Le variazioni semantiche del racconto di Niobe
p. 205-216
Texte intégral
1Ringrazio gli organizzatori di questa giornata per avermi inserita in un incontro molto fruttuoso incentrato sulla presentazione e sui risultati ottenuti con l’analisi e lo studio da diverse angolazione di uno straordinario documento ceramico raffigurante sul lato principale il mito di Niobe. A me è stato chiesto di tornare su questo tema richiamando un lavoro di molti anni fa in cui con Gabriella Prisco e Eliana Mugione avevamo cercato di tracciare attraverso le immagini l’uso dei semata e dei naiskoi sui vasi italioti cercando di individuare nella composizione delle scene elementi significanti e, per quanto possibile, ambiti di rappresentazioni che potessero lasciare intravedere comportamenti culturali omogenei1. Dal corpus delle immagini orientato cronologicamente per aree di produzione emergeva come al massimo della gerarchia nella seconda metà del IV sec. a.C. tra le scene aventi un naiskos al centro della composizione ve ne erano alcune, in verità poco numerose, che coniugavano agli edifici tombali personnaggi la cui connotazione richiamava significati mitologici. Ripercorrendo oggi quel lavoro ritengo che si potrebbe andare ancora oltre nella ricerca tenendo conto anche dei progressi degli studi di questi ultimi anni. In questa sede, naturalmente, mi soffermerò sul mito di Niobe rappresentato sulla loutrophoros, tema figurativo che in base agli esemplari noti possiamo circonscrive prevalentemente in un ambito territoriale compreso tra la Peucezia settentrionale, o meglio tra Ruvo e la Daunia fino ad Arpi, sia per l’attribuzione alle officine in cui i vasi sono stati prodotti sia per i contesti di rinvenimento, purtroppo piuttosto esigui, che lasciano percepire alcuni aspetti di ricezione e funzionalizzazione del mito.
2I vasi italioti raffiguranti questo mito sono stati già oggetto di interesse da parte di numerosi studiosi: alcuni2 hanno cercato di individuare nelle pitture vascolari non solo l’eco delle testimonianze letterarie, ma in particolare la rappresentazione più o meno fedele della rappresentazione scenica della tragedia eschilea Niobe, nota da pochi frammenti; altri3, invece, più di recente hanno adottato un approccio più ponderato e ragionato, e, pur non escludendo la conoscenza del dramma di Eschilo, non ritengono le immagini pittoriche scaturite dalla volontà da parte dei ceramografi italioti di illustrare una specifica scena teatrale, quanto piuttosto di rappresentare un aspetto del mito secondo codici visivi funzionali alla cultura e ai bisogni della propria committenza. Devo precisare che a questi presupposti metodologici è più vicino il mio approccio alla lettura interpretativa del corpus di immagini su cui mi soffermerò; ritengo, infatti, indispensabile individuare lo specifico dei diversi codici semiotici che organizzano la stessa narrazione mitologica rispettivamente nell’iconografia e nel dramma in quanto ciascuno dei due ambiti, pur determinato da una stessa cultura, è governata da differenti logiche che trasformano una storia mitica in racconto4. In questa prospettiva, ribadendo quanto affermato in altre sedi, parto dal presupposto che non vi sono automatiche trasposizioni dai testi alle immagini e che quest’ultime, anche quando evocano temi noti dalle tragedie vanno lette non come riproduzione di una concreta esperienza visiva di una rappresentazione teatrale, ma piuttosto come codifica visuale di un racconto mitico.
3Le immagini sui vasi italioti della versione del mito di Niobe prediligono mettere in scena non la strage dei suoi figli ad opera di Apollo e Artemide, ma il dolore dell’eroina dopo la loro morte. Esse sono attestate su dodici vasi di grandi dimensioni dei quali non secondaria è la forma come già sottolineava nel suo intervento Francesca Silvestrelli che richiamava la necessità di intrecciare la tipologia formale alle composizioni figurate5. I vasi oggetto della nostra attenzione sono tre loutrophoroi e tre anfore, quattro hydriai, un grande piatto rituale e una lekythos; a eccezione di quest’ultimo vaso su cui la scena è ridotta a due personaggi, sugli altri è composta da un numero variabile di figure disposte, anche su più livelli, intorno al focus costituito dall’eroina tragica. Tale immagine sembra costituire un soggetto destinato a vasi per il corredo di sepolture femminili rilevanti, suggestione immediata ricavata dalla natura del mito, e rafforzata dalle forme dei vasi su cui è rappresentato. Non descriverò le scene dei singoli vasi, già ampiamente esaminate in dettaglio sia dalla Sisto sia da Rebaudo6 ai cui importanti lavori rimando, ma la mia attenzione sarà rivolta a cercare di individuare schemi ricorrenti e elementi di originalità nel modo in cui i ceramografi hanno composto tutti gli elementi, figure umane e oggetti, per realizzare il linguaggio figurativo di ciascuna scena partendo dal presupposto che oltre a cercare di interpretare le immagini attraverso il loro contenuto, è necessario comprendere come ogni volta siano state composte le scene, percorso che, insieme alla definizione della tipologia delle forme, credo possa concorrere a circoscrivere ambiti di produzione e officine. L’intreccio tra forma vascolare, modo di comporre le scene e individuazione dei concetti e delle conoscenze che le sostanziano credo che meglio possa riflettere il sostrato culturale del periodo e dell’ambiente in cui le opere sono state realizzate e utilizzate, sia pure in maniera autonoma per una specifica commitenza. Un esempio positivo di questo approccio è quello adottato da Claude Pouzadoux, e chi mi conosce sa bene che non lo dico per piageria, che si è concentrata nell’ambito della seconda metà del quarto secolo sulle opere del Pittore di Dario, ben circoscritte in un ambito territoriale.
4Notevole interesse assume il confronto tra due vasi riconducibili entrambi all’officina del Pittore di Varrese, anche se non alla stessa mano, raffiguranti lo stesso tema ma con una formula compositiva diversa: l’anfora pseudopanatenaica rinvenuta nell’ipogeo Varrese di Canosa7 e la loutrophoros proveniente da Ruvo di Puglia8.
5Sulla prima (Fig. 1) Niobe dolente è seduta su un monumento architettonicamente complesso ai cui lati vi sono due personaggi anziani con le braccia protese verso di lei in atteggiamento supplice: un uomo abbigliato in maniera regale, identificabile con Tantalo, e una donna, verosimilmente la nutrice. Il ceramografo nell’intento di rappresentare il momento immediatamente successivo alla strage dei Niobidi ha raffigurato la loro madre seduta, quasi rannicchiata, con il capo velato e completamente avvolta in un mantello, il volto poggiato sulla mano destra, utilizzando uno schema ricorrente nella pittura vascolare per connotare in altre scene il tipo della dolente al sepolcro, e adottato anche per rappresentare il dolore di Demetra nella tomba a cista di Vergina con il ratto di Persefone. Del tutto originale e assolutamente senza confronti, sia nelle sepolture documentate dai rinvenimenti archeologici sia in altre raffigurazioni, è il monumento che il ceramografo ha dipinto completamente in bianco per simulare una tomba di notevoli dimensioni, di forma quadrangolare resa in prospettiva, costituita da un podio con fregio dorico retto da esili colonnine di tipo ionico, poggianti a loro volta su un crepidoma. Nell’ideare la rappresentazione di questa tomba che sorregge la base su cui è seduta Niobe il pittore ha utilizzato il motivo a fregio, che dal Pittore dell’Ilioupersis è ricorrente nella tradizione delle officine tarantine per decorare la base delle tombe a gradini o dei naiskoi, assemblandolo a una sorta di palchetto mediato dalle raffigurazione dei palcoscenici sui vasi con scene teatrali a soggetto comico. L’espediente utilizzato per concentrare immediatamente l’attenzione su Niobe è potenziato dalla presenza di due grandi anfore dal corpo baccellato, poggiate sulla base accanto a Niobe, quasi a racchiuderla e a integrarla nel monumento funebre. Questi due imponenti vasi richiamano quelli in marmo utilizzati come semata in Attica, ma anche quelli di bronzo, spesso con funzione di cinerari nelle tombe macedoni, e ancora gli eccezionali vasi in marmo dipinti di Ascoli Satriano che, purtroppo, ignoriamo se fossero parte del corredo di una tomba o collocati all’esterno di un monumento funebre. Vasi di grandi dimensioni, anfore o loutrophoroi o lekythoi sono ricorrenti in molte altre raffigurazioni incentrate intorno alla figura di Niobe e tutte riconducibili esclusivamente all’ambito culturale apulo circoscrivibile tra la Peucezia e la Daunia. Tali oggetti lasciano trasparire la volontà di rappresentare monumenti funebri che traducano con questi segnacoli un bisogno di manifestazione anche di esteriorità della tomba, un portato forse dell’influenza culturale tarantina o direttamente macedone rielaborato per rispondere alle esigenze delle aristocrazie locali; è una suggestione che invita a riflettere e a indagare ancora sugli aspetti peculiari dei vertici delle comunità di questo ambito territoriale che sembrano recepire in maniera precoce nel corso della seconda metà del IV sec. a.C. le innovazioni che segnano il passaggio all’ellenismo.
6Sul lato principale della loutrophoros da Ruvo (Fig. 2), nonostante l’affollarsi dei personaggi disposti su tre registri, domina il monumento funebre: un naiskos reso sapientemente in prospettiva con le esili colonne di tipo ionico, che reggono il soffitto cassettonato e il tetto culminante in un frontone, e poggiano su un crepidoma decorato da un motivo a girali; l’edicola a sua volta insiste su un alto basamento arricchito da un fregio composto da una serie di busti, resi di prospetto, di figure femminili mitologiche alate, emergenti da un complesso sistema di girali. Al centro del naiskos vi è un personaggio femminile, stante con il braccio destro portato al capo nel gesto convenzionale del dolore, immediatamente identificabile come Niobe dalla sovradipintura bianca sui piedi e la parte inferiore del chitone, espediente che traduce l’allusione alla sua pietrificazione.
7Ludovico Rebaudo9, dopo aver evidenziato gli elementi di continuità nella produzione apula nel rappresentare il tema di Niobe utilizzando tradizionali schemi iconografici per evocare il dolore, il lutto e la supplica, pur con molte cautele non esclude che la raffigurazione del tutto unica sul vaso di Canosa possa essere stata influenzata dalla fortuna della Niobe di Eschilo, comunque non condizionata dalla volontà del ceramografo di rappresentare un momento della messa in scena della tragedia.
8Se consideriamo che l’anfora e la loutrophoros tra i documenti noti sono il prodotto di una stessa officina comprendiamo che con formule compositive diverse gli esecutori cercano di trovare soluzioni per rappresentare il mito di Niobe nel modo rispondente all’immaginario collettivo del “milieu” culturale della seconda metà del IV sec. a.C., immaginario che conferisce maggior efficacia comunicativa al momento che segue la strage, atteggiamento mentale influenzato anche dal dramma ateniese, ma non solo se teniamo presente la fortuna dei testi omerici e che il mito delle regina di Tebe, figlia di Tantalo e sposa del re Anfione, compare per la prima volta sotto forma di exemplum di consolazione al lutto nelle parole rivolte da Achille al re Priamo nel XXIV (602-617) libro dell’Iliade. È’ stato ben dimostrato come in letteratura da questi versi omerici tragga origine l’uso in funzione consolatoria del nostro mito, un motivo di cui si rilevano tracce fino agli autori di periodo post-classico, un riuso continuo che, diventato topico nel genere della consolatio sia in prosa che in poesia, arriva fino alla tarda antichità come si ricava da Procopio, un retore della scuola di Gaza, vissuto tra V-VI sec. d.C.10
9Se accostiamo la scena dell’anfora di Canosa e quella della loutrophoros di Ruvo ricaviamo la sensazione che rappresentano due momenti conseguenti: la prima concentra l’attenzione sul dolore muto di Niobe, seduta affranta sulla tomba dei figli; la seconda, collocandola in un sontuoso naiskos e rendendone riconoscibile l’identità mediante la sovradipintura in bianco della sua parte inferiore, che allude alla successiva trasformazione in pietra, cerca di richiamare all’osservatore l’intera storia popolando lo spazio attorno al monumento non solo con Tantalo, la nutrice e altre figure generiche, ma anche raffigurando nel registro superiore da un lato Latona, Artemide e Apollo, dall’altro Zeus e Hermes, e disponendo nel registro inferiore, alla base del monumento funebre, una serie di oggetti - cassetta, kalathos, cetra, corazza - che, evocando quelli deposti in sepolture femminili e maschili, rimandano alla strage dei Niobidi e all’atto di superbia della loro madre, causa della tragedia. Inoltre non secondario mi sembra che sul lato posteriore del vaso di Ruvo è dipinta un’edicola funeraria al cui interno vi è un elemento vegetale11 che gioca di rimando con il silenzio assordante e la pietrificazione di Niobe, espressione figurata della non vita, richiamando il concetto consolatorio della rinascita. Il modo di concepire il naiskos si inserisce nella tradizione dei saperi dei ceramografi tarantini nella sapiente realizzazione dei monumenti in prospettiva, ma senza dubbio l’innovazione consiste nel collocare Niobe al suo interno e di esprimere in maniera più compiuta l’aspetto della vicenda di questa donna che possa funzionare da exemplum consolatorio.
10Non entro nel merito delle attribuzioni dei vasi raffiguranti Niobe, generalmente aderenti alla classificazione del Trendall, né nella loro sequenza in un arco cronologico compreso nella seconda metà del IV sec. a.C. soprattutto perché di molti ignoriamo la provenienza e il contesto di rinvenimento. Concentrando l’attenzione esclusivamente sulla composizione e sul linguaggio delle immagini ritengo che i due vasi appena descritti possono essere considerati l’espressione più elevata della creazione visiva di un mito adatto a sepolture femminili, e pur prevalendo lo schema dell’eroina nel naiskos, non mancano nelle altre scene con lo stesso soggetto elementi di contaminazione connotanti la rappresentazione sull’anfora di Canosa. Ad esempio sull’anfora di Bonn12 nel naiskos accanto a Niobe compaiono due anfore lustrali, e un’altra è inserita nel naiskos dipinto sul lato posteriore dello stesso vaso; ad eccezione di Niobe, chiaramente connotata dal gesto di dolore e dall’accenno alla pietrificazione, non vi sono altri personaggi riferibili al mito ma generiche figure femminili disposte attorno a entrambe le edicole. La stessa associazione – Niobe stante in un naiskos prospettico tra due anfore – è ripetuta, con l’aggiunta di due patere sullo sfondo, sul registro superiore di un’hydria da una collezione privata di Ginevra13, data come proveniente da Ruvo. In questo caso il suo gesto con la mano destra che solleva un lembo del mantello sembra piuttosto quello di una sposa e non di una dolente, gesto, invece, che compiono Tantalo e la nutrice disposti all’esterno, a destra e a sinistra del monumento, contornati da due giovani donne e quattro armati. Il senso funerario della composizione è ribadito dalla scena del registro inferiore che rappresenta giovani e donne che fanno offerte presso una stele sormontata da una coppa su alto piede. In sostanza sembra quasi che progressivamente Niobe, in atto di pietrificarsi e collocata nel naiskos, diventi la rappresentazione della tomba per antonomasia indipendentemente dall’intera vicenda che la vede protagonista.
11Alcuni ceramografi combinano figure, schemi e elementi di repertorio propri della o delle officine legate all’ambiente che ha elaborato la rappresentazione del mito oggetto della nostra attenzione, talvolta in modo apparentente incoerente o comunque per noi di più difficile comprensione. Un esempio è un’hydria di Zurigo14 dove a Niobe che si svela è accostata una giovane fanciulla che le porge un alabastron, e accanto al naiskos sono collocati dolenti Tantalo e la nutrice da un lato, un guerriero e una donna dall’altro, mentre nella fascia inferiore della composizione sono allineate e ripetute cassette, kalathoi e strumenti musicali del tutto simili a quelli dipinti sulla loutrophoros di Ruvo. Altri ceramografi, invece, associano a quello di Niobe altri miti; tali accostamenti potrebbero essere casuali e determinati dalla scelta dell’esecutore se teniamo conto della destinazione di questi vasi le cui immagini e le scene figurate durante la cerimonia funebre erano funzionali a fornire spunti per celebrare l’elogio del defunto e a richiamare esempi consolatori. Tuttavia in particolare la loutrophoros del Getty15 suscita altre riflessioni che vi propongo per offrire spunti a una riflessione collettiva (Fig. 3): la scena principale aggiunge nello spazio sotto l’edicola con Niobe, nella posa dolente e affiancata da due loutrophoroi, una quadriga in corsa che trasporta sul carro Pelope e Ippodamia. Il particolare che i personaggi di contorno al naiskos siano soltanto due generiche coppie di donne affrontate e che Niobe sia impostata in direzione della coppia sul carro, rafforza l’impressione che sia stato scientemente creato anche visivamente un nesso tra i due racconti mitici. In questo caso ho l’impressione che la composizione figurata con questa contaminazione cerchi di tradurre altre narrazioni intorno a Niobe ben lontane dalla tragedia eschilea e di cui abbiamo testimonianze da altre fonti letterarie. Secondo alcune versioni radicate in particolare in Beozia e a Argo, Niobe è la donna primordiale, la madre per eccellenza in quanto la prima moglie e la madre degli antenati delle stirpi greche16. Pelope, anch’egli figlio di Tantalo e fratello di Niobe, è un eroe positivo che con la sua impresa contro Enomao dette origine alla più grande regione della Grecia, il Peloponneso, ma nello stesso tempo fu il generatore della stirpe degli Atridi costellata da maledizioni e da lutti17. Sul vaso del Getty Pelope e Niobe suggeriscono un possibile gioco di rimandi e di racconti sia celebrativi che consolatori che noi cerchiamo di decrittare, almeno in parte, con gli strumenti conoscitivi che abbiamo a disposizione e con la piena consapevolezza che operiamo una selezione. Purtroppo non conoscendo né la provenienza né il contesto di rinvenimento di questo vaso non possiamo avanzare molte proposte interpretative, tuttavia mi sembra abbastanza probabile, per forma, schemi figurativi e compositivi, per caratteristiche tecniche e stilistiche, che sia stato trafugato da una sepoltura di una realtà insediativa compresa tra la Peucezia settentrionale e quella parte della Daunia tra Canosa e Arpi. Le raffigurazioni incentrate intorno a Niobe suggeriscono che nelle immagini il mito è rappresentato con sfumature diverse nella composizione delle scene, come a modulare un racconto o a offrire lo spunto per una varietà di racconti. Mi chiedo se questo non sia un indizio da approfondire per aiutari a sostanziare l’ipotesi che le variazioni attorno allo stesso mito e l’accostamento ad altri miti messe in campo dagli esecutori possano essere state determinate da una commitenza che tende a differenziarsi nella sua proiezione ideologica anche nell’elogio funebre non ripetitivo, ma articolato attorno a saperi condivisi.
12Senza dubbio tale percoso di ricerca e di approfondimento può dare maggiori risultati quando si può comporre un racconto più ampio fondato su tutti i vasi figurati appartenti al corredo di una stessa tomba. Il discorso rimane di gran lunga più limitato in rapporto a documenti estrapolati come una loutrophoros a Princeton18 su cui attorno al naiskos con Niobe compaiono Apollo e Artemide, una donna e un uomo anziano, Pan e altri due personaggi identificati dall’iscrizione: Merope, accostata a una donna raffigurata supplice in ginocchio, e Sipyllos che definisce un uomo in costume orientale. La scena è completata nello spazio sotto l’edicola da Pelope accanto a una tomba, su cui è seduta una giovane donna accanto a una hydria; una iscrizione comunica che la tomba è quella di Anfione. Non riesco a cogliere il significato che sottende l’intero sistema di segni racchiusi in questa scena; tuttavia colpisce il particolare che le iscrizioni rimandano a personaggi di storie mitologiche, in primis la tomba di Anfione, eroe tebano marito di Niobe19, così come il nome Sipyllos del personaggio orientale (personificazione?) richiama il regno asiatico di Tantalo sul monte Sipilo sulla cui cima Niobe fu tramutata in pietra. La presenza di Pelope può connettersi tanto alla Lidia secondo una tradizione che parla della prima città al mondo fondata da Tantalo con il figlio proprio sul Sipilo20, tanto al Peloponneso e al ruolo di Pelope nella fondazione dei giochi olimpici dove un’altra fonte informa che l’unica figlia superstite di Niobe, Clori, sia stata la prima vincitrice21.
13In sostanza la varietà delle scene lascia intravedere la conoscenza e la circolazione nella seconda metà del IV secolo di varie filoni di racconti, incentrati o connessi alla vicenda di Niobe, in parte tramandate da fonti più tarde; tale varietà di rimandi più o meno espliciti per noi riflettono, a mio avviso, una appropriazione consapevole nel gioco del rapporto tra esecutori e destinatari che, in base alle forme eccezionali dei vasi e ai contesti noti in cui sono stati rinvenuti, possiamo ritenere appartenenti a gruppi familiari ai vertici di alcune comunità apule. Quali siano i tramiti di mediazione tra l’esecuzione di questi vasi, il loro uso e la loro funzione al momento del rituale funerario rimane un problema aperto. Non credo a artigiani itineranti, ma piuttosto alla mobilità di ceramografi formati in uno stesso atelier operanti per specifiche commitenze di circoscritte realtà territoriali. Il tema di Niobe, piuttosto elitario, sembra essere condiviso da alcuni gruppi radicati in un’area ben precisa ma utilizzato con un sistema di segni variabile tendente a esprimere, intorno a un nucleo significante comune, specifici valori identitari attraverso il rimando a episodi e storie che riflettono scelte ideologiche.
14Pur nella piena consapevolezza della limitata conoscenza dei luoghi di rinvenimento credo si possano delineare alcune differenze in particolare tra Canosa e Ruvo da cui provengono i due vasi che tra quelli noti considero le prime creazioni con la rappresentazione del mito di Niobe focalizzata sui momenti successivi alla strage dei figli. All’immagine sull’anfora di Canosa, piuttosto colta e apparentemente più aderente al testo eschileo, con Niobe dolente seduta sulla tomba tra i membri della sua famiglia supplici, fa da contrappunto quella sulla loutrophoros di Ruvo che cerca di comporre un racconto intorno alla creazione dello schema che fissa l’esito finale della vicenda di Niobe. Questo schema sembra più rispondente alla visione culturale dei destinatari e viene ripetuto con formule narrative diverse che vanno dalla semplice ripetizione del nucleo Niobe nel naiskos affiancato da Tantalo e dalla nutrice, come nel caso dell’hydria attribuita al Pittore di Dario e ritenuta proveniente da Ruvo, o assommandalo alla rappresentazione di Andromeda incatenata come su un piatto da Canosa (Fig. 4)22, dalla stessa tomba dell’anfora, l’ipogeo Varrese. Le scene complesse sugli altri vasi senza provenienza, accanto al simbolismo funerario del mito di Niobe, lasciano intravedere altri percorsi culturali che attraverso l’inserimento di personaggi mitologici derivati dalla cultura greca sembrano richiamare rapporti tra Oriente e Occidente, aderendo a valori e simboli propri in questa fase del mondo macedone con cui le aristocrazie apule possono aver avuto rapporti diretti o mediati dalla presenza Alessandro il Molosso.
15Rispetto al profondo radicamento, almeno per due generazioni, del mito di Niobe nell’ambiente apulo, va registrata la sua scarsa incidenza presso le comunità gravitanti sul Tirreno, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Dei due vasi riconducibili a officine campane solo la scena su un’hydria23 del Pittore della Libagione sembra ricalcare composizioni apule raffigurando Niobe nel naiskos pietrificata nell’intera parte inferiore fino alla vita, Tantalo, supplice, inginocchiato e sorretto da un giovane, la nutrice seduta in atto dolente, e, in alto, Latona e Apollo; sulla lekythos24 del Pittore di Caivano Tantalo si rivolge a Niobe, stante e parzialmente pietrificata. L’esemplare di Roccagloriosa25, da una tomba del terzo quarto del IV secolo, per forma e decorazione secondaria è a mio parere riconducibile a un ceramografo, operante o formatosi a Paestum negli anni immediatamente successivi alla metà del IV sec. a.C. quando la produzione locale improntata dalla personalità di Assteas si innova in parte con l’innesto di saperi propri della tradizione delle officine apule. La scena è costruita intorno a Niobe in piedi su un basamento, adattando uno schema utilizzato per rappresentare la statua del defunto eroizzato sopra la tomba, e disponendo intorno all’asse centrale i consueti personaggi supplici ai lati della tomba, Apollo e Artemide in alto.
16Infine il ventaglio di sfumature narrative e interpretative del mito di Niobe messe in campo in un periodo circoscritto esclusivamente per una committenza ben definibile del mondo apulo si rafforza se consideriamo il cratere a volute26 di Ruvo del Pittore di Baltimora e l’hydria27 di Arpi che in modo diverso raffigurano la morte dei Niobidi. Il primo, riprendendo e rielaborando una iconografia ricorrente sulla ceramica attica della seconda metà del V sec. a.C., mette in scena, alla presenza di numerose divinità, giovani feriti o in fuga inseguiti da Apollo saettante su quadriga, e fanciulle colpite dalle frecce di Artemide su una quadriga trainata da cerbiatti. Il vaso di Arpi in maniera originale colloca al centro della raffigurazione un altare attorno al quale si compie la strage a cui assiste attonita una donna, posta in secondo piano, verosimilmente Niobe (Fig. 5)28. Ancora una volta le immagini con i loro codici espressivi lasciano percepire varie sfumature di racconti attorno a un mito che ha origine da un atto di ubris di Niobe, ma che in un definito ambito culturale diventa espressione del dolore, mezzo consolatorio e simbolo della tomba femminile per eccellenza. Soltanto ricerche sempre più ancorate a sistemi di contesti possono aiutare a meglio comprendere frammenti di tradizioni orali tramandate in prosa, in poesia e in linguaggi visivi, rinnovate e adattate di volta in volta nel tempo alle esigenze culturali e mentali di gruppi sociali apparentemente omogenei.
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Notes de bas de page
1 Pontrandolfo, Prisco, Mugione 1988.
2 Cfr. Todisco 2003 con esaustiva bibliografia precedente; Sisto 2009.
3 Rebaudo 2015; Tisano 2018.
4 Grilli 2015.
5 Cfr. in questo volume: Fr. Silvestrelli, La loutrophoros. Forma e distribuzione.
6 Sisto 2009; Rebaudo 2015. Alle schede di catologo, con relativa bibliografia, nei contributi di questi due autori rimando tra parentesi in nota accanto all’ubicazione di ogni vaso.
7 Taranto, MArTA 8935 (cfr. Sisto 4; Rebaudo 3).
8 MANN, inv. 82267 (H3246) (cfr. Sisto 5; Rebaudo 5).
9 Rebaudo 2015.
10 Sorce 2017.
11 Cfr. In questo volume, il contributo di L. Melillo, p. 77, fig. 10 e p. 78, fig. 12, e la scheda di M. Operetto, p. 88, fig. 12.
12 Bonn, Akademisches Kunstmuseum 99 (cfr. Sisto 3; Rebaudo 4).
13 Ginevra, coll. privata (cfr. Sisto 6; Rebaudo 6).
14 Zurigo, Archäol. Samml. D. Universität 4007 (cfr. Sisto 8; Rebaudo 8).
15 Malibu, J.P.Getty Mus. 82.AE.16 (cfr. Sisto 10; Rebaudo 9).
16 Cfr. Kerényi 1963, p. 185-187.
17 Cfr. Kerényi 1963, p. 286-290.
18 Princeton, University Art Mus. 1989.29 (cfr. Sisto 7; Rebaudo 7).
19 Kerényi 1963, p. 50.
20 Paus. VII, 24, 13.
21 Paus. V, 16, 4.
22 Taranto, MArTA 8928; (cfr. Sisto 11; Rebaudo 10).
23 Sidney, Nicholson Mus. 71.01; (cfr. Sisto 12; Rebaudo 11).
24 Berlino, Staatl. Mus. F 4284; (cfr. Sisto 13; Rebaudo 12).
25 Roccagloriosa, Antiquarium, dalla tomba 24; (cfr. Sisto 1; Rebaudo 1).
26 Ruvo, Museo Jatta 36765 (J 424); (cfr. Sisto 9).
27 Arpi, inv.132726, Museo Civico di Foggia. Cfr. Mazzei 1999, in particolare p. 471-475.
28 Muntoni 2019.
Auteur
Università degli Studi di Salerno
apontrandolfo@unisa.it
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