Il cratere dell’Amazzonomachia tra antiche riparazioni e moderni restauri
p. 51-69
Remerciements
Oltre agli amici e colleghi puntualmente citati nelle note, desidero ringraziare il personale della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei, in particolare Alessandra Villone per la attiva collaborazione nella individuazione delle foto storiche e per essere venuta incontro, con la consueta gentilezza, alle mie non poche richieste.
Texte intégral
1La storia del restauro del cratere colossale dell’Amazzonomachia è ben ricostruibile, grazie alle scoperte avvenute nel corso di recenti interventi (fig. 1) e indagini1.
2Il primo restauro fu completato in Puglia nell’arco di pochi mesi, ossia tra la scoperta, avvenuta di certo prima del dicembre 18342, e l’acquisto da parte del Real Museo Borbonico, nel luglio dell’anno successivo3; in questo esiguo lasso di tempo il vaso colossale fu non solo ricomposto – era stato infatti rinvenuto in caduta, «[…] intieramente rotto ed infranto»4 – ma anche integrato in corrispondenza delle lacune. Di queste le più estese, una per lato, cadevano in corrispondenza delle due scene principali, incentrate ciascuna attorno ad una quadriga; mancavano inoltre parte del piede e una delle due anse.
3L’anonimo restauratore5 supplì tali mancanze; le integrazioni mimetiche, purtroppo perdute, ci sono però note attraverso alcune fonti, scritte e iconografiche.
4Significativa del successo di tale modalità di completamento è la descrizione delle scene figurate del cratere, contenuta nel manoscritto di un erudito locale, il canonico Ursi6, dove non vi è alcuna distinzione tra originale e restauri.
5Lo stesso avviene nello scritto coevo di G. Sanchez7 e in una riproduzione, alla metà del vero, conservata nella biblioteca palatina della reggia di Caserta8 (fig. 2-3). Benché non sia bollata, questa copia è probabilmente da assegnare alla manifattura Giustiniani9, che ne aveva realizzata un’altra, a grandezza naturale, in occasione dell’Esposizione borbonica del 183610. La copia ottocentesca costituisce una preziosa testimonianza del primo restauro, sebbene non sia scevra da licenze, in parte dovute alla necessità di disporre le figure in uno spazio minore. Non sono purtroppo note le circostanze in cui fu creata la replica casertana, né la sua cronologia; questa è necessariamente compresa tra il 1835 e il 1844/45 quando, come vedremo, l’originale fu sottoposto a un radicale derestauro; questo arco di tempo ben si accorda con quanto ci è noto sull’attività della manifattura, in grave e irreversibile crisi a partire dalla metà degli anni ‘4011.
6Non solo il nostro cratere, ma l’intero lotto dei dodici vasi figurati di cui faceva parte, acquistati nel 1835 dal Real Museo Borbonico12, era già stato restaurato in Puglia.
7Tuttavia fu sul vaso dell’Amazzonomachia che si appuntarono le critiche più aspre.
8Già nel verbale di acquisto se ne segnalano infatti le «[…] positive mancanze, supplite a talento dal restauratore»; a questa, che suona come un’implicita critica alla assenza di una direzione scientifica del restauro, segue la notizia, rivelatasi poi priva di fondamento, del rinvenimento dei frammenti originali mancanti. È tuttavia evidente che tutti i rifacimenti dell’artefice provinciale sono accolti con diffidenza da parte degli estensori del verbale, e criticati non solo per la discutibile interpretazione ma per avere, in alcuni casi, distrutto o obliterato parti originali13.
9Le critiche più severe giungono però dal milieu degli archeologi tedeschi dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica: se Wilhelm Zahn si dice certo dell’inversione tra i lati di collo e corpo, che sarebbe avvenuta nel corso della ricomposizione14, è a Emil Braun15 che si deve l’esegesi più serrata, basata sulla puntuale analisi condotta dall’inviato in Magna Grecia H.W. Schulz subito dopo il rinvenimento16. Braun infatti, in un passo molto noto, si scaglia non solo contro i restauri del nostro cratere, perché «gli stessi frammenti ricongiunti insieme per via di restauri raddoppiano la difficoltà della spiegazione» e «il vero fregio dell’antico dipinto n’è tolto in più d’un punto», ma contro l’uso – peraltro da tempo abbandonato nelle opere in pietra – di integrare mimeticamente la ceramica «le cui sublimi composizioni non vengono mai riempite secondo che furono inventate dall’antico artista, perciocché quel delicatissimo e speziale disegno non mai così imita il moderno pennello che non presenti all’occhio del conoscitore la disparità de’ tratti»17. Parole, a ben vedere, per nulla all’avanguardia, come si sono volute leggere18 in quanto, paradossalmente, sembrano rimproverare al poco dotato restauratore la mancanza di quella «perfection dangereuse» contro cui, già nel 1813, lanciava i suoi strali Millingen e che, all’interno del Real Museo Borbonico, troviamo praticata ancora alla metà degli anni ’30; ciò in parallelo ad alcuni esperimenti di restauro, pure di completamento, ma di segno opposto, perché ben distinguibili ad un’osservazione ravvicinata, il cd. «mezzo restauro»19.
10Di fatto, l’auspicio di Braun che «la intera distruzione di tutto quello che proviene da mano moderna è condizione del giusto intendimento delle diverse composizioni» dovrà attendere gli inizi del decennio successivo per trovare attuazione. È in quest’epoca infatti che si afferma, sotto il nuovo direttore del museo Francesco Maria Avellino, quanto invano auspicato dall’Accademia Ercolanese fin dal 1818, ossia il riempimento delle lacune mediante integrazioni formali, ma senza completamento pittorico20.
11L’Accademia ribadiva coerentemente in quell’occasione la linea, esposta fin dal 1813 a proposito degli antichi dipinti murali, che ne individuava il pregio nell’antichità e ne proibiva dunque qualsivoglia integrazione pittorica21. Quanto al direttore Avellino, proprio la sua contrarietà a qualunque restauro mimetico lo aveva portato, assieme agli altri membri della Commissione di Antichità e Belle Arti, a fare dimezzare, nel 1835, il prezzo dell’acquisto del lotto da Ruvo, a causa della diffusa presenza di questo tipo di integrazioni22; e fu d’altro canto per sua volontà che, nel 1840, i restauri del vaso di Archemoros vennero eliminati e le lacune colmate «in creta con lasciare questi supplementi senza pittura alcuna»23.
12Il derestauro del nostro cratere si pone dunque alla fine di questa lunga gestazione.
13Benché occasionato da gravi problemi di ordine conservativo – il vaso appariva «tutto screpolato nel ristauro e segnatamente nella parte inferiore ove poggia tutta la grande mola»24 e attraversato da vere e proprie lesioni – il nuovo intervento, realizzato tra il febbraio 1844 e il maggio 1845 da Domenico Fortunato sotto la direzione di Raffaele Gargiulo, fu l’occasione per «ridurlo in frammenti, qual’era quando fu rinvenuto, pulirne tutta la colla, stucco, colore e vernice impiastrata da inesperto restauratore, indi incollarlo con colla forte da resistere a qualunque intemperie ed umido, imperniarlo con grossi perni d’ottone internamente; rifarci di bel nuovo li pezzi mancanti, senza però aggiungere figure, ma che apparisca il restauro»; inoltre l’intervento costituì l’occasione per verificare «se per avventura non abbia avuto luogo qualche viziosa inversione, allorché in provincia si sono uniti i frammenti»25.
14Come si è detto, le parti moderne, come d’uso all’epoca, non furono conservate; la loro memoria rimane affidata, oltre che alla documentazione sopra descritta, alle incisioni commissionate da E. Braun per i Monumenti inediti (fig. 4) – dove gli attacchi tra frammenti originali, o tra questi e le integrazioni moderne, sono indicati da una linea puntinata – nonché ai disegni, limitati ad alcune parti, a corredo di un articolo di E. Gerhard, dove la distinzione è realizzata mediante una linea continua26. Questi accorgimenti grafici ricalcano molto da vicino le raccomandazioni di Aubin Louis Millin il quale, pur teorizzando che «la restauration doit en effet être exécutée avec tant d’art que les yeux ne soient pas choqués», riteneva indispensabile segnalarne la presenza in scritti e disegni, affinché gli antiquari potessero esprimersi sul documento autentico27.
15Non migliore fortuna critica incontrò il nuovo restauro: tra i crateri colossali del Museo, quello dell’Amazzonomachia è il meno fotografato, nelle immagini di sala (fig. 5), a causa delle sue vistose e ineludibili lacune, mentre ancora la guida Ruesch glissa su ogni ipotesi interpretativa, ardua «se prima non si scomponga il vaso nei suoi frammenti e non si ricomponga con miglior critica eliminando i restauri»28.
16Nel 1992 lo sfortunato reperto, già interessato nella parte inferiore da lesioni passanti29, fu rinvenuto in caduta a causa del collassamento delle integrazioni in gesso e dei collanti organici, che mal si conciliavano con le condizioni microclimatiche del deposito dove all’epoca era collocato. In quelle circostanze fu giocoforza procedere ad un nuovo restauro, preziosa occasione per ripercorrerne la precedente storia conservativa e per acquisire nuovi dati30.
17Furono infatti rinvenuti, nello spessore dei frammenti, il più delle volte limati, i perni di ottone che sappiamo pertinenti all’intervento degli anni ’40; proprio l’utilizzo di questo materiale, assai più resistente dell’originale, ha causato, in concomitanza con il crollo, scheggiature e fessurazioni.
18La famosa colla, il segreto di Raffaele Gargiulo che tanto contribuì alla sua fortuna31, non ha resistito alla prova del tempo, tanto da poter essere asportata con semplici impacchi di acqua deionizzata, come pure gli adesivi utilizzati nel corso di interventi successivi, non altrimenti documentati, di cui sono prova le parziali riparazioni osservate in vari punti (fig. 6) nonché il trattamento superficiale (fig. 7), diverso da quello visibile nella più antica documentazione fotografica32 (fig. 8).
19Nel corso dell’intervento è stato scoperto un curioso elemento, in corrispondenza della lacuna che interessa la parte inferiore del cratere, all’inserzione con il piede: si tratta di un grossolano cercine di terracotta, che presenta una ventina di fori, a distanza abbastanza regolare, praticati, dopo la cottura, per collegarlo, tramite piccoli perni di ottone, a quanto rimane dell’originale con il suo completamento in gesso (fig. 9a-c).
20Poiché elementi analoghi sono descritti, nella letteratura sui crateri apuli dell’officina del pittore di Dario, come antichi e pertinenti33, si era all’epoca ipotizzato un suo reimpiego nel corso dell’Ottocento; pertanto un campione prelevato dal nostro cercine era stato sottoposto all’analisi di termoluminescenza34, che aveva però dimostrato trattarsi di un manufatto moderno. La sua precisa cronologia resta incerta, poiché la composizione elementale35 differisce notevolmente da quella dell’ansa di rifacimento (fig. 1), ascrivibile per certo all’intervento pugliese del 1834/536; le indagini sulla provenienza delle argille dei due elementi non sono purtroppo dirimenti.
21Benché i documenti d’archivio non ne facciano parola, è possibile che il cercine sia stato fabbricato nei laboratori del Real Museo Borbonico, come espediente per rinforzare la parte finale del vaso: il suo notevole peso – che sembra essere stato all’origine delle lesioni osservate a più riprese fin dai primi anni ’4037 – si scaricava infatti solo sul piccolo piede, per di più mobile e largamente integrato. Questo inconveniente deve aver portato, in un momento imprecisato – ma sicuramente nella seconda metà dell’Ottocento38 – alla decisione di alloggiare tutti i crateri colossali in un tripode zoomorfo di ghisa, che li circondava tramite un anello39.
22Tornando al nostro cercine, i fori furono praticati dopo la cottura forse perché, in corso d’opera, il restauratore si rese conto che fare aderire il cercine al corpo del vaso con il solo ausilio della colla non avrebbe offerto sufficienti garanzie di tenuta; alla stessa fase potrebbero appartenere le vistose tracce di limatura, praticate per meglio adattare il grossolano manufatto alla curvatura del cratere.
Fig. 11 - Lato B: mappatura del quadro fessurativo e delle grappe in corrispondenza delle zone figurate.
23La scoperta di maggior rilievo riguarda però una moltitudine di sedi di grappe (figg. 10-13), mai descritte nelle nostre fonti e stuccate accuratamente, tanto da essere sfuggite a tutti i commentatori.
24Si tratta di circa 140 alloggiamenti, costituiti da un canaletto con due fori passanti alle estremità40; per la loro esecuzione è stato utilizzato uno strumento metallico che è penetrato profondamente nel notevole spessore delle pareti di argilla, creando bordi molto netti, ad indicare che il vaso era già cotto quando l’operazione fu eseguita; alla stessa conclusione si giunge osservando i fori (fig. 14).
25Le grappe collegavano fra loro i numerosi frammenti; la loro collocazione appare studiata con cura, ricadendo esse, quando possibile, sul fondo a vernice nera, oppure su parti secondarie, come panneggi e oggetti; anche il loro andamento sembra pensato per accordarsi di volta in volta con quello delle parti figurate. Le sedi delle grappe appaiono interrotte in corrispondenza delle lacune (figg. 10-11); ciò non è però dirimente ai fini della loro cronologia, poiché i frammenti superstiti potevano essere collegati tanto a parti antiche, perdute, quanto alle integrazioni mimetiche della metà degli anni ’30, anch’esse andate disperse dopo la rimozione.
26È sembrato perciò necessario, preliminarmente, esaminare il modus operandi tradizionale nel restauro della ceramica, per comprendere se fosse possibile ipotizzare l’impiego di cuciture metalliche nel corso del primo restauro ottocentesco.
27In realtà, nessuna delle rare fonti coeve che trattano dell’argomento fa cenno all’uso di vere e proprie grappe41: se un testo francese della seconda metà del XIX secolo, destinato al mondo del restauro antiquario, parla di canaletti e fori, non passanti, praticati alle due estremità, è per alloggiarvi del filo di ferro coperto e fissato alle estremità da gommalacca42. Quanto alle fonti partenopee, significativa è la differenza che Andrea de Jorio istituisce tra le modalità esecutive di alcuni restauri eseguiti in antico, «con un filo di ferro (sic), e a punti come suol dirsi» – a suo giudizio simili a quelli dei contemporanei riparatori di stoviglie – e quanto avviene all’interno del Real Museo Borbonico, dove questo metodo è stato sostituito da quello di «disporne i frammenti, riunirli e alzarli», evidentemente per mezzo di un adesivo43. Del resto il superamento della pratica di collegare i frammenti «per mezzo di buchi con filamenti di piombo o ferro» viene fatto risalire a Biagio Finati, operante nella Real Fabbrica delle Porcellane di Capodimonte44.
28Mentre dunque non sembrano esistere, per le riparazioni del cratere, confronti moderni stringenti, recenti studi hanno richiamato l’attenzione su numerosi esempi di pratiche antiche similari45.
29In particolare la gran parte delle nostre riparazioni, riscontrate anche su altri vasi di forma chiusa, sono a sutura alveolare sulla superficie esterna e a lingotto su quella interna, con perni passanti46 (fig. 15); di queste suture non sono noti esempi completi di metallo, che però, per le misure dei fori e la mancanza di qualsivoglia traccia di prodotti di corrosione, viene individuato come piombo47. Questa modalità è riservata alle parti figurate dei vasi: all’accorgimento di praticare i canaletti in zone strategiche di cui sopra si è detto, si aggiunge infatti quello di inserirvi il metallo in modo tale che risulti a livello con la superficie ceramica48; la scelta del piombo appare particolarmente indicata poiché questo metallo, oltre a non rilasciare, come si è detto, antiestetici prodotti di corrosione, è particolarmente mimetico, grazie al suo naturale processo di ossidazione.
30A riprova di quanto affermato, solo nella parte inferiore del nostro cratere, decorata a semplici baccellature, sono osservabili due suture a lingotto (fig. 16), eseguite cioè senza praticare un alloggiamento, ma solo i fori passanti49; si tratta, palesemente, di prudenti tentativi, praticati in zone poco visibili del vaso, sui primi frammenti ricomposti; il risultato fu tale da consigliare il passaggio all’altro metodo, di minore impatto visivo, anche se di più complessa realizzazione.
31In corrispondenza delle suture a lingotto sono conservati resti di piombo, che i restauratori ottocenteschi hanno ritenuto evidentemente imprudente asportare, data la loro aderenza alla superficie dipinta; da una delle grappe è stata prelevata una microscopica quantità di metallo per effettuare indagini sui rapporti isotopici del piombo50. Le analisi ne hanno confermato l’antichità: i rapporti misurati sono infatti tipici del piombo delle Cicladi/Laurion, mentre in epoca moderna non esistono miniere con rapporti simili51.
32A causa dei confronti in letteratura e dell’andamento stesso delle riparazioni, che procede dal basso verso l’alto, sembra assai plausibile che anche il tipo più diffuso di riparazioni presente sul cratere sia da considerare coevo a quello a lingotto.
33La cronologia della rottura può essere fissata in un momento preciso, ossia subito dopo la cottura, che appare perfettamente portata a termine: se il vaso si fosse rotto durante la fase di essiccazione, infatti, non sarebbe stato possibile utilizzare il piombo, che ha un punto di fusione assai più basso di quello necessario alla cottura della ceramica52; inoltre i canaletti e i fori non avrebbero avuto spigoli così vivi. Sembra d’altro canto da escludere un incidente durante il trasporto, poiché le rotture, ove le superfici non siano state modificate per mano moderna, appaiono nette, proprie più di un collassamento che di una caduta. Infine, essendo il vaso destinato ad un uso funerario, come dimostrano da un lato il piede mobile, dall’altro la lettura iconologica53, non sono da ipotizzare riparazioni in relazione ad un periodo d’uso precedente al seppellimento.
34Le cause dell’incidente sono probabilmente da ricercare nella rarità stessa di questo tipo di oggetti: eseguiti su commissione, i crateri colossali restano un evento eccezionale, che non permette evidentemente alle maestranze di acquisire una consolidata pratica di bottega. Benché realizzato a regola d’arte, ossia in sezioni assemblate fra loro ad un certo stadio di asciugatura, il nostro vaso deve avere avuto qualche problema nella delicata fase dell’essiccamento, anche a causa del non comune spessore delle pareti, come prova l’evidente inclinazione del collo verso il lato dell’ansa mancante54 (fig. 17 b-d); nella stessa fase si sono probabilmente prodotte delle microlesioni55, che hanno portato alla sua riduzione in frammenti nel corso delle operazioni successive.
35Questa vicenda apre alcuni scenari inediti sul rapporto tra committenza e artigiani: se è infatti ormai acclarato che i vasi colossali venivano eseguiti su ordinazione, e se non stupisce la presenza in una tomba dell’aristocrazia peuceta di un cratere così pesantemente restaurato – dato il suo pregio e, nel contempo, la destinazione d’uso – non si è forse abbastanza riflettuto sul lungo lasso di tempo necessario alla loro realizzazione56, nel nostro caso accresciuto da quello necessario alle riparazioni.
36Il che porta a credere che la scelta del corredo sia avvenuta in un momento in cui il futuro occupante della tomba aveva ancora voce in capitolo.
Bibliographie
Des DOI sont automatiquement ajoutés aux références bibliographiques par Bilbo, l’outil d’annotation bibliographique d’OpenEdition. Ces références bibliographiques peuvent être téléchargées dans les formats APA, Chicago et MLA.
Format
- APA
- Chicago
- MLA
Arbace 1997: L. Arbace, Vaso decorato all’Etrusca, in Civiltà dell’Ottocento: le arti a Napoli dai Borbone ai Savoia, Napoli, 1997, scheda 3.11, p. 107.
Balassone et al. 2002: G. Balassone, M. Boni, G. Di Maio, G. Fariello, I.M. Villa, Analysis of the rings found in the Samnitic necropolis of Saticula (Sant’Agata dei Goti, Benevento, Italy), Archaeometry 98. BAR, Proceedings of the 31st Symposium, Budapest, April 26-May 3, 1998, Oxford, 2002, p. 279-283.
Balassone et al. 2009: G. Balassone, M. Boni, G. Di Maio, I.M. Villa, Characterization of metallic artefacts from the Iron Age culture in Campania (Italy): a multianalytical study, Periodico di Mineralogia, 78, 2009, p. 45-63.
Bentz, Kästner 2007: M. Bentz, U. Kästner (dir.), Konservieren oder restaurieren. Die Restaurierung griechischer Vasen von der Antike bis heute (Beihefte zum CVA III), München, 2007.
Braun 1836: E. Braun, Gran vaso di Ruvo a soggetti nuziali, Annali dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica, 8, 1836, p. 99-118.
Cuomo di Caprio 2007: N. Cuomo di Caprio, Antiche tecniche di lavorazione e moderni metodi di indagine, Roma, 2007.
D’Alconzo 2002: P. D’Alconzo, Picturae excisae. Conservazione e restauro dei dipinti ercolanesi e pompeiani tra XVIII e XIX secolo (Studi della Soprintendenza Archeologica di Pompei 8), Roma, 2002.
D’Alconzo, Prisco 2005: P. D’Alconzo, G. Prisco, Restaurare, risarcire, supplire. Slittamenti semantici ed evidenze materiali: alle origini di una ‘vernice’ per i dipinti vesuviani, in M.I. Catalano (dir.), Napoli, Roma, Dresda: il dibattito sulle vernici tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, Bollettino ICR - Nuova Serie, 10-11, genn.-dic. 2005, p. 72-87.
D’Alconzo 2007a: P. D’Alconzo, Naples and the birth of a tradition of conservation: the restoration of wall paintings from the Vesuvian sites in the eighteenth century, in G. Cesarani, A. Milanese (dir.), Antiquarianism, museums and cultural heritage: Collecting and its contexts in eighteenth century Naples, JHC, 19, 2, 2007, p. 203-214.
10.1093/jhc/fhm027 :de Jorio 1835: A. de Jorio, Indicazione del più rimarcabile in Napoli e contorni, Napoli, 1835.
Di Macco 2012: M. Di Macco, Millin e l’edizione del mosaico con scene di teatro nel Museo Pio-Clementino: autenticità del documento e fedeltà del rilievo, in A.M. D’Achille, A. Iacobini, M. Preti-Hamard, M. Righetti, G. Toscano (dir.), Aubin-Louis Millin 1759-1818, entre France et Italie.Voyages et conscience patrimoniale, Roma, 2012, p. 339-356.
Documenti Inediti 1880: Antichità scoperte nelle Province meridionali. Da documenti serbati nell’archivio di Stato in Napoli - Ruvo. 1835. Luglio 31, in Documenti Inediti per servire alla storia dei musei d’Italia IV, 1880, p. 105-113.
Dooijes, Nieuwenhuyse 2007: R. Dooijes, O.P. Nieuwenhuyse, Ancient Repairs: Techniques and social Meaning, in Bentz, Kästner 2007, p.15-20.
Gambaro 1994: C. Gambaro, Due copie di vasi antichi della collezione di Domenico Comparetti, Prospettiva, 75-76, lu-ott 1994, p. 77-84.
Gargiulo 18432: R. Gargiulo, Cenni sulla maniera di rinvenire i vasi fittili italo-greci…, Napoli, 18432 (18311).
Gerhard 1838: E. Gerhard, Über die Lichtgottheiten auf Kunstdenkmälern, AbhBerlin, 1838, p. 383-394.
Giovannone, Guglielmi, Prisco 2009: C. Giovannone, A. Guglielmi, G. Prisco, Stuccature ed integrazioni, in Prisco 2009, p. 37-44.
Giustiniani, De’ Licteris 1822: L. Giustiniani, F. De’ Licteris, Guida per lo Real Museo Borbonico, Napoli,1822.
Irollo 2007: A. Irollo, L’Officina dei restauri dei marmi del Real Museo Borbonico: spunti per la storia, le figure professionali e i metodi, in D’Alconzo 2007b, p. 59-79.
Liberatore 1836: R. Liberatore, Argilla – Stoviglie ed altri lavori di terraglia, porcellana, ec., in De’ saggi delle manifatture napoletane esposti nella solenne mostra del 1836, Annali civili del regno delle Due Sicilie, X, XXI, magg.-giu. 1836, p. 55-78.
Lohmann 1982: H. Lohmann, Zu technischen Besonderheiten apulischer Vasen, JDAI, 97, 1982, p. 191-249.
Manifatture napoletane 1834: De’ saggi delle Manifatture napoletane esposti nella solenne Mostra del 1834, Il Progresso delle scienze, lettere ed arti, IX, III (ns), 1834, p. 165-222.
Martino 2006: E. Martino, Copie di vasi attici nelle manifatture napoletane del XIX secolo, in F. Giudice, R. Panvini (dir.), Il greco, il barbaro e la ceramica attica. Immaginario del diverso, processi di scambio e autorappresentazione degli indigeni. Atti del Convegno internazionale di Studi, 14-19 maggio 2001, III, Roma, 2006, p.183-188.
Milanese 2009: A. Milanese, Album Museo. Immagini fotografiche ottocentesche del Museo Nazionale di Napoli, Napoli, 2009.
Nadalini 2003: G. Nadalini, Considerazioni e confronti sui restauri antichi presenti sulle ceramiche scoperte a Gela, in F. Giudice, R. Panvini (dir.), Ta attikà. Veder greco a Gela. Ceramiche attiche figurate dall’antica colonia, Roma, 2003, p. 197-205.
Nadalini 2007: G. Nadalini, Restauri antichi su ceramiche greche. Differenziazione dei metodi, in Bentz, Kästner 2007, p. 29-34.
Pergoli Campanelli 2009: A. Pergoli Campanelli, Il restauro dei vasi greci, AR, XLIV, 85, sett.-ott. 2009, p. 32-35.
Pergoli Campanelli 2010: A. Pergoli Campanelli, Antigos exemplos de restauros de cerãmicas gregas, Pós, V.17, 2010, 27, p. 247-252.
Pfisterer-Haas 2002: S. Pfisterer-Haas, Antike Reparaturen, in M. Bentz (dir.), Vasenforschung und Corpus Vasorum Antiquorum – Standortbestimmung und Perspektiven (Beihefte zum CVA I), München, 2002, p. 51-57.
Picciau 2002: M. Picciau, s.v. « Giustiniani », in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 57, 2002, p. 298-301.
Prisco et al. 2004: G. Prisco, A. Guglielmi, D. Mazzeschi, C. Barnaba, Per la storia del restauro della casa dei Vettii in Pompei: una nuova applicazione del diagramma di flusso stratigrafico, Bollettino ICR, (NS), 8-9, genn.-dic. 2004, p. 46-75.
Prisco, Guglielmi 2009: G. Prisco, A. Guglielmi, Ravvivanti e protettivi, in Prisco 2009, p. 45-56.
Prisco 2009: G. Prisco (dir.), Filologia dei materiali e trasmissione al futuro. Indagini e schedatura sui dipinti murali del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Roma, 2009.
Prisco 2010: G. Prisco, Antichi dipinti murali nel Decennio francese. Scoperte, stacchi, restauri, musealizzazioni, in R. Cioffi, A. Grimaldi (dir.), L’idea dell’antico nel Decennio francese. Atti del Terzo Seminario di Studi “Decennio francese 1806-1815”, Napoli - Santa Maria Capua Vetere, 10 - 12 ottobre 2007, Napoli, 2010, p. 117-133; 284-285.
Rotili 19812: M. Rotili, La manifattura Giustiniani, aggiornamento a cura di A. Putaturo Murano, Napoli, 19812.
Ruesch 1908: A. Ruesch, Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli, Napoli, 1908.
Schöne-Denkinger 2007: A. Schöne-Denkinger, Reparaturen, antik oder nicht antik? Beobachtungen an rotfigurigen Krateren der Berliner Antikensammlung und Anmerkungen zur Verwendung geflickter Gefässe in der Antike, in Bentz, Kästner 2007, p. 21-28.
Schulz 1836: Intorno agli oggetti di arte antica, che sogliono rinvenirsi nei sepolcri di Ruvo. Rapporto del sig. dott. Schulz, Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica, V, maggio 1836, p. 69-76; VIIb, luglio 1836, p. 113-123.
Thiaucourt 1865: P. Thiaucourt, L’art de restaurer les faïences, porcelaines, biscuits, terres-cuites, grès, émaux, laques, verreries, marbres, albâtres, etc. suivi d’une notice chronologique de toutes les fabriques connues, Paris, 1865.
Ursi 1836a: G. Ursi, Collezione delle descrizioni finora fatte da varii autori sui vasi rinvenuti in Ruvo…, Ruvo di Puglia, 1836.
Ursi 1836b: G. Ursi, Spiegazione delle favole dipinte sui vasi, Ruvo di Puglia, 1836.
Notes de bas de page
1 Ci si riferisce al restauro del 1992, di cui si parlerà oltre, diretto da chi scrive e realizzato dalla cooperativa VEL.A.R.; in quell’occasione fu effettuata l’analisi di termoluminescenza sul cercine, mentre altre indagini sono state eseguite nel 2012/13. Del restauro, rimasto inedito, ad eccezione di una breve notizia in Archeo (VIII, 4, aprile 1993, p. 10-11), sono state pubblicate alcune fotografie in Melillo, Operetto 2013a (fig. 20, 23). I risultati del restauro e gli elementi del corredo, ricomposto per la prima volta in quella occasione, furono illustrati, nel 1992, in una conferenza e in una mostra, curata da chi scrive, presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli; il corredo è stato pubblicato per la prima volta in Prisco 1996. Ringrazio molto Luisa Melillo e Mariateresa Operetto per aver voluto farmi parte, con grande disponibilità, degli esiti del restauro del 2012.
2 Il terminus ante quem per la scoperta del vaso è la lettera di G.A. Lamberti a E. Braun, dell’11 dicembre 1834, rinvenuta da Andrea Milanese, al cui saggio nel presente volume si rimanda. Non è perciò corretta la data del rinvenimento fissata da A. Montanaro al marzo 1835, sulla base del manoscritto del canonico Ursi (cfr. rispettivamente Montanaro 2007, p. 707; Ursi 1836a). Del tutto inaffidabile Sanchez 1835, p. 254, che fa risalire il rinvenimento a tre anni prima.
3 Si vedano le brevi notizie sull’acquisto in Giornale del Regno di Napoli del 26 agosto 1835; de Jorio 1835, p. 154, nota alla p. 118; verbale di acquisto ed immissione conservato in ASNa, Min. P.I., busta 331, fasc. 44, Real Museo Borbonico. Acquisto di dodici vasi dal Sig. Carlo Lamberti e dal Cav. Pizzati. Descrizione sommaria. Anno 1835; una copia è conservata in AS-MANN, IV B 11, 45, Vasi antichi figurati, con i corrispondenti disegni, acquistati da’ Sig.ri Pizzati e Lamberti. Anno 1835. Nel lotto erano compresi anche quattro vasi provenienti dalla stessa sepoltura del cratere.
4 Cfr. Schulz 1836, p. 120.
5 Poco è a tutt’oggi noto del lavoro delle officine di restauro ottocentesche, sviluppatesi in loco in seguito alla frenetica attività di scavo a Ruvo e Canosa; l’unica figura cui è stato dedicato qualche approfondimento è quella di Aniello Sbani che però, a causa della sua formazione nella capitale del Regno delle Due Sicilie, non può essere assimilato all’ambiente dei restauratori provinciali: infatti sappiamo dei suoi contatti con personaggi del calibro di Francesco Depoletti, per cui si veda la lettera del 14 novembre 1828, conservata nell’archivio Thorvaldsen di Copenhagen (http://arkivet.thorvaldsensmuseum.dk). Sulla figura di Sbani cfr. De Palma 1993; Labellarte 1994, p. 35-37; Melillo Faenza 2003, p. 259.
6 Ursi 1835, p. 101-104. Ringrazio A.C. Montanaro, che ha consultato il manoscritto presso la Biblioteca Nazionale di Bari, per avermi cortesemente inviato le foto delle pagine dedicate al cratere, la prima delle quali è pubblicata in Montanaro 2007, p. 43, fig. 7. Purtroppo il vaso non è raffigurato fra gli acquarelli realizzati, nel 1836, da Vincenzo Cantatore su commissione del canonico Ursi, per illustrare un altro suo manoscritto, e oggi conservati nel Seminario Regionale di Molfetta (Ursi 1836b; Montanaro 2007, p. 57).
7 Sanchez 1835, p. 254-258.
8 La biblioteca fu voluta da Maria Carolina, moglie di Ferdinando I. In cima agli alti scaffali della sala I, di non facile accessibilità, furono collocate, in epoca imprecisata, alcune riproduzioni di celebri vasi figurati scoperti negli anni del regno borbonico, che attendono ancora una edizione critica. L’esame dell’esemplare Giustiniani è stato possibile grazie alla Soprintendenza BAPSAE per le province di Caserta e Benevento: ringrazio molto, per la grande disponibilità, il sig. Giuseppe Graziano e l’autore delle fotografie, il sig. A. Gentile. Sono grata a Salvino Abita per l’aiuto.
9 Il nostro vaso presenta alcune caratteristiche proprie di questa manifattura, ossia una certa libertà compositiva rispetto al modello e superfici poco porose, con vernice molto lucida: cfr. Manifatture napoletane 1834, p. 204-205. Sui vasi “all’etrusca” della fabbrica Giustiniani si vedano: Rotili 19812; Gambaro 1994, p. 77; Arbace 1997; Picciau 2002; Martino 2006.
10 Rotili 19812, p. 15; la nota 29, a p. 22, riporta una lunga descrizione della copia realizzata in quell’occasione (Liberatore 1836, p. 76-77). Sono molto grata ad Alba Irollo per la segnalazione di questo passo.
11 Picciau 2002.
12 Cfr. supra, n. 3.
13 È il caso del cratere di Archemoros MANN inv. 81394 (no 2375 del verbale) i cui restauri avrebbero «[…] forse fatta perdere la traccia degli altri compagni de’ prodi già descritti».
14 Opinione riportata da Braun 1836, p. 101, nota 1.
15 Braun 1836. Il testo costituisce il commento alle tav. 30-32 di Monumenti inediti pubblicati dall’Instituto di corrispondenza archeologica, vol. II, 1836.
16 Schulz 1836, p. 120.
17 Cfr. Braun 1836, rispettivamente p. 100 e n. 1.
18 Così Melillo in Melillo, Operetto 2013a.
19 L’intera vicenda è stata messa in luce da Milanese 2010, p. 19-30, cui si rimanda per la precedente bibliografia.
20 Per l’ordinanza del 1818, conservata in AS-MANN, cfr. Irollo 2007, p. 60, 64-65, con trascrizione integrale alle p. 74-75, doc. 1; Milanese 2007a, p. 89; Milanese 2010, p. 22-25.
21 Cfr. D’Alconzo 2002, p. 73-74; Prisco et al. 2004, p. 61 e nota 74; D’Alconzo, Prisco 2005; D’Alconzo 2007a, p. 207-208; Giovannone, Guglielmi, Prisco 2009, p. 37-44; Prisco, Guglielmi 2009, p. 50-52; Prisco 2010, p. 129-130.
22 Cfr., in questo stesso volume, il contributo di A. Milanese.
23 Cfr. rispettivamente supra, p. 54 e n. 13; Milanese 2007a, p. 96.
24 Devo la notizia sul restauro della metà degli anni ’40 alla grande generosità di Angela Luppino, che ha voluto farmi parte del rinvenimento dei documenti relativi a questo intervento. Per una più estesa e completa disamina dei restauri di questo periodo rimando, in questo stesso volume, al suo saggio.
25 Ci si riferisce evidentemente al sospetto che, nel restauro degli anni ’30, il collo fosse stato mal posizionato (cfr. supra, p. 54); di fatto il suo assetto non fu modificato, e con ragione: le rime di frattura del collo, infatti, combaciano con quelle del corpo.
26 Gerhard 1838, p. 383-394, tav. II, ni. 1-3, rispettivamente collo, lato A; registro superiore, lato A; registro superiore, lato B.
27 Dictionnaire des Beaux-Arts, III, 1806, s.v. restaurer, p. 432-434; sull’argomento, cfr. Di Macco 2012, p. 343 e 345; p. 354, nota 41.
28 Ruesch 1908, p. 471, no 3256. Questo passo viene interpretato da L. Melillo (in Melillo, Operetto 2013a) come la prova dell’esistenza, ancora a quest’epoca, delle integrazioni mimetiche, che la studiosa ipotizza essere state rimosse tra questa data e gli anni ’30; anche Giacobello 2013a, p. 78, ipotizza una rimozione delle integrazioni mimetiche in anni molto recenti. Peraltro già la foto Brogi 5733 – una copia della quale è conservata presso l’AF-MANN – databile intorno al 1880/1900, priva delle integrazioni mimetiche, è sufficiente a smentire tale ipotesi.
29 Si deve a Melillo, Operetto 2013, fig. 10-11, avere richiamato l’attenzione sulle lesioni visibili su una foto del 1975 (AF-MANN).
30 Cfr. n. 1.
31 Su questa invenzione cfr. Milanese 2007a, p. 86-88.
32 Ringrazio Maria Pia Diletti della VEL.A.R. per aver voluto discutere con me questo punto.
33 Cfr. Lohmann 1982, p. 195. Devo alla grande disponibilità di questo studioso le fotografie di alcuni vasi, all’epoca inediti, dove è presente un cercine.
34 L’analisi fu eseguita grazie alla grande cortesia del dr. Marco Martini, del Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Milano.
35 Per la composizione elementale e l’individuazione delle aree di provenienza delle argille cfr., in questo stesso volume, il contributo di Italo Muntoni e Annarosa Mangone, che ringrazio per avere voluto confrontare i rispettivi dati prima della pubblicazione.
36 Cfr. supra, p. 51.
37 Cfr. supra, p. 55.
38 Non si conosce la cronologia esatta dei tripodi; tuttavia un disegno pubblicato nell’Illustrated London News del 10 giugno del 1854, reso noto da Milanese 2009, fig. a p. 42, mostra i crateri apuli da Canosa in corso di sistemazione nelle sale del museo, su alcuni sostegni cilindrici modanati. Per contro, i medesimi crateri, come pure quelli da Ruvo, appaiono alloggiati nei tripodi in alcune foto del 1880/90: Milanese 2009, fig. a p. 182, 184, 186, 188, cui vanno aggiunte le foto, raffiguranti il cratere dell’Amazzonomachia, Brogi 5733 e la forse coeva ICCD 325643, fondo Pubblica Istruzione, per quest’ultima un sentito ringraziamento a Paola Balduin dell’ICCD per l’aiuto nella ricerca nel fondo P.I.
39 L’accorgimento trovava un forte limite nella circostanza che, per non compromettere la lettura della zona figurata, l’anello veniva a cadere molto in basso; inoltre la movimentazione dei crateri diveniva così più rischiosa, dovendosi sollevare verso l’alto ciascun vaso per svincolarlo dal sostegno. Per ovviare a tali inconvenienti, in occasione del restauro del 1992 si sarebbe voluto realizzare un supporto interno al vaso che contribuisse a distribuirne equilibratamente il peso e, nello stesso tempo, potesse servire per eventuali spostamenti; tale supporto non venne realizzato per motivi di ordine economico.
40 La lunghezza varia da 2.50 a 4 cm, mentre il diametro dei fori è di cm 0.50.
41 Cfr. contra L. Melillo (Melillo, Operetto 2013a).
42 Thiaucourt 1865, p. 20.
43 de Jorio 1835, rispettivamente p. 88 e 122, n° 1604; p. 127. de Jorio italianizza il vocabolo “conciatiano” (da tiana, tegame da fuoco in terracotta) trasformandolo in “conciateano”.
44 Così Giustiniani-De’ Licteris 1822, p. 54-55.
45 Cfr. Pfisterer-Haas 2002; Nadalini 2003; i cospicui contributi della sezione Antike Reparaturen, in Bentz, Kästner 2007. Lo stesso argomento è stato ripreso, senza alcun elemento di novità, da un architetto: Pergoli Campanelli 2009, p. 32-35; Pergoli Campanelli 2010, p. 247-252.
46 Tipo “B” Dooijes- Nieuwenhuyse, equivalente al tipo “c” Nadalini (cfr. rispettivamente Dooijes, Nieuwenhuyse 2007, p. 17, fig. 5; Nadalini 2007, p. 31-32 e fig. 2, p. 30). Si vedano per confronto, ad esempio, i vasi a figure in Nadalini 2003, p. 198, fig. 8-9 e p. 205, fig. 21.
47 Cfr. rispettivamente Nadalini 2007 e Dooijes, Nieuwenhuyse 2007.
48 Infatti, in presenza di forme aperte, sono state riscontrate riparazioni a doppia sutura alveolare contrapposta (tipo “d” di Nadalini 2007, fig. 2).
49 Tipo “A” Dooijes- Nieuwenhuyse 2007 (p. 17, fig. 5) equivalente al tipo “a” Nadalini 2007 (fig. 2). Si vedano ad esempio, per confronto, le riparazioni sui vasi a figure in Nadalini 2003, p. 198, fig. 4-5 e p. 203, fig. 16-18.
50 Trattandosi di piombo puro, sono stati sufficienti 0.1 milligrammi. Le indagini, a cura del prof. I.M. Villa del Laboratorio di Geologia Isotopica dell’Università di Berna, sono state eseguite mediante spettrometria di massa - ICP multicollettore. I rapporti isotopici misurati (con errore 2 sigma sull’ultima cifra) sono: 206Pb/204Pb = 18.851 ± 1; 207Pb/204Pb = 15.691 ± 1; 208Pb/204Pb = 38.871 ± 4; 208Pb/206Pb = 2.0619 ± 1; 207Pb/206Pb = 0.83235 ± 2. Sono debitrice al prof. Villa per la liberalità e la tempestività con cui ha voluto mettere a disposizione i dati; e alla direttrice del Centre Jean Bérard, Claude Pouzadoux, senza la quale l’indagine non sarebbe stata possibile.
51 Cfr., ad es., Balassone et al. 2002; Balassone et al. 2009 (bibliografia cortesia prof. I.M. Villa).
52 Il punto di fusione del piombo è infatti 327,5°C, mentre gli antichi forni utilizzati per la ceramica a figure raggiungono temperature comprese tra gli 850° e i 950°C (cfr. Cuomo di Caprio 2007, p. 497).
53 Cfr., in questo stesso volume, il contributo di Fr.-H. Massa-Pairault.
54 Per il complesso processo di essiccamento e l’elevato rischio di danni cfr. Cuomo di Caprio 2007, p. 263-271; il cratere è stato, come di norma, cotto a testa in giù, il che spiega il cedimento del collo.
55 È noto l’esempio di un altro vaso con riparazioni, fessuratosi quando era a durezza cuoio, e che perciò ha subito spostamenti durante la cottura (in corrispondenza delle lesioni, infatti, le linee dipinte che indicano le pieghe delle vesti non sono allineate): cfr. Schöne-Denkinger 2007, p. 25.
56 Appare degna di nota la notizia che, per realizzare la copia del nostro cratere al vero, i Giustiniani impiegarono dieci mesi: cfr. Liberatore 1836, p. 76-77. Non va però sottovalutato l’utilizzo di tecniche diverse e del forno a muffola; questo, in uso fin dalla fine del ‘700 a Napoli, è descritto in Gargiulo 18432, p. 26-28, tav. 9-10, (cfr. Martino 2005, p. 243).
Auteur
Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro
gabriella.prisco@fastwebnet.it
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Recherches sur les cultes grecs et l’Occident, 2
Ettore Lepore, Jean-Pierre Vernant, Françoise Frontisi-Ducroux et al.
1984
Nouvelle contribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéennes
Centre Jean Bérard (dir.)
1982
La céramique grecque ou de tradition grecque au VIIIe siècle en Italie centrale et méridionale
Centre Jean Bérard (dir.)
1982
Ricerche sulla protostoria della Sibaritide, 1
Pier Giovanni Guzzo, Renato Peroni, Giovanna Bergonzi et al.
1982
Ricerche sulla protostoria della Sibaritide, 2
Giovanna Bergonzi, Vittoria Buffa, Andrea Cardarelli et al.
1982
Il tempio di Afrodite di Akrai
Recherches sur les cultes grecs et l'Occident, 3
Luigi Bernabò Brea
1986