Discussion sur la communication d’Andrea Giardina
p. 323-327
Texte intégral
1[La communication d’A. Giardina, “L’Italia nel sistema imperiale: tra economiae politica” n’a pas été insérée dans ce volume à la demande de l’auteur, qui a cependant revu sa réponse aux interventions de F. Coarelli, D. Foraboschi et E. Lo Cascio lors de la discussion]
2F. COARELLI: La relazione di Giardina pone problemi un po’più ampi, trattandosi di una relazione diciamo metodologica, in cui è inevitabile affrontare punti che sono emersi un po’da tutto il dibattito precedente. Mi pare importante che Giardina abbia espresso alcune idee di metodologia generale in un momento in cui mi sembra che la confusione sotto il cielo sia massima. I concetti di crisi, per esempio: due i concetti di crisi, cioè transizione da un modo di produzione all’altro, oppure invece crisi in senso più generale. Ma è evidente che anche nel concetto più riduttivo, il primo concetto come ‘passaggio-transizione’, è compreso anche il fatto che nella scomparsa di un modo di produzione-in una visione ad esempio non solamente economicistica come quella che augurava giustamente Giardina —, e quindi praticamente con la rovina di una struttura produttiva pre-romana, per esempio, sotto la spinta dell’imperialismo romano, è implicita una crisi anche in senso generale. Naturalmente, se restiamo sul piano puramente economicistico, probabilmente no; cioè non possiamo dire, ad esempio, che la creazione di grandi spazi di pascolo sia un fatto economicamente negativo: sul piano di un’economia considerata soltanto all’interno di se stessa può essere un progresso economico che naturalmente, però, implica prezzi pesanti per un modo di produzione precedente che viene eliminatoe sostituito con un altro.
3Naturalmente tutto questo significa che io mi faccio una certa idea della storia, per esempio della Magna Grecia in età romana, che non coincide affatto con quasi tutto quello che è stato qui detto, da molti, almeno, degli archeologi che hanno mostrato i loro scavi. Per questo dico che la confusione di idee è massima: perché credo proprio che ci sia una confusione su che cosa è’crisi’. Credo che nessuno abbia mai parlato per questa zona di desertificazione in senso totale; ci sono vari tipi di mutamento di habitat. Quando Livio dice che la pianura pontina è vuotae soltanto i servitici la vindicant dalla solitudo, intende dire non che non c’è nessuno: è una solitudo relativa a gente libera in grado, per esempio, di dare cittadinie soldati, come non possono fare i servitici. Ο anche la confusione che si fa sul passo di Appiano relativo all’Etruria: non che non ci sia nessuno, è cambiata la società. Ci sono schiavi, che sono, come dire, ideologicamente trasparenti; la solitudo è una solitudo innanzitutto ideologica, nessuno scavo potrà mai identificarla. Uno scavo che dimostri che ci sono ancora casee abitanti, cose di cui nessuno ha mai dubitato fra gli storici (fra gli storici sensati, intendo), non prova nulla sul cambiamento del modo di produzione. Mi preoccupa quella ideologia moderna che parte sempre dall’idea, in fondo preconcetta ma non espressa, inconscia, quindi molto più pericolosa, che deve dimostrare ad ogni costo la continuità della piccola proprietà contadina, per esempio in Lucania.
4Quindi, ci sono cose che lo scavo può dire, ci sono cose che lo scavo non può dire, almeno al livello attuale delle possibilità metodologiche di uno scavo: quindi tutto dipende, in ultima istanza, dalla posizione di partenza, dalla problematica di partenza. Non esiste contrasto tra storicie archeologi — tra l’altro io stesso ho difficoltà a distinguere, forse ingenuamente, fra queste due categorie (ritenevo che anche gli archeologi facessero storia). Si ritiene che tutto possa essere risolto sul piano tecnologico,e non è vero; è chiaro che l’archeologia risolve problemi soprattutto a livello della microstoria. Ora, appiattire microstoria su macrostoria è sbagliato sia dal punto di vista dell’archeologo sia dal punto di vista dello storico, sono ambiti estremamente diversi che coincidono, debbono coincidere, ma naturalmente in ultima istanza. Tutto questo è per dire semplicemente che concordo completamente con tutto quello che ha detto Giardina — per esempio per quanto riguarda il problema’primitivismo-modernismo’, un certo tipo di neo-primitivismoe neo-modernismo che lui ci ha illustrato molto bene-: credo che forse sarebbe ora di smetterla con queste categorie che sono datate anch’esse, ottocentesche, superate perché su certe cose non possiamo non essere d’accordo. Già dire’mondo antico’è una generalizzazione per me insopportabile, un mondo antico che va dal paleolitico fino al tardo-antico è una cosa insensata, non parliamo poi di un mondo antico prolungato fino all’inizio del modo di produzione capitalistico, diciamo al primo’700. È evidente che prima del capitalismo non esiste un tipo di economia diverso, ma ne esistono dieci, ne esistono venti! Non mi interessa più sapere cos’è il mondo precapitalistico, ma quali sono i vari modi economici all’interno di questo mondo.
5Naturalmente esiste un tipo di modernismo ingenuo (di cui poi Rostovtzev non è neanche il rappresentante più tipico), che consiste nel proiettare nel mondo antico le categorie del capitalismo moderno; questo è facilmente identificabilee attualmente poco pericoloso. Esiste poi un’altra forma più sottilee pericolosa di modernismo, che consiste nel contrapporre meccanicamente mondo capitalisticoe mondo precapitalistico,e nel giudizio sul mondo antico, in fondo basato sulle stesse categorie capitalistiche che si dicono non esistenti nel mondo antico. Cos’altro sono in Finley la razionalità economica del mondo capitalisticoe la mancanza di razionalità economica del mondo precapitalistico se non un appiattimento metodologico? Che secondo me non ha ragione di esistere perché la categoria di’razionalità economica’è una categoria storica. Intanto io discuto l’assoluta razionalità economica del mondo capitalistico. Ma soprattutto, è evidente che un’economia di un certo tipo, che ha una sua giustificazione (naturalmente nel suo momento storico), è storicamente razionale: coltivare, dividere un terreno adatto per la vigna, coltivarvi il grano esprime, per esempio, una società che vive sull’autoconsumoe non può bere solo vino. Credo che ci sia anche un modo riduttivo di leggere Weber, per esempio quando si parla di città di produzione, di città di consumoe di servizi: è stato dimostrato recentemente che c’è una lettura sbagliata di Weber a questo livello, che Weber non ha affatto detto quello che gli si vuol far dire. Ma forse questo è un discorso che andrebbe troppo lontano.
6Bisognerebbe cominciare a pensare all’interno delle varie situazioni storicamente determinate, diverse, del mondo antico, sapendo naturalmente che i modi di produzione antichi non sono il modo di produzione capitalistico. E naturalmente, ricordarsi che l’economico come categoria autonoma è un tipico fatto moderno. Quindi il continuum che Giardina proponeva di introdurre tra economico e, per esempio, politico, non si può separare. Ma naturalmente non si può separare neanche dall’ideologia, dalla religione: bisogna, credo, cominciare a ragionare in termini non economicistici. Questo è il miglior modo che oggi abbiamo di fare un discorso non modernistico.
7D. FORABOSCHI: Io son d’accordo nella sostanza con Giardina,e son d’accordo nella critica delle posizioni moderniste, diciamo così. Perché è inutile cercare, inventarsi profitti. Rifacendo tutti i calcoli, i profitti restano indubbiamente bassi,e a livello’"genericissimoe generalissimo", se ci sono tassi d’interesse possibili nell’Impero romano fino al 12%e poi gli interessi vengono accesi intorno al 6%, vuol dire che i profitti dovevano oscillare poco oltre il 6%. E poi se la ricchezza è prevalentemente ricchezza immobiliare (e son stati fatti anche qui dei calcoli molto approssimativi),e solo poco mobiliare, questo è un sintomo di relativo primitivismo. Son d’accordo nella critica alla posizione di Schiavone, in quanto senso: come si fa ad affermare che l’Impero romano non ha autoriproduzione, quando si è diffusoe ha portato una civilizzazione che è anche ricchezza in tutto l’Occidente? Ecco, pongo il problema. Non è però una forma economica a basso profitto, a bassi surplus esportabili. Ha invece una grossa capacità di autoriproduzionee di produzione allargata che avviene a bassi costi. Sono questi i dati più generali su cui lavorare che mettono in crisi le due ipotesi estreme, modernistae primitivista. Anche se (qui mi attacco un attimino all’intervento di Coarelli che in parte condivido, ma non del tutto) le categorie primitivistae modernista prese con una certa cautela hanno anche il loro vantaggio, come la categoria di profitto che è quella che più m’interessa. Non possiamo avere un atteggiamento antropologico, comunque. L’antropologia entra in crisi davanti all’etica quando studiamo i cannibali,e diciamo: tanto bellie simpatici, ma poi ci facciamo mangiare. Ed entra in crisi davanti alla storia economica quando abbiamo di fronte società, economie che producono poco profitto,e questa è una serie di contraddizioni che non sto qui a sviluppare. Quindi vanno usate queste categorie,e la categoria di profitto basso ο alto etc., comunque valutabile con cautela. Io pongo una domanda a me stesso, a Giardina ο a chi vuol rispondere: siamo di fronte a una società di questo tipo, attenuata nelle sue spinte, nelle sue dinamiche che tuttavia esistonoe sono visibilissime. Insomma insisto sull’espansione che vuol dire anche benessere sull’Europa occidentale che avviene con l’Impero romano. Però, in questo tipo di economiae di società, la crisi è un altro connotato. È strano per me andare a cercare degli andamenti ciclicie delle crisi; la crisi è un elemento latente, perdurante, che esprime delle dinamiche continue che modificano, si passa dagli ergastulu ai coloni agli schiavi-quasi-colonie via dicendo, attraverso dei processi lenti che solo raramente ci fanno cogliere delle macchie drammatiche, per cui è un muoversie anche un cadere, com’è stato detto, senza rumore, perché è il processo di tipo completamente diverso rispetto al processo di produzione capitalistico.
8E. LO CASCIO: Prima di chiedere a Giardina di rispondere vorrei anch’io porgli un quesito, a proposito di un aggettivo che lui ha usato,e che è poi ritornato sia nelle osservazioni di Coarelli sia in quelle di Foraboschi. Si dice: bisogna evitare un’impostazione “economici-stica”: ma che cosa intendiamo per economicistico? Fermo restando che siamo tutti d’accordo nel rifiutare un ingenuo modernismo che volesse utilizzare le categorie che valgono nell’interpretazione del capitalismo moderno, weberianamente “moderno”, per analizzare le economie del mondo antico (ingenuo modernismo di cui non manca ancor oggi qualche esempio nella produzione storiografica antichistica), mi chiedo se avere un atteggiamento polemico nei confronti di un approccio di tipo economicistico poi non equivalga a sostenere che è impossibile fare storia economica del mondo antico: una storia economica del mondo antico che ha evidentemente una sua autonomia, che non è ovviamente quella dei fatti che vengono studiati, quanto piuttosto è definita dall’approccio di chi su di essi indagae adopera —e non potrebbe non adoperare — certi modelli concettuali per interpretare determinate realtà. E allora io credo che anche il problema del confronto istituibile tra la crisi economica della fine del secondoe del terzo secoloe un’altra crisi, una crisi in senso diverso, la crisi della villa schiavistica, debba essere affrontato riconoscendo l’utilità euristica, oltre che la legittimità dell’uso, di quelle categorie con le quali operano gli storici di altre economie preindustriali: categorie che valgono per realtà comunque caratterizzate dalla presenza del mercato, di rapporti mercantilie monetari. Giardina segnalava l’opportunità di riconsiderare la nozione di crisi nel rifornimento degli schiavi, la nozione di un inaridirsi dell’offerta degli schiavi,e dunque la possibilità di un tipo di reclutamento differente-l’allevamento al posto dell’importazione, con tutte le conseguenze che ciò può comportare per esempio in termini di gestione dell’unità produttiva, che non può evidentemente basarsi sull’ergastulum. Ora io mi chiedo: questi eventi, questi fenomeni non saranno anche da valutare in termini economici? Non sarà legittimo vedere, per esempio, nella crisi dell’approvvigionamento degli schiavi, un fenomeno che può influire sul costo rispettivo dell’utilizzazione del lavoro schiavilee di quella del lavoro libero? Non si potrà ritenere che il passaggio a forme di gestione diverse sia suggerito da un’empirica valutazione della profittabilità dell’una forma di gestione rispetto all’altra: valutazioni che sarebbe a mio avviso assolutamente antistorico (e credo che qui anche Coarelli mi dia ragione) non attribuire agli attori economici antichi?
9A. GIARDINA: Ringrazio molto Filippo Coarelli, Daniele Foraboschi ed Elio Lo Cascio per i loro interventi che hanno chiarito vari aspetti rimasti probabilmente poco approfonditi nella mia relazione. Coarellie Foraboschi hanno insistito sul problema della crisi. Lo Cascio ha chiesto invece alcune precisazioni sulle riserve da me espresse circa le concrete possibilità di un’autentica ricostruzione storica dell’economia romana. Rispondo subito su quest’ultimo aspetto. Non nascondo che il mio discorso avesse un intento provocatorio; di conseguenza, esso conteneva anche qualche forzatura. Vorrei tuttavia ribadire la mia convinzione che molte analisie interpretazioni che si presentano come pertinenti all’ambito della storia economica rientrano piuttosto in altri ambiti. Sono, di fatto, indagini di storia sociale costruita con riferimento prioritario ai fattori della produzione. Oppure sono “modelli” più che ricostruzioni di storia economica. Non discuto, ovviamente, la validità epistemologica dei modelli, ma un modello inconsapevole è sempre un pessimo modello. La storia economica del mondo antico non è solo una materia difficile; è soprattutto una materia assai rara.
10Sono assolutamente d’accordo con quanto Coarelli ha detto sul modo discutibile d’interpretare alcuni dati della documentazione archeologica piegandoli all’esi- genza di dimostrare, per esempio, la continuità della piccola proprietà contadinae negare, di conseguenza, l’esistenza della crisi ο delle crisi. Il problema ha due risvolti. Il primo concerne il carattere di una certa categoria di dati archeologici. Il secondo, di cui mi sono occupato nella mia relazione, riguarda invece il concetto di crisi. Ho l’impressione che la storiografia degli ultimi venti anni relativa al mondo romano sia caratterizzata da un rapporto difficile con la categoria di crisi,e che di conseguenza le interpretazioni delle crisi rappresentino punti deboli, zone d’ombra di questa storiografia. Essa si è infatti rivelata più in grado di raccontaree spiegare la crescita dell’economia romana che i suoi processi involutivi. E più in grado di descrivere la struttura delle morfologie sociali (quella schiavistica in particolare, oppure quella tardoantica), che il passaggio dall’una all’altra. I motivi di questa difficoltà-come abbiamo visto-sono tanto di carattere teorico quanto di carattere documentario.
11Negli ultimi venti anni si è registrato uno spostamento di interesse intorno a questo tema. Prima, parlare di crisi, significava soprattutto parlare della crisi del III secolo d. C. e della fine del mondo antico. Negli ultimi venti anni ha significato soprattutto discutere sulla cosiddetta crisi del modo di produzione schiavistico. Le interpretazioni di questa crisi sono state varie.
12Una insiste particolarmente sul problema del-l’“anelasticità” della villae mi appare caratterizzata da due elementi.
- Anzitutto un determinato modo, tipicamente marxiano, di privilegiare, nell’analisi delle crisi, la considerazione delle contraddizioni interne al sistema. Quelle stesse caratteristiche che avevano determinato la nascitae il consolidamento del sistema si pongono come limite alla crescitae alla sopravvivenza del sistema stessoe agiscono successivamente come fattori di dissoluzione. In questo emergere delle contraddizioni, un ruolo importante è assegnato alla lotta di classe. La teoria dell’anelasticità della villa schiavile sembra porre l’accento prevalentemente su fattori economico-produttivi, ma il presupposto resta sempre quello della lotta di classe: i costi di gestione, infatti, sono alti a causa delle esigenze di controllò della manodopera schiavile.
- La seconda caratteristica di questa teoria consiste nel fatto che essa sembra influenzata, forse inavvertitamente, da un concetto di crisi modellato, sulla natura delle crisi moderne. La differenza principale tra le crisi industriali, tipiche dell’economia industriale capitalisticae le crisi pre-industriali, viene giustamente individuata nella prevedibilità ο nell’imprevedibilità. Caratteristica delle crisi pre-industriali è il loro essere determinate da eventi esterni al processo economico: ognuna di esse ha le sue cause particolari, che non sono prevedibili. La teoria dell’anelasticità della villa risente dell’idea di crisi industriale perché non contempla la rilevanza dei fattori esterni ed è costruita quindi su un postulato di prevedibilità. Quell’interpretazione, infatti, è un modello. Essa ci dice che cosa forse sarebbe potuto accadere se il sistema della villa avesse avuto modo di crescere senza interferenze dall’esterno, svolgendo le sue contraddizioni interne come in un laboratorio.
13Sulla inadeguatezza di questa teoria per una interpretazione della crisi del modo di produzione schiavistico ho insistito più volte (da ultimo nella mia relazione). Essa non spiega le cause della crisi, perché trascura la rilevanza dei fattori politici; né i tempi della crisi, perché non rende conto della straordinaria vitalità del sistema ben oltre il I sec. a. C. Aggiungerò soltanto che in questa tendenza a enfatizzare i fattori interni della crisi opera probabilmente il peso dell’idea moderna di nazione. Poiché il modo di produzione schiavistico segna il privilegio dell’Italia rispetto alle province,e poiché in questa polarità l’Italia assume i connotati di una potenza nazionale assurta a cuore di un impero, sembra naturale spiegare la crisi dell’Italiae l’ascesa delle province in termini di patologia interna, di intime contraddizioni del sistema produttivo dominante. Ma l’Italia non era una nazione,e il suo ruolo di centro dell’impero era sottoposto a sollecitazioni complesse che l’analogia (consapevole ο inconsapevole) con i grandi imperi dell’età moderna non ci aiuta a chiarire.
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