Immaginare il male in Roberto Saviano
p. 59-73
Résumé
Nonostante le perplessità e gli interrogativi che la scrittura di Roberto Saviano ha suscitato con Gomorra, inserendosi in un territorio ibrido tra saggio e narrazione, tra inchiesta e testimonianza, nessuno può mettere in dubbio l’elemento documentario dell’opera, e l’obiettivo principale che essa si pone: la denuncia di quella realtà misconosciuta o insufficientemente conosciuta che è la camorra. Questo obiettivo è anche quello che, fin dalle prime pagine, orienta il lettore, secondo la logica di quello che potremmo chiamare, riprendendo la nota formula di Philippe Lejeune, un patto referenziale. Tale patto non nasce qui in funzione di un discorso autobiografico, ma nemmeno è conseguenza di un presupposto puramente cronachistico: la corrispondenza tra parola scritta e fatto realmente accaduto governa l’intera struttura del libro di Saviano, ma non può neppure essere concepita in modo troppo lineare ed ingenuo. Se davvero si può parlare di un patto referenziale tra l’autore e il lettore di Gomorra, esso avviene all’insegna di una scrittura di testimonianza, che vuole nello stesso tempo salvaguardare il valore dell’esperienza direttamente vissuta e la capacità di tale esperienza di divenire occasione di conoscenza non frammentaria e amputata del reale. In un passo del terzo capitolo del libro, intitolato “Il Sistema”, Saviano scrive: “C’ero finito non per caso, ma con la presunzione che sentendo l’alito del reale, quello caldo, quello più vero possibile, si possa arrivare a comprendere il fondo delle cose. Non sono certo sia fondamentale osservare ed esserci per conoscere le cose, ma è fondamentale che le cose ti conoscano.” Posto che questa fede in un contatto diretto con la realtà, di cui la parola scritta si fa testimone, sta alla base di Gomorra, ha senso chiedersi anche quale sia il ruolo che l’immaginazione svolge nella scrittura di Saviano.
Il nostro obiettivo sarà quello di mostrare come l’immaginazione concorra a costruire quella visione totalizzante della camorra che l’autore insegue attraverso le trecento pagine del libro. L’immaginazione non costituisce un elemento antinomico e contraddittorio rispetto al progetto di testimonianza, anzi lo rafforza. Il problema per noi non consisterà certo nel concepire Gomorra come un docu-fiction di cui sia importante separare l’elemento documentario e referenziale da quello immaginativo e finzionale. Qui non si tratta di depurare il dato oggettivo dalla sua scoria soggettiva, il fatto dalla fantasia, bensì di mostrare come il documento, l’analisi razionale di esso, si avvalga e necessiti dell’apporto dell’immaginazione. Inoltre, l’immaginazione narrativa incontra, in Gomorra, quello che per certi aspetti è il problema canonico del sublime, ossia come poter rappresentare qualcosa che per la sua natura illimitata sfugge ad ogni riduzione alla forma, al gioco ordinato delle rappresentazioni. Il “Sistema” richiede infatti di essere raffigurato come una realtà economica globale, che sfugge a tutta una serie di determinazioni semplici. Per Saviano si tratta, quindi, di rendere tangibile nella testimonianza scritta non solo una realtà invisibile, in quanto volontariamente occultata e resa segreta, ma anche in quanto difficilmente rappresentabile secondo certi stereotipi prevalenti, che appartengono all’immagine che l’opinione pubblica si fa di certi fenomeni criminali.
Texte intégral
1Come ogni libro davvero importante, in grado quindi di modificare nello stesso tempo la nostra concezione della letteratura e il nostro sguardo sulla realtà, la ricezione di Gomorra di Roberto Saviano ha immediatamente messo in luce l’unilateralità delle categorie di lettura utilizzate per comprenderlo e valutarlo. Avendo superato, nell’arco di tre anni, la cifra di due milioni di copie vendute, Gomorra1 si è classificato tra i maggiori successi editoriali dell’Italia del dopoguerra, assieme a libri quali Il Gattopardo (1958) e Se questo è un uomo (1963) che hanno toccato o oltrepassato la stessa soglia di vendite. L’immensa popolarità, però, non ha prodotto finora un altrettanto consistente lavoro critico sull’opera. Ciò è dovuto, ovviamente, all’inevitabile fattore temporale: lo sguardo critico ha bisogno di stratificarsi nel tempo, di trovare una giusta distanza dall’oggetto di studio. Ma a ciò va aggiunto anche il peso che il malinteso può svolgere nella ricezione di un’opera. E quella di Saviano si presta facilmente a letture fuorvianti, in quanto unilaterali.
2Gomorra innanzitutto ha posto ai suoi lettori un problema di genere. Ha suscitato, insomma, perplessità per quello che è stato percepito un carattere ibrido, anfibio, riconducibile alla sfera del documento e dei suoi generi (cronaca, inchiesta, saggio), da un lato, e alla sfera della finzione (romanzo giallo, noir, non-fiction novel), dall’altro. La mia tesi è che il libro di Saviano può essere compreso più correttamente al di fuori dell’antinomia tra documento e finzione, facendo riferimento invece alla letteratura di testimonianza, di cui incarna alcuni importanti tratti di genere. Non è mia intenzione, in questo intervento, illustrare attraverso una minuziosa analisi testuale l’appartenenza di Gomorra a quel tipo di opera letteraria, che in Italia ha illustri antesignani in autori quali Carlo Levi, Danilo Dolci e, sopratutto, Primo Levi. Richiamerò solo alcuni degli aspetti più evidenti a sostegno di questa tesi, per poi mostrare come il testo di Saviano sia più intellegibile alla luce della dialettica tra documento e immaginazione piuttosto che di quella tra documento e finzione.
3In effetti, se una lettura di Gomorra in termini esclusivamente documentari non può che risultare riduttiva, una lettura incentrata sulla categoria di finzione risulterebbe fuorviante. Fin dalle prime pagine, risulta chiaro che l’autore ha intenzione di stabilire con il lettore un “patto referenziale”, per riprendere la celebre formula di Philippe Lejeune. Un patto che qui non ha natura biografica o autobiografica, ma propriamente documentaria, tipica del giornalismo d’inchiesta. Cifre e percentuali vengono esibite subito, ad illustrazione di un regime discorsivo che rinvia ad una realtà extratestuale ed utilizza criteri in grado di stabilire uno sguardo oggettivo su di essa. Ecco alcuni passi, tratti dalle pagine iniziali del primo capitolo: “Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell’import tessile dalla Cina, ma oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa qui” (p. 12); “Nel porto di Napoli, nei suoi 1.336.000 metri quadri per 11,5 chilometri” (p. 13); “A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina, 1.600.000 tonnellate” (p. 15). Che questa insistenza su dati precisi non sia opera di un pedante e attardato narratore di tipo manzoniano, viene a confermarlo la citazione diretta delle fonti istituzionali, che palesa la disponibilità dell’autore a sottoporre il proprio discorso ad una possibile verifica: “Nel solo porto di Napoli, secondo l’Agenzia delle Dogane, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana” (p. 15); “Nell’aprile 2005, in quattro operazioni, scattate quasi per caso, a poca distanza le une dalle altre, il Servizio di Vigilanza Antifrode della Dogana aveva sequestrato ventiquattromila jeans destinati al mercato francese” (p. 16). La mole di dati offerti e la citazione delle fonti sono tutti elementi che mostrano in modo inequivocabile come il porto di Napoli e i suoi traffici non siano un semplice scenario evocato in modo altamente realistico, da utilizzare come tela di fondo di una vicenda inventata. Il porto di Napoli, i suoi traffici leciti e illeciti, le navi provenienti dalla Cina, tutto ciò costituisce in realtà la vicenda di cui l’autore ci vuole parlare, e la merce cinese è il personaggio principale di questo primo capitolo. Il tipo di discorso è dunque facilmente riconducibile a quello dell’inchiesta giornalistica, ma esso lascia emergere aperture di campo e panoramiche proprie del saggio specialistico.
4Questa lettura non fa però i conti con una componente testuale anomala, che normalmente non svolge una funzione importante nel giornalismo d’inchiesta e tanto meno nel saggio. Mi riferisco alla figura dell’io narrante, di colui che conduce l’inchiesta, che assembla i dati e organizza il discorso. Infatti, nonostante il porto di Napoli e le merci cinesi occupino il centro della scena nel primo capitolo, a tratti emerge l’io dello scrittore, e sopratutto alcune delle esperienze personali che gli hanno permesso di costruire un determinato punto di vista sul porto. Nelle tradizionali inchieste sul campo, che hanno caratterizzato l’epoca eroica del giornalismo novecentesco, non è raro che l’oggetto o la vicenda di cui l’autore vuole parlare implichi una sua partecipazione attiva, e quindi una visuale di tipo autobiografico o testimoniale. È questo il caso, ad esempio, di Omaggio alla Catalogna di Orwell apparso nel 1938. Libro quanto mai singolare, in quanto si propone come un’inchiesta giornalistica sulla guerra civile spagnola, essendo nello stesso tempo testimonianza diretta di un volontario, arruolatosi per il fronte repubblicano. Tali circostanze spingono l’io dell’autore in primo piano e rendono ancor più esplicito il patto referenziale realizzato con il lettore. Scrive Orwell, nelle primissime pagine: “Ero arrivato in Spagna con la vaga idea di scrivere articoli per la stampa, ma poi mi ero arruolato quasi subito nella milizia, perché in quel momento e in quell’atmosfera sembrava l’unica cosa concepibile da fare2.”
5In tempi più recenti, si può citare come esempio di libro nato da un’inchiesta sul campo quello della giornalista statunitense Barbara Ehrenreich, pubblicato nel 2001 e apparso in Italia con il titolo Una paga da fame. La Ehrenreich decide, nel 1998, di far parte per due anni della forza lavoro non qualificata, quella che dovrà ormai vivere senza più il sostegno dello stato sociale in corso di smantellamento durante il mandato di Ronald Reagan. Anche in questo caso, nelle prime pagine l’io dell’autore si manifesta, chiarendo al lettore gli intenti, i metodi e le circostanze che hanno determinato il suo lavoro. L’uso della prima persona, nel libro della Ehrenreich, nasce da un particolare tipo d’inchiesta che utilizza l’esperienza personale dell’autore per cogliere gli aspetti più concreti di quelle vite dei “lavoratori poveri” che vengono cancellati dalle analisi statistiche di tipo sociologico. Affinché si prenda piena consapevolezza del fenomeno sociale che la giornalista ha deciso di studiare, è necessario uscire dal deserto delle cifre, per addentrarsi, in maniera narrativa, nella forma di vita delle persone. Una tale attitudine implica che l’io dell’autore si faccia strumento diretto della ricerca e per questo è importante definirne, fin dall’inizio, funzioni e prerogative.
6Nulla di tutto ciò accade in Gomorra. Qui l’io dell’autore è introdotto nel primo capitolo a più riprese, ma sempre in modo discreto, e mai si esprime in modo chiaro sugli intenti del libro, sui propri metodi e funzioni. Ciò nonostante l’io c’è, e rinsalda ulteriormente con il lettore quel patto referenziale che già altri elementi del discorso (i dati, le fonti, ecc.) avevano stabilito. Fin dalla prima pagina, dalla prima scena, l’io autoriale segnala se stesso. L’immagine tremenda e memorabile dei container dai cui piovono i cadaveri dei “cinesi che non muoiono mai” nasce da un racconto che l’autore ha ascoltato in prima persona: “Quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita” (p. 11). Questa frase però non prelude a nessuna auto-presentazione, a nessun chiarimento sui modi in cui si è raccolta tale testimonianza e sugli scopi per la quale essa viene utilizzata come incipit del libro.
7L’io autoriale ritorna cinque paragrafi dopo, con una notazione generica e succinta: “Mi perdo sempre al molo” (p. 14). Nel paragrafo successivo emerge di nuovo, per dare finalmente di sé qualche indizio maggiore: “La prima volta che ho visto attraccare una nave cinese mi pareva di stare dinanzi a tutta la produzione del mondo. Gli occhi non riuscivano a contare, quantificare, il numero di container presenti. Non riuscivo a tenerne il conto. Può apparire impossibile non riuscire a procedere con i numeri, eppure il conto si perdeva, le cifre diventavano troppo elevate, si mescolavano” (p. 15). In queste poche righe sono presenti, a mio parere, alcuni tratti salienti della figura dell’io testimoniale quale s’imporrà progressivamente nel corso del libro.
8È opportuno chiarire subito perché si vuol fare riferimento alla dimensione della testimonianza, invece che a quella documentaria della semplice inchiesta. Ciò che distingue le due esperienze non è certo il grado di partecipazione alle vicende di cui si vuole narrare. Come dimostra la Ehrenreich, l’inchiesta può richiedere un tipo di immersione radicale nella realtà. Ma l’inchiesta si trasforma in testimonianza, laddove la realtà di cui si vuole fare esperienza sfugge alla sfera della vita ordinaria e presenta dei tratti abnormi. Non solo, ma ciò che distingue il reporter anche più impegnato e partecipe dal testimone sta nel fatto che quest’ultimo non ha scelto di fare esperienza della realtà di cui narra. Il testimone è per molti versi un soggetto passivo, ossia qualcuno che subisce un’esperienza, non la ricerca. Si è testimoni per fatalità, si è reporter per scelta. Inoltre, il testimone racconta di una certa realtà, solo perché essa lo tocca innanzitutto direttamente, come individuo. Sono proprio tutti questi aspetti, che in qualche modo fanno di Omaggio alla Catalogna di Orwell un libro di testimonianza più che un reportage di guerra. Per Orwell, arruolarsi nel fronte repubblicano diventa, come lui stesso afferma, “l’unica cosa concepibile da fare”. Nelle condizioni verificatesi in Spagna nel 1936, non vi erano alternative per una persona caratterizzata da un forte impegno antifascista. In una tale scelta, è in gioco l’identità morale dell’individuo, non più soltanto il suo ruolo professionale.
9La scrittura di testimonianza fa poi riferimento ad un paradigma fondamentale, rispetto al quale è opportuno definire le sue caratteristiche di genere. Tale paradigma è costituito dalla “letteratura dei campi”, ossia da quelle opere che hanno saputo parlare dell’esperienza dei Lager nazisti e dei Gulag sovietici con straordinaria forza letteraria. Primo Levi, Varlam Šalamov, Gustaw Herling, d’altra parte, sono autori che tornano spesso negli articoli di Saviano dedicati alla letteratura. C’è una memoria letteraria precisa, che fornisce una prospettiva attraverso cui organizzare e comprendere la propria materia. Tra le citazioni poste in esergo a Gomorra, una conferma in modo inequivocabile quest’ipotesi. Mi riferisco alla prima, tratta da Le origini del totalitarismo di Hanna Arendt: “Comprendere cosa significa l’atroce, non negarne l’esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà”. L’atroce di cui parla Arendt, da un punto di vista teorico, e di cui parlano gli scrittori dei “campi”, per diretta esperienza, non è riconducibile a un evento sporadico, di carattere patologico o criminale, che irrompe nel tessuto ordinario dell’esistenza umana. L’atroce si manifesta in un’istituzione, in una forma di vita organizzata, in un sistema ideologico che trova la propria realizzazione in una collettiva e razionale impresa umana di distruzione dell’uomo. È in definitiva questo che risulta intollerabile: la crudeltà estrema trasformata in realtà ordinaria. La sfida maggiore che si pone al testimone dei campi non è come spesso si è detto l’impossibilità di esprimere la propria esperienza, ma l’incredulità che essa può suscitare in colui che ne è il destinatario. Sappiamo che Primo Levi si è più volte soffermato su questo punto. Ne parla ancora una volta, nelle pagine iniziali di I sommersi e i salvati: “Curiosamente, questo stesso pensiero (“se anche raccontassimo, non saremmo creduti”) affiorava in forma di sogno notturno dalla disperazione dei prigionieri3.”
10Bisogna ora chiedersi se sia pertinente il riferimento alla letteratura sui campi per trattare dell’esistenza di un’organizzazione criminale come la camorra. Ovviamente, Saviano non pretende di costituire un paragone diretto, atto ad affermare che la vita nelle zone di camorra sia altrettanto disumana della vita nel Lager. Una tale operazione non potrebbe riscuotere credito. Saviano, semmai, segue un’intuizione antropologica, ossia lavora per comparazione. Dati due fenomeni storici non direttamente accostabili e appartenenti a contesti del tutto diversi, come l’impresa di distruzione di interi popoli sotto il nazismo e l’impresa di dominio di un determinato territorio sotto la camorra, è possibile riscontrare alcune analogie. Queste analogie non hanno certo alcun valore esplicativo, ma permettono di organizzare il discorso intorno a certi nuclei tematici, capaci di far risaltare sotto una nuova luce la realtà della camorra. Per comprendere fino a che punto questa organizzazione criminale realizzi dentro e fuori di sé forme estreme di disumanizzazione, e nonostante ciò prosperi e si sia insediata nel tessuto quotidiano della vita di migliaia di persone, è necessario passare dal registro del puro documento, dell’inchiesta o del saggio, a quello della testimonianza. Bisogna cioè costruire una visione d’insieme di tale fenomeno, ma nello stesso tempo far sì che colui che prende la parola sia un individuo interno a quel mondo o, più precisamente, ne sia uno scampato, un sopravvissuto. La figura dell’autore, per come emerge attraverso la narrazione, si delinea a partire da questo modello: è un io scampato alla camorra, che parla in nome di coloro che ne sono vittime o che, comunque, ne sono troppo schiacciati per poterne restituire un’immagine adeguata.
11Anche qui può essere utile un altro riferimento a I sommersi e i salvati. Sempre nella prefazione, Levi scrive del prigioniero comune del Lager:
Si sentiva insomma dominato da un enorme edificio di violenza e minaccia, ma non poteva costruirsene una rappresentazione perché i suoi occhi erano legati al suolo dal bisogno di tutti i minuti. (…) A distanza di anni, si può oggi bene affermare che la storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo4.
12Non è certo Pasquale, il sarto abilissimo di Arzano, a poter assumersi il ruolo di testimone. La sua vicenda straordinaria rimarrebbe segreta, impensabile, se non ci fosse l’io dell’autore a raccoglierla, ad elaborarla, ad inserirla nella più ampia vicenda della camorra. Che uno sconosciuto sarto campano abbia cucito per un modestissimo salario l’abito indossato dalla diva Angelina Jolie durante la cerimonia degli Oscar, è un fatto che acquista tutto il suo significato al termine di un capitolo dedicato ai rapporti tra le sartorie clandestine gestite dalla camorra a nord di Napoli e le grandi firme dell’alta moda italiana. A sua volta questo capitolo assieme ad altri del libro rientra nel tema più generale dei legami ormai sistematici tra economia legale ed illegale. Tale visuale, capace d’inserire le vicende di una biografia particolare all’interno di uno studio generale sulle odierne connessioni tra l’organizzazione criminale e l’impresa capitalistica, non può che essere frutto di una posizione “privilegiata”. È così che ancora Levi definisce la prospettiva dei testimoni del Lager, essi “disponevano di un osservatorio certamente migliore, se non altro perché era situato più in alto, e quindi dominava un orizzonte più esteso5”.
13L’io testimoniale di Gomorra, che in virtù di un implicito ma inequivocabile patto referenziale s’identifica con l’autore del libro, possiede in effetti un privilegio che è manifesto nell’intenzione stessa che anima la stesura del libro: voler comprendere e descrivere l’impero criminale nella sua funzionalità al sistema economico capitalistico e nella sua negazione di tutti i valori fondamentali della democrazia, che di quel sistema è la tanto celebrata espressione politica. Tale sfida conoscitiva diventa l’occasione per distanziarsi dalla condizione di vittima della camorra. Si può infatti essere vittima della camorra in molti modi, il primo dei quali è legarsi ad essa a vario titolo. Ma vittima è poi colui che, pur essendo estraneo a qualsiasi attività criminale, è colpito direttamente o indirettamente dalla violenza: chi rimane vittima casuale di una sparatoria o chi, durante una sparatoria, perde una persona amata. A livello più generale sono vittime tutti coloro la cui vita è condizionata dall’esistenza dei clan criminali sul territorio. Da questo punto di vista, anche Saviano è candidato ad essere vittima, in quanto giovane appartenente alla classe media che cresce in zone di camorra. Il privilegio del testimone non discende da una sua posizione sociale particolarmente favorita, che lo renderebbe immune dai condizionamenti della vita criminale sul territorio. L’autore conquista una distanza grazie proprio al progetto di capire e di raccontare, e grazie alla forza di negazione che è implicita in tale progetto. Qui il gesto di raccontare, misurare, nominare, rendere visibile la disumanità in tutte le sue forme – da quelle più raccapriccianti e spettacolari a quelle più ordinarie e banali – coincide con l’utopica negazione di quella disumanità, con il rifiuto di essere vittima, con la possibilità di sfuggire a un destino nefasto. Come nel Lager il trionfo della crudeltà coincide con la cancellazione dell’offesa, ossia con l’impossibilità del sopravvissuto di trasmettere la propria esperienza, così la vita condizionata dalla camorra esige di essere raccontata sempre con reticenza, come fenomeno d’interesse regionale e con tutta la compiacenza di cui molti cronisti locali o testimoni diretti fanno quotidianamente prova.
14Il testimone, quindi, possiede come sua arma principale la parola capace di riportare alla luce i meccanismi che governano la disumanizzazione, muovendo da una posizione biografica, che non è mai del tutto esterna, al riparo dagli effetti di tale disumanizzazione. Saviano in più occasioni rivendica questo ruolo della parola:
Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei reati e renderli elementi dell’architettura dell’autorità. Se era possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l’affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura. (p. 233)
15E ancora: “Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra: ‘È falso’ all’orecchio di chi ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi del potere” (p. 234). Siamo di fronte a un vero e proprio leitmotiv, che ricorrerà anche in articoli successivi, scritti per la stampa nazionale dopo il successo del libro.
16A ben vedere nei brani citati, è possibile rinvenire ben tre modelli distinti di uso della parola come arma della verità (“la sola lama della scrittura”). Il primo lo chiameremo il modello Siani e consiste fondamentalmente nell’inchiesta “scomoda”, in quanto rende pubbliche informazioni cruciali che fino a quel momento erano appannaggio di pochi. Il secondo modello è quello cui Saviano fa esplicito riferimento, ossia Pasolini. Il 14 novembre del 1974, Pasolini pubblicava sul “Corriere della Sera” un articolo poi divenuto molto celebre intitolato Che cos’è questo golpe?. Egli vi denunciava la cosiddetta “strategia della tensione”, ossia il coinvolgimento di settori dello Stato nella campagna stragista inaugurata con la bomba di Piazza Fontana del 1969, ma sopratutto delineava una figura d’intellettuale capace di pronunciare delle verità politiche che sia per il giornalismo sia per l’intera classe politica erano indicibili. A sua volta, il modello di Pasolini era il J’Accuse…! di Zola, che era apparso come editoriale sul giornale socialista “L’Aurore” il 13 gennaio 1898.
17Per certi versi, il J’Accuse…! di Zola costituisce il paradigma di matrice illuminista della verità non giudiziaria, a cui uno scrittore-intellettuale può legittimamente appellarsi, anche quando questa dovesse mettere sotto accusa l’intero sistema della giustizia penale o la classe politica che la avvalla. Esiste una verità che deve essere detta pubblicamente per esigenze etiche, perché la verità ha una funzione emancipatrice, è un valore in sé. Non si tratta certo di confondere questa verità con quella processuale, ma di rivendicare una prerogativa dell’intellettuale nelle società democratiche. Lo ribadisce Pasolini nel suo articolo:
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero6.
18Vi è una costante lotta contro “l’arbitrarietà, la follia e il mistero” che alcuni scrittori si sentono chiamati ad ingaggiare. L’esito di essa non è semplicemente il reperimento e la verifica di verità puntuali, come quelle che può fornire un’inchiesta scomoda. L’esito di questa lotta è una forma di comprensione e giudizio, che abbraccia un’intera società, i suoi meccanismi più occulti assieme a quelli più manifesti, i suoi vizi inconfessabili come le sue virtù sbandierate. È questa una verità che è in qualche modo alla portata di tutti coloro che hanno la passione di conoscere, di capire, d’immaginare ciò che accade nel loro tempo e nel loro paese. Non bisogna essere degli investigatori di polizia, dei magistrati, dei giornalisti professionisti per giungere ad essa: “Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile7.”
19La formula anaforica “io so”, che costituisce la frase d’avvio di tutto il brano, rinvia dunque non al possesso di un sapere esclusivo ed inaudito, ma all’esistenza di un sapere che può essere acquisito dalla parte colta e critica del paese. Tale sapere, però, non viene espresso e diffuso a chiare lettere per mancanza di coraggio intellettuale, per opportunità politica, per prudenza giornalistica. Non è un caso che Saviano si rifaccia, dunque, a questo modello di verità, riprendendo anche testualmente la formula pasoliniana:
Iniziai a articolare il mio io so, l’io so del mio tempo. Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. (p. 234)
20Come ogni ripresa che si rispetti, quella di Saviano è anche una variazione su Pasolini. La verità di Gomorra non riguarda più il “romanzo delle stragi”, ma quello dell’intreccio legalità-crimine nell’economia italiana. Anche questo è un sapere che può essere acquisito con la semplice passione della conoscenza e con il concorso dell’immaginazione. Anche Saviano può dire come Pasolini: “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede.” Il contesto e l’oggetto di studio sono mutati: a sollecitare un lavoro di ricostruzione non è più l’intreccio tra eversione nera e servizi segreti dello Stato, ma quello tra potere camorristico e imprenditoria nazionale o internazionale. E qui Saviano si avvale di una quantità di dati e informazioni che sono in realtà disponibili a chi abbia la voglia di raccoglierli, di organizzarli in un insieme “architettonico”, e di diffonderli con la tenacia e il coraggio più grandi. Ma Saviano si arrischia a dire: “Io so e ho le prove”, rovesciando la formula pasoliniana “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi8.”
21Le prove di Saviano hanno varia natura, e sono quelle basate sulle inchieste di polizia, sulle carte dei processi in corso, sugli articoli della cronaca locale, sui dati setacciati dall’Osservatorio sulla camorra, sulle dirette testimonianze raccolte sul campo dallo stesso autore. Questa variazione rispetto all’attitudine di Pasolini, che parla di “progetto di romanzo”, distinguendo verità politica da verità giudiziaria, non fa che rafforzare la dimensione referenziale di Gomorra, il suo porsi risolutamente su un terreno documentario piuttosto che romanzesco. L’intento di Saviano è quindi quello di difendere l’idea di una continuità tra l’ordine della verità politica, che implica la comprensione globale di un fenomeno, dall’ordine della verità documentata o processuale, che prevede ad ogni passo la possibilità di esibire pezze d’appoggio, prove, fonti affidabili, ecc. Ciò significa, però, affidare un ruolo altrettanto importante al rigore intellettuale e all’audacia dell’immaginazione. È quest’ultima, infatti, che interviene per Pasolini nel “romanzo delle stragi” (“immaginare tutto ciò che non si sa o si tace”). Ma l’immaginazione, per Saviano, è già all’opera nel modello Siani, ovvero nella scrittura d’inchiesta. In un articolo dedicato al giornalista napoletano apparso su “Il Manifesto” nel 2004, Saviano scriveva: “Il suo [di Siani] era un giornalismo fondato sull’analisi della camorra come fenomenologia di potere e non come fenomeno criminale. In tal senso la congettura, l’ipotesi, divenivano nei suoi articoli strumenti per comprendere gli intrecci tra camorra, imprenditoria e politica9.” Senza immaginazione l’inchiesta si riduce a cronaca, a pura registrazione della realtà nel suo accadere come fatto delittuoso. L’immaginazione, invece, permette di elaborare ipotesi, capaci di ampliare la prospettiva, di allargare il contesto, sia nei termini di raccordi con eventi del passato sia nei termini di anticipazioni verosimili, probabili con eventi futuri. Non è possibile, dunque, relegare l’immaginazione ai generi di finzione, come se ogni forma di patto referenziale ne escludesse l’uso. E questo è vero non solo per i due modelli finora emersi, cui Saviano fa riferimento. Dopo l’inchiesta di Siani e la denuncia civile di Pasolini, è la scrittura testimoniale di Primo Levi, come già abbiamo visto, a costituire per Gomorra un modello letterario privilegiato. Ma persino la presenza dell’io testimoniale non esclude l’apporto di un certo lavoro immaginativo.
22Torniamo ora al primo capitolo, laddove l’autore, in veste di io testimoniale, esprime la sua diretta esperienza del traffico di navi e merci che caratterizza il porto di Napoli. Fino a quel momento, il registro del discorso era prevalentemente di tipo saggistico o d’inchiesta, con riferimento a dati e statistiche, a testimonianze registrate sul campo. Ora è l’io dell’autore a porre in primo piano il proprio vissuto. Saviano scrive: “La prima volta che ho visto attraccare una nave cinese mi pareva di stare dinanzi a tutta la produzione del mondo. Gli occhi non riuscivano a contare, quantificare, il numero di container presenti. Non riuscivo a tenerne il conto. Può apparire impossibile non riuscire a procedere con i numeri, eppure il conto si perdeva, le cifre diventavano troppo elevate, si mescolavano” (p. 15). La vista della nave cinese diviene l’occasione di un incontro con una realtà scioccante. La manifestazione della concreta presenza della merce – l’enorme numero di container impilati su una nave cargo – produce una sorta di spaesamento percettivo, di blocco delle facoltà mentali.
23È importante per l’autore includere nella sua descrizione questo fatto soggettivo apparentemente secondario. Per Saviano, l’esplorazione del mondo camorristico implica la presenza di un corpo interno a quel contesto economico e delittuoso, che si vuole ricostruire attraverso una sistematica analisi intellettuale. Tale analisi ha bisogno di far leva su di un’esperienza concreta, su di un vissuto percettivo, su di un nodo di sentimenti, che forniscano una sorta di sfondo emotivo ad ogni dato astratto. Quando Saviano, nel brano che rinvia a Pasolini, scrive: “Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio” (p. 234), intende sottolineare l’importanza dell’individuo corporeo – il testimone – che è portatore della verità. In un passo successivo, l’autore è ancora più esplicito. Si tratta del brano di apertura del capitolo intitolato Donne. Questo capitolo segue quello terribile dedicato alla faida di Secondigliano, che per due anni (2004-2005) ha visto lo scontro sanguinoso tra due clan per il controllo della più grande zona di spaccio in Italia. Saviano scrive:
Come se esistesse nel corpo qualcosa in grado di segnalarti quando stai fissando il vero. Con tutti i sensi. Senza mediazioni. Una verità non raccontata, riportata, fotografata, ma è lì che ti si dà. Capire come funzionano le cose. Come va il percorso del presente. Non c’è pensiero che possa attestare verità a ciò che hai visto. Dopo aver fissato una guerra di camorra nelle pupille, le immagini troppo numerose gonfiano la memoria, e non ti vengono in mente singolarmente ma tutte insieme, sovrapponendosi e confondendosi. (p. 151)
24Qui il legame tra il “corpo” e il “vero” è rivendicato come fondamentale. C’è una verità che giunge attraverso i racconti, le cronache, i reportage fotografici, e una verità che si offre in modo diretto, totalizzante, agendo “senza mediazioni” sull’intero apparato percettivo. Saviano ritiene l’esperienza in prima persona di un evento come la guerra di camorra indispensabile per la piena comprensione di essa. Ovviamente, vale qui il discorso già fatto per il paradigma letterario della testimonianza: colui che fa esperienza della guerra di camorra per poterla raccontare, appartiene già ad un osservatorio privilegiato, è già uno scampato ad essa. Nonostante ciò, il passaggio attraverso il vissuto sembra costituire per Saviano un criterio decisivo per dare pienamente peso alla realtà che si vuole raccontare, analizzare, ricostruire. Per questo motivo, l’io testimoniale è il modello che sussume tutti gli altri, subordinandoli ad una strategia espressiva basata sull’enfasi della dimensione sensoriale ed affettiva.
25L’attenzione posta sul sensorio, però, non trascura la funzione che l’immaginazione può avere in determinate circostanze. Quest’ultima, infatti, gioca un ruolo particolare di raccordo tra l’astrattezza della misurazione statistica e la concretezza della singola esperienza diretta, tra l’informazione colta con distacco razionale e una realtà di cui si subisce lo shock emotivo e percettivo. Come si è constatato, in Saviano un dato acquista valore di verità solo quando penetra pienamente nella sfera dell’io testimoniale, di colui che vede e che tocca con mano. Tutta la rete d’investimenti e riciclaggio di denaro sporco che lega la cittadina campana di Mondragone a quella scozzese di Abeerden acquista piena realtà solo quando l’autore vi si trasferisce per qualche tempo e può visitarla, girare per i locali e i ristoranti che prosperano grazie ai soldi della camorra.
Ad Abeerden avevo sbattuto gli occhi contro la materia del successo dell’imprenditoria italiana. È strano conoscere queste propaggini lontane, conoscendo il loro centro. Non so come descriverlo ma avere dinanzi i ristoranti, gli uffici, le assicurazioni, i palazzi, è come sentirsi presi alle caviglie, girati a testa in giù e poi sbattuti sino a far cadere dalle tasche gli spiccioli, le chiavi di casa e tutto ciò che può uscire dai pantaloni e dalla bocca, persino l’anima se è possibile commercializzarla. I flussi di capitale partivano ovunque, come raggiera che si alimentava succhiando energia dal proprio centro. Saperlo non è la medesima cosa che vederlo. (p. 308)
26Il vedere rispetto alla semplice conoscenza intellettuale, dunque, implica un sovrappiù di consapevolezza, garantisce una penetrazione più completa anche se traumatica dell’impero camorristico. Per questo motivo l’immaginazione deve in qualche modo sopperire ai limiti percettivi dell’io testimoniale, riempiendo quegli spazi vuoti tra il “vedere” e il “sapere”. Di rado, allora, ma con efficacia notevole, la scrittura denotativa di Saviano opta per l’analogia e la metafora. Ne è un esempio la raffigurazione della camorra come sistema parassitario che s’insedia nel territorio:
Il tessuto della camorra si compone sia di gruppi che iniziano a succhiare come pidocchi voraci frenando ogni percorso economico e altri che invece come avanguardie velocissime spingono il proprio business verso il massimo grado di sviluppo e commercio. Tra queste due cinetiche opposte, eppure complementari, si slabbra e lacera l’epidermide della città. (p. 56)
27In un altro brano, l’immaginazione appare come un meccanismo psicologico quasi compulsivo, che dal dettaglio percettivo, dal dato immediato, deve risalire per via genealogica all’attività economica che vi sta dietro. Scrive Saviano: “Non riesco proprio a scordarmi come funziona il ciclo del cemento quando vedo una rampa di scale, e non mi distrae da come si mettono in torre le impalcature il vedere una verticale di finestre” (p. 235). L’atto dell’immaginare appare qui come contrario a quello del dimenticare. Ciò che ognuno vorrebbe dimenticare, infatti, è che dietro una realtà comune e banale come un cantiere edile, vi può essere una storia di potere, di arrivismo, di sopruso. Qui viene rovesciato il privilegio dell’io testimoniale. L’io che sa, grazie all’intervento dell’immaginazione, completa e colma le lacune dell’io che vede. L’immagine mentale, costruita grazie a un sapere precedentemente acquisito, fornisce volume a una realtà che si manifesta, nell’esperienza concreta, in forma bidimensionale, piatta. Vi è una dimensione non percepibile dell’economia, non apparente, e l’immaginazione ha il compito di farla emergere, di evocarla, di renderla presente. In Italia, l’ombra dell’attività criminale deve essere colta dietro i frutti del lavoro apparentemente più onesto. Le due metà dell’economia nazionale, quella criminale e quella legale, vanno saldate assieme, anche se nessuno può testimoniare direttamente del momento in cui una trapassa nell’altra. E questo è proprio uno dei principali obiettivi del libro di Saviano:
Gli imprenditori italiani vincenti provengono dal cemento. Loro stessi sono parte del ciclo del cemento. Io so che prima di trasformarsi in uomini di fotomodelle, in manager da barca, in assalitori di gruppi finanziari, in acquirenti di quotidiani, prima di tutto questo e dietro tutto questo c’è il cemento, le ditte in subappalto, la sabbia, il pietrisco, i camioncini zeppi di operai che lavorano di notte e scompaiono al mattino, le impalcature marce, le assicurazioni fasulle. (p. 237).
28Gomorra offre al suo lettore uno sguardo in profondità, che permette di ricordarsi ciò che esiste “prima di tutto questo e dietro a tutto questo”. E la realtà a cui rinvia il pronome dimostrativo “questo” è l’imprenditore di successo, il modello di persona che migliaia di italiani sognano di diventare.
29A conclusione di questo itinerario attraverso l’io testimoniale di Gomorra e il ruolo che l’immaginazione ha nel supportare il suo discorso, è importante toccare un ultimo punto. Nel libro di Saviano vi sono fenomeni che esorbitano da qualsiasi possibilità d’assimilazione sia percettiva che immaginativa. Di fronte ad essi, l’io testimoniale fa un’esperienza estrema, di smarrimento emotivo e di scacco espressivo. Tale esperienza richiama la riflessione estetica nata nel corso del Settecento sulla nozione di sublime. Senza addentrarci nel dibattito filosofico che tale nozione ha generato a partire da autori quali Edmund Burke e Kant, possiamo limitarci alla definizione che ne fornisce Hegel nell’Estetica: “Il sublime in generale è il tentativo di esprimere l’infinito senza trovare nel regno dei fenomeni un oggetto che si mostri adeguato a questa rappresentazione10.” La definizione hegeliana, per parziale e partigiana che sia, coglie un aspetto per noi decisivo: ciò che permette di parlare di sublime è una sorta di inadeguatezza tra una realtà infinita e una forma di rappresentazione inevitabilmente finita. Hegel svolge nei termini del proprio sistema la linea interpretativa risalente a Burke (Indagine sull’origine delle nostre idee di sublime e di bello, 1757), che vede nel sublime l’incontro tra la finitezza e fragilità umana e la potenza soverchiante del caos e dell’informe.
30In Gomorra, Saviano sperimenta una forma tardomoderna di sublime, legato a certe “terribili” manifestazioni del capitalismo attuale, globalizzato e fortemente contaminato dall’economia criminale. Vi sono in esso realtà complesse, comprensibili solo in una prospettiva di scala, e di cui è preclusa ogni diretta esperienza. Nella logica dell’io testimoniale, l’impossibilità di ridurre a figura sensibile queste realtà di cui si ha conoscenza, ma soltanto in forma intellettuale, implica il fallimento di tutta una strategia retorica e narrativa. Per questo motivo Saviano si vede costretto a mobilitare le risorse dell’immaginazione allo scopo di poter fronteggiare gli aspetti “mostruosi” dell’economia capitalista. Un tale sforzo è particolarmente evidente nell’ultimo capitolo del libro, intitolato Terra dei fuochi. Eccone l’incipit:
Immaginare non è complicato. (…) Non è complesso immaginare persino la propria morte. Ma la cosa più complicata è immaginare l’economia in tutte le sue parti. I flussi finanziari, le percentuali di profitto, le contrattazioni, i debiti, gli investimenti. Non ci sono fisionomie da visualizzare, cose precise da ficcarsi in mente. Si possono immaginare le diverse determinazioni dell’economia, ma non i flussi, i conti bancari, le operazioni singole. Se si prova ad immaginarla l’economia, si rischia di tenere gli occhi chiusi per concentrarsi e spremersi sino a vedere quelle psichedeliche deformazioni colorate sullo schermo della palpebra. (p. 310)
31L’esigenza di ridurre una quantità di fenomeni sfuggenti e atomizzati ad un’immagine che sappia condensarli e renderli presenti, memorabili, incontra qui la sua massima difficoltà. Se è possibile analizzare e pensare l’economia, com’è possibile raffigurarla, chiuderne i processi in fisionomie semplici, osservabili, in grado di essere evocate e descritte come un fotogramma? Come può l’io testimoniale appropriarsi di tale realtà? Ricondurla all’esperienza sensibile, ai tremiti, alle emozioni del proprio corpo? Sembra impossibile adeguare le facoltà percettive all’oggetto della percezione. Emerge così una forma inedita di sublime. Saviano è esplicito su questo punto: “Sempre più tentavo di ricostruire in mente l’immagine dell’economia, qualcosa che potesse dare il senso della produzione, della vendita, le operazioni dello sconto e dell’acquisto. Era impossibile trovare un organigramma, una precisa compattezza iconica” (p. 310). L’economia come sistema ramificato, che costituisce la somma di centinaia di pratiche particolari, relativamente autonome, ma nell’insieme connesse tra loro, appare come una realtà che per la sua illimitatezza sfugge ad ogni rappresentazione sintetica. Saviano si scontra, alla fine, con il limite dell’io testimoniale. Molte cose si possono vedere, sentire, toccare di persona. Il corpo può seguire il moltiplicarsi delle cifre, può riportare la verità statistica ad una dimensione sensibile, vissuta, ma fino ad un certo punto. Il sapere che giornalisti, studiosi, investigatori hanno costruito sul fenomeno camorrista può essere situato su di uno sfondo emotivo e calato in una forma di vita concreta, fatta di dettagli, sensazioni, gesti elementari. Ma il grande universo dell’economia capitalistica, di cui il crimine costituisce un motore importante, non può come tale essere neppure pienamente immaginabile. Non solo l’io testimoniale è messo fuori gioco, ma anche quell’immaginazione che costituiva un suo prolungamento.
32Non è comunque su un’esperienza puramente negativa che si chiude Gomorra. Il sublime dell’economia globale può infatti essere colto almeno indirettamente: “Forse l’unico modo per rappresentare l’economia nella sua corsa era intuire ciò che lasciava, inseguirne gli strascichi, le parti che come scaglie di pelle morta lasciava cadere mentre macinava il suo percorso. Le discariche erano l’emblema più concreto d’ogni ciclo economico” (p. 310). La terribile storia dello smaltimento dei rifiuti in Campania chiude il libro e nel contempo costituisce “l’emblema più concreto” di quell’economia, di cui per centinaia di pagine sono stati sondati i recessi più violenti e inconfessabili.
Notes de bas de page
1 Roberto Saviano, 2006, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Mondadori. Le citazioni rimandano a questa edizione.
2 George Orwell, 2000, Omaggio alla Catalogna, in Romanzi e saggi, trad. it., Milano, Mondadori, p. 236.
3 Primo Levi, 1986, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, p. 3.
4 Ibid., p. 8.
5 Ibid., p. 9.
6 Pier Paolo Pasolini, 1975 e 1990, Il romanzo delle stragi, in Scritti corsari, Milano, Garzanti, p. 89.
7 Ibid.
8 Ibid.
9 Roberto Saviano, 2009, Siani, cronista vero, in La bellezza e l’inferno. Scritti 2004-2005, Milano, Mondadori, p. 108.
10 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, 1967, Estetica, trad. it., Torino, Einaudi, p. 410.
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