Riflessioni conclusive
p. 559-586
Texte intégral
1Ripercorrere l’itinerario di ricerca condensato nel presente volume ha costituito per chi scrive una straordinaria, ed oltremodo stimolante, esperienza intellettuale, cui sono venuti associandosi due sentimenti, tra loro inscindibilmente connessi: ammirazione e gratitudine. Ammirazione nei confronti dei colleghi Stéphane Gioanni, Directeur des études médiévales presso l’École Française de Rome, e Patrick Boucheron, dell’Université Paris 1 (Panthéon-Sorbonne), per la grandiosa iniziativa interdisciplinare, da loro ideata e promossa, la cui traduzione editoriale abbiamo ora tra le mani, e gratitudine verso di loro, verso l’École, verso il Laboratoire de Médiévistique Occidentale de Paris, ed anche verso le istituzioni milanesi, che hanno contribuito a rendere possibile il momento seminariale, con cui nel Giugno 2012 si è dato compimento a quanto avviato col Seminario romano svoltosi presso l’École nel Settembre dell’anno precedente: il riferimento è alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana e all’Università Cattolica del Sacro Cuore1.
2L’ampiezza dello spettro cronologico, che ha caratterizzato l’articolata successione delle relazioni sollecitate e offerte, la pluralità delle voci e delle specializzazioni disciplinari, che hanno interagito nell’attuazione del progetto, hanno permesso a quest’ultimo di configurarsi in termini, che potremmo definire di lunga durata (V-XVIII secolo), con conseguente relativizzazione di qualsiasi eventuale tendenza ad assolutizzare singole prospettive di analisi (peraltro, nello specifico, preziose e di indiscutibile validità). Ne è scaturito un volume, che non soltanto appare ragguardevole per il valore scientifico dei diversi lavori in esso confluiti, ma che non posso non giudicare anche, nel suo complesso (ossia per struttura e per interazione tra le sue diverse parti), di alto significato metodologico.
3Credo importante tenere presente il fatto che questa pubblicazione dedicata ad Ambrogio sia stata configurata dai suoi promotori — i professori Boucheron e Gioanni — come il primo momento di un più ampio programma d’indagine posto sotto il titolo La mémoire des Pères: usages du souvenir patristique dans l’Italie médiévale. La prossima tappa prevista verrà focalizzando l’attenzione sulla figura di Gregorio Magno, mentre dovrebbero successivamente seguire analoghe iniziative incentrate su Girolamo e su Agostino. Se l’aspetto che accomuna i quattro momenti è la permanente vitalità conservata anche in ambito latino dalle autorità patristiche, ciò che il progetto intende far emergere sono le specifiche modalità di fruizione, che hanno caratterizzato le loro rispettive memorie. In tale prospettiva merita immediatamente segnalare la singolare peculiarità del caso di Ambrogio, per il quale a Milano la memoria, collettivamente espressa e costantemente riaffermata dalla presenza di una specifica tradizione cultuale, si è tradotta in una identificazione, estremamente variegata nelle sue configurazioni storiche, ma ripropostasi costantemente nel fluire dei secoli, fino al presente. In effetti, se anche per Gregorio si può ben parlare di una memoria analogamente associata a particolari luoghi, legata a un ricco patrimonio testuale, intrecciatasi alla tradizione cultuale, nel suo caso non è mai sussistita (e non poteva sussistere, trattandosi di un vescovo della città di Roma, assiso sulla sede di Pietro) l’identificazione totalizzante, che a Milano pure nel lessico si evidenzia.
4La constatazione non è banale, segnalando immediatamente orizzonti ecclesiologici diversificati, profonda differenza nelle forme istituzionali della vita ecclesiastica, palese diversità di tradizioni cultuali tra le due Chiese. Sono questi aspetti qualificanti, decisivi nella determinazione delle dinamiche storiche, e che possono rendere ragione dei fenomeni collettivi e degli atteggiamenti istituzionali sviluppatisi nei rispettivi ambiti.
5Con riferimento alla memoria di Ambrogio, grazie alla prospettiva di lunga durata che ha caratterizzato la ricerca, noi siamo posti in grado di cogliere l’evolvere nel tempo sia dell’immagine (anche interiore) del personaggio, sia della sua eredità ideale, possiamo nitidamente individuare i momenti di svolta che hanno caratterizzato tale processo, nonché le metamorfosi che ne sono derivate, con le contraddizioni inevitabili in tali circostanze. Se ne darà conto nelle pagine che seguiranno.
6Ovviamente, come ogni memoria, anche la memoria di Ambrogio si configura anzitutto come evocazione del personaggio, che ne è il soggetto primo; ma essa è altresì rivelativa dell’universo ideale e delle concrete situazioni storiche, da cui è intessuta la vita della comunità che di quella memoria è portatrice. A tale riguardo si può ben dire con Stéphane Gioanni che «les louanges, les critiques et les réappropriations d’un grand personnage n’avaient de sens qu’après la mort de celui-ci».
7Un aspetto di questa memoria, con riferimento ad Ambrogio e a Milano, mi pare utile ribadire: il suo configurarsi non quale ricordo di natura essenzialmente intellettuale, ma quale legame profondamente percepito da un’intera comunità nel concreto dipanarsi della propria esistenza storica. Da questo punto di vista, emblematica risulta ai miei occhi l’ininterrotta continuità con cui — dopo la morte di Ambrogio — nella sua Chiesa si volle perpetuare, ogni 7 Dicembre, la solenne celebrazione del suo natalis episcopi, quasi ad affermarne la permanente autorevole presenza alla guida della Chiesa milanese. Oltremodo eloquenti risultano al riguardo le parole con cui, dopo quasi sedici secoli, il 7 Dicembre 1979 l’arcivescovo Giovanni Colombo prese di fatto commiato dall’archidiocesi. Ricordando, sulla scia del biografo Paolino2, come dopo la morte dello stesso Ambrogio i neofiti, entrando nella basilica episcopale, avessero di nuovo visto il loro vescovo sedere vivo sulla cattedra, così il card. Colombo ebbe a dire: «Gli occhi dei bimbi appena risaliti dal fonte della rigenerazione potevano percepire il mistero che rende questa Chiesa di Milano così vitale e così giovane nei secoli: i suoi vescovi passano logorati dalle fatiche e dall’usura degli anni, ma sotto i vari e cangianti aspetti del loro servizio, Ambrogio, padre forte e dolcissimo, maestro saggio e animoso, pastore impareggiabile, continua a restare con noi3». Con ogni evidenza si è di fronte a una memoria organicamente mescolata alla vita, e che — di conseguenza — non può non evolvere con essa, segnarla, ed esserne a sua volta segnata.
8Il materiale offerto in questo volume risulta ordinato in quattro sezioni.
9La prima (Lieux et figures de la mémoire d’Ambroise), propone la memoria fissatasi nei luoghi e nei monumenti di Milano, e ripercorre le complesse vicende della tradizione iconografica.
10La seconda sezione (Les constructions d’une auctoritas patristique: sources, documents, traditions) viene considerando anzitutto le sources, ossia la trasmissione del patrimonio di scritti nei quali la memoria di Ambrogio si è fatta messaggio magisteriale, e di quelli — le opere agiografiche — che, in ambiti e momenti diversi, sono venuti rielaborandone l’immagine; a quest’insieme di testi si affianca l’analisi dell’insegnamento disciplinare progressivamente costruitosi in età medioevale attraverso le sententiae estratte dagli scritti ambrosiani (documents), nonché le forme cultuali continuatesi nel tempo all’interno della Chiesa milanese e identificate (più o meno legittimamente) quale diretta eredità di Ambrogio (traditions).
11La terza sezione (L’autorité d’Ambroise dans les controverses médiévales: doctrines, Église et société) risulta assolutamente nodale: suo oggetto è infatti la rielaborazione della memoria ecclesiale di Ambrogio determinatasi a Milano in seguito all’acquisizione della «Chiesa Ambrosiana» alla riforma ecclesiastica romana del secolo XI, con conseguente necessaria adesione agli orientamenti ideali e alle nuove normative istituzionali propugnate e imposte dalla Sede Apostolica. Fu per la tradizione ambrosiana della Chiesa milanese un’esperienza traumatica, la cui metabolizzazione non poté evitare l’instaurarsi di alcune interne incoerenze, che concorsero a trasformare in memoria civica e politica quella ch’era stata fino ad allora memoria essenzialmente ecclesiale e di significato soprattutto ecclesiologico.
12La quarta sezione (Le modèle d’Ambroise et la mémoire de Milan à l’époque moderne) offre la testimonianza dell’ininterrotto permanere a Milano della tradizione ambrosiana, intesa peraltro in senso essenzialmente ecclesiale e declinata secondo un’accezione — ecclesiologicamente depotenziata — che rigorosamente la limita al solo ambito cultuale.
13Alcune considerazioni in merito ai ricchi contenuti di tali sezioni risultano inevitabili.
14La mémoire italienne d’Ambroise ha storicamente avuto il suo ambito privilegiato di conservazione e il suo centro primo di irradiazione in Milano, dove essa venne a trovarsi inscindibilmente legata a «luoghi e figure», che di tale memoria rappresentavano la traduzione monumentale, più o meno agevole da decifrare ma, in ogni caso, destinata a travalicare i secoli. Da queste specifiche testimonianze ambrosiane prende avvio, direi naturalmente, l’itinerario epistemologico, che ha caratterizzato la ricerca condensatasi in questo volume. Agli spazi e agli edifici in cui si sviluppò la vicenda personale di Ambrogio è pertanto dedicato il contributo di Silvia Lusuardi Siena e delle sue collaboratrici, Elisabetta Neri e Paola Greppi. Possiamo considerare questo importante lavoro un esemplare documento della scuola di studi archeologici avviata presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore da Michelangelo Cagiano de Azevedo. Grazie infatti alla raffinata metodologia e all’infaticabile impegno profusi da vari studiosi, ma in particolare da Silvia Lusuardi Siena, la conoscenza archeologica della Milano ambrosiana ha vissuto negli ultimi due decenni una fioritura impressionante, che ha dischiuso prospettive oltremodo feconde per gli studi relativi alla tarda antichità milanese (si pensi alla splendida stagione edilizia della prima fase del secolo VI) e ha tangibilmente documentato la complessità di diversi dati, precedentemente letti quali tranquillizzanti conferme di quadri interpretativi ormai consolidati. Attraverso un’articolata successione di interventi le autrici ci conducono per mano attraverso la città tardo antica, a partire dalla sua fase pre-ambrosiana, offrendoci, dal punto di vista archeologico, un puntuale e aggiornatissimo status quaestionis in merito ai singoli monumenti e ai problemi più generali dell’assetto urbanistico e dell’immagine architettonica di Mediolanum. L’esposizione si presenta di una sistematicità e accuratezza esemplari e, pur non potendosi in questa sede segnalare compiutamente l’impressionante quantità di informazioni che in essa si concentrano, non si possono sottacere tre specifici problemi, enunciati nelle pagine firmate da Elisabetta Neri.
15Si tratta, anzitutto, dell’insieme di questioni connesse alla basilica Portiana, alla sua identificazione con la basilica di S. Vittore al Corpo, al nesso di quest’ultima con le reliquie del martire e la sepoltura di Satiro compiuta da Ambrogio, nonché alla relazione con la basilichetta di S. Vittore in Ciel d’Oro: nel contributo ci viene offerto un sintetico inventario dei dati di cui disponiamo, efficacemente illustrati nella loro irrisolta ambiguità attraverso il rinvio alla più aggiornata bibliografia. L’ulteriore rilevante problema, che si ritiene opportuno qui segnalare, è costituito dalla struttura del complesso architettonico in cui si trovava il battistero pre-ambrosiano di S. Stefano alle Fonti (che possa essere il luogo del battesimo di Ambrogio è ipotesi suggestiva, ma…). Alla luce di osservazioni formulate anche da altri studiosi, Elisabetta Neri è venuta riconsiderando il carmen ennodiano, in cui si parla di una domus, che duplici iungitur aede e dove in geminis simplex radiat pia gloria tectis et de divisis consociatur honos. È inevitabile riconoscere d’essere in presenza di una struttura articolata, con funzionalità cultuali distinte (ne sacros confunderet usus), dove, a un’aula, altra si associava con diversa, ma pur sempre sacra destinazione. Considerare tutto ciò, unitamente al fatto che non esistano «dati incontrovertibili circa l’esistenza di preesistenze paleocristiane in corrispondenza della Santa Maria Maggiore carolingia», ripropone con forza il problema dell’ubicazione dell’edificio, che nel lessico di Ambrogio viene definito basilica vetus, e che una solida vulgata identificava in una fase più antica della citata chiesa carolingia. Con ogni evidenza si tratta di questione nodale nella definizione degli spazi legati alla memoria di Ambrogio. Non meno rilevante l’ultimo problema, che si intende qui rimarcare: la collocazione cronologica della basilica nova, quae maior est. Nella densa nota 25, la Neri sintetizza la questione posta dall’analisi del materiale numismatico reperito nel 1961 (ma non immediatamente analizzato) in uno dei sette pozzi presenti nell’area dell’edificio e chiusi dalla sua pavimentazione. Si tratta in particolare di nove monete, il cui conio si colloca negli anni 330-336, 383-392, 383-402. È evidente come tale dato possa essere percepito in termini di obiezione radicale all’identificazione della basilica nova quale edificio pre-ambrosiano, e con ciò venga a scompaginare un’opinione, che pareva ormai pacificamente recepita. Al riguardo, peraltro, non posso non pensare al fatto che il complesso dell’Anastasis gerosolimitana venne solennemente dedicato nel 335, ma che il cantiere continuò ad essere aperto e pienamente attivo nei decenni successivi4; e che proprio nell’area qui considerata il più tardo Duomo ebbe il proprio altare solennemente consacrato da papa Martino V il 16 ottobre 1418, ma nel contesto di un edificio ancora in costruzione e che sarebbe stato dedicato da san Carlo soltanto il 20 Ottobre 1577. Ritengo che già questi semplici assaggi possano segnalare la qualità del contributo e la sua importanza nel quadro di una ricerca relativa alla mémoire d’Ambroise.
16Un aspetto per nulla marginale di tale memoria è indubbiamente costituito dalla definizione dell’immagine destinata a tramandare, nel succedersi delle generazioni, il ricordo delle fattezze di Ambrogio. Assicurare la trasmissione di tale ricordo era preoccupazione ben presente nella società romana. Di fatto, in riferimento ad Ambrogio, noi possediamo all’interno del sacello di S. Vittore in Ciel d’Oro un’immagine musiva che, per specificità dei tratti fisiognomici e per espressività, radicalmente si differenzia dalle raffigurazioni, del tutto anonime e convenzionali, degli altri personaggi rappresentati. Recentemente Marco Sannazaro ha collocato il manufatto negli anni tra V e VI secolo. Non è illegittimo supporre che, trattandosi di Ambrogio (un ex magistrato appartenente all’alta nobiltà romana), l’artista abbia potuto usufruire di un modello preesistente. In ogni caso, l’immagine musiva in questione è divenuta, per la Chiesa milanese, l’archetipo di una tradizione iconografica, che Simone Piazza è venuto brillantemente illustrando nelle molteplici manifestazioni lungo i secoli medioevali, fino al tondo in stucco della Basilica Ambrosiana, collocabile negli anni tra XII e XIII secolo, ricordato con venerazione dal Petrarca e più tardi segnalato da Carlo Borromeo. Nel contesto di tali manifestazioni, merita qui menzionare la straordinaria testimonianza, databile ai decenni centrali del IX secolo, trasmessaci nella Langobardia Minor dall’abside della chiesa di S. Ambrogio a Occiano di Montecorvino Rovella, dove Ambrogio (con i tratti dell’immagine di S. Vittore in Ciel d’Oro), unitamente a Simpliciano Gervaso e Protaso, attornia, stando alla sua destra, la Madre di Dio, raffigurata in trono secondo la tipologia della Kyriotissa. Grazie alle indicazioni fornite dal Piazza, già in non poche delle raffigurazioni d’età carolingia ispirate all’indicato archetipo milanese, e perciò chiaramente orientate alla preservazione di tale modello, diviene possibile scorgere l’influsso dei contesti di committenza. Al riguardo un particolare, apparentemente minore, si rivela indice significativo. In San Vittore in Ciel d’Oro Ambrogio è rappresentato con una barba scura di dimensioni contenute, cui si connettono baffi, analogamente scuri. Pur echeggiando tale modello, tra IX e XI secolo diverse immagini, sia in codici miniati (a cominciare dall’Omiliario di Eginone, che resse la cattedra di Verona fino al 799: Berlin Staatsbibliothek, cod. Phillips 1676), sia in opere d’oreficeria (si pensi all’altare di Vuolvinio in Sant’Ambrogio o alla copertura per Evangeliario di Ariberto di Milano), presentano il volto di Ambrogio assolutamente privo di barba. Credo che sia possibile vedere in questo il riflesso degli usi ecclesiastici carolingi, nettamente difformi dalle consuetudini orientali che, ispirate a una precisa antropologia religiosa, trovarono puntuale riproposizione anche nella iconografia di Ambrogio elaborata in Oriente: a questo riguardo, merita segnalare il bel contributo «Ambrose of Milan, Iconographical Approach» recentemente offerto da Maria I. Kazamia-Tsernou al convegno «Ambrose of Milan in Christian Literature et Theology», promosso nei giorni 11-12 Dicembre 2013 dal Dipartimento di Teologia (Sezione di Storia ecclesiastica, letteratura, archeologia e arte cristiana) dell’Università di Tessalonica in collaborazione con l’Istituto di Teologia ecumenica dell’Università di Graz5. Simone Piazza, al fine di spiegare la presenza — nella decorazione musiva dell’abside della Basilica Ambrosiana — di una nuova immagine di Ambrogio, canuto e con folta barba, ha affacciato l’ipotesi di un influsso iconografico orientale. In ogni caso si trattò di una tipologia, destinata a un’ampia fortuna. In effetti, si pongono sulla scia di tale innovazione (e possono considerarsi sue tarde eredi) anche le immagini plastiche di Ambrogio collocate nel Trecento sulle porte della cerchia muraria. Di quest’ultima iconografia ambrosiana — dalla forte caratura civica, istituzionale e politica — il contributo di Guido Cariboni offre una ricca documentazione oltremodo eloquente, con riferimento in particolare all’età della signoria viscontea. È quello il tempo in cui, tra l’altro, venne affermandosi l’immagine di Ambrogio munito di flagello: immagine legatasi in particolare alla battaglia combattuta a Parabiago tra due fazioni dei Visconti il 21 Febbraio 1339, ma la cui origine è ben precedente, dato che il flagello è elemento agiografico già attestato attorno al 1130 dagli Ordines di Beroldo e sembra radicarsi nelle esperienze istituzionali vissute da Milano nella prima metà dell’XI secolo sotto l’arcivescovo Ariberto (importanti al riguardo le considerazioni formulate da Miriam Tessera nel 2007). Proprio il rifiuto di questa iconografia di Ambrogio flagellatore, e delle celebrazioni che vi si associavano, costituisce l’indice della fase nuova che Carlo Borromeo rappresentò per la vicenda religiosa della società milanese. I fenomeni determinatisi nell’iconografia ambrosiana durante gli anni del suo archiepiscopato si presentano oltremodo significativi sotto molteplici aspetti. Il radicamento nella documentazione iconografica più antica conferma la profonda ispirazione patristica e ambrosiana, che ne animò il ministero pastorale, inteso quale sequela di Ambrogio cui guardava come a «idealtypus del santo vescovo»; le immagini di Ambrogio, da lui previste rigorosamente prive di barba, evidenziano la preoccupazione disciplinare che ne ispirò l’azione di riforma; il fatto che, in connessione più o meno stretta al processo di canonizzazione, alcune raffigurazioni dell’antico patrono presentino fattezze simili a quelle del Borromeo esprime assai efficacemente la convinzione dei contemporanei d’essere stati testimoni dell’opera di un «alter Ambrosius»; peraltro la circostanza che, dopo l’episcopato di Carlo, sia riapparsa l’iconografia di Ambrogio foltamente barbato e che soprattutto committenze laicali (ma non solo) abbiano addirittura voluto riproporre l’immagine del santo a cavallo flagellante dimostra come la riforma borromaica, pienamente calata nella realtà milanese quanto a forme istituzionali e modalità di vita religiosa, per alcuni aspetti, che potremmo definire di costume, sia stata — e non poteva essere altrimenti — rapidamente disattesa. Come ha evidenziato Annalisa Albuzzi nella sua fine lettura di documenti e immagini, le differenze al riguardo si manifestarono già col successore Gaspare Visconti e sono percepibili anche nel confronto con l’operato del cugino, il cardinal Federico. Le immagini, che ne sono derivate, mostrano tangibilmente come, parafrasando Gregorio, pure la memoria scritta nei colori «cum legente crescit», e in non pochi casi si dimostri rivelativa di quanti della memoria sono portatori, più che di colui di cui si intende custodire e trasmettere il ricordo.
17Se queste sono le modalità secondo cui la memoria «visiva» di Ambrogio è venuta evolvendo lungo i secoli, la seconda sezione della presente ricerca ci pone in immediato e approfondito contatto con la memoria «testuale», i suoi strumenti, le sue forme di trasmissione, la sua ermeneutica, le sue riprese talvolta apertamente deformanti.
18Queste problematiche hanno trovato nel contributo offerto da Camille Gerzaguet un’introduzione esemplare, per metodologia e per ampiezza di documentazione. È particolare merito della studiosa, ma altresì dei promotori della ricerca che ne hanno sollecitato l’apporto, aver prospettato un sistematico censimento dei codici, considerandone i luoghi di elaborazione, i centri di diffusione, le vie di trasmissione. Quanto ai luoghi di composizione dei codici e di loro prima diffusione, Milano riveste ovviamente una iniziale centralità, che si lega alla figura stessa di Ambrogio, ma altresì — come la studiosa osserva — pure al collegio dei suoi comprovinciali. Al riguardo vorrei tuttavia segnalare come il rapporto di questi ultimi non fosse esclusivamente di tipo personale nei confronti di un presule autorevole e famoso, ma fosse pure un legame di tipo affettivo e istituzionale nei confronti della loro sede metropolitica, alla quale non a caso essi, in occasione della morte di Ambrogio, si fecero carico di assicurare l’adempimento dei riti di iniziazione (come chiaramente riferisce il diretto testimone Paolino). Gaudenzio è un esempio emblematico al riguardo: predica nella Basilica Apostolorum milanese, riprende nella sua Brescia il modello degli edifici ecclesiastici milanesi, segue nella sua Chiesa un ordinamento delle scritture assimilabile a quello milanese, nelle sue omelie sono rintracciabili — come Matthieu Smyth ha mostrato — le tracce dell’antica preghiera eucaristica milanese. In un contesto di Chiesa profondamente segnata dalla dimensione misterica, la provincia ecclesiastica non era una semplice circoscrizione amministrativa, ma un preciso unitario ambito ecclesiale; non a caso proprio Brescia, pur essendo territorialmente appartenente alla Venezia, rimase sempre ecclesiasticamente ligure (analogamente a Ravenna che, «annonaria» amministrativamente, dal punto di vista ecclesiastico conservò la sua appartenenza «suburbicaria»). In merito a un’adeguata valutazione della irradiazione degli scritti ambrosiani, mi pare qui opportuno riprendere, per la sua importanza metodologica, il richiamo della Gerzaguet alla necessità di uno studio sistematico della tradizione indiretta, che ci porta immediatamente fuori Milano. Riguardo a quest’ultima città, la studiosa afferma ch’essa «a perdu depuis le ve siècle le rôle de centre culturel»; in verità l’inizio del VI secolo è illuminato dalla figura di Ennodio e risplende per gli interventi edilizi di Lorenzo; forse sarebbe più corretto affermare che tale decadenza, per molti aspetti irreparabile, strettamente si connette alla Guerra Gotica e all’impossibilità di riprendersi adeguatamente dopo la conclusione di tale conflitto. Quanto all’irradiazione dei testi ambrosiani, efficacemente la Gerzaguet segnala come nel contesto carolingio Milano riassuma una capacità di contatti, di scambi e di trasmissione: una funzione che si sarebbe conservata nel tempo, riproponendosi nella prima parte del XII secolo e avendo a quel punto quale polo privilegiato la canonica di Sant’Ambrogio, nella quale operava, quale cimiliarca prima e preposito poi, Martino Corbo. Il ruolo che altri centri, quali Bobbio o Corbie, hanno svolto nella circolazione delle opere ambrosiane nel declino della tarda antichità e all’avvio dell’alto medioevo è ben evidenziato anche dai due censimenti posti dalla Gerzaguet in appendice al suo bel lavoro, in cui dà conto dei manoscritti con opere ambrosiane, rispettivamente anteriori al IX secolo e del IX secolo.
19La splendida stagione rappresentata per Milano dai decenni iniziali del VI secolo costituisce l’approdo del brillante testo di Stéphane Gioanni: un illuminante contributo, che, nella sensibile e attenta lettura delle fonti considerate, viene ridisegnando le modalità di progressiva costruzione della memoria di Ambrogio come memoria di una specifica autorità patristica di valore universale («instituit populos», è detto di lui), ma altresì come memoria della sua Chiesa. In effetti i carmi da Ennodio dedicati ai metropoliti milanesi, a cominciare da Ambrogio (quasi un piccolo Liber Pontificalis milanese in versi), segnalano limpidamente il carattere esemplare del grande presule, ma pure il suo configurarsi quale capostipite di una schiera illustre di successori, la cui memoria si traduce naturalmente in solenne esaltazione della Chiesa, cui essi hanno presieduto. Sotto questo aspetto, con Ennodio siamo di fronte — come Gioanni acutamente segnala — a una manifestazione forte di quella autoconsapevolezza ecclesiale, che avrebbe generato la definizione, attestata in età carolingia, di «Chiesa ambrosiana».
20Alla luce di quanto fin qui considerato ancor più il contributo proposto da una raffinata studiosa quale Claire Sotinel comporta un’attenta esegesi, tenendo altresì conto del fatto che al titolo «Ne pas se souvenir d’Ambroise» segue il sibillino avvio: «Le titre de ma communication n’est pas (seulement) une boutade ou une provocation…». Credo opportuno sgombrare subito il campo da alcune questioni di fatto più apparenti che reali. La Sotinel ricorda che pure nel V secolo Ambrogio «n’est pas pris en considération dans sa spécificité milanaise» e che nel 532 da Innocenzo di Maronea è ricordato «sans aucun lien spécifique avec la lointaine Italie du Nord»; oltre a ciò la studiosa dichiara che soprattutto nel contesto della disputa dei Tre Capitoli ci si sarebbe potuti aspettare un richiamo ad Ambrogio in connessione a «la compétence milanaise à maintenir l’orthodoxie pure, en collaboration, voire en concurrence avec Rome». Al riguardo mi pare necessario osservare come un riferimento alla sede milanese quale sede investita di una peculiare funzione nella comunione delle Chiese è fenomeno legato (e chiaramente evidenziato dalle fonti) esclusivamente in connessione alla presenza in città della Corte: Atanasio fa riferimento al vescovo Protaso quale suo introduttore al colloquio da lui avuto con Costante a Milano, e i vescovi d’Africa e di Spagna nell’ultima parte del IV secolo e fino all’anno 402 si rivolsero molto naturalmente «tam… uenerabili sancto fratri Anastasio sedis apostolicae episcopo, quam etiam sancto fratri Venerio sacerdoti Mediolanensis ecclesiae». Tutto ciò, peraltro, non ebbe più ragion d’essere dopo il 4026. Significativamente nella lettera del 551 affidata agli ambasciatori franchi (e personalmente credo da rappresentanti dell’episcopato provinciale milanese) il metropolita Dazio è indicato definire la propria la posizione nel collegio episcopale non con riferimento alla figura di Ambrogio, ma — come acutamente sottolinea la Sotinel — all’interno d’«une collégialité qui appartient à un autre modèle d’ecclésiologie» rispetto ad Ambrogio. E non poteva che essere così, visto che la condizione di Ambrogio, in quanto vescovo della sedes Imperii era istituzionalmente diversa. Tutto ciò premesso, personalmente ritengo necessario riconoscere che dopo il 402 qualsiasi riferimento ad Ambrogio (come nel caso di qualsiasi altro Padre, occidentale od orientale) non potesse che fondarsi sulla sola riconosciuta auctoritas dottrinale del padre in questione, senza alcun riferimento alla rispettiva sede. Camille Gerzaguet nel suo contributo ha ricordato, in merito alla diffusione dei testi ambrosiani, un possibile «effet de perspective produit par les hasards de la conservation». Ora, per quanto concerne il secolo VI, non si può dimenticare ch’esso a Milano, dopo il ricordato luminoso inizio, ha conosciuto: la Guerra Gotica, la definitiva partenza del metropolita Dazio, la conquista e la devastazione ad opera delle armate di Vitige, l’occupazione longobarda, il trasferimento del metropolita e delle gerarchie amministrative ed ecclesiastiche a Genova, l’omologazione dottrinale romana del metropolita Lorenzo II, la frattura dottrinale con le conseguenti tensioni e lo scisma all’interno della provincia metropolitica, i timori per l’approvvigionamento degli ecclesiastici esuli sulla costa tirrenica. In un contesto tanto travagliato, i silenzi mi paiono più che comprensibili. In ogni caso, durante quel secolo VI, in Oriente, Severo d’Antiochia ricorda Ambrogio quale autorità esemplare e legittimante, Teodoro il Lettore e Giovanni Malala ne riferiscono le vicende, mentre Procopio per parte sua presenta Milano come prima città d’Italia dopo Roma, e Viglio a Costantinopoli presenta Dazio quale primo presule dell’episcopato occidentale come il patriarca Menas lo era di quello orientale («praesentibus etiam Mena Constantinopolitanae ciuitatis et Datio Mediolanensis urbis antistite aliisque tam Graecis quam Latinis episcopis»: Agosto 550). Quanto poi all’Occidente e alla realtà milanese, il secolo, aperto da Ennodio, si chiude — come la Sotinel ricorda — con le parole di Gregorio, che configurano il metropolita di Milano e il suo clero (esuli a Genova) in termini strettamente ambrosiani. Vorrei qui ricordare l’osservazione formulata al riguardo dalla studiosa: «Ambroise, comme modèle épiscopal pour les prélats milanais… apparaît sous une plume romaine au moment où Grégoire veut ancrer l’Église de Milan dans l’orbite pontificale… c’è là un paradoxe intéressant». Credo si tratti di considerazione da cui possano derivare prospettive oltremodo stimolanti in merito all’interpretazione ecclesiologica dei rapporti ecclesiastici tra Roma e Milano, in vigore in età alto medioevale fino all’inserimento della Chiesa ambrosiana nell’ordine istituzionale e disciplinare promosso dalla riforma romana del secolo XI. In ogni caso, in tale considerazione possiamo vedere fin da ora il sigillo impresso da una maestra di studi tardo-antichi al termine di un testo, che ne documenta il completo possesso delle fonti e la costante preoccupazione di spingere la loro esegesi verso sempre nuove acquisizioni.
21Se fin qui è stata considerata la memoria di Ambrogio attraverso i suoi interpreti (più o meno loquaci), Alessio Peršič ci pone in contatto con la memoria di altra Chiesa, quella di Aquileia, dotata di tradizione diversa e i cui esponenti, sia nella tarda antichità, sia agli inizi dell’alto medioevo, si sono sentiti direttamente interpellati dal patrimonio ecclesiale «milanese». Se nel caso del patriarca Paolino II in età carolingia si è di fronte a un’emulazione del modello innografico ambrosiano in un’opera creativa, nella quale trova riflesso la realtà ecclesiastica e dottrinale aquileiese di fine VIII secolo, per quanto riguarda Rufino l’accurata esegesi dell’Expositio Symboli condotta dal Peršič ci permette di percepire intimamente il profondo legame che univa quelle antiche generazioni cristiane alla loro esperienza di iniziazione e ai vari elementi che la costituivano. L’opera di Rufino è sostanzialmente un’apologia del Credo aquileiese di fronte alle contestazioni presenti nella Explanatio Symboli confluita nel corpus degli scritti ambrosiani. Il dibattito si sarebbe potuto configurare quale arido confronto di formulazioni testuali, ma l’intima partecipazione interiore di Rufino ne fa un alto momento di spiritualità misterica ed ecclesiale. L’inserimento nella prima enunciazione dottrinale delle parole «invisibilem et inpassibilem» (presenti nell’antiniceno Credo di Sirmium del 357), l’inserimento nel secondo enunciato della specificazione «unum (Dominum)», l’aggiunta dell’inciso «descendit in infera», l’esclusione della preposizione «in» nelle enunciazioni finali e, soprattutto, la rimarcata fede nella resurrezione finale attraverso la formulazione «huius (carnis resurrectionem)» e la disposizione rituale «signaculo Crucis fronti inposito» trovano nel trattatello catechetico puntuali giustificazioni di merito. Ma in realtà, al fondo di tutto l’argomentare, sta l’intima determinazione: «Nos tamen illum ordinem sequemur, quem in Aquileiensi ecclesia per lauacri gratiam suscepimus.» In questo senso lo scritto rufiniano può essere riguardato come un monumento di memoria ecclesiale. Peršič lo presenta come dialettico rispetto alla memoria ecclesiale milanese. E così certamente esso sarebbe se l’Explanatio Symboli fosse sicuramente milanese e di Ambrogio. Al riguardo lo stesso Peršič ha segnalato le perplessità di Hervé Savon; ma esse non datano dai nostri giorni. Analoga lunga tradizione — come si sa — ha pure il rifiuto dell’ambrosianità del De Sacramentis. In merito a quest’ultimo, nel 1905 il grande Anton Baumstark aveva pensato quale autore a un vescovo di Chiesa non appartenente alla sinodo milanese, ma aperta agli influssi di Milano, orientandosi pertanto verso l’area ravennate, ecclesiasticamente romana, ma in stretto contatto con le Chiese «milanesi» dell’Emilia: una situazione che pienamente spiegherebbe l’enunciato: «ecclesia Romana… cuius typum in omnibus sequimur et formam… ipsum sequimur apostolum Petrum». Rilevo che nell’Explanatio Symboli il catecheta analogamente afferma: «Hoc est Symbolum, quod Romana ecclesia tenet, ubi primus apostolorum Petrus sedet». Resta comunque e in ogni caso — riproposta con grande efficacia dal Peršič — la consapevole identificazione di Rufino con la tradizione della propria Chiesa, tradizione dal prete aquileiese riaffermata nella sua indiscutibile validità con assoluta certezza: «hic igitur Spiritus Sanctus est, qui in ueteri testamento legem et prophetas, in nouo euangelia et apostolos inspirauit».
22Componente decisiva di ogni memoria «testuale» veicolata in ambito ecclesiastico è indubbiamente la produzione agiografica, destinata a interagire vitalmente con tutte le altre forme di riproposizione e celebrazione del ricordo. Nel caso ambrosiano, se per gli scritti del grande vescovo particolarmente interessante si presenta la loro tradizione indiretta, quanto all’agiografia, estremamente significative appaiono quelle composizioni che, non espressamente dedicate alla celebrazione di Ambrogio, di fatto con l’agiografia ambrosiana risultano profondamente intrecciate. Tali composizioni costituiscono una selva sterminata e intricatissima, il cui attraversamento richiede guide esperte e altamente specializzate. Tale è indubbiamente Paolo Tomea, il cui contributo, dopo un avvio dedicato al De vita et meritis Ambrosii (eccezionale creazione agiografica realizzata dall’intellettualità milanese d’età carolingia), ci conduce attraverso un complesso itinerario, che dal tardo antico Sermo de vita et obitu beati Philastrii di Gaudenzio, attraverso una serie di vitae ed acta, e senza trascurare il Liber Pontificalis della Chiesa romana e quello della Chiesa ravennate, giunge infine alla Passio Arialdi di Andrea di Strumi, in cui Ambrogio viene immesso nei contrasti e nelle lotte suscitate dalla Pataria. Dopo aver spaziato per varie aree d’Italia sulla scia di testi agiografici a esse legati, l’itinerario delineato dal Tomea riapproda nuovamente a Milano e a Sant’Ambrogio, con i due ultimi scritti censiti, la Vita di Satiro (s. VIIIex-IXin) e il Panegirico di Marcellina (s. IXex-Xin): testi nei quali le vite dei personaggi presentati si saldano inscindibilmente a quella di Ambrogio, tanto che la stessa santità dei primi sembra configurarsi quale riflesso della santità del congiunto; per usare le gentili parole del Tomea: «un estremo dono fatto da Ambrogio ai suoi fratelli».
23Già questa specie di iter Italicum agiografico aveva raggiunto nella sua estrema estensione cronologica il secolo XI, ossia gli anni della riforma ecclesiastica romana. Questa diviene assolutamente centrale nel contesto della memoria «testuale» legata alla elaborazione canonistica. Esemplarmente accurato al riguardo il contributo di Roberto Bellini, reso particolarmente accattivante dall’atteggiamento, che lo anima, di affettuoso omaggio reso al maestro, Giorgio Picasso, nella cui scia si pone. Lo studio ha inteso riprendere e approfondire le indagini sulla presenza dei testi ambrosiani nelle collezioni canoniche. Otto preziose tabelle in appendice offrono un censimento completo, globale e collezione per collezione, di tali presenze. Pensando al riferimento ad Ambrogio formulato da Gregorio nelle sue relazioni con la Chiesa milanese, Claire Sotinel ha ritenuto plausibile evocare il concetto di «paradosso». Ritengo «paradosso» ben più evidente e macroscopico questa diffusione della presenza di Ambrogio nelle collezioni canoniche d’orientamento riformato a cominciare dalla Collectio Canonum di Anselmo di Lucca. In tal modo, infatti, si trasformava in voce del disciplinamento accentratore romano del secolo XI un autore che nel IV secolo, in quanto vescovo della sedes Imperii, aveva intensamente vissuto quella breve stagione (già precedentemente segnalata), in cui la comunione ecclesiastica in Occidente, in forza dei canoni Serdicensi, aveva operato in una condizione di concreta diarchia, tanto che Paolino poté dire di Ambrogio: «erat in illo sollicitudo omnium ecclesiarum». Il carattere paradossale di tale reclutamento del Padre milanese ad opera dei riformatori «romani» risulta talvolta ulteriormente accentuato dalle modalità con cui i testi furono abitualmente reperiti: non desumendoli dagli scritti cui originariamente appartenevano, ma traendoli da florilegia o da altre collezioni, nelle quali essi già erano stati sottoposti a un processo di estrapolazione e collocati sotto rubriche che ne orientavano l’interpretazione. Gli esiti furono di non poco conto. Roberto Bellini, segnalando l’utilizzazione dell’Expositio euangelii secundum Lucam — «dunque di un trattato di genere esegetico» — in riferimento al tema del primato, osserva come sia stata «proprio l’età della riforma a segnare il passaggio, in materia di primato romano, dalla impostazione prioritariamente pratico-giuridica delle Decretali Pseudo-isidoriane a quella teologica delle collezioni riformatrici». Si trattò, comunque, di un’operazione compiuta con una disinvoltura nei confronti delle fonti non dissimile da quella delle citate Decretali: Fabrice Delivré lo ha chiaramente evidenziato in rapporto alla fortunata massima «Hereticum esse constat, qui a Romana ecclesia discordat», inserita sotto il nome di Ambrogio nel Liber canonum di Bernoardo di Hildesheim, ma con la quale in realtà si intendeva fare eco all’enunciato del Dictatus papae «Quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romanae ecclesiae», riletto nella linea di Pier Damiani e Deusdedit, che venivano configurando il contrasto con Roma nei termini di eresia. Del resto l’intero quadro problematico che ispirava le collezioni nate nel clima della riforma rifletteva una realtà antropologica, ancor prima che ecclesiale, inconfrontabile con quella del IV secolo, da cui provenivano i frammenti di Ambrogio, messi ampiamente a frutto.
24Va osservato come siffatto processo di reinterpretazione della memoria e del lascito ecclesiale di Ambrogio col XII secolo abbia investito anche quello che nel secolo precedente veniva chiamato l’Ambrosianum mysterium, ossia la tradizione rituale della Chiesa milanese. Soltanto per limitati elementi tale tradizione portava l’impronta diretta di Ambrogio, ma di fatto costituiva un aspetto di vita ecclesiale comunemente avvertito come sua creazione ed eredità. Dopo che (a partire dal 1088 circa) venne inserendosi nell’alveo della riforma romana anche la Chiesa milanese, quella ch’era stata la sua complessiva e articolata tradizione ambrosiana (una compiuta tradizione ecclesiale fatta di diritto, prassi istituzionale, dottrine, norme disciplinari, spiritualità) dovette essere riformulata e fu ridotta — ecclesiologicamente depotenziata — a mera tradizione rituale. Il che, peraltro, ulteriormente accentuò il significato di un complesso di testi e di forme cultuali, le cui radici affondavano nella tarda antichità cristiana e la cui continuità si è mantenuta — seppure con consapevolezza ecclesiologica sempre più estenuata — fino ai nostri giorni.
25La terza sezione, in cui si articola il vasto materiale qui raccolto, pone in contatto con le dinamiche che hanno determinato pesanti modificazioni nella mémoire d’Ambroise, potremmo dire una sua decisiva metamorfosi. Tali trasformazioni non sono, peraltro, frutto di un’evoluzione interna alla memoria stessa, sono il riflesso anche su tale memoria degli sconvolgimenti profondi, a livello ideologico e istituzionale, determinatisi nella vicenda dell’Occidente europeo in una fase, che non a caso Claudio Leonardi ebbe a evocare con queste parole: «Quando rifletto sul secolo XI, devo confessare che lo penso e lo considero come il secolo più importante del Medioevo, il secolo della svolta, che imprime alla storia caratteristiche che prima non aveva7 ». Il compianto grande mediolatinista pensava primariamente alla riconfigurazione dell’ordine gerarchico del mondo e alla ridefinizione dei rapporti tra istituzioni ecclesiastiche e autorità civili. Ma non meno sconvolgente, per la storia dell’Occidente latino, quel secolo fu quanto alle relazioni istituzionali all’interno del corpo ecclesiale e tra le sue gerarchie. La riforma ecclesiastica promossa dalla Chiesa romana ebbe tra le sue finalità programmatiche, tenacemente perseguite, l’affermazione piena del diretto potere della Sede Apostolica sull’intero corpo ecclesiale. Il principio era stato professato, più o meno chiaramente, fin dal IV secolo nelle decretali di diversi pontefici, ma era rimasto una petizione ideale, visto che — al di fuori della provincia ecclesiastica suburbicaria — la comunione delle Chiese viveva ab immemorabili secondo forme istituzionali — canonicamente definite e ben riflesse nei concili locali ed ecumenici — che totalmente prescindevano dalle pretese romane. Queste ultime, pertanto, al fine di potersi adeguatamente legittimare, comportavano la reinterpretazione della storia e della prassi ecclesiastica, per ricondurla entro l’alveo romano: si pensi alla reinterpretazione in senso petrino del can. 6 di Nicea o alle affermazioni di Innocenzo I nel 416 in merito alla diretta derivazione di tutte le Chiese d’Occidente dalla Chiesa romana. Tracce sia del progressivo diffondersi di tali revisioni (debitamente orientate) della vita e della prassi della comunione delle Chiese, sia delle conseguenze derivabili da una loro concreta applicazione possono vedersi già nelle dinamiche che portarono all’affermazione, alla metà del secolo V, della primazia di Arles e, più tardi, nel quadro ecclesiastico dell’Occidente latino delineato da Paolo Diacono nei Gesta episcoporum Mettensium. La riforma ecclesiastica romana del secolo XI comportò un analogo lavorio di riformulazione delle auctoritates di riferimento, e di ciò si occuparono, come abbiamo visto più sopra, le nuove collezioni canoniche. Milano, con la sua tradizione ambrosiana, è il luogo per eccellenza in cui «vecchio» e «nuovo» si dovettero confrontare; non a caso il cosiddetto Landolfo Seniore (III, 22 [21]) ricorda che, di fronte al clero ambrosiano che veniva appellandosi alle epistole paoline e ai canoni, i capi patarini «proclamare coeperunt dicentes: “Vetera transierunt, et facta sunt omnia nova. Quod olim in primitiva ecclesia a Patribus sanctis concessum est, modo indubitanter prohibetur”»: principio già enunciato dall’Ordo XIX carolingio. In queste parole sta già scritto il destino successivo della Chiesa milanese e, in essa, della memoria di Ambrogio. Con esiti che, per alcuni aspetti, non possono non considerarsi esempi tipici di eterogenesi dei fini. E i contributi, che ci accingiamo ora a prendere in considerazione, lo hanno chiaramente evidenziato.
26La realtà, da cui prese le mosse la vicenda che di tale realtà avrebbe determinato la radicale trasformazione, emerge limpida ed eloquente dalle pagine di Miriam Rita Tessera. In esse noi possiamo verificare la vitalità della memoria di Ambrogio nel contesto dell’Impero, il prestigio riconosciuto a colui che Benzone d’Alba definisce l’heres Ambrosii, la devozione imperiale nei confronti di Ambrogio e della sua basilica, il valore simbolico in rapporto all’autorità e alle prerogative arcivescovili riconosciuto all’altare delle reliquie di Ambrogio (come ben mostra la penitenza imposta a Olrico d’Asti, nella cui censura fu direttamente implicato — e, in forza dei canoni, contraddetto senza tentennamenti — l’operato della Sede Apostolica). Nella prima parte dell’XI secolo si parla nei documenti di milites Ambrosii e di Sancta Ambrosiana ecclesia. Con Ariberto, considerato dal cosiddetto Landolfo il paradigma di arcivescovo ambrosiano, siamo infine di fronte a un’autorità arcivescovile in grado di fronteggiare gli imperatori, tanto che gli Annales Sangallenses Maiores lo definiscono «creatore di re». È questa Milano arcivescovile quella contro il cui ordo et mysterium i riformatori patarini, all’ombra del vexillum santi Petri, si sarebbero lanciati pochi anni dopo la scomparsa di Ariberto, e di cui avrebbero determinato la fine. Di quella Chiesa il misterioso Landolfo Seniore volle fissare la memoria nella sua opera; e della memoria di Ambrogio vissuta nel contesto di quella Chiesa Miriam Rita Tessera ci ha esemplarmente dato conto nel suo scritto, per il quale non si può che esprimere vivo apprezzamento.
27Il successivo contributo di Marco Petoletti ci documenta tangibilmente la situazione determinatasi in Milano, e nella sua Chiesa, a normalizzazione avvenuta. Il lavoro è espressamente dedicato alla giustamente famosa corrispondenza di Martino Corbo, canonico di Sant’Ambrogio, con due ecclesiastici ratisbonensi, Paolo e Gebeardo, nella prima metà del XII secolo. Il Petoletti la presenta corredandola di tutte le opportune informazioni e offrendone in appendice anche un’edizione critica. Ma ai fini della ricerca che ispira il presente volume, particolarmente rilevante è la sfaccettata realtà ecclesiale che fa da sfondo all’episodio, realtà che il Petoletti ha lumeggiato e sulla quale varrà la pena di sviluppare alcune considerazioni. La corrispondenza, i cui protagonisti sono — da parte milanese e da parte tedesca — autorevoli interpreti delle idealità della riforma, si lega al grande impegno posto in essere da Martino Corbo per la realizzazione nella sua canonica di una monumentale, sistematica, completa e accurata raccolta degli scritti ambrosiani. In tale impegno è evidente la convinzione del canonico — ben evidenziata dal Petoletti — che la basilica resa illustre dalla presenza del sepolcro di Ambrogio fosse tenuta a custodirne anche «gli opera omnia, per trasmetterne ancor più efficacemente la memoria». In questo Martino appare veramente «Ambrosiani saporis amicus»; il cosiddetto Landolfo Seniore non avrebbe potuto che definirlo «scientia Ambrosiana funditus doctus». A suo tempo, quello stesso Landolfo, di fronte all’inarrestabile affermarsi della riforma, aveva dolorosamente osservato che patarini e riformatori «ordinem… in tantum attriverunt, ut ultra nec esset spes mysterii nec ordinis restaurandi». Di fatto, almeno quanto al mysterium, non era andata così. E proprio Martino offre al riguardo una indiscutibile testimonianza. Di fronte ai suoi interlocutori ratisbonensi egli dimostra una precisa consapevolezza, non soltanto del patrimonio rituale della sua Chiesa, ma pure della specificità degli strumenti codicologici che lo trasmettono, venendo a contestare l’uso per l’ambito ambrosiano del termine «sacramentarium» (appunto che ancor oggi gli studiosi dell’Ambrosianum mysterium farebbero bene a ricordare, visto che fin dal palinsesto libellus Missarum sangallense i supporti scritti ambrosiani per la celebrazione eucaristica — con l’eccezione del solo Liber totius anni detto «di Ariberto» — presentano anche i testi scritturistici per le letture8). Più in generale, il ricordato grandioso progetto «editoriale» di Martino Corbo dimostrava che, anche per il nuovo clero riformato della Chiesa milanese, Ambrogio continuava ad essere riferimento autorevole e indiscusso; ci possiamo tuttavia domandare in quale contesto ecclesiologico tale auctoritas venisse per loro inserendosi e quale significato vi assumesse. Paolo e Gebeardo mostrano di aver perfettamente colto la particolare funzione svolta dalla sede milanese nella comunione cristiana durante gli ultimi decenni del IV secolo e nei primi anni del successivo: «Fuit olim tanta Mediolanensis ecclesiae gratia et excellentia, ut Aurelio et Augustino ceterisque Affricanis praesulibus non sufficeret in dubiis rebus Romanum consulere pontificem, nisi paritetr consulerent et Mediolanensem». Martino Corbo, che pure comprese l’importanza della sinodica milanese trasmessa nel 680 all’imperatore Costantino IV e la volle inserita nel corpus ambrosiano, quando dovette rispondere ai canonici tedeschi in merito alla scelta tra i due contendenti al trono imperiale, Corrado e Lotario, giustificò la propria posizione con queste parole: «Ambrosius in libro Sermonum, capitulo XI: “Qui navem Petri non ascendit, diluvio inundante peribit”… Unde idem Ambrosius quibusdam dicit in libro I Paenitentiae: “Non habent haereditatem Petri qui Petri fidem non habent, quam impia divisione quidam discerpunt”». E cosa rimaneva della città episcopale? Proprio a seguito della contesa imperiale, associatasi alla disputa tra i papi Innocenzo II e Anacleto II, il clero milanese aderì a Innocenzo (come indicano le parole di Martino), contrapponendosi al popolo e al proprio arcivescovo Anselmo, schierati con Corrado; e nella provincia ecclesiastica i suffraganei, convocati a Pavia dal legato di Innocenzo, procedettero alla scomunica del loro metropolita. Per la pacificazione si sarebbe dovuto attendere nel 1135 la figura carismatica di Bernardo di Chiaravalle.
28E proprio l’azione svolta da Bernardo a Milano costituisce l’approdo del contributo di Fabrice Delivré, volto a cogliere l’evoluzione subita dalla memoria di Ambrogio nel contesto milanese in seguito ai contrasti sviluppatisi dalla seconda metà dell’XI secolo, e nei quali le lacerazioni all’interno della civitas Ambrosiana si vennero inscindibilmente intrecciando ai grandi conflitti ideologici e istituzionali, che la riforma ecclesiastica romana aprì nel corpo della Cristianità. Si tratta di un ammirevole contributo, nel quale il Delivré ha focalizzato l’attenzione su tre ambiti di attualizzazione della memoria di Ambrogio, particolarmente eloquenti in rapporto alle trasformazioni, cui si è fatto cenno: la lotta tra Sacerdotium e Regnum, il rapporto tra Chiesa ambrosiana e Chiesa di Roma nell’età della Pataria, i riflessi milanesi delle contese intorno ai vertici della Cristianità, in particolare la frattura apertasi con la già ricordata doppia elezione di Innocenzo II e Anacleto II. Con grande intelligenza critica e finezza di analisi il Delivré ha attraversato un’imponente quantità di dati, cercando nelle fonti stesse un indicatore efficace per orientare l’indagine: tale indicatore è stato individuato nel canone, falsamente posto sotto il nome di Ambrogio e già menzionato, con cui i riformatori tesero a configurare quale eresia il dissenso nei confronti della Chiesa romana: «Haereticum esse constat, qui a Romana ecclesia discordat». Elaborato probabilmente nella cerchia di Bernoldo di Costanza, lo si incontra (come si è più sopra ricordato) nel Liber canonum di Bernardo di Hildesheim, e successivamente in Anselmo di Lucca e in altre Collezioni d’ambito riformato, godendo grande fortuna anche nelle concrete utilizzazioni all’interno dei dibattiti del tempo. La fecondità della felice opzione di ricerca, messa in atto da Fabrice Delivré, è ben mostrata dall’analisi dell’evocazione, nel Liber ad amicum di Bonizone di Sutri, della legazione compiuta a Milano nel 1057 da Anselmo I di Lucca e Ildebrando (futuri Alessandro II e Gregorio VII). È infatti significativo che, identificandosi nello scopo perseguito dai legati (ossia, la subordinazione della Chiesa milanese all’autorità romana), Bonizone abbia focalizzato la necessità che venisse confutato il principio «Ambrosiana ecclesia in suo statu permaneat», ma abbia anche dovuto prendere atto della impossibilità, al riguardo, di un efficace ricorso alla ricordata sentenza pseudo-ambrosiana, stante la radicale confutazione della sua autenticità ad opera degli interlocutori milanesi. Il fatto che, dopo aver partecipato all’ambasciata cittadina del 1077 presso Gregorio VII, il cronista Arnolfo sia venuto attenuando le proprie posizioni antiriformiste, e che in tale sua seconda fase abbia fatto propria la sentenza in questione (V, 7) costituisce un’ulteriore conferma del valore emblematico che tale sentenza di fatto assunse in quel contesto. Con estrema chiarezza il Delivré ha altresì mostrato come lo scontro di quegli anni tra la Chiesa milanese e il papato riformatore (scontro caratterizzato da due appelli ad Ambrogio ecclesiologicamente antitetici), risolvendosi, abbia trovato espressione oltremodo eloquente del proprio superamento per l’appunto in una memoria di Ambrogio riconciliata e dalle due parti condivisa. Concreta dimostrazione di tale esito e i relativi frutti si sono potuti verificare, unitamente alle inevitabili incongruenze, nel ricordato episodio di Martino Corbo. Come si è già preannunciato, l’ultima parte del contributo del Delivré è dedicata alla presenza a Milano di Bernardo di Chiaravalle, e alla sua efficace opera di pacificazione nel segno della indiscussa fedeltà cisterciense alla Sede Apostolica. In tale circostanza l’abate fu salutato a Milano quale «Ambrosius redivivus»: possiamo trovare anche in questo la tangibile attestazione della nuova prospettiva ecclesiologica, che la mémoire d’Ambroise era venuta ormai assumendo. L’esito compiuto di tale processo può vedersi nel De magnalibus Mediolani di Bonvesin de la Riva, che nel 1288 venne dichiarando essere sempre stata la Chiesa milanese il sicuro baluardo del primato romano e configurò Ambrogio semplicemente quale artefice dell’officium Ambroxianum: un depotenziamento ecclesiologico dell’ambrosianità, ridotta a fatto rituale, che già attorno al 1140 il ms. Ambr. I 152 Inf. faceva apertamente trasparire9. Miriam Rita Tessera, al termine del suo contributo, s’era posta il quesito di cosa il misterioso Landolfo Seniore avrebbe potuto dire se fosse stato testimone della ricomposizione unitaria della comunità milanese realizzata da Bernardo, che per questo dagli Ambrosiani veniva acclamato quale «Ambrogio uscito dalla tomba». Personalmente ritengo che non avrebbe avuto esitazioni a far proprie le parole del «primo» Arnolfo: «O insensati Mediolanenses, quis vos fascinavit? Heri clamastis unius selle primatum, hodie confunditis totius ecclesiae statum, vere culices liquantes et camelum glutientes… Certe, certe non absque re scripta sunt hec in Romanis annalibus. Dicetur enim in posterum subiectum Romae Mediolanum».
29Sistematicamente cancellata ogni implicazione ecclesiologica che potesse conferire alla memoria di Ambrogio significati istituzionali in riferimento alla comunione delle Chiese nella loro articolata unità e identificata nella sottomissione all’autorità romana la caratteristica propria dell’ecclesiologia ambrosiana, il supporto ideologico della preminente autorità dell’arcivescovo risultò radicalmente depotenziato e vennero minate le fondamenta stesse della città arcivescovile. Fu in tale contesto che si avviò l’elaborazione dell’ideologia comunale. A quel punto si ebbero le condizioni perché la memoria di Ambrogio, precedentemente riferimento fondativo della dignità gerarchica della Chiesa ambrosiana e del suo presule, potesse essere assunta dalla comunità cittadina quale condiviso emblema della propria unità e vivida espressione della propria specificità. Evidentemente ne scaturiva un’immagine di Ambrogio che ormai totalmente prescindeva dai suoi reali lineamenti storici: era marcatamente la comunità a plasmare l’oggetto del proprio ricordo. È questo il fenomeno che Paolo Grillo è venuto documentando attraverso l’analisi delle decorazioni scultoree poste nel 1171 a ornamento della Porta Romana, edificata nel quadro delle nuove fortificazioni. Tra le immagini fissate nella pietra stava la raffigurazione di Ambrogio impegnato a cacciare dalla città gli ariani, che un’iscrizione aggiunta successivamente identificava quali Ebrei. L’immagine presenta un significato non immediatamente perspicuo ed è stata variamente interpretata, come Grillo accuratamente documenta. Era, ad ogni modo, una Porta della Milano comunale e della realtà comunale esprimeva l’ideologia. Al riguardo Paolo Grillo ha mostrato come l’eredità romana di Milano non abbia particolarmente influito sulla costruzione di tale ideologia, ma ha pure segnalato che — dopo la distruzione della città nel 1162 ad opera di Federico I e l’instaurarsi della salda alleanza con papa Alessandro III — il ricordo di Roma sembrerebbe aver trovato nuova vitalità. I consoli del 1171 sono detti consules reipublicae (in luogo di consules communis o civitatis) e infine sulla Porta Romana fu posta un’iscrizione che celebrava Milano quale Roma secunda. In un siffatto contesto l’immagine di Ambrogio, che su quella stessa Porta era effigiata, diveniva metafora della città e stava a indicare come tale seconda Roma, a differenza dell’antica Roma non fosse governata dall’imperatore, ma vivesse guidata da una propria e autonoma volontà politica. Sicché la memoria di Ambrogio, un tempo segno e fondamento della singolare dignità dell’Ambrosiana ecclesia, diveniva segno e fondamento della dignità istituzionale della civitas Ambrosiana.
30In merito a tale processo — non di secolarizzazione della memoria religiosa, ma di assunzione e di adattamento della memoria religiosa (con le sue connotazioni ideali e affettive) da parte del politico — un momento privilegiato, e oltremodo interessante, è rappresentato nella storia di Milano dalla breve stagione istituzionale della «Repubblica Ambrosiana». Si trattò di una ripresa — fortemente argomentata sul piano ideologico — del regime comunale, le cui strutture, d’altra parte, non erano mai venute meno, ma erano state precedentemente neutralizzate dai consigli, signorili prima e ducali poi. Patrick Boucheron dedica a questa singolare esperienza politica milanese pagine penetranti e di significativo rilievo anche sul piano metodologico. Seppure con modalità estremamente controllate, nel suo contributo è possibile cogliere, soggiacente alla magistrale analisi delle fonti, un quadro di categorie interpretative, che superano la dimensione strettamente storica, per attingere alle tipologie del politico. Mi pare che l’accenno, molto discreto, al Termidoro non risulti affatto incongruo e possa contribuire a una più adeguata lettura delle dinamiche storiche considerate. A Milano si ebbe in effetti un rivolgimento politico (immediatamente sviluppatosi alla morte del duca Filippo Maria Visconti, avvenuta nella notte del 13 Agosto 1447), la cui finalità era il sovvertimento degli ordinamenti del regime fino a quel momento in vigore; tuttavia gli artefici di tale rivolgimento furono personaggi di vertice di quel passato regime, il cui personale politico continuò nell’immediato ad occupare ruoli eminenti. La precoce crisi, sviluppatasi in seguito alla defezione del capo dell’esercito Francesco Sforza nell’Ottobre 1448, comportò sconvolgimenti interni e l’avvio di contrasti diffusi e di politiche vessatorie che, unitamente ai rovesci militari nella guerra contro Venezia, spinsero il popolo a chiedere a Francesco Sforza di prendere possesso della città, assumendovi il potere; come in effetti avvenne nel Febbraio 1450. Quello che si definiva lo «Stato Ambrosiano» costituì, dunque, un episodio limitato nel tempo (30 mesi circa) ma, in rapporto al tema cui è dedicato questo insieme di studi, esso appare un episodio estremamente rilevante. Si configura in effetti come la forma più estrema, direi l’approdo ultimo, del richiamo ad Ambrogio in declinazione civica. Il Boucheron ha esemplarmente delineato l’esorbitante presenza, anche quanto al lessico, di tale riferimento, assunto quale elemento caratterizzante la vita istituzionale della città e garanzia per la sua unità sociale. Nelle fonti l’ordinamento politico allora instauratosi viene indicato come lo «Stato nostro Ambrosiano»; criterio ispiratore di quest’ultimo è la «Ambrosiana libertate»; il fisco fa capo alla «Camera Ambrosiana»; il territorio (che continua ad essere chiamato «ducato») è definito «Terra Ambrosiana». Riflesso di tale situazione si trova nei molteplici rituali cittadini, di natura religiosa ma promossi dall’autorità civica: processioni e feste compongono un Calendario urbano, già delineato negli Statuti precedenti, ma i cui adempimenti sono ora imposti con particolare rigore. Sotto il profilo ideologico l’aspetto allora additato quale criterio ispiratore del nuovo regime politico è con ogni evidenza la «libertà». Si vuole ripristinare la «Communitas libertatis Mediolani», il suo ordinamento viene definito «Stato di libertà», ai suoi vertici stanno i «Capitanei et defensores libertatis». Alla luce di tale dato, il Boucheron nelle sue conclusioni afferma che la memoria di Ambrogio elaborata in tale contesto non è un’altra memoria di Ambrogio, ma esprime «une vérité profonde de cette mémoire, celle qui fait d’Ambroise l’adversaire résolu des plus puissants». Mi pare opportuno sottolineare al riguardo il numerale «une» da Boucheron inserito nel suo enunciato. Poco prima lo studioso aveva affermato: «il n’y a pas d’identité, il n’y a que des intentions d’identité; l’appartenance n’existe pas, seules se manifestent des volontés d’appartenir à quelque chose ou à quelqu’un; ici: à cette croyance politique qui prend le nom d’Ambroise». In verità il discorso retorico politico, che nella Milano dello «Stato Ambrosiano» espresse quella «verità profonda», poté avere una sua funzionalità in quanto già era data nella società cittadina un’identificazione, non individuale e volontaristica, ma collettiva e diffusa, di natura religiosa. È facendo leva su tale patrimonio socialmente condiviso, che poté svilupparsi la sua trasposizione civica, traducendosi in forme, modalità, rituali collettivi, mutuati dall’originario ambito ecclesiastico. E non a caso, se dopo la breve parentesi politico-istituzionale qui considerata la connessa costruzione ideologica venne rapidamente meno, non venne meno nella comunità milanese la memoria di Ambrogio percepita secondo la tradizionale connotazione religiosa (memoria portatrice di sue «altre» verità), come avrebbero ben mostrato le vicende legate alla nuova stagione che stava per aprirsi in Europa.
31A tale stagione, che si suole definire l’«età moderna» è dedicata l’ultima sezione della presente raccolta di studi.
32Il conflitto drammatico determinato nella Cristianità dalla riforma ecclesiastica romana del secolo XI aveva prodotto nella memoria di Ambrogio — come abbiamo visto — la cancellazione di qualsiasi implicazione ecclesiologica inerente la collocazione della Chiesa milanese e del suo arcivescovo nella comunione delle Chiese. Sulla scia di quel radicale ridimensionamento dei significati istituzionali ecclesiastici, legatisi dall’età alto medioevale al richiamo ad Ambrogio, furono date — come già s’è detto — le condizioni perché la memoria del santo patrono venisse acquisita in forma sempre più marcata dalle istituzioni civiche. Dopo la sconfitta di Ludovico il Moro nel 1499 e il suo avvio nel 1500 verso la prigionia francese, si aprì per Milano una fase travagliata in cui il ducato, oltre alle rivendicazioni e al fattivo dominio dei re di Francia (Luigi XII e Francesco I), tra il 1512 e il 1515 conobbe l’egemonia svizzera sotto l’autorità nominale di Massimiliano Sforza e, nel 1521, l’insediamento dell’ultimo degli Sforza, Francesco II, alla cui morte in assenza di eredi — nel 1535 — il trono ducale tornò nella disponibilità dell’imperatore, Carlo V. Questi lo assegnò al figlio Filippo, di cui seguì il destino ispanico. Erano peraltro quelli gli anni nei quali in Europa avevano preso a divampare i dibattiti suscitati dalle variegate correnti della Reformation, con la conseguente disgregazione dell’unità religiosa dell’Occidente latino. In un quadro siffatto non vi era, evidentemente, spazio per l’enfatizzazione di una memoria civica di Ambrogio ispirata alle antiche idealità comunali; al contrario, di scottante attualità si presentava l’immagine ecclesiale di Ambrogio, nella sua qualità di Padre della Chiesa e vescovo. In effetti, queste caratteristiche rendevano la sua figura preziosa per l’apologetica cattolica, impegnata nella difesa dell’ortodossia e nell’applicazione della riforma tridentina; ma pure in ambito non cattolico attirava attenzione il suo essere testimone della Chiesa antica, come ben mostrano le edizioni delle sue opere (ad esempio quella originariamente curata da Erasmo e ristampata nel 1555 da Hieronymus Froben nella riformata Basilea).
33E proprio alla ripresa del modello ambrosiano da parte di un umanista italiano, d’orientamento riformato, è dedicato lo scritto con cui la sezione si apre. Si tratta del contributo, oltremodo raffinato, di Isabelle Fabre e Marie Formarier, in cui le studiose sono venute considerando i Carmina de rebus divinis di Marcantonio Flaminio, sottoponendo a finissima analisi due inni: la Precatio vespertina e il Carmen VIII, in cui l’autore Predicat beneficia a Christo in se et ceteros mortales collata. Il Flaminio è espressione altamente qualificata di quella corrente religiosa, presente nell’intellettualità italiana del primo Cinquecento che, meno preoccupata degli aspetti istituzionali della vita ecclesiastica (centrali nell’opera dei riformatori d’Oltralpe), era venuta concentrando la propria attenzione primariamente sull’affinamento interiore, elaborando una spiritualità, in cui l’impegno intellettuale tendeva a trasfigurarsi nell’ispirazione evangelica. Frequentatore a Napoli del circolo di Juan de Valdés, accostò a Roma l’Oratorio del Divino Amore entrando in contatto con la nascente comunità Teatina; legato a Gian Matteo Giberti, fu soprattutto intimo del card. Reginald Pole, col quale fu all’inaugurazione del concilio di Trento e nella cui residenza romana avrebbe chiuso la sua esistenza il 17 Febbraio 1550. La sua condivisione delle tesi riformate, in merito alla giustificazione e alla predestinazione, ne configura chiaramente l’orientamento dottrinale, confermato dalla sua partecipazione alla stesura, oltre che alla revisione, del Beneficio di Cristo. I Carmina de rebus divinis costituiscono i suoi postrema monumenta, pubblicati postumi a Parigi dallo Stephanus (Robert Estienne) nello stesso 1550, prima della fuga di questi nella Ginevra di Calvino. Anche in quest’opera emerge con assoluta evidenza l’intimità profonda del Flaminio con i modelli antichi, assiduamente frequentati, e la calda ispirazione personale presente in lui, alimentata attingendo ai temi più profondi della spiritualità riformata. Tale aspetto è mostrato dalle autrici del contributo in modo assolutamente ammirevole nell’esemplare analisi, da esse condotta, dei due inni indicati. La struttura metrica, il lessico, le immagini poetiche, le enunciazioni dottrinali, presentate con grande puntualità e sostenute da un corredo tecnico ragguardevole, rendono evidente l’autorevole presenza nel Flaminio del modello ambrosiano e, d’altra parte, segnalano anche la profonda trasformazione cui esso è stato sottoposto. La Precatio vespertina ha chiaramente di fronte a sé il Deus creator omnium, ma quest’ultimo è il canto di lode che un popolo innalza al suo Dio al termine della giornata, quello del Flaminio è un commosso dialogo personale con il «supremus coelitum Pater», avendo contemplato la «maximi benignitas Numinis». Ancor più marcata tale ricreazione del modello ambrosiano (che modello resta) risulta nel Carmen VIII in cui i temi cristologici dell’Incarnazione e della Passione sono contemplati alla luce dell’intima esperienza della giustificazione conferita ex mera gratia e proclamati quale confessione del beneficio di Cristo. Merita al riguardo riascoltare la voce stessa delle due autrici: «L’hymne ambrosienne, dont le succès fut immédiat dans le contexte polémique de la fin du ive siècle, devient ici la matrice d’un nouveau lyrisme, alliant élégance de l’écriture et simplicitas évangélique, rigueur formelle et profondeur». Al termine di questo contributo si comprendono pertanto pienamente le parole con cui esso si era aperto: «Il est peu de poètes dont l’œuvre, autant que celle de Flaminio, puise si intimement aux sources patristiques; il en est peu aussi qui ait su les renouveler avec autant d’originalité».
34«Un lyrisme ambrosien hétérodoxe», dunque, che ci pone in contatto con un’altra «mémoire italienne d’Ambroise», altra anche confessionalmente, nella quale trova ulteriore conferma la straordinaria capacità della «memoria di Ambrogio» (forse a differenza di Ambrogio) di travalicare le divisioni tra le Chiese10.
35Il contributo di Marie Lezowski ci presenta il personaggio, che tanto ha promosso la memoria di Ambrogio e per il quale Ambrogio è stato modello a tal punto assunto e seguito, da trasformare agli occhi dei contemporanei questo discepolo in «alter Ambrosius»: il riferimento è ovviamente a Carlo Borromeo. La Lezowski, mettendo a frutto un’amplissima documentazione, ha mostrato i molteplici ambiti rispetto ai quali il modello è stato fatto proprio e le diverse modalità attraverso cui la memoria è stata sempre più intensamente riproposta. Proprio guardando alla vita di Ambrogio, Carlo venne illustrando agli ecclesiastici le regole fissate da Cristo per i pastori della sua Chiesa: non tenere in alcun conto la propria vita quando sia in gioco il bene del gregge, e conoscere le proprie pecore, essendo da loro conosciuti, per poterle radunare. È il modello per il clero, ma con ogni evidenza è il modello a cui l’arcivescovo ha anzitutto cercato di conformare totalmente la propria azione. Merita osservare come la Lezowski nell’accostare tale aspetto del magistero borromaico abbia segnalato anche il recente dibattito storiografico connesso, nella comunicazione e nella dinamica sociale, all’uso dell’esempio, cui il Borromeo ampiamente ricorse. Come si diceva, Carlo, oltre al modello di Ambrogio, volle che la di lui memoria fosse sempre più presente nella realtà ecclesiale cui egli presiedeva: a livello di provincia ecclesiastica, dove il concilio del 1576 rese per tutte le diocesi festa di precetto il 7 Dicembre (Ordinazione di sant’Ambrogio); nella arcidiocesi di Milano dove dal 1576 volle adottata quale sigillo arcivescovile l’immagine di Ambrogio con i due martiri, Gervaso e Protaso, e dove intensificò nelle officiature la commemorazione del patrono; e infine nella stessa città di Milano, nel cui contesto conferì nuova attenzione devozionale alle chiese che ne custodivano le memorie sacre, a partire dalle basiliche di fondazione ambrosiana, come ben mostra il Libro d’alcune chiese di Milano, opera di Giovanni Francesco Bascapè apparso nel Febbraio 1576. Giustamente Marie Lezowski segnala come il patrimonio rituale ambrosiano abbia costituito agli occhi di Carlo uno strumento privilegiato per la riaffermazione della memoria di Ambrogio e del discepolato di tutta la Chiesa milanese nei suoi confronti. Di fronte alla pubblicazione a Roma dei nuovi libri liturgici postridentini e alle voci romane orientate alla cancellazione del Rito ambrosiano, nella sinodo diocesana del 1568 Carlo solennemente proclamò che il Rito ambrosiano, quale eredità diretta di Ambrogio, era il Rito ufficiale della Chiesa milanese, caratterizzato anche da un proprio Calendario. Al riguardo la Lezowski parla di nuovo Eugenio (il vescovo franco che si oppose vittoriosamente alla romanizzazione rituale della Chiesa di Milano, voluta da re Carlo).
36Mi appare degno di nota il fatto che l’esemplarità del modello, nella concezione del Borromeo, non avesse nulla di astrattamente ideologico: la Lezowski segnala come Carlo non abbia né lasciato, né elaborato alcun piano di riforma generale. Il modello era per lui Ambrogio nella concretezza della sua personale vicenda di pastore. In questo senso il programma episcopale del Borromeo era quello fissato sugli stalli del Capitolo Maggiore in Duomo, ornati con gli episodi della vita del grande predecessore. In merito a tale esemplarità della persona di Ambrogio non può peraltro essere sottaciuto un aspetto ai miei occhi molto significativo: nonostante non siano mancati i conflitti giurisdizionali, in Carlo il riferimento ad Ambrogio quale vescovo risoluto di fronte ai prìncipi è assolutamente trascurabile rispetto alla sua caratterizzazione quale pastore dedito alla ricerca delle sue pecore; segnatamente all’interno dei ricordati conflitti, mai egli evocò la figura di Ambrogio di fronte agli imperatori. Nelle situazioni di tensioni egli piuttosto volle imitare Ambrogio, portandosi sulle tombe dei martiri a chiedere la loro intercessione, o recandosi a celebrare la Messa a Sant’Ambrogio. Ben più drastico fu su tale aspetto l’atteggiamento del cugino Federico, che negli anni 1596-1601 non dubitò di fare esplicito riferimento ad Ambrogio, additandolo quale modello di comportamento nel contesto politico. Anche alla luce di tali considerazioni, si conferma pienamente la validità dell’osservazione di Marie Lezowski che, ben più della ripresa di singoli dettagli biografici relativi al grande patrono, a Carlo Borromeo ciò che realmente premeva era «la puissance d’action contenue dans l’exemple ambrosien».
37Dopo aver considerato la trasfigurazione spirituale del modello innografico ambrosiano realizzata da Marcantonio Flaminio nel clima del primo riformismo italiano, e dopo aver ripercorso l’organica riproposizione borromaica dell’immagine episcopale di Ambrogio, a questo punto quale testimonianza di ulteriore declinazione della «mémoire d’Ambroise» siamo posti in contatto con l’immagine che di lui ha delineato, alla luce dei testi rituali della Chiesa di Milano, un erudito settecentesco operante nell’ambito della Biblioteca Ambrosiana, Giovanni Andrea Irico. A quanti hanno partecipato alla presente ricerca, quest’ultima testimonianza, fissata in manoscritti conservati all’Ambrosiana, è stata concretamente presentata nella Sala delle Accademie di quella stessa biblioteca da Marco Navoni, che nell’Ambrosiana è Direttore della Classe di Studi Ambrosiani dell’Accademia, e che della custodia del patrimonio cultuale della Chiesa di Milano porta direttamente la responsabilità quale pro-presidente della Congregazione del Rito Ambrosiano. Merita qui osservare come ogni memoria costantemente riproposta nel culto e l’immagine del santo fissata nei testi delle relative celebrazioni siano per loro natura destinate a conservarsi nella lunga durata, sicché il vario materiale (eucologico, scritturistico, musicale, letterario-agiografico), che la Chiesa di Milano ha fissato per celebrare il ricordo di Ambrogio–già ne reca traccia, con riferimento alla Depositio, l’Antifonario degli inizi dell’VIII secolo ora presente nel codice palinsesto di San Gallo (908) — deve considerarsi materiale nient’affatto secondario, costituendo uno strumento rilevante nel processo di stabilizzazione e trasmissione locale del ricordo dell’antico vescovo. Peraltro, l’Irico, che attingendo a tale materiale si fece voce della Chiesa ambrosiana, e la cui personalità Marco Navoni ha presentato con un accuratissimo apparato bibliografico, non era un ambrosiano. Ne deriva l’assunto che, quantunque — in rapporto alla memoria di Ambrogio — fondamentale sia la continuità storica della realtà ecclesiale ambrosiana, che si perpetua attraverso il passaggio generazionale, è altrettanto vero che «ambrosiani si diventa», o — per usare le parole di Patrick Boucheron — che sempre può essere data una «intention d’identité», ossia «la volonté d’appartenir à quelque chose ou à quelqu’un; ici:… le nom d’Ambroise». In questa constatazione sta il riconoscimento del valore costitutivamente universale (e perciò universalizzabile) insito nella tradizione della Chiesa di Milano (e analogamente in ogni autentica tradizione ecclesiale), come Stéphane Gioanni ci ha ricordato attraverso le parole di Ennodio (Ambrosius… instituit populos), e come nel XII secolo i due canonici ratisbonensi Paolo e Gebeardo avevano ben compreso (Affricanis praesulibus non sufficeret Romanum consulere pontificem, nisi pariter consulerent et Mediolanensem) [chi allora non comprese tale valore — e merita notarlo — fu il vicarius Ambrosii del tempo (perché di essere ambrosiani ci si può pure dimenticare…)].
38È pertanto perfettamente coerente che sia stata l’École Française de Rome a promuovere la ricerca, da cui è scaturita questa rilevante pubblicazione, che sul piano scientifico offre acquisizioni importanti, e che — oltre a ciò — può essere accostata dalla Chiesa ambrosiana quale prezioso strumento di autorivelazione. I risultati delle indagini, di cui qui si è dato conto, documentano infatti limpidamente il patrimonio di esperienze e di idealità sedimentatosi a Milano lungo i secoli e testimoniano quella memoria di Ambrogio che, pur con aspetti vari e cangianti, è nella Chiesa ambrosiana costantemente presente e dalla quale scaturisce — secondo le parole dell’arcivescovo Giovanni Colombo — la sua permanente vitalità.
39Grazie, dunque, all’École e ai suoi responsabili scientifici e amministrativi, grazie a chi ha proposto questa ricerca, i professori Gioanni e Boucheron, e i migliori voti per il proseguimento del grandioso progetto su la mémoire des Pères da loro concepito.
Notes de bas de page
1 Mi è gradito cogliere l’occasione per rinnovare la mia riconoscenza verso le strutture accademiche che hanno fattivamente accolto l’invito alla collaborazione loro rivolto: primo fra tutti il Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea diretto da Robertino Ghiringhelli, ma altresì l’Istituto di Archeologia presieduto dalla compianta Maria Pia Rossignani, il Dipartimento di Studi Medioevali, Umanistici e Rinascimentali guidato allora da Giancarlo Andenna, e il Dipartimento di Storia dell’Economia, della Società e delle Scienze del Territorio «Mario Romani» diretto da Maria Bocci.
2 Paulinus, Vita Ambrosii, XLVIII, 1, ed. A. A. R. Bastiaensen, Roma/Milano, 1975 (Fondazione Lorenzo Valla. Scrittori Greci e Latini. Vite dei santi, III), p. 114.
3 G. Colombo, Rivista Diocesana Milanese, 71, 1980, p. 87.
4 Cf. R. Salvarani, Il Santo Sepolcro a Gerusalemme. Riti, testi e racconti tra Costantino e l’età delle crociate, Città del Vaticano, 2012 (Monumenta, Studia, Instrumenta Liturgica).
5 Un singolare, ma significativo, accostamento tra le due tradizioni iconografiche, quella milanese legata all’archetipo di S. Vittore in Ciel d’Oro, e quella orientale, si è realizzato nel 1997, in occasione del XVI Centenario della morte di Ambrogio. Recandosi in quell’anno pellegrino a Milano il patriarca ecumenico Bartolomeo, e incontrandovi il successore di Ambrogio, card. Carlo M. Martini, fu creata per celebrare l’evento una duplice icona raffigurante Ambrogio, secondo il citato modello milanese, e Basilio con i caratteri tradizionali fissati dalla tradizione iconografica dell’Oriente: una riproduzione può essere vista nel volume: Un ponte tra Oriente e Occidente. La visita di Bartolomeo I a Milano. Il Convegno «Ambrogio tra Oriente e Occidente», Milano, 1998, p. 65.
6 C. Alzati: Residenza imperiale e preminenza ecclesiastica in Occidente. La prassi tardo antica e i suoi echi alto medioevali, in Diritto e religione. Da Roma a Costantinopoli a Mosca. Rendiconti dell’XI Seminario «Da Roma alla Terza Roma». Campidoglio, 21 Aprile 1991, a cura di M. P. Baccari, Roma, 1994 (Da Roma alla Terza Roma. Rendiconti), p. 95-106; L’attività conciliare in ambito ecclesiastico milanese nel contesto dell’Italia Annonaria tra tarda antichità e alto medioevo, in Albenga città episcopale. Tempi e dinamiche della cristianizzazione tra Liguria di Ponente e Provenza. Convegno internazionale. Albenga, Palazzo Vescovile, Sala degli Stemmi e Sala degli Arazzi, 21-23 settembre 2006, a cura di M. Mercenaro, Genova/Albenga, 2007 (Istituto Internazionale di Studi Liguri. Atti dei Convegni, XIII), p. 231-266.
7 C. Leonardi, Medioevo latino. La cultura dell’Europa cristiana, Firenze, 2004 (Millennio Medievale, XL: Strumenti e Studi, n. s., II), p. 405.
8 Cf. P. Carmassi, Libri liturgici e istituzioni ecclesiastiche a Milano in età medioevale. Studio sulla formazione del lezionario ambrosiano, Münster, 2001 (Liturgiewissenschaftliche Quellen und Forschungen, 85: Corpus ambrosiano-liturgicum, IV), p. 157-160.
9 Cf. C. Alzati, La scientia Ambrosiana di fronte alla Chiesa greca nella Cristianità latina del secolo XI, in Cristianità d’Occidente e Cristianità d’Oriente (secoli VI-XI), II, Spoleto, 2004 (LI Settimana di Studio della Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo: 24-30 aprile 2003), p. 1184 ss.
10 Cf., oltre a quanto osservato alla nota 5, il recente volume Sant’Ambrogio e i santi Cirillo e Metodio. Le radici greco-latine della civiltà scrittoria slava. Atti della giornata di studio (26 maggio 2009), Milano/Roma, 2010 (Slavica Ambrosiana, I).
Auteur
Laureatosi sotto la guida di Luigi Prosdocimi presso l’Università Cattolica di Milano, nel biennio 1971/73 ha prestato servizio quale volontario nell’Università dell’Asmara (allora parte dell’Impero Etiopico). Rientrato in Italia, con l’a.a. 1979/80 ha iniziato il proprio servizio all’Università di Pisa, divenendovi professore associato e, successivamente, ordinario di Storia del Cristianesimo e delle Chiese. Dall’a.a. 2005/06 al termine del servizio ha operato a Milano nel quadro dell’Università Cattolica. Studioso della tradizione ambrosiana, ha sviluppato ampi interessi in merito alle relazioni tra Occidente e Oriente cristiani. Per i suoi contributi alla storia religiosa dello spazio carpato-danubiano è stato nominato Dr. h. c. dell’Università di Cluj e membro d’onore della Accademia Romena di Bucarest.
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