Abbazie «vuote di Monaci» nell’Emilia occidentale
(secoli XV‑XVIII)
p. 167-177
Texte intégral
1Scriveva sul finire del Settecento il padre Ireneo Affò, a proposito del monastero di San Genesio Brescello, e a proposito del momento in cui vi si era introdotta la commenda:
Passato il monastero ad essere beneficio di una futura serie di Prelati, che altro non avrebbero avuto a cuore se non di goderne le rendite, fu del tutto dai monaci abbandonato, e come nel contado parmense perirono, in vigore delle Commende, altri monasteri (quello di Berceto, fondato da Liutprando, quello di Castiglione, fondato dal marchese Adalberto, quello di Cavana, eretto ai tempi del vescovo San Bernardo, e quello di Fontevivo, dal suo successore Lanfranco) così quello di Brescello, abbandonato e deserto dai monaci, finì per restare dopo altri tre secoli, un puro e semplice ricordo storico1.
2L’erudito parmense indicava nella commenda la causa della crisi di quelle abbazie: in modo troppo esclusivo, forse, poiché la commenda fra Tre e Quattrocento fu forse più uno strumento giuridico e istituzionale che non il reale fattore della decadenza. Certamente egli coglieva nel segno quando sottolineava il grave fenomeno della totale scomparsa di tante illustri case religiose benedettine. Il fenomeno è del resto ben noto, e segna varie stagioni, lungo tutta la millenaria storia benedettina. Colpisce, in molti casi che si verificarono fra Quattro e Settecento, come tanti antichi monasteri restassero, per molti secoli, come puri nomi, a indicare qualche complesso di beni fondiari, o talora un cascinale, una piccola chiesa, o qualche muraglia in rovina: semplici poveri fossili di organismi un tempo pulsanti e vitali, che erano stati espressione di un’intensa vita religiosa comunitaria, e che si erano proiettati anche all’esterno, nella società e nei territori circostanti. Vari cenobi, già illustri e prestigiosi, scomparvero del tutto, si trovavano ridotti a puri titoli di commende; e i loro beni, talora considerevoli, non venivano più usati ad alimentare la vita comunitaria. Le commende ad essi relative erano – queste sì, intese – cose ben vive e ben note, nel mondo curiale romano, per i consistenti redditi che assicuravano, ed erano disputate fra curiali, cardinali, gentiluomini. Il monastero che dava loro il nome non solo perdeva monaci, ma vedeva l’abbandono e la rovina degli edifici, talora della chiesa, del culto, della preghiera. Le pagine che seguono, alquanto rapsodiche, vogliono semplicemente ricordare sommariamente le vicende di alcuni monasteri benedettini rurali dell’Emilia occidentale, che pure avevano superato in qualche modo la crisi del Trecento, ma che fra Quattrocento e Settecento videro inaridirsi la vita cenobitica, e si trovarono ridotti ad abbazie fantasma.
3L’abbazia di San Genesio di Brescello, appunto. Di fondazione canossiana, tenuta dai benedettini a partire dal 978, «immediatamente soggetta» a Roma – singularis Apostolicae Sedis filia – forse in memoria dell’antica dignità diocesana che il luogo aveva avuto2. L’importanza del cenobio, ricco di beni e chiese dipendenti fra XI e XIV secolo, è ampiamente documentata; ma dal 1409 esso passò in commenda. Rimase disattesa la prescrizione pontificia del 1411, che stabiliva non doversi diminuire il culto divino e il numero di monaci e di ministri. La commenda, di rendite ragguardevoli (era costituita da circa 700 biolche reggiane, distribuite in diverse località e appezzamenti) si conservò sino al 1753. Le proprietà più vasta del monastero, la cosiddetta «colonia» di San Giorgio – una cella, una chiesa sine cura e 800 biolche di terra – era già andata perduta ancora prima della commenda: nel 1404 era stata data in feudo, per poche lire, alla famiglia parmigiana dei Bernieri, dietro promesse di migliorie e di restauri, mai effettuati. Nonostante vari tentativi, non fu più recuperata, e solo dopo quattro secoli venne incamerata come ‘feudo ecclesiastico’, dalla Repubblica Cisalpina. L’edifico monastico era stato abbattuto già intorno alla metà del ‘500 per la costruzione della nuova cinta muraria di Brescello. Si mantenne a lungo la devozione locale per San Genesio: alla fine del ‘700 la comunità volle assicurarsi la proprietà giuridica delle reliquie del santo. La vecchia chiesa era in parte sopravvissuta, seppure non col rango di parrocchia. Trasformata poi in magazzino, venne demolita nel 1874.
4Al secolo XV si può forse far risalire anche l’esaurirsi della vita cenobitica anche in un altro dei monasteri ricordati dall’Affò: quello di San Basilide (già San Michele) di Cavana, fondato intorno al 1111 e appartenente alla congregazione vallombrosana. I monaci erano presenti ancora nel 1492, ma già da una decina d’anni la chiesa aveva assunto funzioni più parrocchiali che monastiche3. Pochi anni dopo, il monastero risultava vuoto di monaci: un’assenza confermata nel 1564 dalla Descriptio omnium ciivitatis et dioecesis Parmensis ecclesiarum… di Cristoforo Torri: non amplius habitatum per religiosos4. Era passato in commenda dal 1420, e nel 1564 la commenda stessa, che gravava sulla metà dei redditi, valeva l. 1 620, goduti dal Farnese; l’altra metà era passata al monastero benedettino romano di San Paolo fuori le Mura. Restava la chiesa, divenuta di collazione vescovile, e si conservarono resti del chiostro.
5Sorte diversa conobbe l’altro monastero ricordato dall’Affò, e posto nel luogo di Fontevivo, della famiglia Sanvitale. Cistercense, fondato nel 1142, col titolo di Santa Maria (poi San Bernardo), ebbe nel ‘400 vari commendatari (delle prestigiose famiglie dei Sanvitale stessi, dei Fregoso, dei Sanseverino). Fu aggregato nel 1546 a San Paolo fuori le Mura (in un contesto di contrapposizioni politiche e territoriali fra i Sanvitale stessi e i Farnese, divenuti duchi di Parma): ma già da trent’anni i monaci lo avevano abbandonato. E si può ricordare, nel dominio sempre dei Sanvitale, un’altra vicenda di estinzione della vita monastica: il priorato di Canetolo di Fontanellato, dipendente dall’abbazia di Leno, commendato ai Sanvitale stessi, fu nel 1499 incorporato alla chiesa di Santa Croce, situata a Fontanellato, che essi stessi, nel 1437, avevano eretta in collegiata e prevostura, acquisendone il patronato. I beni entrarono direttamente a far parte del patrimonio familiare; la cura d’anime, un tempo prerogativa del priorato stesso, restava affidata a un consorzio5.
6Quanto al monastero di Berceto, fondato dal re longobardo Liutprando e, secondo l’Affò, divorato dai commendatari, in realtà esso aveva conosciuto una crisi ben più antica, nel corso del secolo IX6. Berceto ebbe tuttavia alcuni secoli dopo – quando, agli inizi del Quattrocento fu piccola capitale appenninica dello «stato» dei Rossi – una istituzione ecclesiastica prestigiosa, una collegiata, fondata da Pietro Maria Rossi, col medesimo intento di nobilitazione della casata, che aveva ispirato i Sanvitale, e con gli stessi mezzi che essi avevano usato (dotando, parzialmente, e soprattutto utilizzando i patrimoni di chiese minori)7. Lo stesso Pietro Maria volle fondare anche un monastero, nel 1471, sulle ultime pendici collinari verso la pianura: Torrechiara. Egli cercò per esso la protezione della Congregazione di Santa Giustina, in un momento in cui i suoi rapporti con gli Sforza si venivano deteriorando. E pochi anni dopo lo stato dei Rossi cadeva. L’abbazia fu aggregata come piccola dipendenza al monastero di San Giovanni Evangelista di Parma nel 1491, quando l’ultimo abate della famiglia dei Rossi dovette rinunciarvi. Gli edifici di Torrechiara divennero luogo di villeggiatura di quel ricco e prestigioso monastero cittadino8.
7Sorte diversa, infine, conobbe il monastero di Castione – un tempo forse Castelleone – detto poi dei marchesi, dal titolo dei signori del luogo, i Pallavicino, che sfuggì in parte alla vicenda evocata dal Tiraboschi. Il commendatario Daniele Birago nel 1487 ne restaurò l’edificio e vi chiamò i monaci olivetani. Rimase la commenda – che assorbiva i quattro quinti delle entrate (l. 5 600), ma rimase anche la vita cenobitica, fino all’espulsione in 17649.
8Analoghe difficoltà conobbe la vita cenobitica nel territorio piacentino. Totale fu la scomparsa di alcuni antichi monasteri. In val di Ceno sorgeva l’abbazia di San Salvatore e di San Gallo di Tolla, di fondazione longobarda, lungo la strada del monte Bardone, poi passata, con altri beni regi, sotto la dipendenza dall’arcivescovo di Milano. Possedeva castelli e beni immuni, ne dipendevano vari priorati:
Ignoriamo – scrive lo storico più recente dell’abazia, la quale aveva attirato già l’attenzione del Kehr e del Bognetti – quando sia cessata definitivamente la presenza dei monaci, ma si direbbe che dal ’500-’600 manchi ogni notizia di essi e di priori, nelle fonti ecclesiastiche locali. Non si sa neppure quando si sia verificata la stessa rovina materiale dell’edificio monastico e della antica chiesa. L’uno e l’altra […] dovevano pur essere grandiosi e interessanti. Eppure è strano che di essi si sia perduto un preciso ricordo, tranne che per la chiesa, di cui sussistono mucchi di pietrame e sassi, ma da tempo depauperati di ogni frammento artistico, seppure ve ne furono. Ciò fa pensare che la rovina sia da farsi risalire a vari secoli fa, forse già dal Seicento, di qui l’assenza odierna di memorie tradizionali, anche incerte e parziali. La tradizione comunque è che il monastero fosse presso l’Arda non lontano da Sperongia sede del castello centrale della giurisdizione, nella alta della Valle sulla sponda destra del torrente.
9Delle varie chiese possedute dal monastero nella zona, una pare sia rimasta, col titolo di San Gallo, come parrocchia regolare di presentazione del commendatario10. Dal 1624 l’abbazia passò in commenda. Ed è anzi nell’archivio di famiglia di uno dei commendatari, il cardinale Barberini, che rimasero le poche carte superstiti11.
10Non scomparvero, ma subirono una totale trasformazione gli edifici dell’abbazia di San Paolo del Mezzano di Val di Trebbia. La consueta storia dell’esaurirsi della vita cenobitica, e dell’assegnazione delle rendite in commenda si avviò dai primi decenni del Quattrocento. I beni e la chiesa passarono, per volontà dell’ultimo commendatario, Gerolamo Becchetti, alla canonica milanese di Santa Maria della Passione nel 1507, in cambio di una pensione di 290 scudi d’oro. Ma si rinunciò a restaurare una qualche forma di vita cenobitica. Pochi anni dopo, i beni e gli edifici furono ceduti al feudatario del luogo, Antonio Caracciolo, che costruì una vasta e sontuosa dimora, che tuttora si conserva, senza memoria della sua storia precedente12. Rimasero quindi nel territorio della vasta diocesi di Piacenza – accanto al monastero di Bobbio, protetto dalla dignità della diocesi – pochi monasteri rurali: in particolare quello di Chiaravalle della Colomba – a testimonianza anche qui della tenuta dei cistercensi13.
11Non diversa era la situazione nei vicini domini estensi, in cui – a parte Nonantola – la fioritura benedettina nel contado era stata più limitata. Nella diocesi modenese un notevole rilievo aveva avuto l’abbazia di Frassinoro. Di fondazione matildica (1071-1072), con numerosi beni e diritti di signoria – tuttavia persi già a favore di Modena nel 1260 – già dal 1429 non aveva più monaci. Nello stesso anno iniziò la serie dei commendatari. Uno di essi, Leonello Nobili (1449), parente di Niccolò III, decise di sfruttare il ricco patrimonio dell’abbazia (un inventario enumerava 104 unità poderali) per restaurare gli edifici della badia. Ma non si propose di ricostituire l’antica comunità monastica. Nei decenni seguenti si succedettero vari prelati, più romani che modenesi. Alla morte dell’ultimo commendatario, Alessandro Riario, nel 1585, col consenso del vescovo di Modena, unì i beni e i redditi della commenda (che ammontavano a 700 scudi al collegio dei Maroniti di Roma). Restava la chiesa, poi divenuta parrocchiale, e restò, fino al 1950 un complesso di edifici che andava sotto il nome di Badia, comprendenti la chiesa parrocchiale, entro:
un caotico ammasso di costruzioni eseguite in tempi diversi, ma tutte relativamente recenti, addossate disordinatamente le une alle altre, che pur nelle disarmoniche forme conservava nel disegno generale una pianta geometrica caratteristica e facilmente identificabile: un cortile centrale quadrato di trenta metri per trenta, a un lato la chiesa, negli altri lati vari edifici, fra cui una stalla, detta ‘la loggia’. Vari scavi – disordinatamente compiuti in tempi recenti (anche da studenti e dilettanti) – hanno portato alla luce grandi quantità di reperti e di oggetti14.
12Nessuna altra traccia di monasteri benedettini restava nella diocesi. E lo stesso avveniva nella diocesi reggiana, dove pure, nel corso del Trecento, altri cenobi avevano prosperato ed erano divenuti oggetto delle vivaci lotte dei signori locali15. L’antico monastero di Sant’Apollonio di Canossa agli inizi del secolo XV era già abbandonato del tutto, e gli abati risiedevano presso la chiesa di San Leonardo, nella città di Reggio: chiesa di proprietà del monastero, alla quale è tuttora unito il titolo monastico di Canossa. I decenni successivi videro un alternarsi di abati e commendatari (nel 1473 teneva l’abbazia un Colonna); «ed ha poscia continuato e continua tuttora quella Badia ad esser data in commenda», notava il Tiraboschi16.
13Anche a Marola e Campagnola esistevano due monasteri, uniti peraltro dalla metà del XIII secolo: risiedendo a Marola l’abate, e a Campagnola un priore. Nel 1466 restavano in tutto 4 monaci che rivendicarono il diritto di eleggere uno di loro come abate. Subentrò invece la commenda (1469), con Gurone d’Este, commendatario già di Nonantola. Ancora al tempo del commendatario Giovanni Pallavicino, nel 1521, c’era qualche monaco a Campagnola: ma poi se ne perse notizia. Nel presente secolo – notava il Tiraboschi – il monastero risultava quasi tutto distrutto «e cambiato in un casino di campagna»17. Una visita pastorale della diocesi di Reggio aveva già rilevato, verso la metà del ‘600, la totale assenza di monasteri benedettini nel territorio18.
14Anche al di fuori dell’area che qui prendiamo in esame, del resto, si svolgevano vicende analoghe. Per restare nei domini estensi, sul ferrarese, si può ricordare la stessa Pomposa. Entrata agli inizi del Quattrocento nell’orbita di Niccolò III, fu costituita in commenda nel 1445 a favore degli stessi Estensi, o di loro amici e clienti. Nel 1497 si costituì la prepositura, dotata del grosso dei beni; prepositura su cui gli Este, dal 1520, ottennero formale patronato (una procedura non diversa da quella adottata dai Gonzaga per San Benedetto di Polirone, o dai Sanvitale per il loro priorato19). La comunità religiosa si ritirò in Ferrara, dove dal 1553 risiedette stabilmente. A Pomposa rimaneva un solo monaco. L’abbazia – già a capo di una rete di chiese, monasteri e proprietà che si estendevano dal Veneto alle Marche all’Umbria al Piemonte, e che aveva avuto giurisdizione su 60 comunità monastiche, divise in abbazie, priorati, chiese minori – si trovò ridotta a semplice grancia, e fu addirittura soppressa da Innocenzo X nel 1653 in quanto semplice conventino: restava una vicarìa curata, compresa nella diocesi di Comacchio, anche se di patronato dei monaci20. Gli edifici, in gran parte abbandonati, subirono un grave degrado. Essi vennero totalmente restaurati, e riportati allo stato in cui ora li vediamo, solo nel secondo Ottocento, dopo l’Unità d’Italia, e l’evento fu celebrato da Giovanni Pascoli.
15In territorio cremonese, subito a nord del Po, sorgeva il priorato di Santa Marta di Trignano, vicino a Castelleone. Oggi non ne resta che un cascinale, la Cascina Abbadia. Dipendente da San Lorenzo di Cremona, il monastero non ha quasi lasciato notizie. Conosciamo assai meglio la storia della commenda, che iniziò nel 1466, e si protrasse, attraverso vari passaggi, sino alla fine del sec. xviii. La rendita era contenuta, circa 800 scudi romani: ma la provvista pontificia del beneficio non mancava di suscitare controversie e liti. Ultimo commendatario, dal 1767, fu Gian Filippo Gallarati Scotti, che era succeduto allo zio, Giuseppe. La famiglia, nella persona del cugino Costanzo, ne mantenne tuttavia il possesso, anche dopo la soppressione, sborsando alla Repubblica Cisalpina una congrua somma. Gli edifici, disabitati da tempo, erano ridotti a magazzini ed arsenali (rimaneva come unico segno del passato una vecchia cantina, con volta a botte, di vetusta fattura). Restava anche un’arca funebre marmorea, trecentesca, che aveva contenuto i resti di un antico benefattore dell’abbazia, il cittadino cremonese Pietro de Pistoribus, con la relativa iscrizione funebre: ma nel 1825 essa fu adibita ad abbeveratoio21.
16La crisi riguardava infatti anche i minori priorati dell’ordine, nelle loro dimensioni più limitate. Fra XIII e XIV secolo se ne erano contati, in ogni diocesi, varie decine, corrispondenti spesso a nuclei di proprietà fondiarie dei monasteri maggiori, o alle chiese che essi possedevano nel territorio. Alcuni priorati dipendevano anche da monasteri lontani: residuo di antiche geografie di proprietà fondiarie e di influenze ecclesiastiche, quando i patrimoni dei monasteri si allargavano ben oltre l’area in cui erano situati, avendo beneficiato di donazioni regie, o di stirpi eminenti, che allargavano così la loro influenza su regioni diverse. Nel parmense – per limitarci a questa diocesi soltanto –, accanto a numerosi priorati del monastero urbano di San Giovanni Evangelista, o di San Prospero di Reggio, o di San Benedetto di Polirone, o dell’abbazia di Leno, ve ne erano alcuni che dipendevano da San Michele della Chiusa, da San Alberto de ultra montes, da San Roberto de ultra montes22. Nel tardo Quattrocento e nei primi decenni del Cinquecento, oltre le mura della città, erano oltre una ventina; ma nelle ricognizioni compiute in questi stessi decenni ben emerge la loro scarsa consistenza: la vita cenobitica appare scomparsa quasi dovunque; rimaneva solo in qualche caso la chiesa, non più officiata dai monaci, con funzioni parrocchiali o sussidiarie. Ma rimanevano, non di rado, le proprietà fondiarie, che davano un reddito normalmente superiore (del doppio, o del triplo) a quello di una semplice chiesa curata23; quando però non erano già cadute in preda di nobili locali24.
17La tendenza era inoltre verso la scomparsa: per l’unione alla chiesa, l’unione ai maggiori monasteri (come San Giovanni Evangelista). Alcuni degli edifici rimasti, adattati o ricostruiti, furono usati come luoghi di villeggiatura dei monaci e dei conversi. Rimase talora a indicare il luogo, la denominazione di priorato, o talora quella di abbazia, come a Sanguigna, nei pressi di Colorno:
Abbatia Sanguineae, sic vulgo nuncupata, sed non habet titulum abbatiale, et est locus cum habitatione clausa monasterii Sancti Johannis Euangelistae Parmae, ubi multas possessiones habet: sed aliqui monaci in eo non habitant, et nullum habet extimum, quia vere ibi non adest titulus nec ecclesia25.
18Storie diverse dunque: storie da capire meglio, ognuna nel suo conteso, ma che nell’insieme indicano tendenze comuni che ritroviamo anche in altre aree italiane26. Nei tempi lunghissimi, millenari, dell’esperienza monastica benedettina si registrano fasi e parabole assai differenti: rapide crescite, lunghe durate e riuscite millenarie, crisi repentine, lunghi esaurimenti, rifondazioni, consolidamenti tardivi. La crisi di cui abbiamo visto alcuni aspetti, sembra ricollegarsi alle difficoltà gravissime, e spesso non superate, dei secoli XIV-XV. Difficoltà economiche, sicuramente, come del resto in altri periodi della loro storia; e, come in altri periodi della loro storia, minacce e usurpazioni da parte dei potentes. Ma queste difficoltà ora sembrano più difficili da superare, si abbattono su organismi indeboliti e ora più fragili. Numerose sono le notizie sul ridursi delle comunità monastiche. Le notizie sulla presenza effettiva di monaci, nel corso del Trecento, si fanno vaghe e incerte, spesso si sottolinea la loro massiccia diminuzione, spesso uno o due di essi si dichiarano pro toto monasterio agentes, facentes totum capitulum. Non meno gravi erano le difficoltà nella gestione dei beni27.
19Ma accanto a questi fattori sembra soprattutto rendersi evidente una crisi del ruolo di questo monachesimo rurale, della sua funzione – non solo religiosa – nella società entro cui ha operato sino ad allora, del suo rilievo anche politico. Una crisi che, in parte, correva parallela alla crisi di famiglie e ceppi dinastici che per lungo tempo – e non senza sostanziosi corrispettivi – quei monasteri avevano sostenuto. Una forte ondata di crisi aveva colpito già molti minori monasteri rurali fra XI e XII secolo, in corrispondenza con la crisi delle aristocrazie che li avevano sostenute: crisi di fronte alla Riforma della chiesa, di fronte ai comuni.
20Alcuni di essi tuttavia si erano conservati, e le loro vicende avevano continuato ad intrecciarsi con quelle di signori e dinasti vassalli notabili. Nelle lotte del XIII e XIV secolo vari monasteri della pianura e dell’Appennino avevano continuato ad essere luoghi di rifugio, ridotti ad uso di rocche, roccaforti; ad essere disputati fra stirpi in lotta, magari per il dominio sulla città: parte importante della loro storia. Ma la generalizzazione della commenda, fra XIV e XV secolo, fu un ulteriore segno del concentrarsi del potere politico ed ecclesiastico a un livello più alto – della curia romana, dei principi – e della difficoltà delle forze minori in questo orizzonte più vasto: il tessuto della nobiltà locale, che trovava un tempo nei suoi monasteri i propri referenti ecclesiastici, non sa più far fronte al mutato orizzonte politico. E’ forse significativo che l’ondata travolgente dei commendatari costituita da cortigiani e curiali seguisse a un’ultima stagione in cui fra Tre e Quattocento appunto, gli abbaziati erano stati difesi da esponenti di grandi famiglie signorili locali, nelle loro ultime generazioni: come del resto nel vicino tortonese erano stati i Malaspina, i Sannazzaro a iscrivere per ultimi i loro nomi nelle cronotassi abbaziali. Si modifica così nel tempo la geografia benedettina, rarefatta fortemente, fortemente concentrata in alcuni pochi centri rurali, soprattutto nelle città, dove i monasteri trovano un habitat più vitale, spesso entro le sicure strutture delle nuove Congregazioni.
Notes de bas de page
1 I. Affò, Illustrazione di un antico piombo del Museo Borgiano di Velletri, appartenente al culto e alla memoria di S. Genesio, vescovo di Brescello, Parma, Carmignani, 1790.
2 A. Mori, «La colonia agricola benedettina di S. Giorgio di Brescello», Benedictina, 5, 1951, p. 201-231; id., Brescello nei suoi XXVI secoli di storia, Parma, Scuola tipografica benedettina, 1956, p. 92-102, 241-242, 390-391.
3 A. I. Vignali, L’abbazia di san Basilide di Cavana nella storia e nell’arte. Cenni storici e dettagli artistici, Fidenza, La Commerciale, 1943; E. Dall’Olio, Lesignano Bagni dalle origini, Parma, Benedettina, 1973, p. 161-182. G. Battioni, «Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa nei secoli XIV e XV», in R. Greci (ed.), Storia di Parma, t. 3, vol. 1, Parma medievale. Poteri e istituzioni, Parma, Monte Università Parma editore, 2010, p. 323-355, qui p. 346 e passim.
4 A. Schiavi, La diocesi di Parma. Studio storico, documentario, espositivo, riassuntivo, Parma, Fresching, 1940, t. 2, p. 200.
5 Cfr. G. Battioni, «La diocesi parmense durante l’episcopato di Sacramoro da Rimini», in G. Chittolini (ed.), Gli Sforza, la Chiesa lombarda e la corte di Roma. Strutture e pratiche beneficiarie nel ducato di Milano (1450-1535), Napoli, Liguori, 1989, p. 115-213, qui p. 163-164; M. L. Arcangeli, «Una grande proprietà nella pianura parmense. La formazione delle possessioni prative dei Sanvitale di Fontanellato nel sec. XVI», in ead., Gentiluomini di Lombardia. Ricerche sull’aristocrazia padana nel Rinascimento, Milano, Unicopli, 2003, p. 269-299.
6 Nel 1493 è ricordato un prioratus S. Blasii, ad monasterium S. Benedicti de Leno brixiensis, accanto ad altri che non solvunt, quia non sunt in rerum natura (Schiavi, La diocesi…, op. cit., p. 60); nel 1520 è citato come monasterium: ibid., p. 54.
7 Battioni, La diocesi parmense…, op. cit.
8 F. Tonelli, B. Zilocchi (ed.), L’abbazia benedettina di Santa Maria della Neve di Torrechiara, Parma, Fondazione Cariparma, 2009.
9 Descriptio di Cristoforo Torri (Schiavi, Storia della diocesi, op. cit., p. 210 e 353).
10 E. Nasalli Rocca di Corneliano, «Una antica dipendenza dell’Arcivescovado milanese. L’abbazia di S. Salvatore e S. Gallo di val Tolla», in Studi in onore di Carlo Castiglioni prefetto dell’Ambrosiana, Milano, Giuffré, 1957, p. 591-612; G. P. Bognetti, «L’abbazia regia di San Salvatore di Tolla (Note di storia e di diritto: con una sentenza inedita dell’arcivescovo di Genova, del 1191)», Bollettino storico Piacentino, 24, 1929, p. 3-11, 67-80. D. Ponzini, «Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa», in P. Castignoli (ed.), Storia di Piacenza, t. 3, Dalla signoria viscontea al principato farne siano (1313-1545), Piacenza, TIP.LE.CO, 1997, p. 309-352, qui p. 324, nota che agli inizi del ’300 il monastero appariva materialmente ed economicamente integro, con un abate, un priore claustrale, 10-15 professi, alcuni conversi, due prebendari, un cappellano. Il numero di monaci, invariato nel primo ’400, scese a 6-10 nel secondo, per ridursi all’abate e a un monaco (in quibus residet totum capitulum, 1477), che abitavano a Castellarquato o a Piacenza. Del monastero si perse notizia. Cfr. anche A. Jesini, Monastero di val di Tolla e alta Val d’Arda, Milano, tip. Good Print, 1976.
11 Ora presso l’Archivio Segreto Vaticano. Cfr. anche G. Carzaniga, «C’era una volta la valle di Tolla», estratto da Quaderni della Valtolla, 6, 2004 (http://quadernivaltolla.files.wordpress.com/2010/01/cera-una-volta-la-val-tolla.pdf, consultato il 29 settembre 2016).
12 E. Nasalli Rocca di Corneliano, «Il monastero di S. Paolo di Mezzano e l’abate Obizzo», Benedictina, 9, 1956, p. 143-147; id., «L’abbazia del Mezzano di Val Trebbia», Benedictina, 12, 1959, p. 235-254; G. Fiori, «Il monastero di s. Paolo di Mezzano in Val Trebbia», Archivio storico per le province parmensi, 68, 1996, p. 93-111.
13 A. M. Rapetti, La formazione di una comunità cistercense. Istituzioni e strutture organizzative di Chiaravalle della Colomba tra XII e XIII secolo, Roma, Herder, 1999.
14 F. Gavioli, «Gli abati commendatari di Frassinoro (1429-1585)», in Frassinoro e le valli del Dolo e del Dragone, Atti e memorie del convegno di studi tenuto a Frassinoro il 5-6 giugno 1971, Modena, Aedes Muratoriana, 1972, p. 53-58; A. Ferrari, «Resti e memorie del cenobio matildico di Frassinoro, emersi durante i lavori eseguiti per l’attuale sistemazione dell’area su cui esso sorgeva», ibid., p. 47-52.
15 G. Bucciardi, Montefiorino e le terre della badia di Frassinoro, Modena, Paolo Toschi, 1935-1937, 3 vol.
16 G. Tiraboschi, Dizionario topografico-storico degli Stati estensi, Modena, Tipografia Camerale, 1821-1825 [rist. anastatica 1963], 2 vol., t. 1, p. 127-129 (voce «Canossa»).
17 Ibid., p. 95-96 (voce «Campaniola»); t. 2, p. 23 (voce «Marola»).
18 G. Costi, G Giovanelli (ed.), Storia della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, t. 2, Dal Medioevo alla riforma del Concilio di Trento, Brescia, Morcelliana Edizioni, 2011, p. 131-198, alle p. 179 e 194-198 per un quadro delle case religiose nel reggiano all’anno 1720.
19 G. Chittolini, «Storie di terre monastiche lungo il Po», in Miscellanea di studi in onore di M. Vaini, Mantova, Arcari, 2013.
20 Cfr. A. Samaritani, S. Maria di Pomposa, in G. Spinelli (ed.), Monasteri benedettini in Emilia Romagna, Milano, Silvana, 1980, p. 53-66; A. Samaritani, «L’“Italia pomposiana” nel Medioevo», in id., C. di Francesco (ed.), Pomposa. Storia, Arte, Architettura, Ferrara, Corbo Editore/Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara, 1999, p. 75-88 (nello stesso volume si vedano anche G. Zanella, «Il monastero tra Papato, Impero, Estensi (sec. IX-XV)», p. 25-32; G. Pasquali, «Società ed economia dell’abbazia (sec. X-XV)», p. 61-73); e cfr. A. Samaritani, Presenza monastica ed ecclesiale di Pomposa nell’Italia centrosettentrionale, secoli X-XIV, Ferrara, Corbo Editore, 1996. Come è noto nel 1649 il pontefice aveva ordinato un censimento di tutti i conventi italiani, e delle loro entrate; e il 18 ottobre del 1651, con la costituzione Instaurandae, e con una lettera circolare ai vescovi e ai vari superiori regolari, indicava nominatim numerose case prive di adeguate risorse, che dovevano pertanto essere soppresse. Fra queste non mancavano i cenobi benedettini.
21 M. G. Ferrari, «L’Abbadia di Santa Marta di Trignano. Storia di un possedimento ecclesiastico nel cremonese», Provincia nuova. Trimestrale della Amministrazione provinciale di Cremona, XV/1, marzo 1985, p. 5-14. La mancanza pressoché totale di notizie sulla storia dell’abbazia – che è menzionata solo occasionalmente nelle memorie locali – è sottolineata da F. Menant, Les monastères bénédictins du Diocèse de Crémone, Cesena, Istituto storico benedettino, 1977, ad vocem.
22 Nel luogo di Terenzo, in pieve di Bardone, presso il crinale dell’Appennino, sopravvisse sino al XVIII secolo un beneficio di incerta fisionomia, dotato ancora di qualche rendita: una chiesa senza cura d’anime, denominata «vicariato» di santa Maria Maddalena, e di giuspatronato «dell’imperatore», ut reperitur in libris antiquis, notava Cristoforo Della Torre nel 1564: sed sunt verba, son solo parole, aggiungeva l’erudito canonico, attribuendone la collazione effettiva al vescovo (Schiavi, La diocesi di Parma…, op. cit., p. 219). Il ‘vicariato’ e il giuspatronato imperiale erano menzionati anche negli elenchi di benefici diocesani redatti nel 1493 e nel 1520 (ibid., p. 60 e 99). Di fatto il beneficio era stato fondato da Carlo IV nel 1356; nel 1444 il rettore si definiva cappellanus cappellaniae imperatoriae maiestatis (ibid., p. 458).
23 Ibid., p. 501-502.
24 Come accadde per i beni e i diritti signorili, un tempo ingenti, del priorato di Santa Maria di Taro, dipendente da sant’Andrea di Borzone e situato in territorio piacentino, fra il Penna e il Bocco: beni e diritti che si contesero per secoli i Ravaschieri dei conti di Lavagna (per generazioni titolari anche del priorato), i Landi (fra le cui carte, ora nell’Archivio Doria Pamphilj, è conservata una ricca documentazione) e i Lusiardi. Solo nel 1703 il diritto di collazione fu riconosciuto al vescovo di Piacenza. Cfr. G. Micheli, «Per la storia di S. Maria del Taro», Bollettino Storico Piacentino, 21, 1926, p. 58-66.
25 Descriptio di Cristoforo Torri (Schiavi, Storia della diocesi…, op. cit., p. 175).
26 Si veda ad esempio la puntuale ricognizione della storia degli insediamenti benedettini nella diocesi padovana compiuta da Giannino Carraro in Monasticon Italiae. Repertorio topo-bibliografico dei monasteri italiani, t. 4, Tre Venezie, fasc. I, Diocesi di Padova, Cesena, Istituto storico benedettino, 2001: in particolare i capitoli «La dinamica delle fondazioni e delle estinzioni» (p. 27-30), e «Strutture edilizie dei monasteri: cosa rimane oggi» (p. 45-46), con le tabelle e le carte allegate.
27 Il monachesimo italiano nel secolo della grande crisi. Atti del V Convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Siena, 2-5 settembre 1998), Cesena, Istituto storico benedettino, 2004.
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université de Milan
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