Il “Grande Altare” di Pergamo: cronologia e contesto*
p. 193-201
Texte intégral
1Da qualche tempo stiamo assistendo a ripetuti tentativi di abbassare la cronologia tradizionale del massimo monumento dell’arte e della scultura ellenistica, l’“Ara di Pergamo” che, come sappiamo, era concordemente attribuita a una fase iniziale del regno di Eumene II, agli anni 180 a.C. Talvolta, in apparenza, le ragioni avanzate sono di carattere “tecnico”, basate ad esempio su indagini stratigrafiche, che indurrebbero a rivedere la datazione corrente, accusata di basarsi esclusivamente su dati stilistici, per definizione “soggettivi” e quindi inaffidabili.
2A mio avviso, invece, i motivi di fondo di questo atteggiamento vanno cercati altrove: nella generale deriva “ribassista”, che da qualche tempo ha investito gli studi sull’arte antica, in particolare sulla scultura ellenistica, senza che alla base del processo si possa rintracciare alcuna giustificazione di carattere, per così dire, “scientifico”, che non sia di pura facciata. Nel caso del “Grande Altare” il processo di slittamento cronologico non poteva spingersi troppo avanti (come è avvenuto ad altri complessi scultorei più sfortunati, come quelli di Lagina e di Magnesia), per l’esistenza di un frammento dell’iscrizione dedicatoria che, per quanto minimo, non lo consentiva1: [Βα]σι[λ]ίσσ[---]ς ἀγαθ[---], in genere integrata come segue:
3[Βασιλεὺς Εὐμένης Βασιλένως Ἀττάλου καὶ βα]σι[λ]ίσσ[ης Ἀπολλωνίδος ἐπὶ τοῖς γεγενημένοι]ς ἀγαθ[οῖς Διὶ καὶ Ἀθηνᾶι Νικηφόρωι].
4Tutto compreso, per i motivi che emergeranno in seguito, l’attribuzione ad Eumene resta di gran lunga la più probabile: un confronto preciso è quello con un’iscrizione trovata al centro del teatro, con un decreto relativo a una cerimonia di incoronazione del re Antioco IV in occasione di agoni (τὸμ βασιλέα Εὐμένη βασιλέως Ἀττά[λου]| καὶ βασιλίσσης Ἀπολλωνίδος)2.
5Se è così, la data del monumento resta compresa tra il 197 e il 158, senza possibilità di ulteriore precisazione. Si è ritenuto di fissarla negli ultimi anni di regno di Eumene II in base ad alcuni sondaggi nelle fondamenta dell’altare3. Questi tentativi pongono un problema di metodo non indifferente, dal quale non si può prescindere: cioè l’attendibilità di cronologie molto puntuali, concentrate entro pochi anni, basate, nel migliore dei casi, su reperti come la ceramica a rilievo detta “megarese”, la cui datazione oscilla, ad essere ottimisti, entro almeno un trentennio.
6Le stesse conclusioni della scavatrice, G. De Luca, forniscono comunque, anche se del tutto involontariamente, un elemento di giudizio alternativo, quando vi si afferma che la facies degli strati sottostanti all’altare, che permetterebbero di datare il monumento, è la stessa della “Bauphase 10” dell’Asklepieion, collocata tra il 190 e il secondo quarto del II secolo a.C.4 Anche in questo caso, comunque, non ne risulterebbe automaticamente una data “bassa” per l’altare; ma in effetti, le cose non stanno così.
7La “Bauphase 9”, precedente alla 10 (datata tra il 200 e il 191) venne distrutta volontariamente e sistematicamente in un’occasione storica, che l’autrice identifica con l’assedio di Seleuco (figlio di Antioco III di Siria), avvenuto nel 190 a.C.5 Ora, non risulta in nessun modo dal racconto di Livio, che riproduce sostanzialmente quello perduto di Polibio, che in tale occasione sia stato danneggiato l’Asklepieion. Christian Habicht6 ha già notato che i danni al santuario riscontrati dallo scavo vanno collegati al raid, questo sicuramente devastante, condotto nel 201 a.C. da Filippo V di Macedonia, descritto da Polibio e dagli autori che ne dipendono7, che si concluse con la totale distruzione del Nikephorion (che Habicht giustamente ritiene prossimo all’Asklepieion, ciò che spiega il suo coinvolgimento nella stessa occasione). Ma se è così (e non potrebbe essere altrimenti) la “Bauphase 10” si identifica con la ricostruzione dovuta ad Eumene II, menzionata da Strabone8, che dovette essere avviata quasi subito dopo l’accesso al trono del re, nel 197 a.C.9 Dalla migliore conoscitrice del materiale ceramico di Pergamo proviene così una conferma della datazione tradizionale dell’altare. Non esistono dunque motivi–almeno di carattere stratigrafico–che impongano di abbassare la data del monumento ai decenni finali del regno di Eumene II.
8La datazione del monumento potrà essere fondata di conseguenza solo su dati stilistici, da un lato, e sulla considerazione (meramente probabilistica, come è ovvio) del contesto storico: in effetti, all’eccezionalità, da ogni punto di vista, dell’altare dovrebbe corrispondere un’analoga eccezionalità delle circostanze che ne determinarono la costruzione.
9Tali aspetti non possono in alcun modo corrispondere agli eventi politici e militari che caratterizzano gli anni finali di Eumene II, di portata modesta e nell’insieme tutt’altro che brillanti. Del tutto diversa è la situazione dei primi due decenni del regno, che vedono la partecipazione del re alla guerra contro Antioco III di Siria e a quella successiva contro i Galati–sempre a fianco dei Romani–, seguite dallo scontro con Prusia I di Bitinia. La conclusione di questo periodo di brillanti vittorie corrisponde certamente al momento più rilevante del potere di Pergamo che, con l’annessione di tutta l’Asia Minore a nord del Tauro, assume per la prima volta le dimensioni e il carattere di un grande regno ellenistico10. Allo stesso modo va interpretata, a mio avviso, la realizzazione del più imponente edificio cultuale di Pergamo: sarebbe difficile intendere tale realtà come espressione del momento storico successivo alla terza guerra macedonica, che rappresenta semmai una fase di ridimensionamento e di frustrazione per le ambizioni del re, in particolare nei suoi rapporti con Roma. Che in un contesto del genere possano essere state realizzate operazioni ambiziose come la costruzione dell’altare appare del tutto improbabile, in assenza di qualsiasi argomento di prova.
10Resta lo stile. Purtroppo, il numero delle sculture ellenistiche provenienti da Pergamo è troppo ridotto per permettere di ricostruire un quadro soddisfacente dello sviluppo stilistico locale nel corso del II secolo a.C. Esiste però almeno un’opera suscettibile di confermare la datazione dell’altare nel corso degli anni 180: si tratta di un monumento celebre, e forse per questo non sempre citato a confronto, la Nike di Samotracia. L’affinità stilistica che quest’opera presenta con la gigantomachia di Pergamo è indubbia, e potrebbe spiegarsi anche con la presenza tra gli scultori dell’altare di artisti rodii11. Ora, la Nike probabilmente non è altro che un grande ex-voto di Rodi per la vittoria navale riportata a Mionnesos nel 190 a.C., insieme ai Romani e ai Pergameni, contro la flotta di Antioco III12. La statua va dunque datata agli anni immediatamente successivi al 190.
11Poco più tardi, per commemorare la vittoria contro Prusia II di Bitinia (186-183 a.C.), vennero fondati giochi panellenici quinquennali, i Nikephoria, che iniziarono nel 181, preceduti da un grande sforzo di propaganda in direzione del mondo ellenico, attestato da varie testimonianze epigrafiche13. Secondo E. Will, proprio allora si diede inizio ai lavori dell’altare, “commémorant l’ensemble des triomphes de la dynastie”14.
12Il dissidio con Roma al momento della terza guerra macedonica, se attirò da un lato al re la simpatia dei Greci, dall’altro segnò la fine dell’ascesa politica di Pergamo. L’ipotesi che proprio in questo momento sia stata avviata la realizzazione di grandiosi monumenti di vittoria, come l’altare, certamente destinato anche ad esaltare l’alleanza con Roma, appare difficile da sostenere: è anzi probabile che proprio tali eventi negativi siano la causa dell’interruzione dei lavori, che sarà quindi da fissare intorno al 166 a.C. Se questi ebbero inizio subito dopo il 183, e sono quindi contemporanei e collegati all’istituzione dei Nikephoria, si potrà calcolare la loro durata in circa quindici anni. Attribuire alla morte di Eumene, avvenuta sette anni dopo, la loro interruzione non ha molto senso, se si considera che il successore, Attalo II, fu prima coreggente con il fratello e poi ne proseguì fedelmente l’opera.
13Lo scarto differenziale tra l’importanza del monumento, certamente l’edificio più ambizioso realizzato dai sovrani attalidi, e l’apparente assenza di qualsiasi sua traccia nella documentazione disponibile (letteraria e soprattutto epigrafica) costituisce un problema: in pratica, se si esclude un testo antico15 e una rappresentazione monetale di Settimio Severo16, non si può citare altro. Il fatto è sorprendente, ma potrebbe in parte risolversi se si tiene conto di una vecchia ipotesi di Conze, quasi subito accantonata, che a mio avviso meritava migliore fortuna, e sulla quale torneremo più avanti.
14La (o le) divinità cui l’altare era dedicato sono state variamente identificate: Zeus da solo o con Athena, oppure “tutti gli dei e le dee”, attestati da qualche iscrizione17. Quest’ultima proposta, che oggi va per la maggiore18, è a mio avviso insostenibile: in effetti, si tratta del culto dei “dodici dei”, che è strettamente collegato al culto dei sovrani divinizzati, come appare luminosamente nel decreto in onore di Attalo III19, dove si menzionano gli “stephanephoroi dei dodici dei e del re Eumene”, chiaramente sacerdoti del culto dinastico. Ora, il “Grande Altare”, come vedremo, non appartiene a questa sfera, ma piuttosto a quella dei culti “civici”. Inoltre, la partecipazione alla gigantomachia di divinità ctonie e catactonie esclude l’identificazione con un dodekatheon, che avrebbe compreso solo i dodici dei olimpici.
15L’attribuzione all’Eumeneion, d’altra parte, confligge con la forma del monumento, che non corrisponde a quanto sappiamo sull’aspetto di analoghi edifici del culto dinastico: si tratterebbe infatti dell’unico caso noto in cui a un sovrano sia stato dedicato un altare e non un tempio.
16Per chiarire la sua natura e la sua funzione, in mancanza (almeno apparentemente) di documenti epigrafici, resta solo la possibilità di ricostruire il contesto di cui esso fa parte. Questo oggi è possibile in base a uno studio recente di Rheid20, che ha chiarito la natura dell’area compresa tra l’Agorà superiore, a sud, e il santuario di Athena Nikephoros, a nord (fig. 1). Il riesame della parte sud-occidentale di essa–anche attraverso saggi puntuali–ha permesso di ricostruirne la storia complessa.
17La terza fase di questo settore (Bauphase III: fine del III secolo a.C., corrispondente alla seconda metà del regno di Attalo I) (fig. 2) corrisponde a un momento di intensa attività edilizia, che include la costruzione di un piccolo tempio dorico in marmo, collocato al centro di un temenos rettangolare. Si tratta dell’edificio che in seguito verrà a trovarsi all’estremità occidentale dell’Agorà, costruita in questo luogo da Eumene II. Dopo qualche esitazione (in un primo tempo era stato attribuito a Dioniso), esso è stato giustamente identificato con un tempio di Zeus21, il dio dell’agorà in molte città greche. Ora, K. Rheid ha proposto di identificare la più antica agorà con un’area estesa fino ai piedi dell’acropoli e del tempio di Athena Nikephoros. Il limite settentrionale della piazza va infatti riconosciuto in un lungo (m 103) edificio a due navate, in cui si può riconoscere una “Markthalle”. In seguito (con Eumene II), dopo che la terrazza intermedia era stata occupata dal Grande Altare e dal suo recinto, l’agorà si sviluppò sulla terrazza inferiore, inglobando il tempio di Zeus, che venne allora privato del suo temenos (fig. 3).
18Prima della costruzione del “Grande Altare” il sito era occupato da un edificio absidato (fig. 4), che venne poi sostituito dallo stesso altare: l’identificazione di questo monumento è importante, perchè potrebbe fornire una conferma del carattere di pubblica piazza dell’area. Si tratta di un ambiente allungato, orientato est-ovest, concluso sul lato est da un’abside in cui si aprono, ai lati, due nicchie semicircolari coperte ad arco. Lo studio più penetrante su questo edificio, che ne ha chiarito natura e funzione, è dovuto a K. Stähler22. Dopo aver escluso, con buoni argomenti, che possa trattarsi di una struttura profana o di una tomba, l’autore vi riconosce giustamente un heroon. Per la sua funzione sono possibili solo due soluzioni: il culto di Pergamos, ecista eponimo della città, o quello di Telefo: il secondo per Stähler sarebbe preferibile proprio per i rapporti che potrebbero esistere tra l’heroon e l’altare che lo sostituì: nella successione tra i due monumenti si dovrebbe dunque riconoscere una continuità del culto eroico di Telefo.
19Quest’ultima affermazione è stata criticata da T.S. Schur23, che giustamente esclude che l’altare possa esser dedicato a un’entità di carattere ctonio: sembra infatti impossibile il trasferimento di un culto eroico nel santuario di un dio olimpico, quale è certamente quello cui è dedicato l’altare. Tuttavia, anche l’ipotesi che possa trattarsi di un ninfeo sembra da escludere24.
20A mio avviso, un’altra ipotesi è possibile: che si tratti cioè dell’heroon di Pergamos, possibilità esclusa da Stähler, che ha anche respinto con troppa fretta l’identificazione del tumulo situato sulla via per l’Asklepieion (fig. 5) con l’heroon di Telefo25. In realtà, tale identificazione, sostenuta soprattutto da O. Deubner26, sembra confortata da ottimi argomenti. È evidente infatti la precisa corrispondenza tra questa struttura e la descrizione in Pausania della “tomba di Auge” a Pergamo27. La conseguenza di tutto ciò è che l’edificio absidato sostituito dal Grande Altare non può essere l’heroon di Telefo: tuttavia, resta valida a mio avviso la sua identificazione con un luogo di culto eroico, che in tal caso non potrà che identificarsi con quello di Pergamos. La sua distruzione e la successiva sostituzione con l’altare vanno intese, di conseguenza, non tanto nel senso della continuità, ma in quello della rottura: comunque, è sicuro che l’heroon allora non scomparve del tutto, ma venne spostato in un sito diverso, a mio avviso identificabile con il cosiddetto temenos di culto dei sovrani attalidi (fig. 6).
21La possibile identificazione dell’edificio cui si sovrappose il Grande Altare con il più antico heroon di Pergamos si presta ad una ulteriore serie di considerazioni.
22In primo luogo, risulta così confermata la pertinenza dell’area, entro la quale esso si trovava, all’originaria agorà di Pergamo. È noto infatti che in Grecia la tomba del fondatore veniva per tradizione collocata nella piazza pubblica della città.
23Dobbiamo ora prendere in esame due iscrizioni, nelle quali è menzionato un altare di Zeus Sotèr, situato “nell’Agorà”:
241) IvP I, 246, ll. 9 s.: “στῆσαι δὲ αὐτοῦ καὶ εἰκόνα χρυςὴν ἔφιπποω ἐπὶ στυ|λίδος μαρμαρίνης παρὰ τὸν τοῦ Διὸς .τοῦ Σωτῆρος βωμόν, ὅπως ὑπάρχηι ἡ | εἰκὼν ἐν τῶι ἐπιφανεστάτωι τόπωι τῆς ἀγορᾶς, ἑκάστης τε ἡμέρας ὁ στε|φανηφόρος καὶ ὁ ἱερεὺς τοῦ βασιλέως καὶ ,ἀγωνοθέτης ἐπιθυέτωσαν λιβανωτὸν|ἐπὶ τοῦ βωμοῦ τ[ο].ῦ Διὸς τοῦ Σωτῆρος τῶι βασιλεῖ” (“di innalzare una statua equestre dorata su un pilastro di marmo di fronte all’altare di Zeus Sotèr, di modo che la statua si trovi nel luogo più eminente dell’agorà, e ogni giorno lo stefaneforo, il sacerdote del re e l’agonoteta offrano incenso per il re sull’altare di Zeus Sotèr”).
25Si tratta del noto decreto con le onoranze ad Attalo III, rivendicato a Pergamo da Louis Robert28: vi è menzionata dunque la statua equestre di bronzo dorato del re, da collocare su una colonna (o piuttosto su un pilastro) di marmo davanti all’altare di Zeus Sotèr, “nel luogo più visibile”, “più eminente” dell’Agorà.
262) IvP II 251, ll. 29 s.: “ἐπιτελεῖν ὁρκωμόσιον τὴν πόλιν | ἐν τῆι ἀγορᾶι ἐπὶ τοῦ Διὸς τοῦ σωτῆρος τῶι βωμῶι” (“…la città prescriva un sacrificio solenne nell’Agorà, sull’altare di Zeus Sotèr”).
27In questo decreto, che contiene le norme per il sacerdozio di Asclepio, databile probabilmente subito dopo la fine del periodo regio, viene dunque di nuovo menzionato “l’altare di Zeus Sotèr nell’Agorà”, dove si deve celebrare un sacrificio.
28Conze29 in un primo tempo aveva proposto di identificarlo con il “Grande Altare”, dal momento che questo viene a trovarsi immediatamente a nord dell’“Agorà superiore”. Si è obbiettato30 che la piazza si trova a 14 m sotto il livello dell’altare (che è anche orientato diversamente) ed è separata da esso da due terrazze, e si è proposto invece di riconoscerlo in una delle tre fondazioni collocate davanti al tempio dell’agorà, certamente dedicato a Zeus (fig. 1). Ora, sembra difficile immaginare che l’area del minuscolo altare posto al centro della piazza e affiancato da altre due strutture simili, sia apparsa adatta a un monumento piuttosto ingombrante, come una statua equestre posta su un pilastro, che forse non sarà stata la sola in quel luogo.
29Il termine σπῦλος viene in genere tradotto con “colonna”. Tuttavia, il senso più diffuso è piuttosto “pilastro”, “pilastrino”. Anche nel caso di Attalo III, sembra ragionevole supporre che il sostegno di una statua equestre sia più probabilmente un pilastro. In effetti, si tratta di un tipo di monumento più volte utilizzato da parte degli Attalidi, come è documentato a Delfie ad Atene31.
30Si può constatare dunque che il “Grande Altare” occupa un luogo dominante, immediatamente a nord dell’“agorà superiore” (fig. 3); il fatto che tale luogo fosse designato come “il più visibile”, “il più eminente” dell’agorà sembra corrispondere a tale posizione elevata: del resto, l’altare si trovava in un’area che, come abbiamo visto, faceva parte della piazza originaria.
31Se tutto ciò è vero, siamo in grado di identificare in Zeus Sotèr la divinità tutelare del “Grande Altare”, che è dunque da considerare come un’estensione del piccolo tempio dell’agorà.
32Da questa identificazione discendono alcune conseguenze di un certo rilievo: se l’altare fa parte della piazza pubblica, esso dovrebbe rientrare nella sfera civica della città, in contrapposizione a quella di pertinenza regia, corrispondente alla sovrastante acropoli, caratterizzata dal culto dinastico di Athena. Le figure divine che appaiono sul lato orientale della gigantomachia (fig. 7) che–per la loro posizione eminente, di fronte all’ingresso dell’area–apparivano per prime allo sguardo del visitatore, riflettono perfettamente la posizione topografica dei culti, e allo stesso tempo la loro polarità: sulla destra appare l’immagine di Athena, rivolta in direzione dell’acropoli; sulla sinistra l’immagine di Zeus, rivolta verso l’agorà.
33Tale interpretazione sembra confermata dal fatto che le epigrafi pertinenti a statue onorarie di carattere “civico”32, invariabilmente dedicate dal demos a personaggi importanti, specialmente romani del periodo repubblicano, provengono quasi tutte dalla terrazza del “Grande Altare”. Ciò conferma indubbiamente che questa facesse parte dell’agorà, il luogo per definizione destinato alle dediche ufficiali della polis.
34Il voluto allineamento dell’altare con il tempio di Athena Nikephoros (che proprio in quegli anni assume questo epiteto) (fig. 8) cui corrisponde la presenza della dea, incoronata da Nike – e quindi “vittoriosa” – nel rilievo della gigantomachia, in significativa rispondenza con l’immagine di Zeus, si spiega perfettamente al momento della fondazione dei grandi giochi penteterici, i Nikephoria, successivi alla vittoria su Prusia. D’altra parte, come sottolinea F.-H. Massa Pairault33, lo stesso culto di Athena venne collegato al mito di Telefo, attribuendone ad Auge la fondazione, ciò che equivaleva a un’identificazione con quello tegeate di Athena Alea.
35La rappresentazione allegorica dei trionfi militari degli Attalidi, e in particolare di quelli di Eumene II, che è possibile riconoscerere nella gigantomachia34, rimanda ancora una volta alle vittorie contro Antioco III e Prusia, che sono all’origine dei Nikephoria. Una data di inizio dei lavori non successiva al 182-181 a.C. appare così confermata.
36Il carattere unitario dell’altare emerge anche dal rapporto tra i due rilievi: il ruolo di mediatore tra la vittoria degli dei sui Giganti e il mito di Telefo, come nota ancora una volta F.-H. Massa-Pairault35, è sostenuto da Eracle, di cui viene esaltata nella gigantomachia la decisiva funzione di “aiutante degli dei”, indispensabile per assicurare ad essi la vittoria. L’eroe costituisce infatti il necessario tramite “dinastico” tra Zeus e Telefo. Per questo, non ha senso la proposta, più volte avanzata, di dissociare (in primo luogo cronologicamente) i due fregi, la cui presenza era certamente prevista fin dall’origine, anche se poi la loro realizzazione fu successiva nel tempo, come dimostra lo stato incompleto del rilievo di Telefo. La pretesa discrepanza formale tra di essi è in realtà solo una differenza di modi rappresentativi, che rispondono a criteri di “genere” e non di “stile”: mitico l’uno, “storico” l’altro.
37In effetti, il fregio della gigantomachia occupa l’intera altezza del rilievo, senza alcuna indicazione spaziale: collocato alla base dell’altare, esso rimanda a un momento primigenio e illustra il mito di origine della dinastia. Il fregio di Telefo invece segna la transizione alla storia, anche se nella forma – comunque iscritta nella dimensione del tempo – della mitistoria. Le due rappresentazioni sono dunque inscindibili, in quanto sintetizzano nel loro insieme un concetto unitario: le origini divine degli Attalidi e la missione di tutela dei valori panellenici ad essi affidata. Come afferma Polibio36 nel suo elogio di Attalo I, il re “fu sempre fedele agli alleati e agli amici e morì nel corso dell’impresa più bella, combattendo per la libertà dei Greci”.
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Notes de bas de page
1 IvP I, 69.
2 IvP I, 160, ll. 29 s.
3 Callaghan 1981; De Luca-Radt 1999.
4 Ziegenaus-De Luca 1968, p. 86, 134-136.
5 Liv. 17.39.21.
6 Habicht 1969, p. 2.
7 Pol. 16.1.55; Diod. 28.5; App., mac. 4.1.
8 Strab. 13.4.2.
9 In quell’anno i lavori non erano stati iniziati, come risulta da Pol. 18.2.2.
10 Will 1982, p. 221-260.
11 Marcadé 1953, p. 82 s.; contra, Queyrel 2005, p. 110 s.
12 Moreno 1994, p. 366-369; Coarelli 1997, p. 258-260.
13 Robert 1930; Segre 1942.
14 Will 1982, p. 287.
15 Amp. 8, 14. Queyrel 2005, p. 115.
16 Fritze 1910, tav. IX, 3.
17 Un’accurata disamina di tutte le ipotesi si trova in Stewart 2000.
18 Queyrel 2005, p. 112 s.
19 IvP I, 246, l. 27.
20 Rheidt 1992; Rheidt 1996.
21 Ohlemutz 1940, p. 66-77.
22 Stähler 1978.
23 Schur 1993, p. 136 s.
24 Hoepfner 1988.
25 Ziegenaus-De Luca 1975, p. 45-49.
26 Deubner 1984.
27 Paus. 8.4.9
28 Robert 1984.
29 Conze 1884.
30 Ohlemutz 1940, p. 69, nota 24.
31 Jacquemin-Laroche 1992, p. 255.
32 Queyrel 2005a, p. 205-208.
33 Massa-Pairault 2007, p. 146 s.
34 Ibid., p. 123-149.
35 Ibid., p. 19.
36 Pol. 18.41.3.
Notes de fin
* Nel periodo trascorso dalla redazione del testo e la sua pubblicazione è apparso il mio libro Pergamo e il re, Pisa 2016, dove l'argomento è più estesamente trattato.
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Les bois sacrés
Actes du Colloque International (Naples 1989)
Olivier de Cazanove et John Scheid (dir.)
1993
Énergie hydraulique et machines élévatrices d'eau dans l'Antiquité
Jean-Pierre Brun et Jean-Luc Fiches (dir.)
2007
Euboica
L'Eubea e la presenza euboica in Calcidica e in Occidente
Bruno D'Agostino et Michel Bats (dir.)
1998
La vannerie dans l'Antiquité romaine
Les ateliers de vanniers et les vanneries de Pompéi, Herculanum et Oplontis
Magali Cullin-Mingaud
2010
Le ravitaillement en blé de Rome et des centres urbains des début de la République jusqu'au Haut Empire
Centre Jean Bérard (dir.)
1994
Sanctuaires et sources
Les sources documentaires et leurs limites dans la description des lieux de culte
Olivier de Cazanove et John Scheid (dir.)
2003
Héra. Images, espaces, cultes
Actes du Colloque International du Centre de Recherches Archéologiques de l’Université de Lille III et de l’Association P.R.A.C. Lille, 29-30 novembre 1993
Juliette de La Genière (dir.)
1997
Colloque « Velia et les Phocéens en Occident ». La céramique exposée
Ginette Di Vita Évrard (dir.)
1971