Uno scandalo monetario nella Bologna del 1305
Appunti per una ricerca da fare
p. 525-534
Texte intégral
1Tra i registri di inquisizioni prodotti dal tribunale del podestà e conservati presso l’Archivio di Stato di Bologna ce n’è uno cartaceo1, la cui copertina riporta l’intestazione coeva Liber actorum factorum super inquistionem factam de moneta raxensi, sintetizzata dall’iscrizione in corpo maggiore e scrittura capitale RAXA, che compare poco più in basso2. L’analisi del contenuto conferma che il registro contiene gli interrogatori di testimoni e imputati tenuti nel corso di un’inchiesta svolta presso la corte del podestà tra il 10 e il 16 luglio 1305, in merito a uno scandalo monetario. L’intestazione, leggibile in due diversi passi del registro3, testimonia che in quell’occasione il podestà, il padovano Guido Novello Paltanieri, sulla base di una speciale concessione da parte del consiglio del Popolo, promosse un’indagine volta ad appurare con tutti i mezzi che la giustizia rendeva possibili (probacionibus, indiciis, presuntionibus vel fama) le voci giunte alla curia secondo cui, nel corso dell’anno precedente, alcuni avevano portato in città monete coniate nel regno di Rascia (nei balcani settentrionali) a basso contenuto di fino se non addirittura false (monetam raxensem mancham vel falsam) e le avevano diffuse per speculare in modo fraudolento sul cambio con monete migliori4.
I denari di Rascia
2I denari di Rascia, o rasensi, godono di una certa fama presso gli studiosi di monetazione medievale. Si tratta di una moneta nata come imitazione del denaro grosso veneziano. È noto che tra la fine del secolo XII e l’inizio del XIII la zecca di Venezia fu tra le prime a coniare un denaro argenteo di buon peso e di ottima lega che si venne ad affiancare al denaro ormai svilito di tradizione carolingia che a quel punto assunse il nome di «denaro piccolo»5. Al veneziano grosso fu assegnato il valore nominale di 26 denari piccoli, un valore, com’è stato osservato, superiore a quello effettivo, dal momento che la quantità d’argento contenuta nella nuova moneta emessa era in realtà inferiore alla somma del fino contenuto in 26 denari piccoli6. Secondo A. Saccocci questo particolare rapporto di cambio costituì la caratteristica che permise al grosso veneziano, «buono» dal punto di vista della lega e dell’intrinseco, di giocare il ruolo di «moneta cattiva» nel sistema monetario regionale continuando così a circolare più intensamente delle altre monete e a prosperare nonostante la celebre legge di Gresham secondo cui «la moneta cattiva scaccia quella buona»7.
3Proprio il successo del grosso veneziano nel corso del secolo XIII spinse altre zecche a coniare monete che lo imitavano. Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento i comuni di Brescia, di Mantova, il vescovo di Acqui, e le signorie piemontesi dei marchesi di Monferrato (sotto Teodoro I e Giovanni II Paleologhi), di Dego (sotto Ottone III del Carretto), di Ponzone, di Incisa, nonché il principe di Savoia-Acaia coniarono grossi che nel tipo somigliavano molto a quelli veneziani che avevano sul verso l’immagine di Cristo in trono e sul recto San Marco che concedeva uno stendardo al Doge. Spesso nelle imitazioni queste figure erano reinterpretate e le iscrizioni permettevano di distinguerle dagli originali: così, ad esempio, nel denaro grosso di Mantova, al posto di Cristo sul trono compariva Virgilio e al posto di San Marco e il doge, San Pietro e un vescovo. Il confronto tra gli esemplari giunti sino a noi mostra tuttavia che nonostante questi adattamenti la somiglianza col modello rimaneva fortissima8.
4Poteva anche avvenire che un’imitazione pedissequa nel tipo servisse a nascondere una differenza nel peso o nella quantità di intrinseco e in questo caso più che di imitazioni è opportuno parlare di falsificazioni. Gli esemplari giunti fino a noi mostrano tuttavia che a questa categoria non appartenevano le monete battute nel regno di Rascia – il nucleo del successivo regno di Serbia (geograficamente corrispondente a parte dell’odierna Serbia meridionale, del Montenegro settentrionale, dell’Erzegovina orientale)9 – dal re Stefan Uros II Milutin (1274-1321) che, a partire dal 1276, approfittò della disponibilità delle nuove miniere d’argento aperte sotto il regno di suo padre Stefan Uros I (1243-1274) per produrre anche lui i suoi grossi d’argento. Come i grossi mantovani, infatti, anche i grossi di Rascia potevano essere chiaramente distinti da quelli veneziani attraverso l’osservazione: se sul verso si trovava la stessa immagine di Cristo in trono, sul recto le scritte consentivano di comprendere che si trattava delle immagini di Santo Stefano e dello stesso Stefan Uros II.
5A giudicare dall’allarme suscitato dall’arrivo di grandi quantità di questa moneta a Venezia nel 1282, è tuttavia probabile che molti in realtà confondessero le due monete e che, approfittando di questa confusione, alcuni operatori finanziari usassero i meno pregiati grossi rasensi per acquistare in modo conveniente grossi veneziani, con l’effetto di togliere questi ultimi dalla circolazione. Certo è che, quell’anno, i grossi di Rascia furono definiti contrafactos e il governo adottò misure straordinarie per impedirne la circolazione10. La loro presenza fu infatti autorizzata solo a Ragusa, mentre fu imposto a tutti coloro che ne erano in possesso in qualsiasi altro possedimento veneziano di non usarli, di inciderli e consegnarli alla zecca. Chi fosse stato trovato in possesso di grossi rasensi sarebbe stato colpito con il sequestro del 10 % della quantità e con la conversione forzata del resto in denari piccoli. Per incentivare chi deteneva questa moneta pericolosa a sbarazzarsene, lo stesso anno il governo veneziano abbassò il prezzo del diritto di coniazione dei denari piccoli (dal 24 % al 13 %), mentre quello della coniazione dei denari grossi era già molto basso (2,1 %).
6Il provvedimento emanato nel 1290 dal Gran Consiglio, con cui si stabilì di sequestrare il 50 % dei rasensi ai cambiatori che li avevano acquistati, mostra tuttavia che otto anni dopo il primo allarme, molti tra coloro che avevano grossi di Rascia, invece di portarli alla zecca, li avevano venduti ai cambiatori privati che, probabilmente in vista di altre possibili speculazioni, avevano offerto loro condizioni migliori. La Repubblica cercò allora di esercitare direttamente la funzione che i cambiatori avevano esercitato in quella contingenza, inaugurando quattro banchi a Rialto presso i quali i rasensi potevano essere cambiati in denari piccoli. Un provvedimento del 1294 stabilì che per 15 giorni i grossi di Rascia si sarebbero potuti cambiare a 28 denari piccoli (quelli veneziani ne valevano 32)11. Dopo questo termine, i denari rasensi sarebbero stati sequestrati.12. Anche stavolta tuttavia la misura non fu risolutiva: negli anni successivi a Venezia i rasensi continuarono a circolare, secondo un cambio sempre più squilibrato: prima 25 e poi 24 denari piccoli.
7Come ipotizzano Lane e Mueller, da cui abbiamo tratto queste informazioni, questo sviluppo spinge a credere che, se anche all’inizio della loro circolazione i denari di Rascia non erano molto più leggeri e dotati di una quantità di argento molto minore di quella dei grossi veneziani, in seguito il loro valore intrinseco diminuì e rese sempre più vantaggiose per i cambiatori quelle speculazioni che i governanti veneziani cercavano di prevenire e punire.
I rasensi a Bologna
8Il caso bolognese mostra una fase ulteriore di questo processo di degenerazione. Dei raxenses a Bologna si cominciò a trattare nel giugno 1305 quando Francesco Esau, vicario del capitano del Popolo (il ferrarese Ramberto dei Ramberti) diede lettura al consiglio di una petizione in cui alcune società delle arti (mercanti, beccai, linaroli, pellipari, merciai e orefici) spiegavano che in città e nel contado circolavano oramai così tanti denari rasensi (chiamati significativamente «veneziani de rassa») che la moneta bolognese rischiava di scomparire, tanto più che, a maggiore detrimento del Popolo, molti di quei grossi apparivano falsi, dotati cioè di una quantità d’argento corrispondente a quello di 18, in alcuni casi 16 , in altri addirittura 12 denari bolognini piccoli13.
9Per salvare la situazione in un primo momento al consiglio fu proposta una misura simile a quella che era stata adottata a Venezia nel 1294: per due mesi questi denari si sarebbero dovuti cambiare a un tasso fisso (19 soldi), poi sarebbero stati banditi. Dopo una discussione tuttavia la proposta cambiò e si decise di distinguere tra i denari rasensi vecchi e buoni (dotati cioè di una percentuale di argento ufficiale e dunque non troppo bassa) e denari rasensi nuovi e falsi. I primi sarebbero stati cambiati al prezzo di 20 denari piccoli finché non si fosse deciso altrimenti e tutti avrebbero dovuto accettarli, pena, in caso contrario il pagamento di dieci soldi cioè 120 denari; i secondi sarebbero stati banditi: tutti avrebbero dovuto distruggerli sotto la stessa pena, in caso contrario, di dieci soldi di bolognini14.
10Con ogni probabilità in modo analogo a quanto era avvenuto a Venezia il provvedimento non fu efficace. Inoltre, la necessità di distinguere i rasensi veri da quelli falsi e il deprezzamento di quelli veri portarono vantaggi solo ai membri della società dei cambiatori, gli unici che potevano operare quella distinzione e che, come era avvenuto a Venezia nel 1282, potevano approfittare di quel deprezzamento per speculare. Si trattava del gruppo sociale all’interno del quale si trovavano quanti avevano favorito l’arrivo dei rasensi in città e che, come si vedrà, era forse coinvolto nella maggior parte dei suoi membri. La reazione non tardò ad arrivare: il 9 luglio la parte del Popolo più ostile ai cambiatori, la stessa che nel giugno aveva presentato la petizione, evidentemente insoddisfatta della risposta che aveva ottenuto, chiese nuovamente al consiglio del Popolo di prendere misure, dal momento che nessuno ormai accettava più i rasensi e non c’erano più bolognini da spendere. Il consiglio conferì ad alcune magistrature del governo popolare (il difensore delle venti società, il preconsole dei notai e i ministrali delle due società preposte all’osservanza degli ordinamenti sacrati) di deliberare sui modi di una restaurazione del sistema monetario cittadino, reso malconcio proprio dalla diffusione di dei grossi balcanici, e attribuì al podestà l’arbitrio di indagare sulle speculazioni che erano avvenute, avviando l’inchiesta testimoniata dal registro a cui si accennava in principio.
L’indagine
11Il registro dell’inchiesta in realtà è un volume che raccoglie cuciti insieme, in un ordine alluvionale, fascicoli di diverso spessore scritti da mani differenti15. La sua analisi rivela che almeno 8 notai (forse due per quartiere, ma non ci sono certezze) furono incaricati di raccogliere testimonianze e per accelerare i tempi procedettero in parallelo. L’inchiesta fu in effetti molto rapida.
12Come spesso avveniva nel corso delle inquisitiones, alcuni tra i testimoni interpellati riferirono di non sapere nulla16, ma la maggior parte attestò che i fatti al centro dell’inchiesta erano largamente noti, che di essi era publica fama se non altro perché, come si è accennato, il giorno precedente se ne era trattato nel consiglio del Popolo17. Ben presto emersero alcuni nomi che molti indicarono come i principali importatori di grossi rasensi: il mercante Vanni Nuvoloni, il cambiatore Paolo Poeti (con il suo socio Francesco Sassolini), tutti bolognesi; i cambiatori Mellino di Litterio, fiorentino, e il pistoiese Marsupino appartenente alla celebre famiglia e compagnia commerciale dei Chiarenti18, nonché Giovannino del fu Guido da Sommo di Milano19. Alcuni sostennero che tutta l’arte del Cambio di Bologna era in qualche modo coinvolta20.
13I testimoni indicarono come questi personaggi si erano procurati da varie fonti grandi quantità di denari rasensi: a Mellino di Litieri li avevano portati i fattori della sua compagnia che erano di stanza nella Marca di Ancona dove, con ogni probabilità, questi denari erano maggiormente disponibili21. Paolo Poeti li aveva avuti da alcuni suoi clienti dando loro in cambio denari piccoli22 e da alcuni lodigiani che glie li avevano venduti per fiorini23. Vanni Nuvoloni e altri se li erano procurati esportando illegalmente in una botticella alcuni grossi di Bologna e importando, sempre con lo stesso sistema, i denari di Rascia. Al doganiere avevano dichiarato che quel contenitore conteneva della biacca24. Li avevano cambiati a un tasso assai favorevole: con sessanta lire di bolognini ne avevano ottenute cento di rasensi25, che in seguito avevano rivenduto al prezzo di 20-22 denari bolognesi piccoli ottenendone dunque un vantaggio notevole26.
14Quando i responsabili furono chiamati a presentarsi in tribunale e interrogati a loro volta in un primo momento negarono l’accusa più grave, quella di aver organizzato l’importazione di una moneta a dir poco controversa, ma ammisero implicitamente la speculazione presentandola come parte della loro normale attività di cambiatori. Paolo Poeti dichiarò che in effetti aveva venduto al prezzo di 22 denari piccoli dei rasensi che ne valevano 16-1927, ottenendo un guadagno che aveva raggiunto dunque il 37,5 %. Vanni Nuvoloni disse che aveva comperato i rasensi a 42-43 soldi per ogni fiorino. Come ha calcolato Giuseppe Salvioni, dal momento che il fiorino normalmente era cambiato a 30 soldi e che egli ammise di aver venduto ben i denari rasensi a 20 denari piccoli per lira, egli vi guadagnò 12-13 soldi per lira, ovvero circa il 40 %. Vanni tuttavia negò di aver promosso l’importazione dei rasensi e disse che a importare i rasensi erano stati un padovano e un lodigiano28, forse giocando sul fatto che egli aveva acquistato rasensi anche da clienti regolari. La stessa linea di difesa fu adottata in un primo momento anche da Giovannino da Sommo29.
15In capo a una settimana, tuttavia, Giovannino capitolò e confessò la sua colpevolezza rispetto a tutte le accuse. Lo stesso fece, a quel punto, anche Marsupino Chiarenti. Entrambi ammisero di essere stati perfettamente a conoscenza dei difetti delle monete rasensi che avevano spacciato, di esse resocontarono analiticamente la quantità con ogni probabilità sulla base dei loro libri di conti30.
16In altre circostanze la frode monetaria a Bologna, come altrove, era stata punita mediante condanne esemplari e durissime. Nel 1264, per esempio, il monetiere veneziano che secondo le accuse aveva cercato di speculare sulla coniazione di una nuova moneta aurea bolognese, il cui progetto in seguito sarebbe stato abbandonato per molto tempo, era stato condannato alla pena capitale31. Non fu tuttavia il caso di quanti avevano introdotto i denari rasensi. Una settimana dopo che Giovannino e Marsupino avevano confessato le loro colpe, infatti, il Consiglio del Popolo approvò un provvedimento che privava il podestà dell’arbitrio di indagare sullo scandalo monetario e lo costringeva così a desistere dall’inquisizione in corso che, si diceva poteva infamare arti e uomini di buona fama:
[…] ita quod aliqua societas nec boni et honorati homines possint ulterius infamari vel vituperari. Et ne rancor vel hodia, tumultus seu seditio possit inter societates et homines de populo Bononie evenire, sed ut amor et unio semper crescat in populo supradicto et ne inimici comunis Bononie laetari valeant de predictis […].
17A dimostrazione che questo provvedimento di cassazione giungeva al termine di una trattativa di cui è difficile ricostruire l’andamento sulla base delle sole fonti disponibili, si stabilì che gli uomini della società del Cambio dovessero provvedere alla coniazione di sessanta mila denari grossi di bolognini, reintroducendo in città la buona moneta che quella cattiva aveva scacciato. Come commentò Salvioni, che editò per primo questo testo, «se il “pro bono pacis” non fosse stato inventato per altre circostanze, nessun documento ne sarebbe più saturo di quello testé offerto al lettore»32.
Un caso da approfondire
18Oggi che gli scandali finanziari tornano a ripetersi e si risolvono secondo modalità che possono ricordare quelle messe in atto durante la Belle Époque in cui Salvioni scriveva, questa storia torna a far riflettere. Non è tuttavia questa la sola ragione per cui l’episodio qui brevemente riassunto meriterebbe di essere studiato in modo più approfondito, contestualizzato mediante altri casi giudiziari bolognesi degli stessi anni e di episodi analoghi di diffusione di denari deprezzati in altre città, nonché illuminato alla luce del retroterra sociale dei personaggi coinvolti. Un simile lavoro potrebbe portare risultati in almeno tre distinti campi di ricerca.
19Il primo è quello degli studi danteschi. Che i denari di Rascia in Italia siano noti anche al di là del gruppo degli studiosi di monetazione medievale si deve al fatto che sono evocati in due versi della Commedia (Par. XIX 140-141) in cui Dante, per indicare il re di Rascia Stefano Uros II, lo descrive come «quel di Rascia/ che male ha visto [o, secondo una lezione diversa, «che male aggiustò»] il conio di Vinegia» facendo proprio riferimento alle sue monete con parole che sembrano indicarlo esplicitamente come falsario del grosso veneziano. Che le fonti bolognesi indichino i denari rasensi come veneziani de Rassa e che le definiscano come una moneta mancha vel falsa potrebbero costituire altrettanti indizi del fatto che proprio a Bologna il poeta venne a conoscenza dell’attività di monetazione del sovrano balcanico e dunque, indirettamente, un argomento a favore di chi sostiene che proprio in quel momento Dante si trovava in questa città citta in cui e per cui avrebbe scritto il De Vulgari Eloquentia33.
20Il secondo campo in cui un’analisi più ampia di questo evento potrebbe portare risultati importanti è quello della storia dei regimi di Popolo. Come ho avuto modo di notare in altra sede a proposito di un altro scandalo monetario bolognese, la monetazione costituisce un terreno in cui gli interessi dei cambiatori vengono a divergere da quelli delle altre componenti del Popolo cittadino. Le riformagioni pubblicate da Salvioni mostrano che anche nel 1305 si creò una frattura tra la società del Cambio e altre arti, come i beccai e gli stessi mercanti. Approfondire le ragioni di questa frattura potrebbe farci capire meglio il contesto del cambio di regime che si verificò l’anno successivo, nel 1306, quando il governo «bianco», aperto nei confronti dei comuni di tradizione ghibellina, guidato da alcune importanti figure di giuristi, fu sostituito violentemente da un governo «nero» filofiorentino e connotato dal ruolo centrale che vi rivestirono proprio alcuni grandi cambiatori. Più in generale questi cruciali sviluppi bolognesi potrebbero essere confrontati con ciò che nello stesso torno di anni accadeva in altri regimi cittadini, al fine di comprendere meglio dal punto di vista economico e sociale lo schiudersi di quell’ultima età comunale che da altri punti di vista è stata analizzata diffusamente negli ultimi anni34.
21Infine lo scandalo bolognese dei denari di Rascia costituisce una dimostrazione lampante della complessa integrazione tra poteri che caratterizzava l’Italia comunale e le aree vicine. Ancora una volta quello della moneta si rivela un campo in cui la nozione di potere pubblico può essere colta nella sua più concreta rappresentazione. A determinare la redistribuzione della ricchezza, e con essa la mobilità sociale e il mutare degli equilibri politici poteva essere proprio la compresenza tra sistemi cittadini, signorili, monarchici, ognuno dotato della sua moneta, ma ognuno anche necessariamente esposto alla circolazione delle monete vicine. Più in generale lo scandalo bolognese del 1305 ci ricorda una volta di più che per comprendere la storia dell’Italia medievale, come anche di altre aree dello stesso periodo, limitarsi a osservare un solo sistema politico o economico (comunale o signorile, urbano o rurale) rischia di essere falsante perché i processi più significativi e storicamente interessanti furono conseguenza proprio della problematica e fertile coesistenza di poli di potere differenti.
Notes de bas de page
1 J’écris ce petit hommage en italien parce que j’apprécie trop l’ironie de F. Menant pour prendre au sérieux ses louanges sur mes progrès en français.
2 Archivio di Stato di Bologna, Comune, Curia del Podestà, Libri inquisitionum, b. 64, reg. 3 (d’ora in poi ASBo, Raxa), copertina anteriore.
3 Ibid., fol. 2r e 28.
4 Ibid., fol. 28r (con integrazioni tra parentesi quadre possibili grazie al confronto con fol. 2): Anno Domini Millesimo trecentesimo quinto, indictione tertia, die decimo Iulii, in sala palatii novi. Hec est inquisitio quam facit et facere intendit nobilis vir dominus Guielmus Novellus de Palteneriis de Padua, honorabilis potestas civitatis Bononie et familia ipsius domini potestatis seu quilibet eorum, contra quamcumque personam que reperiretur culpabilis, conscia et pecatris, probacionibus, indiciis, presumptionibus seu fama, de infrascriptis, et quolibet eorumdem in eo et super eo quod ad aures predicti domini potestatis et eius curie fama publica refferente et multorum insinuante clamore pervenit et publice et quasi notorie predicatur a cunctis: quod quidam mali habitatores civitatis vel comitatus Bononie (cives seu forenses vel quicumque alii vagabundi seu aliter transeuntes, merchatores, campsores, prestatores vel cuiuscumque alterius condicionis homines existant) portaverunt vel portari fecerunt fraudolenter ad civitatem Bononie a quacumque terra Ytalie vel aliunde et expendiderunt vel expendi fecerunt fraudulenter, scienter vel animo lucrandi, in civitate Bononie monetam raxensem mancham vel falsam in quacumque quantitate, quocumque tempore predicta commissa fuerunt, maxime anno presenti et mensibus vel altero eorum mensium ipsius anni, videlicet Ianuarii, Februarii, Marcii, Aprilis, Madii et Iunii proxime preteritorum et presentis mensis Iulii, [vel anno preterito proxime de mense Augusti, Setembris, Octubris, Novembris et Decembris vel aliquo alio]. Super quibus omnibus et singulis et quolibet predictorum appendiciis comexis et occasionatis ab illis predicti domini potestati et eius familia et eorum quilibet comuniter vel divisim contra omnes personas que in predictis vel aliquo predictorum re, verbo, facto, consilio, auxilio vel quocumque alio modo vel genere possent culpabiles reperiri probacionibus, indiciis, presumptionibus, fama vel quocumque alio genere probandi, presumendi vel ipsius animus commovendi intendit, inquirere et procedere et, reperta veritate, omnibus et singulis predictorum modorum punire culpabiles ex forma iuris communis, statutorum, reformationum comunis et populi Bononie, sive ex arbitrio sibi nuper concesso et sue familie et cuilibet de dicta familia ex reformacione consilii populi antedicti et omni aliquo modo et vice quo melius posset et largiorem sibi invenerit potestas, non astringendo se ad aliquo predictorum.
5 Sulla fondamentale innovazione costituita dall’introduzione del denaro grosso in Europa, v. C. M. Cipolla, Le avvenuture della Lira, Bologna, Il Mulino, 1975, p. 24-51. Sull’apparizione del grosso veneziano F. C. Lane, R. Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, I, Baltimore/London, Johns Hopkins University Press, 1985, p. 112-123. Sulle ragioni che portarono al conio del grosso a Venezia, A. Saccocci, «Tra Bisanzio, Venezia e Freisach: alcune ipotesi sull’origine della moneta grossa in Italia», Numismatica e antichità classiche, 23, 1994, p. 313-341 da cui traggo l’espressione virgolettata.
6 L. Robbert, The Venetian Money Market, 1150 to 1229, Firenze, Olschki, 1971, p. 45-46.
7 Saccocci, «Tra Bisanzio, Venezia e Freisach», art. cit., p. 338-339.
8 L. Gherardi, «Le imitazioni del grosso Matapan. Studio sulle imitazione di una delle “monete simbolo” coniate nella nostra penisola», in Juvenilia, raccolta degli scritti di giovani numismatici, Cassino, Libreria Classica Editrice Diana, 2011, p. 1-21.
9 G. Praga, «Rascia», in Enciclopedia Italiana, Roma, Treccani, 1935 (http://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/Rascia/, consultato il 26 Agosto 2016).
10 Per questo e ciò che segue, v. Lane, Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, op. cit., p. 262-265.
11 Questa differenza ha fatto pensare che l’intrinseco dei grossi balcanici fosse di 0,925 mentre quello dei grossi veneziani era di 0,965.
12 Lane, Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, op. cit., p. 264.
13 Questi atti del consiglio del Popolo furono editi in G. B. Salvioni, «Il valore della lira bolognese», in Atti e Memorie della Reale Deputazione di Storia Patria per le Romagne, ser. 3, 14, 1895-1896, p. 301-328. Oltre a Salvioni su questo episodio v. M. Chimienti e F Malavasi, «Falsari di monete a Bologna nel medioevo» Panorama Numismatico, 151, 2001 p. 5-11; M. Chimienti, «Le decime pontificie per la storia monetaria dell’Italia Centrale», in L. Travaini (ed.), L’agontano. Una moneta d’argento per l’Italia medievale, Atti del convegno in ricordo di Angelo Finetti, 11-12 2001, Trevi (Perugia), Perugia, Centro Stampa della regione Umbria, 2003, p. 157-186; M. Chimienti, «Monete bolognesi e circolazione monetaria a Bologna», Panorama Numismatico, 240, 2009. Da queste testimonianze e da questi studi appare evidente che se falsificazione ci fu, essa non consistette nella coniazione di denari veneziani dotati di una quantità di argento minore di quella ufficiale, come talvolta si legge, ma di denari di Rascia con valore intrinseco particolarmente basso.
14 Salvioni, «Il valore della lira bolognese», art. cit., p. 314.
15 ASBo, Raxa si compone di 32 carte, per le quali l’analisi paleografica e codicologica porta a identificare le seguenti unità originarie: un bifolio bianco usato come foglio di guardia (attuali fol. 1 e 32); tre bifolii di cui uno bianco e gli altri due scritti solo parzialmente ognuno da un singolo notaio (attuali fol. 2 e 27 (Franciscus); 3 e 26 (bianco), 4 e 25 (Menoninus de Soldanis), un quinterno (attuali fol. 5-9 e 20-24) scritto da tre distinti notai (Domenicus, Bononinus, Nicolaus de Baldesis), un altro quinterno (attuali fol. 10-19) anch’esso scritto da due notai (un anonimo dalla scrittura particolarmente curata e Andreas) e infine un quaderno (attuali fol. 28-31) scritto da un solo notaio (Petrus).
16 M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 129-133.
17 ASBo, Raxa, fol. 7: Albertus Ugolini Visende […] interrogatus unde dicta fama habuit originem respondit die veneris nono Iunii in consilio Populi.
18 M. Luzzatti, «Chiarenti», dans Dizionario Biografico degli Italiani, 24, Roma, Treccani, 1980 (http://www.treccani.it/enciclopedia/chiarenti_(Dizionario-Biografico)/ consultato il 26 Agosto 2016) ritiene che il coinvolgimento di uno dei suoi membri in questa operazione disperata sia un sintomo della profonda crisi attraversata dalla compagnia.
19 ASBo, Raxa, fol. 3r e passim. La precisazione che Mellino di Litterio era fiorentino si trova a fol. 20v.
20 Ibid., fol. 4rv: d. Magnanus domini Bonandree […] dicit quod […] Marsupinus de Pistorio de Clarentis, Iohanninus quondam Guidonis de Summo de Mediolano, Vannus Nuvolonis civis bononiensis, Paulus Amadei de Poetis, Molinus Licterii sunt et fuerunt illi malli peccatores et habitatores civitatis Bononie qui fraudollenter scienter et dollosse fecerunt portare ad civitatem Bononie de partibus Itallie pecuniam raxensem scientes et congnoscentes ipsam mancham et defectivam et ea scientes fraudollenter expendiderunt vel fecerunt expendi dictam pecuniam raxensem mancham et defectivam pro viginti bononinis parvis in civitatem Bononie, ementes ipsam multo pro minori precio, de quo facto populus civitatis Bononie est multum et dicitur dapnificatus et eadem fama est et idem publicum et manifestum quod campsores operantes artem cambii in civitate Bononie fuerunt illi qui scientes dictam pecuniam raxensem esse fraudollentam mancham et deffectivam fecerunt portari ipsam pecuniam fraudollenter ad civitatem Bononie de locis et temporis in inquisitione contentis […].
21 Ibid., fol. 2v.
22 Ibid., fol. 5r: Feci de Pistoia […] dixit quod Bugatum Garotam et Henricum eius fratrem ad cambia civitatis Bononie et maxime ad tabulam Pauli Poete et Iacobini Sasolini et emere ab eis aliam monetam et dare pecuniam raxensem interdum dabant eis bolçones.
23 Ibid., fol. 5v.
24 Ibid., fol. 8.
25 Ibid., fol. 10.
26 Ibid., fol. 7r: Albertus Ugolini Visende […] respondit quod publica fama est quod [gli accusati] portari fecerunt sexuaginta miliarum librarum bononinorum arientorum extra civitatem et districtum extra civitatem et districtum Bononie […] et dixit quod audivit dici quod ipsi habuerint ex eis centum miliarum rasensium quos dicit audivit dici quod expenderunt per civitatem Bononie. V. sopra n. 19.
27 Ibid., fol. 8v (Paolo Poeti).
28 Ibid., fol. 12v (Vanni Nuvoloni).
29 Ibid., fol. 13 (Iohanninus de Sommo de Mediolano).
30 Ibid., fol. 12v (Vanni Nuvoloni) e 13 r (Iohanninus de Summo).
31 G. Milani, «Monete, cambiatori e popolo. Un tentativo di riforma monetaria bolognese nel 1264», Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica, 57, 2011, p. 131-156.
32 Salvioni, «Il valore della lira bolognese», art. cit., p. 314, p. 322.
33 M. Tavoni, Qualche idea su Dante, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 96-103.
34 J.-C. Maire Vigueur (ed.), Signorie cittadine nell’Italia comunale, Roma, Viella, 2013.
Auteur
université Paris-Est Marne-la-Vallée
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Société des historiens médiévistes de l’Enseignement supérieur public (dir.)
2010
Une histoire provinciale
La Gaule narbonnaise de la fin du IIe siècle av. J.-C. au IIIe siècle ap. J.-C.
Michel Christol
2010