodo più tardo (a partire dall’ultimo ventennio del IX secolo circa) rispetto a quello di cui qui si occupa, ma con osservazioni di ampio respiro, G. Nicolaj, «Formulari e nuovo formalismo nei processi del Regnum Italiae», in La giustizia nell’alto Medioevo (secoli IX-XI), Spoleto, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo (Settimane di studio della fondazione Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo, 44), 1997, p. 347-379, in partic. p. 353-358.
25 I diplomi dei duchi di Spoleto, p. 87.
26 Ibid., p. 103 sq.
27 Cfr. A. Petrucci, C. Romeo, Scriptores in urbibus. Alfabetismo e cultura…, op. cit., p. 78-88. Per le cartule altomedievali, a proposito di certi usi grafici speciali volti a porre in rilievo «i punti nodali del documento», G. G. Fissore ha parlato di «mappa di immediata percettibilità che poteva, certo, avere immediati riscontri, colti e funzionali, per i “pratici sul campo”, ma anche effetti più genericamente attinenti al prestigio formale, all’elemento figurativo-decorativo di quei segni in grado di farsi “leggere” anche dai più diretti interessati (committenti, partecipanti, destinatari presenti e futuri), fossero pure essi semialfabeti o del tutto illetterati»: G. G. Fissore, «Segni di identità e forme di autenticazione…», op. cit., p. 333.
28 Ratpert, St. Galler Klostergeschichten (Casus sancti Galli), a cura di H. Steiner, Hannover, Hahn (MGH, Scriptores rerum germanicarum in usum scholarum separatim editi, 75), 2002, p. 180.
29 H. Bresslau, Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Sussidi, 10), 1998 (seconda ed. orig. tedesca 1912-1931), si veda nell’indice delle cose notevoli la voce «ricognizione»; G. Tessier, Diplomatique royale française, Parigi, Picard, 1962, p. 94-97, 111 sq.
30 DD Kar. 1, p. 198 sq., n. 146 (Herstal, 18 agosto 782).
31 Limito qui le informazioni prosopografiche allo stretto necessario, rimandando per il resto a C. Brühl, «Chronologie und Urkunden…», op. cit., p. XXX; I diplomi dei duchi di Spoleto, p. 8-10, n. 3 (dicembre 745); p. 13-15, n. 5 (ottobre 746); p. 15-17, n. 6 (giugno 747, a Pavia, dove il duca Lupo ex iussione precellentissimi et a Deo conservati domni nostri Ratchis fece una donazione al monastero di Farfa, scritta dal notaio Dagario ex iussione Andreatis referendarii); si vedano poi, per gli anni successivi, p. 17-20, n. 7; p. 20-23, n. 8; p. 30-34, n. 12; p. 34-38, n. 38 (fondazione del monastero di San Giorgio); p. 38-41, n. 14; p. 42-46, n. 15 (si tratta di un giudicato dell’aprile 761 in cui Dagario siede nel collegio giudicante e detta la notitia iudicati al notaio Stefano); p. 46-48, n. 16; p. 49-51, n. 17; p. 51-54, n. 18; p. 54-56, n. 19; p. 56-58, n. 20 (è del 767); il successivo documento, elencato qui di seguito, è una notitia brevis memoratorii redatta nel gennaio 776 a Spoleto, diplomatisticamente vicina a un giudicato, redatta da Teudelapus notarius ex iussione di Ildeprando e ex dictatu Dagarinii gastaldii: p. 74-76, n. 26; p. 78-83, n. 28 (dicembre 776, Spoleto, è il primo giudicato giuntoci del duca Ildeprando, collegato contenutisticamente al doc. 26, scritto dal notaio Auduin ex dictatu Dagarinii castaldii); segue il giudicato del marzo 777, su ci ci si è ampiamente soffermati: p. 83-87, n. 29 (scritto dal notaio Teudelapu ex dictatu Dagarinii castaldii in cui Dagario funge anche da giudice); p. 88 sq., n. 30 (scritto da Dagario castaldius et notarius); p. 90-92, n. 31; p. 92-94, n. 32; segue e conclude la serie, dato che Dagario scompare in seguito dalla documentazione, il giudicato del luglio 781 tenutosi a Spoleto, in cui il ruolo dl gastaldo Dagario fu centrale: p. 99-104, n. 35. Redasse anche cartulae private: cfr. Le chartae dei ducati di Spoleto e di Benevento, p. 132-135, n. 36 (agosto 763). La definizione di gastaldo ohne Amtsbereich è in C. Brühl, «Chronologie und Urkunden…», op. cit., p. 50; cfr. S. Gasparri, «Il ducato longobardo di Spoleto…», op. cit., p. 88-93.
32 Si veda la nota precedente.
33 Le chartae dei ducati di Spoleto e di Benevento, p. 290-294, n. 90. Su questo placito cfr. L. Feller, Les Abruzzes médiévales. Territoire, économie et société en Italie centrale du ixe au xiie siècle, Roma, École française de Rome (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 300), 1998, p. 191-196.
34 Rimando ancora a G. G. Fissore, «Cultura grafica e scuola in Asti…», op. cit.; A. Petrucci, C. Romeo, Scriptores in urbibus. Alfabetismo e cultura…, op. cit.; e ai primi due capitoli del lavoro di G. De Angelis, Poteri cittadini e intellettuali di potere. Scrittura, documentazione, politica a Bergamo nei secoli IX-XII, Milano, UNICOPLI, 2009.
35 Per un quadro aggiornato del problema della decadenza dello status dei liberi di basso livello sociale in età carolingia si veda G. Albertoni, «Law and the Peasants: Rural Society and Justice in Carolingian Italy», Early Medieval Europe, 18, 2010, p. 417-445.
36 MGH, Capitularia regum francorum, I, p. 187 sq. Cfr. S. Gasparri, Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato, Roma/Bari, Laterza, 2012, p. 132-134.
37 Il sovrano stabilì che si procedesse a una attenta stima dei beni venduti per stabilire il loro valore anteriore alle eventuali devastazioni causate dall’invasione dell’esercito franco (quando res ipsae bene restauratae fuerunt, antequam nos hic cum exercitu introissemus): le vendite concluse per un prezzo congruo – e il prezzo era, naturalmente, quello iscritto nella cartula – dovevano restare valide; le cartule attestanti vendite effettuate per un prezzo inferiore al loro valore da chi avesse potuto dimostrare di avere venduto strictus necessitate famis avrebbero dovuto essere distrutte, il prezzo restituito, i beni resi al venditore anteposito – fatta eccezione per – aedificia aut labores, qui postea ibi facti sunt.
38 Per il launegild nella legge longobarda cfr. Rothari 175 (Leges Langobardorum, op. cit., p. 46; C. Azzara, S. Gasparri [a cura di], Le leggi dei longobardi…, op. cit., p. 48 sqq.). Riguardo alla proporzionalità tra il valore del bene donato e il controdono, nel capitolare si legge: si amplius valuerint res ipse quando bene restaurate fuerint, quam ipso launegild fuisset quando accepit. Sulle donazioni redatte secondo il formulario longobardo si veda C. Wickham, «Compulsory Gift Exchange in Lombard Italy, 650-1150», in W. Davies, P. Fouracre (a cura di), The Language of Gift in the Early Middle Ages, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, p. 193-216.
39 Teghanus, Gesta Hludowici imperatoris, a cura di E. Tremp, Hannover, Hahn (MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, 64), 1995, p. 192-194. Cfr. H. Oudard, «Le roi franc et l’idée de justice aux époques mérovingienne et carolingienne», in W. Fałkowski, Y. Sassier (a cura di), Le monde carolingien: bilan, perspectives, champs de recherches. Actes du colloque international de Poitiers, Centre d’études supérieures de civilisation médiévale (18-20 novembre 2004), Turnhout, Brepols, 2009, p. 31-66: p. 37-39. Si veda ancora, per esempio, MGH, Capitularia regum francorum, I, Capit. 78, Capitula e canonibus excerpta, p. 174; Capit. 154, Capitula e conciliis excerpta, p. 312.
40 Della vastissima bibliografia, oltre al più volte citato libro di A. Petrucci e C. Romeo (ma si veda anche A. Petrucci, Libro, scrittura e scuola, ora in id., C. M. Radding [a cura di], Scrivere e leggere nell’Italia medievale, Milano, Bonnard, 1995, p. 81-97), rimando soltanto a R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, Cambridge, Cambridge University Press, 1989; e a F. Bougard, La justice dans le royaume d’Italie…, op. cit., p. 17-54.
41 Oltre al saggio di H. Oudard, «Le roi franc et l’idée de justice…», op. cit., si veda il contributo imprescindibile di M. Cristiani, Dall’unanimitas all’universitas. Da Alcuino a Giovanni Eriugena. Lineamenti ideologici e terminologia politica della cultura del secolo IX, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo (Studi storici, 100-102), 1978.
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